Stranieri dei Paesi terzi e assegno per il nucleo familiare: parità di trattamento e integrazione nel dialogo tra le Corti(*)
di Chiara Colosimo(**)
Abstract: I rinvii pregiudiziali sulla compatibilità con la Direttiva 2003/109/CE e la Direttiva 2011/98/UE delle previsioni di cui all’art. 2 Legge 153/1988 – che consentono al solo cittadino italiano di computare nel proprio nucleo familiare anche familiari residenti all’estero, mentre agli stranieri dei Paesi terzi di considerare i soli familiari residenti in Italia – sono l’occasione, per la Corte di Giustizia, di soffermarsi sulla rilevanza del processo di integrazione e sulla necessità di salvaguardare le finalità della legislazione europea, garantendo ai cittadini dei Paesi terzi, che risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro, equità e parità di trattamento: strumento imprescindibile nel consolidamento del legame con lo Stato ospitante e nella realizzazione di una società complessivamente più coesa.
Sommario: 1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso - 2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi - 3. La questione al vaglio delle Corti - 3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale - 3.2. L’intervento del Giudice Europeo – 4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento.
1. Premessa, la fisionomia di un istituto complesso
L’assegno per il nucleo familiare[1] è una prestazione economica erogata dall’INPS ai nuclei familiari di alcune categorie di lavoratori, pensionati o beneficiari di prestazioni previdenziali che partecipa, come si evince dall’eredità giurisprudenziale che lo accompagna, di una composita natura previdenziale e assistenziale[2].
Sulla sua natura previdenziale si sono soffermate, tanto la Corte Costituzionale con sentenza 22 dicembre 1995, n. 516, quanto le Sezioni Unite del Supremo Collegio con sentenza 7 marzo 2008, n. 6179; la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato la natura previdenziale dell’istituto in ragione del fatto che lo stesso non è correlato alla retribuzione, ma al reddito complessivo del nucleo familiare di riferimento, garantendone la sufficienza alle famiglie che ne siano prive[3].
In questa prospettiva, esso è precipitato del disposto di cui agli artt. 36 e 38 Costituzione[4].
La sua inclinazione assistenziale emerge valorizzando la rilevanza che la disciplina riconosce, oltre che al reddito complessivamente prodotto, al numero e alla condizione psico-fisica dei componenti del nucleo familiare: il reddito considerato ai fini dell’erogazione dell’assegno, difatti, viene elevato a fronte di nuclei familiari bisognevoli di una tutela più incisiva in ragione della presenza di soggetti – maggiorenni o minori – colpiti da patologie fisiche o mentali che incidono significativamente sulla possibilità oggettiva di svolgere un’attività lavorativa ovvero di attendere alle funzioni e ai compiti propri dell’età[5].
Ecco, quindi, che l’assegno per il nucleo familiare “realizza una compenetrazione tra strumenti previdenziali ed assistenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia, con quelli apprestati a tutela di malattie…”[6].
In quanto tale, la prestazione in parola rientra senza dubbio nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) 29 aprile 2004, n. 883, in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, posto che l’art. 1, lett. z), dispone che “ai fini del presente regolamento si intende per:… z) «prestazione familiare», tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I”.
E, d’altronde, la Corte di Giustizia ha ricordato: “20.… che, come ripetutamente giudicato dalla Corte con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale... Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004… 21. La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale… 24. Per quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta dagli atti che, da un lato, l’ANF [n.d.e. la pronunzia concerne l’istituto di cui all’art. 65 Legge 448/1998] è versato ai beneficiari che ne facciano richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. 25. Dall’insieme delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004”[7].
2. Lo stato dell’arte sul trattamento riconosciuto agli stranieri dei Paesi terzi
Con l’art. 11, par. 1, lett. d), della Direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003 – relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo – si è stabilito che “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda:… d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale” e, al successivo paragrafo 4, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali”; disposizione di analogo tenore si rinviene nella successiva Direttiva 2011/98/UE del 13 dicembre 2011 – relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – che ha previsto, all’art. 12, par. 1, lett. e), che “i lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)[[8]], beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:… i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004” e, al seguente paragrafo 2, che “gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento:… b) limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto…”.
A dispetto di quanto previsto dalle richiamate Direttive, la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare è rimasta immutata, confermata quindi anche nel suo comma 6bis dell’art. 2 Legge 153/1988 che prevede, ancor oggi, che “non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia…”: una norma, inequivoca nel suo tenore, che cristallizza una differenza nel trattamento riservato allo straniero, cui risulta preclusa la possibilità di considerare il familiare eventualmente residente nel Paese terzo in assenza di condizioni di reciprocità.
La disparità di trattamento non è stata ritenuta conforme al diritto dell’Unione Europea dalla giurisprudenza di merito che, nell’ultimo lustro, è giunta a disapplicare il disposto di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 in ossequio ai principi delineati dalla Corte di Giustizia, facendo applicazione diretta del diritto dell’Unione[9].
L’orientamento poggia, in primo luogo, sull’imperativo dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e sul principio di uguaglianza, dai quali discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario – che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della definizione del suo senso e della sua portata – devono essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme, da compiersi tenuto conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa medesima[10], così da garantirne l’efficacia[11]. Ne consegue che il giudice nazionale, chiamato ad applicare nell’ambito della propria competenza le norme del diritto dell’Unione, ha l’obbligo di assicurarne la piena efficacia disapplicando, ove occorra, la disposizione nazionale contrastante senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale[12].
Nel caso di specie, nessun dubbio può esservi circa il fatto che le disposizioni in materia di parità di trattamento della Direttiva 2003/109/CE e della Direttiva 2011/98/UE siano dotate di effetto diretto e potessero, pertanto, comportare – come ritenuto dai giudici di merito – la disapplicazione del diritto interno contrastante[13].
Le pronunzie in commento muovono, altresì, da un’ulteriore fondamentale considerazione.
La Direttiva 2003/109/CE è stata recepita con il Decreto Legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, il cui art. 1 ha modificato l’art. 9 D. Lgs. 286/1998 prevedendo, tra l’altro, al comma 12, lett. c), che “oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può:… c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale… salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale”; la Direttiva 2011/98/UE ha trovato attuazione con il Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 40.
Si è opportunamente evidenziato che il Legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di deroga (deroga, peraltro, che deve essere necessariamente oggetto di interpretazione restrittiva[14]), che avrebbe richiesto una scelta espressa – successiva all’entrata in vigore delle Direttive e del relativo recepimento – e che non può pertanto desumersi dalla mancata modifica della disciplina di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Rileva, in questo senso, il principio sancito dalla Corte di Giustizia con sentenza 24 aprile 2012[15]: “al riguardo occorre rilevare che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista all’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta”. Rileva, ugualmente, quanto affermato circa il fatto che “…disposizioni adottate del resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva”[16].
Si è parimenti osservato che il Tredicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE definisce prestazioni “essenziali” – ossia, prestazioni in ordine alle quali la parità di trattamento non può essere derogata – quelle che comprendono “almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine”, e tra le quali deve essere ricompreso anche l’assegno per il nucleo familiare proprio in quanto sostegno a un reddito minimo e all’assistenza parentale[17].
Si è così ritenuto che la norma interna, che ai soli stranieri dei Paesi terzi concede l’assegno per il nucleo familiare unicamente per i familiari residenti sul territorio nazionale, si porrebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 11 Direttiva 2003/109/CE e all’art. 12 Direttiva 2011/98/UE: clausola di parità di trattamento direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale, che impone di considerare nel nucleo familiare degli stranieri anche i familiari residenti all’estero.
3. La questione al vaglio delle Corti
A dispetto dell’interpretazione ossequiosa del principio di parità di trattamento progressivamente consolidatasi nella giurisprudenza di merito, con le ordinanze dell’1 aprile 2019, n. 9021[18] e n. 9022[19], la Corte di Cassazione ha ritenuto di demandare alla Corte di Giustizia la verifica circa la conformità della previsione di cui all’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 rispetto alla Direttiva 2003/109/CE e alla Direttiva 2011/98/UE.
3.1. I dubbi interpretativi del Giudice di Legittimità nazionale
La prima questione sollevata dal Supremo Collegio attiene all’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE ed è volta a verificare se il principio – secondo cui al soggiornante di lungo periodo deve essere assicurato lo stesso trattamento dei cittadini nazionali avuto riguardo alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale – comporti che i familiari dello stesso, ove residenti fuori dal territorio dello Stato membro, debbano considerarsi inclusi nel novero dei destinatari del trattamento di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
L’interrogativo muove da un duplice rilievo.
Da un lato, dal fatto che il Quarto Considerando valorizza “l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” quale “elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato” e che la stessa Direttiva 2003/109/CE definisce familiari “i cittadini di paesi terzi che soggiornano nello Stato membro interessato…” (art. 2, par. 1, lett. e), in un contesto in cui si è affermato che l’obiettivo principale della direttiva è l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri[20]. Dall’altro, dal fatto che, ai sensi dell’art. 2 Legge 153/1988, il nucleo familiare non costituisce solo la base di calcolo dell’importo del trattamento medesimo, ma ne è anche beneficiario: “per il diritto nazionale i componenti del nucleo familiare assumono un rilievo essenziale nella struttura del trattamento dell’assegno e sono considerati i sostanziali beneficiari dello stesso trattamento”[21].
Poiché, in mancanza di condizioni di reciprocità, l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 dispone che i soli familiari del cittadino straniero[22] debbono essere esclusi dal nucleo familiare qualora la loro residenza effettiva non sia in Italia, deve allora verificarsi se tale previsione sia compatibile con il principio sancito dalla Direttiva 2003/109/CE, art. 1, par. 1, lett. d): questione non risolvibile in forza della giurisprudenza della Corte di Giustizia già formatasi, in quanto relativa a familiari che risiedono stabilmente nel territorio del medesimo o di un differente Stato membro.
Richiamato il principio di cui all’art. 12, par. 1, lett. e), il Supremo Collegio solleva analoga questione avuto particolare riguardo alla Direttiva 2011/98/UE e ai familiari dei cittadini di Stati terzi che si trovino nel territorio di uno Stato membro per periodi più brevi dei cinque anni utili al conseguimento di un permesso di soggiorno per lungo periodo.
Per quel che attiene alla disciplina interna, il Giudice di Legittimità evidenzia una volta ancora il rilievo attribuito dalla norma al nucleo familiare che è, al tempo stesso, base di calcolo e destinatario dei benefici di cui all’art. 2 Legge 153/1988.
Il dubbio interpretativo rispetto alla portata del principio sovranazionale viene delineato avuto particolare riferimento al Ventesimo e al Ventiquattresimo Considerando nella parte in cui, da un lato, si afferma il diritto alla parità di trattamento anche dei “familiari di un lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro”, dall’altro, si precisa che la “…direttiva non dovrebbe neppure conferire diritti in relazione a situazioni che esulano dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ad esempio in relazione a familiari soggiornanti in un paese terzo. La presente direttiva dovrebbe conferire diritti soltanto in relazione ai familiari che raggiungono lavoratori di un paese terzo per soggiornare in uno Stato membro sulla base del ricongiungimento familiare ovvero ai familiari che già soggiornano regolarmente in tale Stato membro”.
3.2. L’intervento del Giudice Europeo
Nelle pronunzie scaturite dal duplice rinvio pregiudiziale[23], la Corte di Giustizia conferma principi già acquisiti al patrimonio giurisprudenziale interno quali l’obbligo per lo Stato membro di conformarsi al diritto dell’Unione nell’organizzazione dei regimi di sicurezza sociale e nella disciplina delle relative prestazioni[24], l’obbligo di garantire – tanto ai soggiornanti di lungo periodo, ai sensi dell’art. 11, par. 1, lett. d), 2003/109/CE, quanto ai cittadini di Paesi terzi ammessi nello Stato membro a fini lavorativi e titolari di un permesso unico, ai sensi dell’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE – la parità di trattamento in quanto regola generale, la possibilità di limitare la parità di trattamento in funzione di deroghe da interpretarsi restrittivamente e la cui applicazione deve essere chiaramente espressa dallo Stato membro[25].
Ciò posto, avuto particolare riguardo alla definizione di “familiare” di cui all’art. 2, lett. e), Direttiva 2003/109/CE, la Corte chiarisce che la stessa è funzionale all’impiego della nozione ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della direttiva medesima e non alla limitazione del diritto alla parità di trattamento previsto per i soggiornanti di lungo periodo dall’art. 11, par. 1, lett. d); evidenzia peraltro che, se quest’ultima fosse la funzione dell’art. 2, la disposizione derogatoria di cui all’art. 11, par. 2, non avrebbe ragion d’essere[26]. Nel rammentare, poi, che il preambolo di un atto dell’Unione non ha valore giuridico vincolante né può essere impiegato per derogarvi ovvero interpretarlo in senso contrario al tenore letterale che gli è proprio[27], il Giudice Europeo osserva che non vi è modo di trarre dal Quarto Considerando l’esclusione del diritto alla parità di trattamento per il soggiornante di lungo periodo i cui familiari non risiedano nel territorio di uno Stato membro, bensì in un Paese terzo: esclusione, d’altronde, che non si rinviene in nessuna disposizione della direttiva.
Nemmeno una simile esclusione ricorre nella Direttiva 2011/98/UE, avuto specifico riguardo alla parità di trattamento da riservarsi al titolare di un permesso unico, posto che la chiara formulazione dell’art. 12, par. 1, lett. e), depone in senso contrario, e che l’art. 12, par. 2, lett. c), consente una limitazione alla parità di trattamento in materia di agevolazioni fiscali qualora i familiari del lavoratore di un Paese terzo non abbiano domicilio o residenza abituale nel territorio dello Stato membro, mentre analoga deroga non risulta prevista nel paragrafo 2, lett. b, in materia di prestazioni di sicurezza sociale: i casi in cui la parità di trattamento riconosciuta al titolare di un permesso unico può esser limitata, pertanto, risultano chiaramente esplicitati dalla disciplina dell’Unione e non attengono all’ipotesi in esame.
Ne consegue che l’esclusione non può certo farsi derivare né dal Ventesimo Considerando, nella parte in cui enuncia che il diritto alla parità di trattamento dovrebbe essere riconosciuto anche a coloro che sono stati ammessi nello Stato membro per fini non lavorativi e vi sono stati poi autorizzati a lavorare, né dal Ventiquattresimo Considerando, a mezzo del quale si precisa che la direttiva non impone ai Paesi membri di corrispondere prestazioni di sicurezza sociale ai familiari che non risiedono nello Stato membro ospitante.
Avuto particolare riguardo all’applicazione della Direttiva 2011/98/UE, la Corte di Giustizia è stata sollecitata a pronunziarsi sulla legittimità dell’esclusione del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nello Stato membro anche in relazione alla previsione di cui all’art. 1 del Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, a mente del quale “il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 si applicano ai cittadini di paesi terzi cui tali regolamenti non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro”.
Sul punto, la Corte di Giustizia osserva che, se il Regolamento (UE) 24 novembre 2010, n. 1231, ha lo scopo di creare un diritto alla parità di trattamento in favore dei familiari di un cittadino di un Paese terzo che risiedano nel territorio di uno Stato membro (e che si trovino in una delle situazioni ivi considerate), ciò non significa che il Legislatore dell’Unione abbia inteso escludere dal diritto alla parità di trattamento di cui alla Direttiva 2011/98/UE il titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato. Precisa, altresì, che siffatta esclusione nemmeno può trarsi dalla previsione di cui all’art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE (“…lo Stato membro interessato può limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio”), da un lato, in quanto norma soggetta a interpretazione restrittiva, dall’altro, in quanto nella Direttiva 2011/98/UE non si rinviene disposizione analoga: “…non può ammettersi che le deroghe elencate nella direttiva 2011/98 siano interpretate in maniera da includerne una supplementare per il solo motivo che tale ulteriore deroga figura in un altro atto diritto derivato”[28].
Passaggio oltremodo rilevante delle pronunzie in esame è quello che concerne la definizione e la portata della finalità di “integrazione” perseguita da entrambe le direttive – che, secondo l’Ente Previdenziale e il Governo italiano presupporrebbe la presenza nel territorio dello Stato membro dei familiari del soggiornante di lungo periodo e del titolare di un permesso unico – integrazione che, così afferma il Giudice Europeo, si fonda sull’“avvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali”[29], e sul “garantire loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. La direttiva mira altresì a creare condizioni uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi”[30], così che escludere la parità di trattamento qualora i familiari non risiedano nello Stato membro – per un periodo che potrebbe, peraltro, essere temporaneo – “non può essere conforme a tali obiettivi”.
Quindi, “fatta salva la deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non sul suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[31], e “fatte salve le deroghe consentite dall’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, uno Stato membro non può rifiutare o ridurre il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al titolare di un permesso unico per il fatto che i suoi familiari o taluni di essi risiedono non nel suo territorio, bensì in un paese terzo, quando invece accorda tale beneficio ai propri cittadini indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedano”[32].
Ne consegue che l’omesso versamento dell’assegno e la riduzione dell’importo dello stesso, in ragione del fatto che i familiari non risiedano in tutto o in parte nel territorio dello Stato membro, sono contrari al diritto alla parità di trattamento per come qui considerata non potendosi attribuire rilevanza ai rispettivi legami con lo Stato membro. Né rileva il fatto anche i familiari siano beneficiari sostanziali del trattamento in questione, in quanto l’assegno viene versato in favore di quel componente del nucleo familiare (soggiornante di lungo periodo o titolare di un permesso unico) che è destinatario diretto della tutela riconosciuta dalla disciplina sovranazionale.
Sicché, qualora lo Stato membro non abbia espresso l’intenzione di avvalersi delle deroghe tipizzate, l’art. 11, par. 1, lett. d), Direttiva 2003/109/CE e l’art. 12, par. 1, lett. e), Direttiva 2011/98/UE debbono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari – tanto del soggiornante di lungo periodo (art. 2, lett. b), Direttiva 2003/109/CE), quanto del titolare di permesso unico (art. 2, lett. c), Direttiva 2011/98/UE) – che risiedano, non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un Paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino del medesimo Stato membro residenti in un Paese terzo.
4. L’effettività dell’integrazione nella parità di trattamento
All’integrazione, l’Unione Europea guarda come a un potenziale “motore di sviluppo economico e della coesione sociale” e si propone, pertanto, di “definire un quadro normativo che garantisca la parità di trattamento e assicurare a tutti gli immigrati un livello di diritti adeguato”[33].
A tal fine, si è impegnata a dare solide garanzie in tema di diritti fondamentali e parità di trattamento[34], e la partecipazione e la cittadinanza attiva degli stranieri provenienti dai Paesi terzi costituisce uno dei principi fondanti dell’Unione che “pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”[35].
In materia di sicurezza sociale e assistenza sociale, l’art. 34, par. 2 e 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce che “ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”, e che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”: questi principi sono parte necessaria di un processo di integrazione che, nel fondarsi sull’affermazione dell’equo trattamento e della parità nel riconoscimento dei diritti fondamentali[36], non può muovere da una prospettiva di parcellizzazione o recessività delle tutele che si basi su differenziazioni ed esclusioni di diritti che, oltre a non trovare fondamento nell’ordinamento positivo europeo, ne costituiscono di fatto una negazione ostacolando il perseguimento delle finalità che gli son proprie[37].
Sotto questo specifico profilo, le due pronunzie della Corte di Giustizia assumono peculiare rilievo nella parte in cui evidenziano come il soggiornante di lungo periodo e il titolare di un permesso unico al centro (cittadini di Paesi terzi legalmente stabilitisi nei territori degli Stati dell’Unione) siano i destinatari primi delle tutele di cui alle due direttive, titolari del diritto alla parità di trattamento e – per il suo tramite – alla compiuta integrazione nello Stato membro, così ponendo l’accento sull’incompatibilità della disuguaglianza cristallizzata nella Legge 153/1988 tra cittadini italiani e cittadini dei Paesi terzi laddove, in tutto o in parte, i familiari risiedano al di fuori dell’Unione.
D’altronde, il Giudice Europeo opportunamente sottolinea che gli effetti della suddetta disparità non si producono in capo ai soli familiari che non risiedono nel territorio dello Stato membro, bensì colpiscono in primis il soggiornante di lungo periodo o il titolare di un permesso unico che – lavoratore o pensionato – è destinatario del versamento dell’assegno[38] e componente inscindibile di quel nucleo familiare che la normativa nazionale, proprio per il tramite del beneficiario diretto, intende sostenere: la disuguaglianza incide, pertanto, sul diritto stesso che le direttive mirano a salvaguardare.
Emerge, netta, la contraddizione di una disparità di trattamento fondata su una pretesa diversità del legame con il territorio dello Stato che, inevitabilmente, produce l’effetto di ostacolare il radicarsi di quello stesso legame, intralciando un processo di integrazione che necessita della garanzia di parità di trattamento anche in materia di sicurezza sociale[39].
Tuttavia, ciò non può essere, in quanto “gli Stati membri non possono pregiudicare l’effetto utile della direttiva stessa e devono tenere conto dell’obiettivo di integrazione perseguito da tale direttiva, nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e segnatamente dell’articolo 34 della stessa in materia di previdenza sociale e assistenza sociale, allorché stabiliscono le misure soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito da detta disposizione”[40].
In questa prospettiva, si dispiega il senso e l’effetto del dialogo tra le due Corti.
(*) Riflessioni a margine delle sentenze della Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, e 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR.
(**) Giudice del Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Lavoro.
[1] L’art. 2, co. 1 e 2, D.L. 69/1988, convertito con modificazioni dalla Legge 153/1988, prevede che, “per i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di servizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali, a decorrere dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 1988, gli assegni familiari, le quote di aggiunta di famiglia, ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato e la maggiorazione di cui all’art. 5 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, cessano di essere corrisposti e sono sostituiti, ove ricorrano le condizioni previste dalle disposizioni del presente articolo, dall’assegno per il nucleo familiare. L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo la tabella allegata al presente decreto. I livelli di reddito della predetta tabella sono aumentati di lire dieci milioni per i nuclei familiari che comprendono soggetti che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. I medesimi livelli di reddito sono aumentati di lire due milioni se i soggetti di cui al comma 1 si trovano in condizioni di vedovo o vedova, divorziato o divorziata, separato o separata legalmente, celibe o nubile. Con effetto dal 1° luglio 1994, qualora del nucleo familiare di cui al comma 6 facciano parte due o più figli, l’importo mensile dell’assegno spettante è aumentato di lire 20.000 per ogni figlio, con esclusione del primo”. Il successivo comma sesto dispone che “il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti”.
[2] In questo senso, ex multis, Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. Civ., Sez. Lav., 29 settembre 2008, n. 24278; Cass. Civ., Sez. Lav., 4 luglio 2008, n. 18490; Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155; Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200.
[3] Art. 2, co. 9, Legge 153/1988.
[4] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2004, n. 6155, e Cass. Civ., Sez. Lav., 12 novembre 2003, n. 17048.
[5] Art. 2, co. 2, Legge 153/1988. Vedi Cass. Civ., Sez. Lav., 30 marzo 2015, n. 6351, e Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2003, n. 13200; sulla natura assistenziale, vedi anche App. Brescia, 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Milano, 28 aprile 2017.
[6] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[7] Corte di Giustizia, 21 giugno 2017, C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva c. Istituto nazionale della previdenza sociale e altro.
[8] Il riferimento è “b) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002; e c) ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale”.
[9] App. Brescia, Sez. Lav., 16 luglio 2018, n. 296; Trib. Pavia, Sez. Lav., 6 giugno 2018; App. Brescia, Sez. Lav., 5 dicembre 2017, n. 556; App. Torino, Sez. Lav., 6 novembre 2017, n. 772; Trib. Milano, Sez. Lav., 6 novembre 2017; App. Trento, Sez. Lav., 26 ottobre 2017, n. 72; Trib. Alessandria, 22 settembre 2017; Trib. Milano, 28 aprile 2017; App. Brescia, Sez. Lav., 22 giugno 2016, n. 233; Trib. Brescia, Sez. Lav., 14 maggio 2015.
[10] Cfr. Corte di Giustizia, 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil Srl, in liquidazione c. Fallimento Interedil Srl e altro; Corte di Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C‑174/08, NCC Construction Danmark A/S c. Skatteministeriet; Corte di Giustizia, 18 ottobre 2007, causa C‑195/06, KommAustria c. Österreichischer Rundfunk; Corte di Giustizia, 15 luglio 2004, causa C‑321/02, Finanzamt Rendsburg c. Detlev Haibs.
[11] Vedi, ex multis, Corte di Giustizia, 5 dicembre 2004, cause riunite C-397/01-C-403/01, Pfeiffer c. Deutsches Rotes Kreuz.
[12] Scontato, sul punto, il riferimento a Corte di Giustizia, 9 marzo 1978, causa C-106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. Simmenthal Spa; si vedano anche Corte di Giustizia, 26 febbraio 2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson; Corte di Giustizia, 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Aziz Melki e Sélim Abdeli; Corte di Giustizia, 19 novembre 2009, C-314/08, Krzysztof Filipiak c. Dyrektor Izby Skarbowej w Poznaniu; Corte di Giustizia, 27 ottobre 2009, C‑ 115/08, Land Oberösterreich c. ČEZ as.
[13] Sono, d’altronde, norme espressive del divieto di discriminazione cui il Giudice Europeo ha sempre riconosciuto effetto diretto. Si vedano, sul punto, le note pronunzie Corte di Giustizia, 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri c. Successione Karsten Eigil Rasmussen; Corte di Giustizia, 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Seda Kücükdeveci c. Swedex GmbH & Co. KG; Corte di Giustizia, 22 novembre 2005, causa C-144/04, Werner Mangold c. Rüdiger Helm.
[14] Corte di Giustizia, 24 aprile 2012, causa C-571/10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’Edilizia sociale della Provincia autonoma di Bolzano e altri, pt. 86: “…occorre rilevare che, dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri ed il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109 costituiscono la regola generale, la deroga prevista dal paragrafo 4 di tale articolo deve essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenza del 4 marzo 2010, Chakroun, C‑578/08, Racc. pag. I‑1839, punto 43)”.
[15] Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 87.
[16] Corte di Giustizia, Martinez Silva, cit., pt. 30.
[17] Così, App. Brescia, 16 luglio 2018, cit.; si veda anche Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 92: “al riguardo occorre rammentare che, conformemente all’articolo 34 della Carta, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. Ne consegue che, nei limiti in cui il sussidio di cui trattasi nel procedimento principale risponde alla finalità enunciata nel citato articolo della Carta, esso non può essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109”.
[18] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 11, paragrafo 1 lett. d) della direttiva 2003/109/ del Consiglio, del 25 novembre 2003, nonché il principio di parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore soggiornante di lungo periodo ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[19] Si è chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione: “se l’art. 12, paragrafo 1 lett. e) della direttiva 2011/98/ del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, nonché il principio di parità di trattamento tra titolari del permesso unico di soggiorno e di lavoro e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore titolare del permesso unico ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.
[20] Il richiamo è, altresì, al Dodicesimo e Sedicesimo Considerando, e alla pronunzia della Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, causa C-508/10, Commissione Europea c. Regno dei Paesi Bassi e altro, pt. 66.
[21] Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9021.
[22] Cittadino non appartenente all’Unione Europea, ai sensi del Decreto Legislativo 286/1998.
[23] Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale c. WS, quanto alla Direttiva 2011/98/UE; Corte di Giustizia, 25 novembre 2020, causa C-303/19, Istituto nazionale della previdenza sociale v. VR, quanto alla Direttiva 2003/109/CE.
[24] Il richiamo è, in entrambi i casi, alla decisione della Corte di Giustizia, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Georgi Ivanov Elchinov c. Natsionalna zdravnoosiguritelna kasa, pt. 40, con la precisazione che il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro regimi di sicurezza sociale, e che spetta a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale, il relativo importo e il periodo per il quale sono concesse.
[25] Art. 11, par. 2, Direttiva 2003/109/CE e art. 12, par. 2, lett. b), co. 1, Direttiva 2011/98/UE; cfr. Corte di Giustizia, INPS, pt. 23 (C-303/19) e pt. 26 (C-302/19), cit.
[26] Deroga della quale il Governo Italiano non ha ritenuto di avvalersi, come evidenziato dall’Avvocato Generale nelle proprie conclusioni (pt. 65-66) e dalla Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38. Posto che l’art. 2, co. 6bis, Legge 153/1988 è precedente alla Direttiva 2003/109/CE e all’art. 9, co. 12, lett. c), D. Lgs. 286/1998 per come modificato dall’art. 1 D. Lgs. 3/2007, il Legislatore nazionale ha previsto quale unica condizione l’effettiva residenza dello straniero – non dei suoi familiari – sul territorio nazionale.
[27] Così, già Corte di Giustizia, 19 novembre 1998, causa C-162/97, Gunnar Nilsson e altri c. Governo Svedese e altri, pt. 54: “a tal riguardo occorre rilevare che il preambolo di un atto comunitario non ha valore giuridico vincolante e non può essere fatto valere per derogare alle disposizioni stesse dell’atto di cui trattasi”.
[28] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 38.
[29] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 28.
[30] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 34.
[31] Corte di Giustizia, INPS (C-303/19), cit., pt. 30.
[32] Corte di Giustizia, INPS (C-302/19), cit., pt. 39.
[33] In questo senso, l’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2011)455; in questo senso anche il Quarto Considerando della Direttiva 2003/109/CE e il Diciannovesimo Considerando della Direttiva 2011/98/UE.
[34] Secondo il Piano d’azione sull’integrazione dei cittadini di paesi terzi, COM(2016)377, “garantire che tutti coloro che risiedono legittimamente e regolarmente nell’UE, indipendentemente dalla durata del loro soggiorno, possano partecipare e apportare il loro contributo è essenziale per il benessere, la prosperità e la coesione futura delle società europee. In un periodo in cui discriminazione, pregiudizi, razzismo e xenofobia sono in aumento, vi sono imperativi giuridici, morali ed economici che impongono di sostenere i diritti fondamentali, i valori e le libertà dell’UE e di continuare ad adoperarsi per una società complessivamente più coesa. Un’integrazione efficace dei cittadini di paesi terzi è nell’interesse comune di tutti gli Stati membri”.
[35] Così, il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
[36] Questo, d’altronde, il senso del Secondo Considerando tanto della Direttiva 2003/109/CE, quanto della Direttiva 2011/98/UE che richiamano la riunione straordinaria di Tampere del 15-16 ottobre 1999 all’esito della quale – in punto di equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi – si è affermato che “l’Unione europea deve garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia… Occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata dovrebbe essere garantita in tale Stato membro una serie di diritti uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’UE, ad esempio il diritto a ottenere la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo; va inoltre riconosciuto il principio della non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno. Il Consiglio europeo approva l’obiettivo di offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono” (pt. 18 e 21). Sull’equo trattamento che deve essere assicurato ai cittadini dei Paesi terzi, così l’art. 79 TFUE: “L’Unione sviluppa una politica comune dell’immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
[37] Rammenta l’Avvocato Generale che “l’obiettivo principale della direttiva 2003/109, come emerge dai considerando 4, 6 e 12 di quest’ultima, è l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri” (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 36).
[38] Oltremodo puntuale, sotto questo profilo, il rilievo dell’Avvocato Generale (Conclusioni, causa C-303/19, pt. 53, e causa C-302/19, pt. 51).
[39] D’altronde, “per costituire un autentico strumento di integrazione sociale, lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali sulle pertinenti condizioni definite dalla presente direttiva” (Dodicesimo Considerando della Direttiva 2003/109/CE).
[40] Conclusioni dell’Avvocato Generale, causa C-303/19, pt. 39, che richiama Corte di Giustizia, Kamberaj, cit., pt. 79-81.