Il 2 agosto di 44 anni fa nella Stazione di Bologna 85 persone venivano uccise e oltre 200 ferite nel più grave attentato terroristico del dopoguerra italiano.
In questo Paese siamo affezionati alla retorica dei misteri irrisolti, anche quando alcune risposte giudiziarie e storiche sono arrivate, ma forse questo costringerebbe da un lato a fare i conti con i fatti accertati e dall’altro a non potersi più accontentare di retorica e slogan, merce assai più facile da vendere al mercato delle opinioni sui media.
“A un certo punto del suo intervento Francesco Crispi aveva detto: penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come sono avvenute. Si preparava così a governare l’Italia” (L. Sciascia).
Proviamo a mettere ordine in modo sintetico ai capitoli giudiziari di questa vicenda.
Il primo processo (terminato nel 1995) è quello che portava alle condanne all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, dei neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, appartenenti ai NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari furono un’organizzazione terroristica italiana neofascista di estrema destra). Contestualmente venivano condannati per depistaggio l’ex leader della loggia massonica P2 Licio Gelli, due ufficiali del SISMI (Servizio Informazione Sicurezza Militare, il servizio segreto dello Stato italiano) ed il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI stesso).
Nel secondo processo, terminato nel 2007, è stato condannato quale esecutore materiale Luigi Ciavardini, altro esponente dei NAR, mentre il terzo capitolo giudiziario è quello che ha visto la condanna di Gilberto Cavallini nel 2020, anch’egli legato ai NAR. Durante questo terzo processo erano emersi possibili elementi di contatto fra i NAR ed i servizi segreti italiani, come dei numeri di telefono annotati da Cavallini riconducibili a una struttura del SISDE, e la presenza di due covi dei NAR in via Gradoli a Roma, dove durante il rapimento Moro erano basate le Brigate Rosse di Moretti, in entrambi i casi in stabili di proprietà di agenzie immobiliari collegate al SISDE.
Nelle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna veniva riconosciuto che i servizi segreti deviati e la P2 avevano avuto un coinvolgimento diretto nella pianificazione della strage: si era trattato di “un’operazione complessa con una micidiale sinergia volta a destabilizzare l’ordinamento democratico”.
Il quarto ed ultimo processo ha appena visto (lo scorso 8 luglio 2024) la conferma della condanna di Giovanni Bellini all’ergastolo da parte della Corte d’Assise d’Appello. L’indagine è stata condotta dalla Procura Generale di Bologna che aveva avocato questo ennesimo filone, ritenendo che Bellini (ex di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata nel 1960 e disciolta formalmente nel 1976) fosse stato tra gli esecutori della strage e avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, oltre agli ex NAR già condannati: tesi accolta in primo e secondo grado.
Bellini è una figura paradigmatica degli intrecci delle trame più oscure che hanno attraversato la storia criminale del potere in Italia: militante neofascista di Avanguardia Nazionale, ladro, assassino del giovane Alceste Campanile di Lotta Continua, latitante, infiltrato in Cosa Nostra, killer della ‘ndrangheta… indagato dalle Procure di Firenze e Caltanissetta per le stragi del 1993.
Come ha scritto Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano, questa sentenza “consolida la lettura della strage come progetto dell’intera galassia della destra neofascista”.
Il ruolo di Licio Gelli, seppure oggetto di un accertamento per così dire incidentale, non è solo quello di un depistatore, bensì di colui che diede l’impulso iniziale e fondamentale. Non è un dettaglio secondario, considerato l’elenco imbarazzante di politici, imprenditori, militari, membri dei servizi segreti e diplomatici iscritti alla loggia P2 (elenco scoperto da Gherardo Colombo il 17 marzo 1981 nell’ambito delle indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona, ovvero il banchiere e faccendiere riconosciuto come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, a proposito di intrecci torbidi…).
La recente sentenza bolognese evoca un “diritto soggettivo alla verità” che interpella tutti i cittadini nel chiederne il rispetto, ma soprattutto delinea un dovere di ricerca per le istituzioni e tra queste in primis per la magistratura.
Forse vorremmo vedere ancora “tutto più chiaro che qui” (come cantava De Gregori), ma gli approdi processuali di questa grave e cruciale pagina della storia italiana non sono briciole di cui accontentarsi, ma mattoni importanti di un percorso che peraltro non può essere delegato solo alle sentenze, ma che dovrebbe essere un patrimonio di ricostruzione della memoria collettiva condivisa.
«ll ricordare è più di un semplice riepilogo e catalogo di fatti. I ricordi che i gruppi sociali si tramandano influenzano la nostra identità sia come singoli, sia come comunità e, nel loro complesso, vengono chiamati "memoria collettiva"» (https://www.geopop.it/cose-la-memoria-collettiva-e-perche-abbiamo-bisogno-di-ricordare-insieme/).
Le sentenze della magistratura italiana, e tra queste quelle che hanno riconosciuto la responsabilità di Bellini, assumono un ruolo importante per la faticosa e necessaria ricostruzione di questa memoria collettiva.
Non ci sono quindi solo i misteri e la retorica di una verità inaccessibile, bensì un cammino faticoso ma ostinato per dare nomi alle responsabilità e per aiutarci a comprendere sempre di più le trame oscure della nostra storia (sul tema suggerisco la puntata finale de “Il buco nero”, di Flavio Tranquillo, https://video.sky.it/news/cronaca/video/il-buco-nero-puntata-8-conclusione-886673).
E come non dubitare che processi come quelli istruiti dalle Procure di Bologna e celebrati dalle Corti d’Assise non si sarebbero realizzati senza uffici del Pubblico Ministero davvero indipendenti e al tempo stesso ancorati alla cultura della giurisdizione che caratterizza la magistratura disegnata dalla Corte Costituzionale.
Forse anche questa è una delle tante riflessioni che dovremmo fare, con gratitudine verso quella parte della magistratura che ha assolto il suo compito ma anche sentendoci tutti interpellati da questo diritto-dovere alla verità.