L’eutanasia al cinema: l’amara dolcezza di Miele
di Antonella Massaro
Sommario: 1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa – 2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico – 2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente” – 3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico – 4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby – 5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato – 6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino – 7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento – 8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale – 9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini – 10. Nuovo prologo?
1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa
Valeria Golino è divenuta, ormai da decenni, tanto uno dei volti più rappresentativi del cinema italiano quanto un’attrice nota al pubblico internazionale (soprattutto nordamericano), riuscendo in un’impresa sempre più rara a mano a mano che si allontanano gli anni d’oro di Anna Magnani e Sophia Loren, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassmann, Claudia Cardinale e Gina Lollobrigida.
Dagli esordi con Lina Wertmüller in Scherzo del destino in agguato dietro l'angolo come un brigante di strada (1983) alla Coppa Volpi con Storia d’amore (1986) di Francesco Maselli, la strada dell’attrice italo-greca si mostra fin da subito in convinta e vertiginosa discesa. Il 1988 è l’anno di Rain man e della “spettacolare” consacrazione accanto a Dustin Hoffman e Tom Cruise, ma tutta la filmografia successiva è caratterizzata da un sapiente alternarsi di ruoli e registri, che offrono una galleria di personaggi indubbiamente poliedrica. Se in Respiro (2002) di Emanuele Crialese confeziona una delle sue interpretazioni più iconiche e indelebili, Valeria Golino compare infatti in una rassegna di titoli ricca ed eterogenea: La ragazza del lago (2006), Caos calmo (2007), La kryptonite nella borsa (2011), Il capitale umano (2013), solo per restare ad alcuni titoli più recenti. Non mancano i film con evidenti “suggestioni giuridiche”. In Giulia non esce la sera (2009) Valeria Golino interpreta il ruolo di una donna in semilibertà dopo una condanna per omicidio, mentre con Come il vento (2013) porta sul grande schermo la storia di Armida Miserere, direttrice di istituti di pena tanto inflessibile quanto fragile, che incrocia alcuni snodi fondamentali della storia italiana più recente.
Il 2013 segna anche l’esordio di Valeria Golino dietro la macchina da presa. La pellicola che la tiene a battesimo da regista è Miele, un film discreto ma potente, con quella “dolce morte” evocata dal titolo che finisce per rivelare tutto il suo amaro retrogusto.
2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico
Il tema dell’eutanasia può essere considerato, senza timore di incorrere in retoriche amplificazioni, come una delle questioni bioetiche più evidenti e significative dell’era contemporanea. L’impressione, tuttavia, è che il tema della “morte per scelta” abbia faticato (e, per certi aspetti, fatichi ancora) a conquistarsi un posto d’onore in quello spazio pubblico di habermasiana memoria che dovrebbe funzionare da trait d’union tra la sfera privata e quella condivisa.
Questa “incerta collocazione” dell’eutanasia, a ben vedere, emerge anche dalla filmografia di riferimento, meno “nutrita” di quanto potrebbe immaginarsi.
All’interno dei film che hanno scelto di confrontarsi con le questioni di fine vita sembra potersi tracciare anzitutto una summa divisio tra quelli in cui l’eutanasia è affrontata come questione privata e quelli in cui la stessa assume la consistenza (anche) di questione pubblica.
Molte pellicole, in effetti, riconducono la “dolce morte” entro il perimetro della pietas individuale, collocandola nell’ambito di storie “private” e di rapporti particolarmente stretti tra chi soffre e chi asseconda la sua volontà di morire. Si pensi, per esempio, ad Amour (2012) di Michael Haneke, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, dove la morte della moglie (Emmanuelle Riva) per mano di suo marito (Jean-Louis Trintignant) imprime un sigillo di eternità a una storia di amore che non si rassegna a cedere sotto il peso della malattia. Anche in Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) la morte di McMurphy (Jack Nicholson) risponde a un atto di pietosa amicizia, con quel cuscino che, come nel film di Haneke, è lo strumento di “fine vita” più casalingo che possa immaginarsi. Nessun processo di scelta consapevole sotto la guida di un medico, nessuna richiesta esplicita e, soprattutto, nessun tribunale: è la legge degli uomini, non importa se giusti o (solo) disperati, che si impone, senza condanne e senza assoluzioni.
Considerazioni in parte analoghe valgono anche per Il paziente inglese (1996) di Antony Minghella e Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, pluripremiate pellicole hollywoodiane nelle quali l’iniezione letale, stavolta richiesta esplicitamente, che pone fine alle sofferenze del conte ungherese László Almásy (Ralph Fiennes) e della campionessa di boxe Maggie Fitzgerald (Hilary Swank), rappresenta solo il tassello di storie più ampie, “magnificenti”, intrise di amore e di passione, che restituiscono ancora più evidente allo spettatore lo scollamento tra una persona che vive e un corpo che non ha più nulla da offrire. Ancora una volta, tuttavia, la scelta tragica di recidere il legame con la vita biologica e quella, forse ancor più dolorosa, di assecondare quella volontà da parte di chi poi resterà a fare i conti con la vita, è rappresentato come un fatto essenzialmente privato.
Ne Le invasioni barbariche (2003), divenuto nell’immaginario collettivo uno dei film “simbolo” in materia di eutanasia, se non altro perché il congedo dalla vita rappresenta non un tassello della storia, ma l’intero mosaico, cambia il registro espressivo, si tenta la via del film corale, ma ancora una volta la riflessione pubblica, politica e giuridica, resta tutto sommato ai margini.
Se si volessero individuare dei lavori cinematografici che, almeno tra quelli più noti al grande pubblico e con uno sguardo privilegiato al panorama italiano, avviano un’autentica riflessione sull’eutanasia nell’ambito di uno spazio pubblico, potrebbero portarsi almeno tre titoli: Mare dentro (2004) di Alejandro Amenábar, Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio e Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto (2015) di Francesco Andreotti e Livia Giunti.
Mare dentro racconta la storia di Ramón Sampedro, interpretato da uno Javier Bardem premiato a Venezia con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Ramón è un pescatore della Galizia che, rimasto tetraplegico a seguito di un tuffo in mare, chiede aiuto per porre fine alla propria vita. Vista l’assenza, nell’ordinamento spagnolo, di una disciplina che gli accordasse il “diritto” di darsi la morte, Ramón porta la sua vicenda personale sul palcoscenico del dibattito pubblico, ottenendo una risonanza mediatica senza precedenti in una Spagna condizionata dal peso di una influenza del pensiero cattolico perennemente in bilico tra la tradizione sedimentata a la zavorra ingombrante. Il monologo di Ramón, poco prima di assumere la sostanza letale che lo condurrà alla morte, è un appello rivolto (anche) ai giudici che si troveranno a valutare gli eventuali profili penali della vicenda, mettendo lucidamente a fuoco i nodi con i quali ogni tentativo di regolamentazione del suicidio assistito è chiamato a confrontarsi: una richiesta “libera, consapevole e attuale”, l’intervento di soggetti terzi limitato al piano meramente materiale e, singolarmente considerato, “causalmente irrilevante”, la diretta assunzione del farmaco letale. Il 17 dicembre 2020 la Camera dei deputati spagnola ha approvato una storica proposta di legge in materia di eutanasia che, tra l’altro, interviene a modificare, attraverso l’introduzione di una causa di non punibilità, la fattispecie codicistica di aiuto al suicidio: la legge è attualmente in attesa dalla approvazione da parte del Senato.
Sebbene la vicenda di Ramón Sampedro risulti per molti aspetti assimilabile, sul versante italiano, a quella di Piergiorgio Welby, se non altro perché entrambi si sono resi alfieri in prima persona, attraverso i loro volti e le loro parole, di quella che consideravano una tanto rilevante quanto urgente partita da giocare sullo scacchiere della civiltà e dei diritti fondamentali, le reazioni registratesi in Spagna fanno il paio con quelle che hanno diviso l’Italia per la vicenda di Eluana Englaro. Le ultime tappe del percorso tenacemente e ostinatamente intrapreso da Beppino Englaro, per liberare sua figlia dal corpo che la teneva imprigionata in un simulacro biologico che nulla aveva a che vedere con la vita, fanno da sfondo alla storia raccontata da Bella addormentata. Il ritratto restituito da Marco Bellocchio è quello di una società in cui i toni del dibattito politico divengono esasperati, per urlare delle sicurezze che, in realtà, si sforzano solo di nascondere macroscopiche e (almeno in parte) insuperabili incertezze. Nelle televisioni che il regista lascia accese durante il film si alternano le parole del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, enfatizzando la “bella presenza” di Eluana e il suo “ciclo mestruale ancora attivo”, innalza il vessillo della verità della vita, e quelle del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, escludendo qualsiasi “monopolio” su questioni tanto complesse, invoca la fiducia e la solidarietà dei cittadini. Le bottigliette d’acqua, le veglie nelle chiese, ma anche i decreti legge per evitare l’interruzione di trattamenti di alimentazione forzata e il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato da Camera e Senato a fronte di una giurisprudenza che, ad avviso di alcuni parlamentari, pretendeva di farsi legislatore[1]. I personaggi di Bellocchio si muovono, si rincorrono, si agitano, si perdono attorno al baricentro offerto dalla “morte di Eluana”, con la fotografia di Daniele Ciprì che rende difficile scorgere una luce capace di fendere le maglie di un buio fitto, di un sonno senza risveglio.
Quanto a Piergiorgio Welby, fino a questo momento il cinema ha raccontato la sua storia attraverso il documentario Love is all, che consegna allo spettatore un suo potente e luminoso “autoritratto”, capace di guardare prima e oltre la malattia. Un intellettuale raffinato, una sensibilità artistica non comune, un attaccamento alla “politica” nel senso più nobile del termine e, soprattutto, il legame con sua moglie Mina: un rapporto talmente profondo e radicato che riesce addirittura a mettere in un angolo la riflessione sulla morte o, meglio, a convertirlo in un discorso sull’amore. Perché, appunto, l’amore è tutto.
2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente”
Miele di Valeria Golino si pone per molti aspetti a mezza via tra le diverse direzioni alle quali si è fatto rapido cenno: il suicidio assistito è certamente osservato in una prospettiva “privata”, ma non mancano le proiezioni su uno scenario più ampio, tanto sociale quanto più strettamente giuridico.
Il film, liberamente ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro-Mauro Covacich, poi ripubblicato con il titolo A nome tuo, è stato presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, dove ha ottenuto una menzione speciale della Giuria Ecumenica.
La storia è quella di Irene (Jasmine Trinca, Nastro d’argento e Globo d’oro come migliore attrice per questa interpretazione), giovane donna che sembra divisa tra le tante incertezze che caratterizzano la sua vita privata a un punto fermo, divenuto l’autentico baricentro sul quale, sia pur a fatica, si regge in equilibrio la sua persona. Attraverso periodici viaggi in Messico, Irene si procura un barbiturico per cani che, opportunamente somministrato, pone fine pressoché instantemente alle sofferenze di chi ne faccia richiesta. Il suo nome di battaglia è “Miele”, come la “dolce” morte di cui diviene angelica portatrice e la “pace” evocata dal suo nome anagrafico. La sua non è tanto e non è solo una missione, ma un vero e proprio lavoro. Indossa una “divisa” prima di procedere, applica delle tariffe per i suoi servizi e, soprattutto, si attiene a un rigido protocollo: il consenso deve essere prestato in forma esplicita e ribadito fino alla assunzione del farmaco letale, cui il “paziente” deve provvedere autonomamente, secondo cadenze che richiamano alla mente quelle del monologo di Ramón in Mare dentro. Si può scegliere anche una musica che faccia da colonna sonora agli ultimi minuti della propria esistenza: il servizio che Miele offre comprende ogni dettaglio che possa “personalizzare” la propria morte.
La sicurezza (apparente) di Irene-Miele è però destinata a disfarsi tanto repentinamente quanto inaspettatamente. La goccia che fa traboccare il vaso è rappresentata dall’incontro con l’ingegner Carlo Grimaldi (un impeccabile Carlo Cecchi). Sembra un malato come tutti gli altri, ma, in realtà, il suo corpo non reca ferite di alcun tipo: è la sua anima che è stanca di vivere e che preferisce uscire di scena senza plateali e scomposti voli dalla finestra, ma in maniera silenziosa, discreta e dignitosa. Miele è spiazzata: mentre urla che il suo compito non è quello di uccidere i depressi, ma di aiutare chi è “realmente” malato, si rende conto di quanto labile ed evanescente possa rivelarsi il confine tra la vita del corpo e quella dell’anima, tra la malattia e la cura, tra la scelta e la disperazione. Più si rinsalda il legame tra Irene e l’ingegnere, più il retrogusto del “miele” diviene amaro, disvelando la possibile illusione ammantata dietro l’etichetta della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché tutti sono sempre in tempo per fermarsi, ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”, ma, forse, solo una decisione da rispettare.
L’esordio alla regia di Valeria Golino, premiata, tra l’altro, con il David di Donatello, il Nastro d’argento e il Globo d’oro, affronta le questioni di fine vita in un momento storico indubbiamente peculiare, almeno per il nostro Paese. Valia Santella, sceneggiatrice del film insieme a Valeria Golino e Francesca Marciano (che torneranno a scrivere insieme per Euforia), racconta come, in un periodo nel quale si parlava ancora poco e qualche volta malvolentieri di eutanasia, la prima esigenza era quella di non confezionare un film che raccontasse (solo) la morte, ma che, anzi, fosse trascinato dalla forza di Irene-Miele e dal suo senso di attaccamento alla vita. Nel 2010, proprio nelle prime fasi di ideazione del film, Mario Monicelli decise di togliersi la vita gettandosi da una finestra dell’Ospedale San Giovanni Addolorata: un episodio che, ricorda Valia Santella, non poteva lasciare indifferenti né come cineasti né come uomini e donne[2].
Dal 2013 sembra che molto sia cambiato, almeno fuori dalle sale cinematografiche. Nel 2017 viene approvata la legge n. 219 e, qualche anno più tardi, il caso di Fabiano Antoniani assesta al dibattito sulle questioni di fine vita una scossa paragonabile a quella relativa alla vicenda di Piergiorgio Welby, chiamando stavolta in causa anche la Corte costituzionale.
3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico
Se i rapporti tra le questioni di fine vita e il diritto penale seguissero le cadenze di un copione cinematografico o, meglio ancora, di un testo teatrale di stampo “tragico”, non sarebbe troppo complesso individuare le scansioni della storia descritta fino a questo momento, con tanto di attori protagonisti (Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Fabiano Antoniani), comprimari che a un certo punto conquistano la scena (Mina Welby, Beppino Englaro, Marco Cappato), una folla di comparse pronte a dividersi in nome di una pretesa verità, giudici chiamati, a volte loro malgrado, a funzionare da deus ex machina per risolvere questioni che non sono solo giuridiche, ma con le quali il diritto non può fare a meno di confrontarsi.
Ripercorrendo quelle storie e, soprattutto, tentando di ripercorrere l’iter giuridico delineatosi fino a questo punto, potrebbero descriversi almeno tre atti e due stasimi (anche se non perfettamente intervallati tra loro), con un esodo solo provvisorio e un nuovo prologo già in corso di rappresentazione.
4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby
Quando la distrofia-fascio-scapolo-omerale, che annienta il corpo, ma lascia intatte le facoltà intellettive, riduce Piergiorgio Welby a una condizione di sofferenza che gli diviene insopportabile, l’unica strada praticabile gli sembra quella di chiedere il distacco del respiratore artificiale, unico legame biologico con la vita dopo un intervento di tracheotomia.
Si delineano quindi i presupposti affinché la vicenda umana e politica di Piergiorgio Welby divenga un caso (anche) giudiziario, attraverso due “fasi” che si avvicendano in rapida successione.
Welby, a fronte del rifiuto opposto da un primo anestesista alla sua richiesta di “lasciarlo morire”, propone ricorso ex art. 700 c.p.c. per ottenere un provvedimento che obblighi il medico a concretizzare la sua volontà di interrompere le cure[3]. In questa occasione il Tribunale di Roma giunge alla spiazzante conclusione secondo cui esisterebbe un diritto del paziente, dotato addirittura di fondamento costituzionale, a ottenere il distacco del respiratore, ma che non può concretamente operare perché privo della necessaria attuazione a livello di legislazione ordinaria[4].
Visto il peggiorare delle proprie condizioni di salute, Welby contatta il dottor Riccio, che accetta di interrompere la respirazione artificiale. A seguito della morte di Piergiorgio Welby si apre un procedimento per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e, malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero, il Giudice per le indagini preliminari ordina di formulare l’imputazione (art. 409 c.p.p.). Il Giudice dell’udienza preliminare dichiara non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. ritenendo che il fatto, pur integrando nei suoi elementi (positivi) la fattispecie di cui all’art. 579 c.p., non sia punibile per la sussistenza della scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.)[5].
A fronte di un esplicito dovere del medico di dar seguito all’interruzione di cure richiesta del paziente, sembra profilarsi con maggiore nitidezza il diritto di quest’ultimo a ottenere la corrispondente prestazione sanitaria. «Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost.»[6]: questa premessa vale anche qualora il rifiuto riguardi terapie salvavita e deve considerarsi operativa non solo nei rapporti tra lo Stato e il cittadino, ma anche in quelli il singolo medico e il paziente[7]. In nessun caso, di conseguenza, si può disattendere la tutela del diritto di autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, che si estende anche all’ipotesi di rifiuto di nuova terapia e a quella (speculare) di interruzione della terapia già iniziata: «[…] il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione»[8]. Si tratta evidentemente di situazioni eccezionali, se si considera quanto l’istinto di conservazione sia radicato nell’essere umano e, soprattutto, si tratta di condotte che, richiedendo specifiche competenze di tipo medico, possono essere poste in essere solo da chi abbia le necessarie competenze mediche per farlo (non anche, per esempio, da un familiare del malato)[9].
5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato
Sebbene il caso di Eluana Englaro non abbia avuto ripercussioni penalistiche, è innegabile che la tappa segnata da quella vicenda evidenzi un approdo sistematico di carattere più ampio e, per certi aspetti, irreversibile.
Quando Beppino Englaro, dopo aver ottenuto l’autorizzazione al distacco del sondino nasograstrico che nutriva artificialmente la figlia Eluana[10], chiede che la Regione Lombardia metta a disposizione una struttura per l’esecuzione del “trattamento” in questione, si scontra con il diniego della Direzione Generale Sanità. Il TAR Lombardia la nota della Regione e il TAR accoglie il ricorso, annullando il provvedimento per aver illegittimamente vulnerato il diritto costituzionale di rifiutare le cure. La Regione Lombardia propone appello al Consiglio di Stato, che però conferma la decisione di primo grado. I giudici di Palazzo Spada rilevano che «a fronte del diritto, involabile, che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure»[11].
Sono dunque gettate le basi affinché il giudice tutelare di Cagliari, nell’ambito del caso Piludu, giungesse de plano ad autorizzare il distacco del respiratore artificiale, previa sedazione, di un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica e capace di confermare al giudice stesso le proprie volontà[12], nell’ambio di una più consapevole “presa di coscienza” della giurisprudenza nazionale.
6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino
Le legge n. 219 del 2017, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento[13], può considerarsi per molti aspetti l’eredità morale di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, suggellata dalla commozione di Emma Bonino nell’Aula del Senato.
Si tratta di una legge che può a buon diritto definirsi “storica”, anzitutto per aver infranto il tabù culturale che ha rappresentato negli ultimi decenni una pesante zavorra ai dibattiti sul tema[14] e in secondo luogo per aver posto fine ai (troppi) dubbi interpretativi registratisi anche su questioni “giuridicamente semplici”.
L’art. 1, rubricato Consenso informato, stabilisce anzitutto al comma 5 che ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, così come ha il diritto di revocare il consenso già prestato, anche se ciò comporti l’interruzione del trattamento: si assiste così alla definitiva parificazione del dissenso opposto a un trattamento non ancora iniziato e quello che interviene a fronte di un trattamento già in corso di esecuzione.
Al fine di risolvere per via legislativa l’annosa questione relativa alla possibilità di ricondurre al genus “trattamento sanitario” anche le tecniche di sostegno vitale[15], si precisa che la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale sono considerati trattamenti sanitari ai fini della nuova legge. Nessun cenno esplicito si rinviene a proposito della ventilazione artificiale, rispetto alla quale, probabilmente, il più consapevole grado di maturazione raggiunto in sede giurisprudenziale non ha reso necessaria una previsione esplicita: le bottigliette d’acqua esposte in segno di protesta per la decisione della Corte di cassazione in riferimento al caso Englaro, forse, costituivano un ricordo più vivido agli occhi del legislatore, fermo restando che un elenco più ampio delle “tecniche di sostegno vitale” da ricondurre al genus “trattamento sanitario” sarebbe stato indubbiamente preferibile sul piano della tecnica legislativa.
Il medico, precisa il successivo comma 6 dell’art. 1, è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario e, in conseguenza di ciò, andrà esente da responsabilità civile o penale. Si precisa poi che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, perché a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali. Il comma 7, infine, stabilisce che nelle situazioni di urgenza il medico assicura le cure necessarie, rispettando la volontà del paziente se le circostanze e le sue condizioni cliniche consentano di acquisirla.
Non è chiara la natura giuridica della causa di esenzione della responsabilità penale del medico che dia seguito alla richiesta del paziente di rifiutare/interrompere il trattamento. Le soluzioni ipotizzabili al riguardo sono essenzialmente due: o si tratta di una causa di giustificazione che rende il fatto scriminato[16] oppure si tratta di una «esenzione del medico dall’obbligo di garanzia»[17], con conseguente esclusione di una condotta penalmente rilevante.
7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento
La vicenda di Fabiano Antoniani torna ad accendere prepotentemente i riflettori sulla scena della rilevanza penale delle pratiche di fine vita, chiamando in causa, stavolta, l’art. 580 c.p.
Fabiano Antoniani (Dj Fabo) è affetto da tetraplegia e cecità bilaterale corticale (dunque permanente) a seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014. Non è autonomo per lo svolgimento delle basilari funzioni vitali (respirazione, evacuazione) né per l’alimentazione. La sua condizione gli cagiona gravi sofferenze fisiche, lasciando per contro inalterate le funzioni intellettive. Dopo il fallimento di numerose terapie riabilitative e presa coscienza dello stato irreversibile della propria condizione, Fabo matura la decisione di porre fine alle sue sofferenze, comunicando ai propri familiari il proposito di darsi la morte. Malgrado i tentativi di dissuasione, portati avanti soprattutto dalla madre e dalla fidanzata di Fabo, il suo proposito diviene sempre più radicato. Il 27 febbraio 2017, presso l’associazione svizzera Dignitas, Fabo trova la morte attraverso una pratica di suicidio assistito. Il giorno successivo Marco Cappato si presenta presso i Carabinieri di Milano, dichiarando di aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, affinché lo stesso potesse concretamente realizzare la propria decisione di darsi la morte.
Sono molte ed evidenti le affinità con il caso Welby. In entrambi le vicende, anzitutto, la malattia era tale da cagionare atroci sofferenze fisiche, lasciando però intatte le facoltà intellettive del paziente. Non è un caso che la lettera scritta da Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano[18] e il suo libro Lasciatemi morire, così come le dichiarazioni rilasciate da Fabo alla trasmissione televisiva Le Iene, abbiano acquisito una specifica valenza probatoria nell’ambito dei rispettivi procedimenti penali.
Sia il “caso Cappato” sia il “caso Riccio”, poi, sono segnati dalla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero procedente, seguita però da un’ordinanza di imputazione coatta pronunciata ex art. 409 c.p.p., a conferma della scarsa chiarezza della normativa di riferimento (e/o dell’imbarazzo delle Procure messe di fronte al tragico dilemma di un “diritto ingiusto”). È diversa però, come anticipato, la fattispecie contestata: per Mario Riccio, che aveva praticato il distacco del respiratore artificiale al quale era legata la vita di Piergiorgio Welby, si era ipotizzata una responsabilità per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), mentre nei confronti di Marco Cappato si sta procedendo per istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), visto che Fabiano Antoniani, mordendo un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale, si è dato la morte “per mano propria”[19].
Posto che il contributo prestato da Marco Cappato poteva rilevare come aiuto materiale al suicidio, la Corte d’Assise di Milano ritiene che la rilevanza penale di condotte come quelle poste in essere nel caso Antoniani presentasse profili di illegittimità costituzionale.
Una delle argomentazioni più significative portate dai giudici milanesi è indubbiamente quella che attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p.[20]. Se sullo sfondo originario della disposizione si individua chiaramente la sacralità/indisponibilità della vita umana in relazione agli obblighi sociali ritenuti preminenti dal regime fascista[21], il principio personalistico che informa la Costituzione repubblicana impone di mettere al centro l’individuo e la sua capacità di autodeterminazione[22]. La Carta fondamentale non prevede un obbligo di curarsi, garantendo anzi a ciascuno il potere di disporre del proprio corpo e ammettendo interventi coattivi sulla salute del singolo solo nei casi eccezionali previsti dalla legge e solo per evitare di creare pericolo per gli altri.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018[23] la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è stato quello di consentire un intervento del Parlamento che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” nei confronti di soggetti che versino in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
La Corte procede, anzitutto, a una “riperimetrazione” della questione di legittimità costituzionale. «L’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[24], ma al verificarsi di certe condizioni una penalizzazione indiscriminata dell’aiuto al suicidio presenta delle innegabili criticità. Il riferimento è, in particolare, a quelle ipotesi «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»[25]. Come avvenuto, per l’appunto, nel caso di Fabiano Antoniani. In queste ipotesi, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.».
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento, pur di innegabile ed evidente rilievo, della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione assimilabile a quella di Fabiano Antoniani: «è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione». Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Poiché un intervento “diretto” della Corte avrebbe lasciato irrisolto qualche nodo che, viceversa, sarebbe stato opportuno affidare al legislatore, i giudici di Palazzo della Consulta “rinviano l’udienza” al 24 settembre 2019, confidando in un segnale del Legislatore.
8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale
Il calendario è giunto a segnare la data del 24 settembre senza che la situazione legislativa avesse subito mutamento alcuno rispetto a quello che la Corte costituzionale aveva considerato “a rischio di legittimità”. Con la sentenza n. 242 del 2019 il Giudice delle Leggi prende atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza»[26]. «In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento», continuano i giudici costituzionali, «questa Corte non può ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018»[27]. Potrebbe pur sempre obiettarsi che in realtà il Legislatore una scelta l’ha compiuta: la legge n. 219 del 2017, infatti, è di pochi mesi antecedenti all’ordinanza n. 207 del 2018 e in quella legge non erano comprese anche le situazioni prese indicate dalla Corte costituzionale[28]. Come a dire: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
La Corte, ad ogni modo, ha ritenuto inascoltato il suo monito e, confermando le premesse della precedente ordinanza, ne ha tratto tutte le necessarie conseguenze, prevenendo a una dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., dichiarandolo illegittimo «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[29].
In assenza di una “procedura” da seguire, era pressoché obbligato il rinvio alla legge n. 219 del 2017. Potrebbe addirittura ritenersi, secondo un’interpretazione che tuttavia, come si cercherà di chiarire, non è quella alla quale si sta ispirando la giurisprudenza successiva all’intervento del Giudice delle Leggi, che la declaratoria di incostituzionalità riguarderebbe esclusivamente l’aiuto al suicidio fornito a favore di soggetti che potrebbero, in alternativa, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari in corso e necessari alla loro sopravvivenza, ma per i quali, come avvenuto per Fabiano Antoniani, la scelta in questione comporterebbe ulteriori sofferenze cui il soggetto non intende sottoporsi[30].
Per quanto riguarda la natura giuridica della “causa di non punibilità” introdotta dalla pronuncia della Corte costituzionale, nelle discussioni antecedenti alla pronuncia è stato evocato-invocato lo schema delle scriminanti procedurali. La categoria delle scriminanti procedurali, come ampiamente noto, è emersa nell’esperienza giuridica tedesca in riferimento alla normativa in materia di interruzione di gravidanza, e si riferisce alla possibilità che un certo fatto sia scriminato in ragione della mera osservanza di una procedura stabilita dalla legge[31]. Si tratterebbe, in buona sostanza, di una via mediana tra il divieto e la liberalizzazione di certe attività[32], a partire da quelle “eticamente pregnanti”.
L’alternativa sarebbe quella di considerare la non punibilità derivante dalla sentenza n. 242 del 2019 come limite di tipicità, derivante da una parziale riscrittura della fattispecie prevista dall’art. 580 c.p.[33]. Si tratta solo di chiarire se ritenere la condotta di aiuto sia atipica o, invece, scriminata comporti reali conseguenze in termini di disciplina; se, altrimenti detto, dalla qualifica di “scriminante procedurale” derivino implicazioni di rilievo, sul piano anzitutto della imputazione soggettiva e, in secondo luogo, del concorso di persone nel reato.
Non sono poi passate inosservate, nella motivazione della sentenza n. 242 del 2019, le “nette” considerazioni in materia di obiezione di coscienza. La Corte precisa che la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere in tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[34].
Con quest’ultima considerazione si torna nuovamente alla dialettica diritto-dovere nelle questioni di fine vita. Come già precisato, un momento di “svolta” è stato certamente rappresentato, prima nei casi Welby ed Englaro, poi con la legge n. 219 del 2017, dal riconoscimento che esiste un diritto del paziente a rifiutare le cure, cui fa da pendant un dovere del medico (e dello Stato) di dar seguito a quella richiesta. L’impressione è quella di un potenziale “disallineamento” della sentenza n. 242 del 2019 rispetto a quanto previsto dalla legge in materia di consenso informato. Non si introduce un dovere del medico analogo a quello che opera quando a venire in considerazione sarebbe la fattispecie più grave di omicidio del consenziente: la richiesta del paziente è “legittima”, ma il medico può decidere liberamente se dare seguito e quella che, più che una pretesa, resta una aspirazione del malato. Il rischio, altrimenti detto, è che il paziente non si veda riconosciuto un “diritto” di essere aiutato a morire, anche quando versi in condizioni che gli consentirebbero di rientrare nell’ambito applicativo della legge n. 219 del 2017 e che, quindi, gli attribuirebbero il diritto (questa volta in senso stretto) di chiedere che altri pongano in essere la condotta dalla quale derivi causalmente la morte.
Si tratta di verificare se la differenza “minima” sul piano naturalistico tra chi, per intendersi, versi in una condizione assimilabile a quella di Piergiorgio Welby e chi invece si trovi in una situazione analoga a quella di Fabiano Antoniani, renda ragionevole una diversificazione nella risposta da parte dell’ordinamento.
9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini
Dopo l’intervento della Corte costituzionale, la Corte d’assise di Milano ha ritenuto di assolvere Marco Cappato con la formula “perché il fatto non sussiste” [35]. I giudici milanesi, pur premurandosi di precisare che la natura giuridica della causa di non punibilità introdotta dalla Corte costituzionale interessi più gli studiosi del diritto penale che gli operatori del diritto, finiscono in realtà per testimoniare quanto di “concreto” si celi dietro quella disputa. Si precisa anzitutto che la Corte costituzionale non ha chiarito esplicitamente se la non punibilità debba intendersi «come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice […] ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante». Tra i due poli dell’alternativa, i giudici milanesi ritengono che la pronuncia della Consulta abbia comportato una «riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie», anche perché «l’affermazione di non punibilità» inciderebbe in ogni caso sul piano oggettivo, posto che le cause di giustificazione operano come «elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo». Anche se i giudici evitano accuratamente ogni riferimento terminologico ai concetti di “tipicità” e di “antigiuridicità”, utilizzando altresì (impropriamente) il concetto di “fattispecie” come sinonimo di “fatto”, i passaggi argomentativi in questione si avvicinano significativamente alle cadenze della bipartizione quando si regala una seconda giovinezza all’anacronistica (ma convincente) categoria degli elementi negativi. Il vero punto debole della motivazione sta nella conclusione, dove si afferma che anche secondo la teoria tripartita la formula di assoluzione da adottare in presenza di una scriminante sarebbe quella di insussistenza del fatto. In realtà, in presenza di una scriminante, e a fortiori muovendosi nell’ottica della tripartizione, la formula assolutoria tradizionale e ormai sufficientemente consolidata in giurisprudenza è “il fatto non costituisce reato”.
L’altra vicenda che restava “sospesa” in attesa che la Corte costituzionale si pronunciasse era quella relativa alla morte di Davide Trentini, che vede imputato lo stesso Marco Cappato, insieme a Mina Welby.
Davide Trentini è malato di sclerosi multipla, manifestatasi nel 1993. Se nei primi anni riesce a tenerla sotto controllo, gradualmente la malattia diviene progressiva e non remittente: avanza lentamente ma inesorabilmente, rendendo impossibile ogni recupero e determinando delle condizioni sempre più dolorose. Trentini ha bisogno di aiuto per alzarsi dal letto o fare la doccia, la sua marcia diviene progressivamente atassica e paraparetica costringendolo a servirsi di un deambulatore, cade spesso (una volta fratturandosi le costole e la clavicola) e inizia a soffrire di dolori che assumono con il tempo una intensità tale da risultargli insopportabili. Le più potenti terapie del dolore non riescono a procuragli alcun sollievo, sia pur momentaneo: “sei ridotto a un punto che se ti copri con il lenzuolo senti dolore”, osserva un medico constatando la sua impotenza di fronte a quelle sofferenze.
Davide Trentini, nel 2015, inizia a maturare l’ipotesi del suicidio. Ne parla con i suoi familiari e con la sua ex compagna, mostrandosi fermo nel proposito di porre fine a quelle sofferenze mediante una morte procurata. Sebbene si tratti di una soluzione materialmente praticabile, non vuole però suicidarsi buttandosi dalla finestra della propria abitazione, non solo perché, data l’altezza poco considerevole, non è sicuro di riuscire nel proprio intento, ma anche (e forse soprattutto) perché ritiene di meritare una morte dignitosa, senza doversi sottoporre a ulteriori e intollerabili sofferenze.
Per queste ragioni Trentini, dopo aver preso informazioni attraverso dei siti Internet, decide di rivolgersi a strutture sanitarie operanti in Svizzera, presso le quali si pongono in essere pratiche di suicidio assistito. Entra anche in contatto con l’associazione Soccorso Civile, di cui fanno parte Marco Cappato e Mina Welby, che ha come scopo proprio quello di aiutare coloro che intendano recarsi all’estero per ottenere l’assistenza a una morte volontaria. Trentini contatta una prima struttura, sebbene Cappato la consideri poco affidabile. Cappato, in ogni caso, indice una raccolta pubblica di fondi per aiutare Davide a coprire, sia pur in minima parte, le spese del suicidio assistito. Quando le autorità svizzere ordinano la sospensione delle attività di quella struttura, Trentini, di nuovo, pensa di procurarsi la morte da solo qualora non riesca a trovare una alternativa in tempi ragionevolmente brevi. Cappato e Welby contattano allora la clinica Lifecircle, riuscendo ad accelerare la procedura e procurando parte della documentazione necessaria. Welby, poi, lo accompagna nel viaggio in ambulanza verso la Svizzera e fa da traduttrice (dall’italiano al tedesco e viceversa) degli atti e dei colloqui tra Trentini e i medici.
Cappato, pur avendo constatato personalmente le condizioni di sofferenza e di dolore di Trentini, tenta in più occasioni di distoglierlo dai propri propositi di suicidari, anche coinvolgendolo in attività politiche volte a diffondere sull’intero territorio nazionale quella cannabis terapeutica dalla quale, ormai, Davide non riesce più a trarre sufficiente sollievo.
Welby racconta di fronte alla Corte la vicenda che ha visto protagonista suo marito Piergiorgio, spiegando che aver aiutato Trentini era stato come “risarcire il dolore” che Piergiorgio stesso aveva provato: solo dopo il distacco del respiratore artificiale Mina era stata davvero consapevole degli atroci dolori che avevano trafitto il corpo del marito, rimproverandosi di non aver anticipato, anche solo di qualche giorno, quella morte che lui implorava da tempo[36]. Ciò nonostante, Mina Welby aveva provato più volte, anche la mattina della partenza per la Svizzera, a convincere Trentini a desistere dal suo intento.
Il 13 aprile 2017, dopo aver nuovamente verificato la fermezza del suo proposito, viene applicata la flebo che, attraverso un meccanismo azionato dallo stesso Trentini, inietta il farmaco necessario a causarne la morte.
La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, precisano i giudici, non si risolve necessariamente ed esclusivamente nella dipendenza da una macchina, come avveniva per Fabiano Antoniani: «non si deve confondere il caso concreto da cui è originata la pronuncia della Corte costituzionale con la regula iuris che la Consulta ha codificato».
Anche attraverso il riferimento alla legge n. 219 del 2017 e, in particolare, ai trattamenti che la stessa consente al malato di rifiutare[37], il requisito indicato dalla Corte costituzionale sarebbe comprensivo di «qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici». Il trattamento di sostegno vitale, in conclusione, si identifica con «qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida»: questa definizione si presta a comprendere i casi in cui la possibilità di continuare a vivere dipenda non solo dal funzionamento di un macchinario medico, ma anche dalla prosecuzione di una terapia farmacologica o, più in generale, dalla necessità di assistenza sanitaria.
Il requisito individuato dalla Corte costituzionale, allora, è ravvisabile nel caso Trentini (o, almeno, hanno cura di precisare i giudici di Massa, sussiste il dubbio sulla sua sussistenza), anche prescindendo dalle informazioni acquisite tramite la consulenza del dottor Riccio.
Trentini non era autonomo nei suoi bisogni vitali: la sua situazione era quella di chi, per continuare a vivere, «dipendeva da un’altra persona» che lo aiutasse a muoversi, a mangiare, ad andare in bagno. Se una persona dipende «da altri (siano essi persone o cose)» per il soddisfacimento dei propri bisogni vitali, allora il requisito richiesto dalla Corte costituzionale può considerarsi integrato.
Per supportare queste conclusioni, i giudici di Massa attingono però allo strumentario messo a disposizione dall’estensione analogica. Trattandosi di una causa di giustificazione, infatti, non sussisterebbero particolari dubbi sulla possibilità di estenderla in bonam partem sulla base della identità di ratio.
Si tratta, indubbiamente, dello snodo argomentativo più problematico della pronuncia, soprattutto perché non indispensabile per pervenire all’esito assolutorio che i giudici intendono motivare. Nel caso di Davide Trentini, in effetti, la “generosa” terapia farmacologica alla quale lo stesso risultava sottoposto, con dosaggi al limite della umana tollerabilità, sarebbe bastata a ritenere integrato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale per via “fisiologicamente interpretativa”, senza cioè ricorrere alla forzatura dell’estensione analogica.
Il riferimento alla mera dipendenza da un’altra persona che, a questo punto, potrebbe valere a integrare l’elemento costitutivo della causa di non punibilità anche in assenza (non solo di macchinari, ma anche) di una terapia farmacologica così invasiva come quella somministrata a Davide Trentini, offrirebbe una definizione del requisito in questione talmente slabbrata da risultare pressoché onnicomprensiva.
Muovendo da queste premesse, quella proposta dal Corte d’Assise di Massa sembra assumere la consistenza non tanto di una “lettura ampia”, quanto piuttosto di una sostanziale interpretatio abrogans di uno dei requisiti individuati dalla Corte costituzionale. In presenza di una patologia irreversibile, che cagioni al malato una grave sofferenza fisica o psicologica che lo stesso considera intollerabili, è giocoforza ritenere sussistente una generica dipendenza da “persone o cose”, qualora si accedesse alla definizione così “estesa” suggerita dai giudici del caso Trentini.
Potrebbe osservarsi che una cosa è un paziente per il quale l’evacuazione manuale è il solo modo per evitare una ischemia e una perforazione intestinale, cosa diversa è necessitare di un deambulatore per spostarsi o di un aiuto per entrare nella doccia. Se, tuttavia, si rinuncia (perché in effetti è pressoché impossibile individuarli) a requisiti che consentano di graduare, in via preventiva e astratta, il concetto di dipendenza, tutto si riduce a un generico bisogno di cose o persone per i propri bisogni quotidiani.
Il requisito della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale, altrimenti detto, perderebbe ogni capacità di “filtro selettivo”: la descrizione della causa di non punibilità ex art. 580 c.p. resta affidata agli altri requisiti che compongono la “tetralogia” individuata dalla Corte costituzionale, con particolare riguardo al carattere irreversibile della malattia e alle sofferenze intollerabili che la stessa procura al malato. Se sussistono questi elementi, come già precisato, la “dipendenza da persone o cose” deve considerarsi sostanzialmente in re ipsa, risultando assai complesso ipotizzare casi in cui, in presenza di condizioni patologiche caratterizzate da un così elevato grado di intensità, ai fini della permanenza in vita del soggetto non si renda necessario un aiuto materiale derivante da “cose o persone”.
10. Nuovo prologo?
Senza avventurarsi per i sentieri irti e insidiosi della profezia, si può e si deve certamente muovere dall’appello proposto nei confronti della sentenza di Massa, che lascia presagire la provvisorietà dell’esito cui ha finora condotto il caso Trentini. Potrebbe immaginarsi un intervento chiarificatore della Corte di cassazione, che fino a questo momento non è stata chiamata a pronunciarsi ex professo sulla rilevanza penale delle pratiche di fine vita o, magari, potrebbe ipotizzarsi una nuova questione di legittimità costituzionale, per verificare se e fino a che punto si possa superare in maniera decisa (e decisiva) l’approdo cui ha condotto il caso Cappato.
Non sembra “temerario”, poi, immaginare un rinnovato interesse del cinema per questioni che necessitano di essere alimentate anche dalla linfa vitale del dibattito pubblico, soprattutto al fine di superare qualche tabù terminologico e tante remore socio-culturali. La storia di Piergiorgio e Mina Welby, per esempio, è troppo potente per restare strozzata dagli angusti lacci della prosa giuridica: il cinema di finzione, allora, potrebbe raccontare quella storia d’amore che a molti, me compresa, ha consentito di comprendere pienamente le difficoltà di una materia per troppo tempo sottratta al privilegio di una riflessione giuridica ampia e condivisa, mettendo a nudo, al tempo stesso, l’ineliminabile tendenza a complicare anche i “casi” più semplici o che, almeno, risultano tali allo sguardo di chi abbia la possibilità e la voglia di osservarli senza pre-giudizio.
[1] Le reazioni politiche successive alla decisione con cui la Corte di cassazione autorizzava, di fatto, il distacco del sondino naso-gastrico di Eluana Englaro, a seguito di una richiesta in tal senso da parte di Beppino Englaro, sono efficacemente ricostruite da G. Pistorio, La riaffermazione della viva vox constitutionis nel caso Englaro. Spunti di riflessione a dieci anni dall’inizio della vicenda, in Questioni di fine vita, a cura di M. Sinisi, N. Posteraro, Roma TrE-Press, 2020, 69 ss., che parla, senza mezzi termini, di «[u]n potere politico impazzito. Reazioni aberranti. Iniziative illogiche e irrazionali».
[2] Le considerazioni di Valia Santella cui si è fatto riferimento nel testo, oltre ad essere reperibili in diverse interviste rese dalla sceneggiatrice, sono tratte dalle sue conversazioni con gli studenti di Diritto penale al cinema, attività formativa di cui sono titolare presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” e durante la quale ho più volte proiettato il film Miele.
[3] Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006, in Corr. mer., 4/2007, 461 ss., con Il Commento di G. Casaburi.
[4] Trib. Roma, 16 dicembre 2006, cit.: «il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente […], ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento».
[5] Trib. Roma, 23 luglio 2007, in Dir. pen. proc., 1/2008, 59 ss., con nota di A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. In argomento v. anche M. Donini, Il caso Welby e le tentazioni di uno spazio libero dal diritto, in Cass. pen., 3/2007, 902 ss.; F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e “attivismo giudiziale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, 1594 ss.; S. Seminara, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 12/2007, 1561 ss.; C. Cupelli, Il diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico (di non perseverare), in Cass. pen., 5/2008, 1791 ss.; O. Di Giovine, Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica, Torino, 2009, 9 ss.; L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008, 25 ss.
[6] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[7] Ibidem.
[8] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 63.
[9] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[10] App. Milano, I sez. civ., 25 giugno 2008.
[11] Cons. Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 44600, in Nuova giur. civ. comm., 1/2015, con nota di E. Palermo Fabris, Risvolti penalistici di una sentenza coraggiosa: Il Consiglio di Stato si pronuncia sul caso Englaro. Il Tar Lombardia, 6 aprile 2016, n. 650, ha condannato la Regione al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la decisione di impedire l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale.
[12] Walter Piludu, ex Presidente della Provincia di Cagliari, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, si trova tracheotomizzato e alimentato per via artificiale, conservando inalterate le proprie facoltà intellettive. Il 31 maggio 2016 l’amministratore di sostegno di Piludu presenta al Tribunale di Cagliari una richiesta volta a ottenere il distacco degli strumenti di sostegno vitale, dopo aver manifestato per iscritto la propria volontà in tal senso. Il giudice, durante una visita a domicilio, ha modo di accertare la persistente attualità della decisione del paziente, accogliendo di conseguenza la richiesta presentata dall’amministratore di sostegno: Trib Cagliari, 16 luglio 2016, in Resp. civ. e prev., 3/2017, 910, con nota di A. Pisu, Quando il “bene della vita” è la morte, una buona morte. V. anche C. Magnani, Il caso Walter Piludu: la libertà del malato di interrompere terapie salva-vita, in Forum costituzionale, 8 dicembre 2016.
[13] Con particolare riguardo alla prospettiva penalistica S. Canestrari, Una buona legge buona (DDL recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), in Riv. it. med. leg., 1/2017, 975 ss.; C. Cupelli, Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: risvolti penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 12/2017, 123 ss.; P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in www.penalecontemporaneo.it, 22 maggio 2018, 5 ss.; A. Esposito, Non solo “biotestamento”: la prima legge italiana sul fine vita, tra aperture coraggiose e prospettive temerarie in chiave penalistica, in Cass. pen., 5/2018, 1815 ss.
[14] Sulla dimensione pregiuridica dell’eutanasia e sugli inevitabili condizionamenti di tipo morale e culturale che subisce una trattazione “tecnica” della questione F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 75.
[15] Per tutti L. d’Avack, Fine vita e rifiuto di cure: profili penalistici. Il rifiuto delle cure del paziente in stato di incoscienza, in Trattato di Biodiritto, cit., 1929 ss., ad avviso del quale la prosecuzione forzata di pratiche di alimentazione e idratazione artificiali, indipendentemente dall’applicabilità dell’art. 32 Cost., sarebbe risultata contraria all’art. 13 Cost.
[16] P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita, cit., 8: «l’irrilevanza penale prevista dall'art 1, comma 6, è però all’evidenza normativamente costruita quale scriminante».
[17] F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 1016. Anche F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 91, in riferimento alla “mera interruzione della terapia” (non, invece, alla disattivazione di macchine che tengono in vita il paziente), ritiene che quando il malato esercita il suo diritto di morire, la sua richiesta fa cessare l’obbligo giuridico di agire del medico, rappresentando anzi «limite al dovere di curare del medico».
[18] Il testo integrale della lettera è disponibile, tra l’altro, sul sito www.lucacoscioni.it.
[19] V. sul punto le considerazioni di F. Mantovani, Suicidio assistito: aiuto al suicidio od omicidio del consenziente?, in Giust. pen., 2017, II, 38, ad avviso del quale la distinzione tra omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio viene fatta dipendere dal dato, marginale e fungibile, dell’attivazione del dispositivo “letale” da un soggetto terzo o del morituro.
[20] Il tema del danno e, di conseguenza, quello del paternalismo penale evoca necessariamente la questione teorica del bene giuridico e del principio di necessaria offensività: G. Forti, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 288-289.
[21] Per tutti O. Vannini, Delitti contro la vita, Milano, 1946, 117-118, il quale riteneva che l’art. 579 c.p. fosse «fuori posto nell’ordine sistematico del codice» perché, più che un delitto contro la persona, doveva considerarsi un delitto volto a tutela l’interesse statale alla potenza demografica della Nazione. L’omicidio del consenziente «colpisce un bene che è nella persona, ma non è più della persona»: il soggetto passivo non è l’individuo, ma lo Stato e l’uomo diviene dunque mero oggetto materiale del reato.
[22] Ass. Milano, ord. 14 febbraio 2018, cit., 7.
[23] Sulla quale v. i contributi raccolti nel volume Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini, C. Cupelli, ESI, 2019.
[24] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[25] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[26] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 3 del Considerato in diritto.
[27] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 4 del Considerato in diritto.
[28] L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzione, in Il caso Cappato, cit., 131.
[29] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, PQM.
[30] Ibidem.
[31] W. Hassemer, Prozedurale Rechtfertigungen, in Strafen im Rechtsstaat, Nomos, 2000, 109 ss; M. Romano, Cause di giustificazione procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1269 ss.; A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato, ESI, 2018, spec. 69 ss.; S. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bononia University Press, 2008, 279 ss.
[32] M. Donini, Il caso Welby, cit., 908.
[33] Cfr. M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione “non penalistica” della Corte costituzionale di fronte a una trilogia inevitabile, in Il caso Cappato, cit., 128, sebbene in riferimento alla possibile introduzione, per via legislativa, di una causa di non punibilità sostanzialmente equivalente a quella che deriva dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: «[s]e poi qualche raffinato esegeta volesse dire che in una disciplina come questa il fatto è del tutto atipico, ciò confermerebbe l’esistenza di misteri gaudiosi del tecnicismo giuridico, ma la sostanza resta scriminante».
[34] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 6 del Considerato in diritto.
[35] Ass. Milano, 20 gennaio 2020, n. 8, in Giurisprudenza penale web, 30 gennaio 2020.
[36] Sul caso Welby, amplius, A. Massaro, Questioni di fine vita e diritto penale, Giappichelli, 2020,17 ss.
[37] Sulla diversità di ratio delle disposizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 rispetto alle questioni poste dal suicidio assistito, v., ancora, M. Donini, Libera nos a malo, cit., 223.