Dell’utilità per la Corte di giustizia della priorità dell’incidente di costituzionalità. In margine alla sentenza del 2 febbraio 2021 sul diritto al silenzio nei procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive (Corte di giustizia, Grande Sezione, C-481-19, DB c. Consob)
di Giorgio Repetto
Sommario: 1. Il “doppio verso” del nuovo corso sulla priorità dell’incidente di costituzionalità dopo la sent. n. 269 del 2017. – 2. Una questione di interpretazione o di validità? – 3. Lussemburgo introduce un “nuovo diritto”: basta la sola via dell’interpretazione conforme? – 4. Un caso diverso dagli altri: un nuovo protocollo decisionale. – 5. Un annullamento con effetti erga omnes al servizio (anche) della Corte di giustizia
1. Il “doppio verso” del nuovo corso sulla priorità dell’incidente di costituzionalità dopo la sent. n. 269 del 2017
Era legittimo ritenere, all’indomani della svolta implicata dalle “precisazioni” contenute nella sentenza n. 269 del 2017, che il nuovo corso dei rapporti tra giudici comuni e Corte di giustizia, segnato dal rientro in scena della Corte costituzionale, potesse preludere a una almeno parziale repatriation delle questioni sui diritti fondamentali.
A distanza di tempo e alla prova dell’esperienza, si può comprendere oggi quanto quel cambio di giurisprudenza fosse tuttavia legato a trasformazioni più profonde, che investivano sicuramente alcuni dati di struttura del sindacato della Corte costituzionale (in primis, il suo tendenziale impoverimento sul terreno dei diritti fondamentali a vantaggio del circuito esistente tra giudici comuni e Corte di giustizia), ma che riflettevano anche i più ampi mutamenti del modo in cui era chiamata ad operare la tutela dei diritti fondamentali assicurata dalla Corte di giustizia stessa nei suoi rapporti con i giudici nazionali.
Sul primo fronte, è spettato proprio alla Corte costituzionale, con le pronunce successive alla capostipite del 2017 (n. 20, n. 63, n. 112 e n. 117 del 2019; n. 182 del 2020) definire con maggiore chiarezza i propri margini di intervento in materia di doppia pregiudizialità, stabilendo in modo via via più netto come tra i due percorsi a disposizione del giudice comune in casi del genere (quello che instrada la questione verso la Corte costituzionale e quello che lo porta a sollevare di fronte alla Corte di giustizia un quesito pregiudiziale) non ci sia una rigida alternativa, ma una complementarietà che si traduce in “un concorso di rimedi giurisdizionali, [che] arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione” (così, la sentenza n. 20 del 2019).
A ulteriore dimostrazione di ciò, nella recente sentenza n. 254 del 2020 la Corte costituzionale è giunta poi a dare ingresso a una questione sollevata dal giudice rimettente contemporaneamente di fronte alle due corti, osservando come ciò, in linea di principio, non sia in contraddizione con “un sistema integrato di garanzie [che] ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni”. Un sistema, aggiunge la stessa sentenza n. 254, che trova un punto di emersione nell’art. 19, par. 1, TUE, dove il ruolo della Corte di giustizia viene preso in esame unitamente a quello delle giurisdizioni nazionali, tutte ugualmente “depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»”.
Mai, però (e passo al secondo fronte prima evocato), vi era stata la possibilità di verificare in concreto quanto il nuovo corso aperto nel 2017 potesse risultare funzionale anche alla definizione dei compiti della stessa Corte di giustizia e, in prospettiva, al consolidamento della tutela dei diritti contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Una prima, significativa, testimonianza su questo fronte è venuta dalla sentenza del 2 febbraio 2021, resa dalla Grande Sezione della Corte di giustizia nella causa C-481/19 (DB), in risposta al rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019 in tema di diritto al silenzio nei procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive svoltisi di fronte alla CONSOB[1].
La risposta della Corte di giustizia non solo avalla, per quanto indirettamente, il meccanismo della “precedenza funzionale” dell’incidente di costituzionalità, ma si serve del quesito posto dalla Corte costituzionale per depotenziare un possibile conflitto di sistema con essa, oltre che (ed è il punto più rilevante) per introdurre nel sistema della Carta un diritto in precedenza ritenuto estraneo al sistema delle garanzie dell’Unione come il diritto a non incolpare sé stessi[2].
2. Una questione di interpretazione o di validità?
È necessario, innanzi tutto, ricostruire brevemente l’antefatto della pronuncia della Corte di giustizia e riassumerne i principali passaggi, anche per cogliere le implicazioni di sistema che da essa discendono sui rapporti tra questa e la Corte costituzionale (oltre che, evidentemente, con i giudici comuni).
La questione ha origine da un’ordinanza della Corte di cassazione, con cui questa investì la Corte costituzionale del compito di stabilire, tra l’altro, la conformità agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione, per quanto qui più interessa, agli artt. 6 CEDU e 47 della CDFUE) dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, “nella parte in cui sanziona la mancata ottemperanza nei termini alle richieste della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), ovvero la causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni, «anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle proprie funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate»”. La questione veniva sollevata (stando a quanto riferisce la stessa ord. n. 117 del 2019) nel presupposto che ove la Corte costituzionale avesse ritenuto infondati i dubbi di costituzionalità prospettati, alla loro soluzione la Corte di cassazione sarebbe pervenuta comunque sollevando rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, anche in considerazione del fatto che, come organo giurisdizionale di ultima istanza, ciò avrebbe costituito in ogni caso per essa un dovere scaturente dall’art. 267, par. 3, TFUE.
Tale circostanza, che di per sé parrebbe consustanziale alla logica della precedenza funzionale dell’incidente di costituzionalità quando a sollevare una questione sia un giudice di ultima istanza[3], assume nel caso di specie una rilevanza ulteriore se solo si considera che i termini del contrasto che la Corte di cassazione prospettò tra la norma che escludeva il diritto al silenzio per il soggetto sottoposto ad un’audizione della CONSOB (il richiamato art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998) e l’art. 47 della CDFUE delineavano i contorni di un rinvio pregiudiziale che investiva, accanto alla interpretazione del diritto UE, la sua stessa validità.
L’art. 187-quinquiesdecies citato, infatti, costituisce l’attuazione di uno specifico obbligo discendente, in un ambito del diritto dell’UE completamente armonizzato, prima dalla direttiva 2003/6/CE (art. 14) e, successivamente all’abrogazione di quest’ultima, dall’art. 30, par. 1, lett. b), del Regolamento (UE) n. 596/2014, che impone agli Stati membri di provvedere “affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate” in relazione alla violazione di “omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta disposte di cui all’art. 23, par. 2” del medesimo Reg. 596/2014.
Tale ultima previsione è, poi, quella che attribuisce alle autorità chiamate a procedere in materia di repressione degli abusi di mercato il potere di “richiedere o esigere informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi, nonché i loro superiori e, laddove opportuno, convocarli allo scopo di ottenere delle informazioni”.
Dal combinato disposto di tali previsioni si ricava pianamente che il legislatore nazionale è vincolato in tutto e per tutto nell’an del loro recepimento e nell’individuazione del loro ambito di applicazione, potendo godere di una certa discrezionalità unicamente in relazione ad aspetti di minore rilevanza, come ad es. sul terreno della commisurazione del quantum sanzionatorio. Di conseguenza, nel momento in cui veniva dedotto il contrasto tra la disposizione nazionale che ha recepito tale obbligo e gli articoli della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE da cui si ricava il diritto dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione, di fatto – per il tramite della questione di costituzionalità – si stava ponendo anche (e, probabilmente, prima di altro) un problema di validità della norma del Reg. 596/2014 che stabilisce quell’obbligo, presidiato da sanzioni particolarmente afflittive, di incondizionata cooperazione a carico degli individui coinvolti in tali procedimenti.
A partire da qui, come la dottrina più attenta non ha mancato per tempo di rilevare[4], la questione di cui era investita la Corte costituzionale finiva per essere congegnata nei termini di una verifica sul contrasto con un principio costituzionale (nemo tenetur se ipsum accusare) di una disposizione nazionale in tutto e per tutto vincolata da una norma UE, che inevitabilmente si poneva – pertanto – come il vero oggetto del controllo.
Alla luce di ciò, non stupisce che la Corte costituzionale abbia rilevato allora che l’obbligo contenuto nell’art. 30, par. 1, lett. b), del Reg. 596/2014 “potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 CDFUE, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti desumibili dall’art. 6 CEDU e dall’art. 24 della Costituzione italiana”.
Di conseguenza, i due quesiti posti dalla Corte costituzionale prefiguravano una scansione dell’esame demandato alla Corte di giustizia tale per cui la richiesta di chiarimento interpretativo della disposizione che non contempla il diritto al silenzio dell’individuo precede e si collega alla richiesta di verifica sulla validità di tale disposizione, in quanto di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 della Carta, oltre che con l’art. 6 CEDU e con le tradizioni costituzionali comuni (il cui punto di emersione è rappresentato, nella vicenda in esame, dall’art. 24 della Costituzione). La saldatura tra i due profili emergeva chiaramente nell’ordinanza n. 117 del 2019, soprattutto nel momento in cui la Corte costituzionale rilevava che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies “rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione”, e in particolare con l’obbligo che discende dal richiamato art. 30, par. 1, lett. b), del Reg. 596/2014, “obbligo di cui il menzionato art. 187-quinquiesdecies costituisce attuazione”.
L’ord. n. 117 del 2019, in altre parole, mirava a offrire alla Corte di giustizia le condizioni per svuotare di portata precettiva l’art. 30 cit. Reg. 596/2014, riconoscendo il diritto al silenzio dei singoli come un diritto riconducibile ai parametri ora richiamati, così da lasciarsi alle spalle una giurisprudenza che tale diritto era invece incline a escluderlo, anche se in riferimento, prevalentemente, alle sole persone giuridiche.
Solo ove tale strada non fosse risultata percorribile, veniva posto chiaramente, con il secondo quesito, un problema di validità delle disposizioni di diritto dell’UE che sanzionano il rifiuto dell’individuo di rispondere a domande che possano contribuire alla sua incolpazione, così – nella sostanza – responsabilizzando la Corte di giustizia rispetto all’eventualità di una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma interna di attuazione vincolata di una disposizione di diritto dell’UE[5].
3. Lussemburgo introduce un “nuovo diritto”: basta la sola via dell’interpretazione conforme?
La risposta della Corte di giustizia, preceduta dalle convergenti conclusioni dell’AG Pikamäe, è andata nel senso di un’adesione piena alle prospettazioni della Corte costituzionale.
Il presupposto del ragionamento seguito dalla sentenza è rivolto a differenziare il regime applicabile ai procedimenti sanzionatori rivolti contro le persone giuridiche, per le quali la possibilità di avvalersi del diritto al silenzio è tradizionalmente esclusa dalla Corte di giustizia a partire dal celebre caso Orkem, da quelli (come avveniva nel giudizio a quo) riguardanti invece le persone fisiche, rispetto alle quali i contenuti di tutela promananti dagli artt. 47 e 48 CDFUE devono essere interpretati alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che costantemente annovera il diritto al silenzio degli individui tra le posizioni protette dall’art. 6 CEDU.
Questo punto, sviluppato nella sentenza ai parr. 36-40, spinge la Corte di giustizia a precisare i termini di quello che a tutti gli effetti si configura ora come un “nuovo diritto” nel sistema della Carta, i cui presupposti applicativi sono:
a) esso non può giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità nazionali competente “qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa” (par. 41);
b) esso trova applicazione in procedure che conducono all’irrogazione di sanzioni amministrative aventi carattere penale, come desumibile dalla qualificazione giuridica dell’illecito, dalla natura di quest’ultimo e dal grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire (par. 42);
c) in ogni caso, il diritto al silenzio deve essere riconosciuto allorché l’individuo è chiamato a fornire risposte “che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale” (par. 45).
Il punto maggiormente controverso della pronuncia, e forse anche più significativo in vista della riassunzione del giudizio di fronte alla Corte costituzionale, riguarda la strada scelta dalla Corte di giustizia per “calare” questi nuovi principi nel sistema normativo di cui ai richiamati artt. 14 della dir. 2003/6 e 30, par. 1, lett. b) del Reg. 596/2014.
La Corte aggira infatti il problema che avrebbe rappresentato una pronuncia di invalidità avente ad oggetto queste disposizioni (e in particolare la seconda) optando per una loro interpretazione conforme agli artt. 47 e 48 della Carta che ne determina, tuttavia, una significativa e incisiva rilettura.
Ritenere, infatti, che quelle disposizioni debbano essere ora interpretate nel senso che esse non prevedono necessariamente l’inflizione di sanzioni a persone fisiche che rifiutano di prestare informazioni nei procedimenti sopra menzionati, infatti, determina un indubbio rivolgimento dei loro significati per come finora pacificamente acquisiti. Significati che convergevano nel senso di escludere, per il singolo, la possibilità di godere del diritto al silenzio in procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive e che ora vengono espunti dal perimetro applicativo delle disposizioni sopra richiamate, poiché l’esigenza di una loro interpretazione conforme agli artt. 47 e 48 della CDFUE impone di considerare prioritariamente che la sanzionabilità di tali comportamenti, pur se non esclusa, non è al tempo stesso imposta dal tenore letterale degli artt. 14 della dir. 2003/6 e 30, par. 1, lett. b) del Reg. 596/2014.
L’interpretazione conforme patrocinata dalla Corte di giustizia assume quindi, almeno in parte, i tratti di un’interpretatio abrogans, tesa a rimodellare i contorni del regime sanzionatorio operante in tali procedimenti e dei diritti invocabili dalle persone fisiche ad essi sottoposti anche al di là dei significati acquisiti da tali disposizioni nel sistema europeo e in quelli nazionali, così da scongiurare le conseguenze di una dichiarazione di invalidità.
L’effetto, ad ogni modo, è quello di un ampliamento degli spazi di discrezionalità degli Stati membri, i quali, pur avendo a che fare con l’obbligo di dare attuazione a disposizioni a contenuto sostanzialmente vincolato, sono chiamati ora a disciplinare i rispettivi procedimenti e il relativo regime sanzionatorio nel senso di attribuire un diritto al silenzio alle persone fisiche nei procedimenti e alle condizioni prima richiamati (par. 57).
4. Un caso diverso dagli altri: un nuovo protocollo decisionale
Proprio tale ultimo aspetto merita di essere messo in evidenza per sottolineare la novità del caso rispetto ai precedenti episodi di dialogo, per il tramite del rinvio pregiudiziale, tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, e per veder confermata l’efficace strategia seguita dalla prima all’atto della sollevazione del rinvio, anche alla luce delle variabili che si porranno nell’immediato futuro nel momento in cui questa, all’atto della riassunzione del giudizio, sarà chiamata a pronunciarsi sulle questioni sollevate dalla Corte di cassazione.
Quanto al primo aspetto, l’evocazione di uno spazio di adeguamento discrezionale per gli Stati in relazione a regole vincolanti contenute in regolamenti UE non è certo nuova, mentre ciò che merita attenzione è il fatto che a ciò si sia giunti muovendo, come si diceva sopra, da un rinvio pregiudiziale incentrato prevalentemente su un problema di validità più che di interpretazione. In questo modo, l’impressione è che la Corte di giustizia, nel momento in cui esclude una dichiarazione di invalidità, abbia inteso rivolgere un messaggio preciso proprio alla Corte costituzionale, individuando in quest’organo – siccome investito di una funzione di garanzia sistemica dei diritti fondamentali e titolare di un potere di annullamento con effetti erga omnes del diritto interno – quello tenuto prima e più utilmente di altri a esercitare quel potere discrezionale in senso conforme al combinato disposto dei diritti contenuti nella Costituzione e nella Carta DFUE (oltre che nella stessa CEDU).
Per il fatto che il rinvio pregiudiziale proveniva proprio dalla Corte costituzionale e che questo sottintendeva, al fondo e malgrado le opportune cautele contenute nell’ord. n. 117 del 2019, una pregiudiziale di validità, è legittimo ritenere che la Corte di giustizia abbia evitato lo scoglio dell’invalidità perché, a livello interno, l’esito da essa predicato (e riguardante, evidentemente, il diritto interno di attuazione, e segnatamente l’art. 187-quinquiesdecies cit.) può essere adeguatamente ed efficacemente conseguito dalla Corte costituzionale nell’ambito dell’esercizio delle sue attribuzioni.
Se questo scenario è plausibile, se ne dovrebbe ricavare che, in questa vicenda, la leale cooperazione tra le due corti abbia dato luogo a un protocollo operativo particolarmente stringente e in larga parte inedito, nel senso che il giudice costituzionale stimola la Corte di giustizia a introdurre un nuovo diritto fondamentale nel sistema dell’Unione[6], la cui attuazione e tutela a livello interno – proprio per il sovrapporsi delle garanzie interne ed europee – sono demandate in prima battuta, a valle della pronuncia europea, al medesimo giudice di costituzionalità, in quanto organo deputato a valutare come quel diritto/principio di nuova introduzione debba inserirsi, dall’alto di una prospettiva di tutela sistemica dei diritti fondamentali, all’interno dell’ordinamento.
5. Un annullamento con effetti erga omnes al servizio (anche) della Corte di giustizia
Due osservazioni, in conclusione, rispetto agli scenari che si aprono a seguito di questa pronuncia e del modulo decisionale che essa pare convalidare.
A livello generale e, per dir così, di sistema, un simile protocollo collaborativo implica una consacrazione della svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017 e, contestualmente, dall’abbandono ad opera della Corte di giustizia (avutosi con i casi Melki e A.B.) del principio per cui l’obbligo di disapplicazione del giudice nazionale non può mai essere preceduto dallo scrutinio di costituzionalità. Non si tratta, però, necessariamente di una partita vinta per le corti costituzionali, perché tale esito le attrae inevitabilmente e definitivamente, seppur da una posizione differenziata e qualificata, nell’opera di adeguamento del diritto interno al diritto dell’UE[7].
Questa attrazione implica anche, come il par. 55 della sentenza Melki già lasciava chiaramente intendere[8], che quando una corte costituzionale (così come qualsiasi altro giudice nazionale di ultima istanza) si ponga un problema di validità di una norma nazionale di attuazione vincolata del diritto dell’UE, questa è obbligata, ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, a sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Guardando al caso in discussione, ciò impone di ritenere che la Corte costituzionale, sollevando il rinvio con l’ord. n. 117 del 2019, abbia fatto valere non solo la sua posizione apicale nel senso di veicolare alla Corte di giustizia una prospettiva qualificata dal suo essere garante della Costituzione e dei diritti fondamentali in essa contenuti. Essa, infatti, pare aver espresso l’ulteriore consapevolezza che quando dal giudizio di costituzionalità può discendere l’esito di una caducazione di una norma interna che costituisca attuazione di una regola di diritto dell’UE che non lascia margini di discrezionalità nel suo recepimento, questa sia tenuta – prima di pronunciarsi – a rivolgersi alla Corte di giustizia. In casi del genere, infatti, l’eliminazione della norma interna rappresenterebbe, sia pur indirettamente, una menomazione del potere esclusivo della Corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità di una regola del diritto dell’UE.
Quanto alle prospettive immediate, pare inevitabile chiedersi quali strade si aprano ora nel momento in cui la Corte costituzionale sarà chiamata a decidere sulle questioni sollevate dalla Corte di cassazione.
Sul punto, potrebbe infatti immaginarsi che l’esito di adeguamento interpretativo cui è giunta la Corte di giustizia possa essere a sua volta fatto proprio dalla Corte costituzionale, trasferendo il significato scaturente dall’interpretazione conforme dell’art. 30, par. 2, lett. b), Reg. 596/2014 agli artt. 47 e 48 CDFUE all’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998. Si tratterebbe di un esito sicuramente coerente con la lettera della sentenza resa dalla Corte di giustizia ma, alla luce di quanto detto, forse non del tutto convincente.
In tal senso depone, innanzi tutto, il tenore letterale dell’art. 187-quinquiesdecies che, per la sua formulazione particolarmente ampia[9], rende non agevole (seppur astrattamente non impossibile) una delimitazione della sua portata alle condotte del singolo che oggi sono coperte dal diritto al silenzio.
Ma a rivelarsi, forse, dirimente nel senso dell’esclusione di un rigetto interpretativo, è il senso e lo scopo del compito richiesto alla Corte costituzionale dalla sentenza in discussione, che parrebbe quello di essere conseguente rispetto alla rivendicazione di una maggiore centralità del suo ruolo rispetto alla tutela dei diritti negli ambiti coperti dal diritto dell’UE per il tramite di una dichiarazione di incostituzionalità destinata a spiegare effetti erga omnes. Oltre a fondamentali ragioni di certezza nell’applicazione di misure in ogni caso fortemente afflittive, a spingere nel senso di un accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione potrebbe essere il fatto che, nella logica di rapporti sempre più serrati tra Corte di giustizia, giudici nazionali e Corte costituzionale, a quest’ultima spetti necessariamente il ruolo e la funzione di organo chiamato, lì dove è richiesto (come in questo caso), a svolgere un apprezzamento sulla compatibilità di sistema tra le regole nazionali di attuazione del diritto UE e la tutela dei diritti fondamentali nazionali ed europei, da declinare necessariamente in termini unitari.
[1] Su questa pronuncia v. già, in questa Rivista, M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob (Nota a CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19) (3 marzo 2021)
[2] A. Anzon Demmig, Interazione tra le Corti e riconoscimento di un nuovo diritto nell’ordinamento europeo, in Diritti comparati (9 febbraio 2021).
[3] Soprattutto alla luce dei temperamenti che sono stati apportati all’originario protocollo sulla doppia pregiudizialità di cui alla sent. n. 269 del 2017 dalla sentenza n. 20 del 2019 e dalle successive pronunce sopra citate.
[4] A. Anzon Demmig, Applicazioni virtuose della nuova “dottrina” sulla “doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), in Rivista AIC, 6/2019, p. 186, secondo la quale le disposizioni europee richiamate “pur non negando espressamente il ‘diritto al silenzio’ dell’indagato, impon[gono] specificamente agli Stati membri l’obbligo di sanzionare l’omessa collaborazione alle indagini dell’autorità competente”.
[5] Con la conseguenza che, come è stato detto, “nella forma processuale di un rinvio pregiudiziale si cela la sostanza di un preannunciato ‘controlimite’”, che porrebbe la Corte di giustizia “in una rigida, non confortevole, alternativa: accogliere un’interpretazione della normativa europea armonizzata con la tradizione costituzionale italiana; oppure prestare il fianco all’inevitabile attivazione di un controlimite costituzionale”: così G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Rivista AIC, 6/2019, p. 170.
[6] Servendosi, nel far ciò, di una lettura convergente delle garanzie contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nella CEDU e nella Costituzione: enfatizza opportunamente questo profilo A. Ruggeri, Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), in Consulta online, Studi, II/2019, p. 245.
[7] Senza peraltro escludere, come testimonia il caso in discussione, anche l’esito opposto, vale a dire un adeguamento del diritto UE a un contenuto scaturente da una specifica tradizione costituzionale, peraltro convalidata dalla CEDU. Proprio tale elemento di reciproca dipendenza funzionale che si viene a creare tra Corte di giustizia e corti costituzionali mi sembra, tra tutti, il fattore idoneo a superare le meditate perplessità sulla tenuta dell’attuale configurazione della doppia pregiudizialità, come quelle espresse da ultimo da A. Ruggeri, Il giudice e la “doppia pregiudizialità”: istruzioni per l’uso, in Federalismi (24 febbraio 2021).
[8] Sentenza 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli: “Qualora, infatti, il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale si concluda con l’abrogazione di una legge nazionale che si limita a recepire le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, a causa della contrarietà di detta legge alla Costituzione nazionale, la Corte potrebbe, in pratica, essere privata della possibilità di procedere, su domanda dei giudici del merito dello Stato membro interessato, al controllo della validità di detta direttiva con riguardo agli stessi motivi relativi alle esigenze del diritto primario, segnatamente dei diritti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale l’art. 6 TFUE conferisce lo stesso valore giuridico che riconosce ai Trattati”.
[9] “Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse”. Un adeguamento interpretativo era, peraltro, escluso dalla medesima ordinanza di rimessione della Corte di cassazione.