Brasilia, luogo dell’anima, sogno della Democrazia
di Paolo Spaziani
Aeroplano suadente, Uccello in volo, Rapace che si compiace della sua potenza: il sogno di Niemeyer e di Costa si mostra così a chi arriva in aereo.
Compare anzitutto la coda, poi la lunga fusoliera scura, formata dagli edifici governativi, ordinati e diligenti; quindi le ali, che si allargano sui due lati, quasi a turbare il verde del Parque Nacional.
Quando inizia la manovra di atterraggio, il viaggiatore ha la sensazione di planare su una di esse, ma prima che l’aereo scenda di quota, scorge il blu intenso delle acque del Lago do Paranoà, oltre i due settori delle ambasciate e il Congresso Nazionale e, alla fine della Estrada de Turismo, gli sembra di vedere il capo fiero dell’aquila compiacente.
Vi è, al centro del Brasile, un altopiano ove da solo viveva il Silenzio.
Lontano dagli inferni del Mato Grosso e di Amazonas come dai paradisi di Rio e di Bahia.
Non è esatto dire che fosse un luogo disabitato perché tanti luoghi lo sono in Brasile.
Più esatto è dire che era un luogo che non esiste, una discontinuità, un non-luogo.
Ancora più esatto è dire che era un altro-luogo. Una enclave di un altro universo, lo specchio di un’altra dimensione, un luogo dell’anima.
Da esso sgorgavano tre sorgenti.
La prima dava vita al Tocantins (in lingua Tupi vuol dire “Becco del Tucano”), che tra foreste di macchia, piantagioni di soia e praterie verdeggianti, avrebbe raggiunto l’Atlantico a Marajó, quasi sfiorandolo, ma non confondendosi, col maestoso delta dell’Amazonas.
La seconda formava il São Francisco che avrebbe risalito il Nordeste, innamorandosi di Bahia, pur restandone distante, e a Canindé avrebbe creato il canyon naturale più bello del mondo, con arenarie verdi e rosa deterse dal blu cobalto delle sue acque.
La terza, questa verso sud, avrebbe aperto, con il Paranà, la porta del Pantanal misterioso, il regno di sua maestà il Giaguaro (la onça dei Guarani), capace di divorare la Luna, che tornerà, però, più luminosa, sorretta dalle ali indaco degli Ara Giacinto.
Il presidente Kubitschek decise che il luogo dell’anima tra le tre sorgenti non poteva restare in silenzio, essendo il centro del Paese.
Non diventò un luogo, restò un non-luogo, ma il genio di Costa gli tolse il silenzio sostituendolo con le persone, mentre quello di Niemeyer lo riempì di cose ordinate.
Diversamente da qualsiasi altro turista, non raggiunsi questo non-luogo in aereo ma in autobus, respirando la terra rossa della strada del Nordeste.
Provenivo da Aracaju, capitale dello Stato del Sergipe, ove avevo alloggiato in un Hotel a quattro stelle, per concedermi un po’ di relax dopo alcune notti insonni e un viaggio movimentato di rientro a Bahia.
Ma, invece di proseguire per Salvador, avevo approfittato di un passaggio per Canindé, porta del Monumento Natural do Rio Sao Francisco.
A Canindé avevo risalito il Velho Chico sino alle cascate di Paulo Afonso. Lungo il monumento naturale, si transita con piccole imbarcazioni tra budelli di roccia e acque quiete e pulite. Caverne di piscine smeraldo si alternano a spiagge di sabbia chiara ove si trova il comfort di qualche pousada.
In una di queste, poco prima della Cachoeira de Paulo Afonso, un camionista che trasportava legname a Feira de Santana mi aveva offerto un passaggio sulla BR 110. Avevo quindi proseguito in autobus, dapprima verso ovest, sino a Barreiras; quindi a sud, verso il Goiás.
Scorsi l’arco luminoso della capitale del Brasile, dopo avere superato il crinale trapuntato di eucalipti nei pressi della vecchia città di Planaltina.
Dall’alta Torre della Televisione, posta all’inizio dell’Asse Monumentale, non si apprezzava la forma di aeroplano o di uccello rapace, ma l’armoniosa struttura del progetto di Costa dava l’impressione di trovarsi sulla corda di un arco, come una freccia che sta per essere scoccata.
Dall’altra parte dell’Asse Monumentale, in prossimità del lago, le due torri del Congresso Nazionale sembravano l’obiettivo da raggiungere, la mela di Guglielmo Tell.
Viste di lontano, sembravano isolate e autoreferenziali, ma qualcuno mi spiegò che la piazza dove si trovavano, nella testa dell’uccello, si chiama Praça dos Três Poderes.
L’indomani percorsi a piedi l’Asse Monumentale.
Arrivai al Piazzale dei Ministeri nel pomeriggio inoltrato. La calda luce del sole quasi al tramonto fendeva le basse nuvole del cielo del Distrito Federal, arrossate dalla terra alzata dal vento del vicino parco.
Il pomeriggio trascorreva in una luce rossa accesissima, che dipingeva di sé tutta la città.
I sedici palazzi dalla forma cubica sembravano giovani soldati, disposti in una rigorosa adunata. Si volgevano verso di me con la fronte già aggredita dalla prossima oscurità, mentre le fiammate gialle che filtravano dal sole morente ne accendevano il lato che dava sul piazzale, ove si specchiava la corsa disordinata delle auto.
Mi scortarono, come guardie discrete, sino all’ultimo di essi, il Ministero della Giustizia, ove mi accolsero sei piccole cascate artificiali, costruite in ricordo delle molte cascate della regione.
Entrai quindi nella Praça dos Três Poderes, ove ricordai ciò che mi era stato detto la sera prima: accanto alle torri gemelle e alle cupole del sontuoso Congresso Nazionale vidi, sulla sinistra, il Palazzo Planalto, sede dell’esecutivo e, sulla destra, la Corte Suprema, il cui ingresso era presidiato dalla statua, incorruttibile, della Giustizia.
Erano i Tre Poteri, separati e distinti, eppure coesi e amici.
Essi non erano soli. Dinanzi al Palazzo Planaltina, quasi a vigilare sulla loro integrità, apparvero, alteri ma non minacciosi, armati ed inermi, umili ed orgogliosi, i “Guerrieri” di Bruno Giorgi.
Si stagliavano neri, alti ed imponenti nel cielo rosso di Brasilia: erano, ad un tempo, l’inarrivabile beltà dei giovani, l’amore infinito dei fratelli, il fiducioso conforto dell’amicizia, la forza incorruttibile della virtù, la risorsa insopprimibile della solidarietà, la ragione del diritto, l’umanità della giustizia, il Sogno della Democrazia.
Non erano veri guerrieri e le lance stilizzate, non strette ma poggiate sulle loro mani, non erano vere armi ma strumenti di lavoro; erano Os Candangos, gli operai che avevano costruito Brasilia, coloro che avevano realizzato un desiderio e custodito un sogno.