Marìas
di Alessandro Clemente
All’inizio ero un po’ contrariato, forse anche scettico di approcciare ad uno scrittore di lingua spagnola, verso la quale nutrivo infondati pregiudizi.
Andai in libreria per acquistare un libro di un altro autore – non ricordo, forse Saramago, poco importa – ma, non trovandolo, decisi di ripiegare su questo spagnolo il cui nome niente mi diceva. Ero stato incuriosito dal titolo, effettivamente originale, e dal retro di copertina che riportava un entusiastico commento di Pietro Citati, in generale sempre piuttosto severo.
E così, tradendo i dogmatici dettami del Nanni Moretti di “La messa è finita” (“Ma lei, come li sceglie i libri? In base al numero di pagine? Al riassunto in copertina, eh?!”), comprai il mio primo dei tanti libri scritti da Marìas e tradotti in italiano. Anzi, di tutti, avendo negli anni accumulato una copia di tutto ciò che è stato pubblicato a suo nome.
Era, inutile dirlo, “Domani nella battaglia pensa a me”. Accadeva oltre vent’anni fa, c’era ancora la lira e non c’era l’11 settembre. Beh insomma, me lo portai a casa e lo tenni nello studio che condividevo – per studiare, appunto – con mio padre. In quel periodo ristagnavo senza molta convinzione dinanzi ai tre volumi dell’esame di diritto processuale civile, il primo dei quali rimase per alcune mattine – quattro o cinque, ricordo bene – vanamente aperto su una qualche pagina e su un qualche oscuro istituto processuale, essendo io stato rapito dal romanzo.
Trascorsi quelle mattine lasciandomi trasportare da una prosa digressiva, fatta di continui rimandi ai pensieri vorticosi del protagonista che si confondevano con quelli dell’autore, tanto che a un certo punto neanche ricordavo più quale fosse la trama. Che, a dirla tutta, può ridursi davvero a poche decine di pagine (e infatti gli uomini apprezzano Marìas ben poco rispetto alle donne, sue amate lettrici, che lo hanno sempre ripagato venerandolo).
E sarà stato forse un malcelato animo femminile a tradirmi, fatto sta che rimasi fin da subito affascinato da quella prosa rotonda, avvolgente, che accompagnava il lettore inducendolo in uno stato ipnotico ma sempre irrimediabilmente analitico e razionale, lucido e conseguenziale. E quando mi accorgevo che l’autore mi aveva portato un po’ troppo oltre quello che era il topos del romanzo, era ormai troppo tardi: ero caduto nel tranello, mi ero lasciato ammaliare da un incantatore.
Oggi quel libro è in ottime mani. Anche se non ne ho evidenza, ne sono sicuro. Negli anni a venire mi sono accontentato di una copia che ho ricomprato, ma sapete tutti che non è la stessa cosa. Ho compensato anni fa scovando, in un mercatino dell’usato a Barcellona, una copia in lingua originale, che conservo come una reliquia.
Ma insomma, al di là di quel primo libro – e non chiedetemi quale sia il suo libro migliore: quantomeno non fatelo oggi, per pietà – negli anni mi sono accorto che finivo per aspettare trepidante la pubblicazione dei suoi libri quasi come un bambino attende Babbo Natale con i suoi regali. E, senza rendermene conto – proprio come se fossi stato il protagonista di uno dei suoi romanzi – mi sono ritrovato uomo, forse anche un po’ diverso da come ero partito, di certo molto fuori tema rispetto alle premesse esistenziali di uno studente, per giunta anche fuori corso.
E poi, anni dopo, l’ho anche conosciuto. Cioè, non proprio, perché si trattò di assistere dal vivo alla presentazione di un suo romanzo. Ero a Roma per un corso, liquidai tutti i colleghi che mi aspettavano per la cena e mi tuffai nella metro per raggiungere, solo solo, l’Auditorium. Ero tra i primi della fila, c’erano – come detto – molte più donne che uomini. Io rimasi affascinato dall’uomo, cercando per quanto possibile di astrarlo dall’autore. Non era molto alto, ma aveva un portamento che riecheggiava i grandi cavalieri cinquecenteschi, quegli uomini all’antica ma mai fuori moda che sanno sempre come comportarsi, veloci di lingua non meno che di coltello. Indossava una camicia bianca sotto un abito nero, e per me era bellissimo.
Forse, a pensarci bene, io volevo essere Marìas. Meglio ancora, uno dei suoi personaggi, uno di quelli sempre risoluti, attento osservatore della realtà e delle inettitudini umane, fine interprete dell’animo femminile e delle più nefande pulsioni dell’uomo, dalle quali però sapeva sempre tenersi alla larga. Uno di quegli uomini con le idee chiare, sebbene rare volte passassero all’azione.
Non ci sono riuscito, lo ammetto. Parlo troppo, sono irascibile e volubile e soffro una facile cedevolezza sentimentale, oltre quanto si possa tollerare per ambire a rivestire degnamente la parte.
Ma, al di là di questo mio vezzo personale, ammetto che Marìas mi ha reso un uomo migliore di quanto pensassi. Col tempo, inizialmente per gioco fino a farne quasi una inclinazione naturale, ho acquisito una postura che ha cercato e trovato nei suoi personaggi – per quanto così distanti dalle mie ordinarie occupazioni pubbliche e private – un modello di immediata applicazione.
Nella mia mente hanno iniziato ad affollarsi, trovando sempre un ordine mentale in perpetuo movimento, i grandi temi dei suoi romanzi: ecco il segreto, la dissimulazione, l’inganno e il tradimento (quello verso sé stessi, non certo il convenzionale costume borghese del tradimento coniugale). Ecco il dubbio etico, il rimando shakespeariano, il dilemma dell’uomo perennemente in bilico tra l’inerzia e la bramosia di potere, incapace di riconoscere dove finisca la virtuosa prudenza e dove cominci la vergognosa viltà. Ecco la perenne incertezza – che spesso mi coglie di sorpresa nel mio lavoro – su quando bisogna intervenire e quando invece voltarsi dall’altra parte per un presunto interesse superiore, che non sempre è attuale e concreto ma spesso lontano nel tempo, e chissà se mai esisterà davvero. Ecco l’attitudine all’uso della parola digressiva, accompagnando l’interlocutore di turno laddove fin dall’inizio, talvolta con ostentata presunzione, lo si intendeva condurre.
Ora, tutto questo non sparirà, è ormai patrimonio della mia esistenza, invisibile ma non meno presente, e fermamente saldo nella mia vita. Come tutti i suoi libri, alcuni dalle pagine ingiallite, che da oggi conserverò con maggior cura nella mia libreria.
Mi sembrano tutti orfani, e un po’ forse lo sono anch’io.