Cosa si intende quando si parla di soggetto moderno?
Il soggetto moderno è – essenzialmente – un Io desiderante, autocosciente, capace di autodeterminarsi, dotato di autonomia morale, della capacità di scegliere, di fabbricarsi un destino da sé.
Questo Io non si forma subito nella storia.
La stessa parola soggetto rivela qualcosa della sua faticosa emersione nella vita dello spirito, il soggetto è colui che sta sotto, la radice è latina, è il sub-iacere che lo connota alle origini, la storia del soggetto è la storia della sua lenta e poi prorompente emersione.
La storia del diritto moderno è essenzialmente storia di questa emersione.
L’intreccio fra queste dimensioni è illustrato in modo affascinante nel recente e ricchissimo libro di Donato Carusi “Sua maestà legge? Tre secoli di potere, diritto e letteratura”, un docente di diritto civile presso l’Università di Genova convinto che la letteratura sia un “insostituibile fattore di promozione del diritto” come anche è vero – all’inverso - che la vita giuridica è costantemente oggetto di attenzione da parte di poeti e romanzieri (magari per mostrane il lato oscuro) del che il libro dà ampiamente prova.
Gli studi di diritto e letteratura sono parte dei c.d. Critical Studies sorti nell’ambito delle facoltà statunitensi.
Ovviamente la common law – con la sua natura casistico problematica – è terreno d’elezione per l’innesto di cases tratti dalla vita letteraria.
Non solo un movimento di amanti del giallo e di poeti mancati (come argutamente dice Carusi) ma un “sano anche se vago impulso all’interdisciplinarietà”. Si può aggiungere una metodologia di approccio agli studi giuridici tesa a valorizzarne il retroterra basato sugli studi umanistici spesso unica chiave per fare emergere la densità semantica delle parole della legge (parole che hanno sempre dietro una storia e delle speranze come delle concrete sofferenze).
In Gargantua e Pantagruele il giudice Brigliadoca decide le cause gettando i dadi.
Rabelais voleva senz’altro mostrarci la sua sfiducia nella giustizia umana più che nei giudici.
Borges ripeterà la fantasia nella Lotteria di Babele che organizza un principio di giustizia sociale sul gioco della lotteria e sul caso che rovescia le fortune; evidentemente sul presupposto della fallacia di ogni tentativo arrogante di giustizia umana.
L’impossibilità di un giudizio senza misericordia è testimoniata dal passo del Don Chisciotte sul responso di Sancio Pancia giudice in un remoto lembo di mondo, compulsato da un messaggero:
Signore, un largo fiume divideva due province d'un medesimo stato.
Stia bene attenta la Signoria Vostra, perché il caso è di grande importanza e un po' difficile.
Dico dunque che sopra questo fiume c'era un ponte, e in cima a questo ponte una forca e un tribunale, dove di solito stavano quattro giudici, che giudicavano secondo la legge fatta dal padrone del fiume, del ponte e dello stato; la qual legge era cosi formulata:
"Se uno passa su questo ponte da una riva all'altra, deve prima dichiarare con giuramento dove va e quel che va a fare. Se giura il vero, sia lasciato passare, ma se mente, sia impiccato sulla forca qui inalzata senza alcuna remissione".
Conosciuta questa legge e la rigorosa condizione, molti passavano lo stesso, perché dopo che s'era riscontrato che quanto dichiaravano sotto giuramento era perfettamente vero, i giudici li lasciavano passare liberamente.
Ora accadde una volta che un tale, invitato a giurare, giurò e disse:
"Giuro che passo di qui per andare a morire su quella forca laggiù,e non per altra ragione".
I giudici rifletterono a questo giuramento e dissero:
"Se quest'uomo lo lasciamo passare liberamente, ha giurato il falso e secondo la legge deve morire; ma se noi l'appicchiamo, siccome egli ha giurato che passava per andare a morire su quella forca, allora ha detto verità, e secondo la stessa legge, avendo giurato la verità, deve esser lasciato il libero".
Ora, si domanda alla Signoria Vostra, signor governatore, che cosa faranno i giudici di quest'uomo? Poiché essi sono ancora lì, incerti e dubitosi. Siccome son venuti a conoscere l'acuta ed elevata intelligenza della Signoria Vostra, mi hanno inviato a supplicarla da parte loro a voler dare il suo parere in un caso cosi intricato e dubbio.
-Quei signori giudici avrebbero potuto risparmiarsi l'incomodo -rispose Sancio- perché io son uomo più rozzo che fino. Tuttavia, ripetetemi il caso in maniera che lo intenda bene, e chissà che non possa dar nel segno.
L'inviato ripeté un'altra volta e poi un'altra ancora il racconto, e Sancio finalmente disse:
-A parer mio, questo caso si risolve in due battute, e precisamente così. Quell'uomo giura che passa per andare a morire sulla forca, non è vero? E se egli ci muore veramente, avrà detta la verità, e in virtù della legge merita d'esser lasciato libero e di passare il ponte. Ma se non l'appiccano, egli avrà spergiurato e, sempre in virtù della medesima legge, meriterà d'essere appeso alla forca: non è cosi?
-Benissimo- riprese il messaggero. -Ella, signor governatore, ha interamente capito come stanno le cose, e non c'è più alcun dubbio, né più nulla da domandare.
-Ebbene- replicò Sancio -la mia opinione è che, di quell'uomo, la parte che ha detto la verità si debba lasciar passare, e quella che ha mentito sia impiccata. Cosi saranno letteralmente rispettate le condizioni del passaggio.
-Ma, signor governatore- replicò l'altro, allora bisognerebbe dividere quell'uomo in due parti, la sincera e la bugiarda; e se si dividesse davvero, bisognerebbe che morisse per forza; e quindi non si otterrebbe nulla di quello che esige la legge e che deve essere inesorabilmente eseguito.
-O sentite un po', brav'uomo- riprese Sancio -questo passeggero di cui mi parlate, o io sono una bestia, o tanto è giusto che muoia come che viva e passi il ponte. Perché se la verità lo salva, la menzogna lo condanna, e quindi il mio parere è che rispondiate a quei signori che vi hanno mandato, che siccome le ragioni di condanna e di assoluzione qui si bilanciano, lo lascino passare liberamente, perché è sempre meglio far del bene che del male; e questo lo sottoscriverei di mio pugno, se sapessi firmare. Ma, per dire il vero, in questo caso non ho parlato di mia testa; ma m'è tornato in mente un avvertimento che insieme con molti altri mi dette il signor Don Chisciotte la sera avanti che partissi per venire a prendere il governo di quest'isola. E l'avvertimento fu: che quando la giustizia non fosse chiara, mi piegassi e mi appigliassi alla misericordia. Dio ha voluto che in questo momento me ne ricordassi, perché qui l'avvertimento calza come un guanto.
-Oh, sì!- disse il maggiordomo -e per conto mio credo che lo stesso Licurgo, che dette le leggi agli Spartani, non avrebbe potuto dare miglior sentenza di quella che ha data il gran Sancio. E qui per stamani mettiamo fine all'udienza.
Rabelais e Cervantes esprimono bene la diffidenza e l’insofferenza della società medievale al tramonto verso il diritto comune europeo.
Anche Swift usa la sferza:
Dissi che c’era tra noi una categoria di persone educate sin dalla giovinezza nell’arte di dimostrare con parole moltiplicate per lo scopo che il bianco è nero, e il nero è bianco, secondo come erano pagate. Tutto il resto della popolazione è schiavo di questo gruppo.
«Per esempio: se al mio vicino salta in mente di prendersi la mia vacca, assolda un legale per dimostrare la fondatezza delle sue pretese. lo devo allora assoldarne un altro per difendere il mio diritto, perché sarebbe contro ogni norma di legge che a un uomo sia concesso di parlare a propria difesa. Ora, in questo caso, io che sono il giusto proprietario mi trovo di fronte a due grandi svantaggi. Innanzi tutto, essendo il mio avvocato abituato quasi fin dalla culla a difendere la menzogna, egli si trova del tutto fuori del proprio elemento ove voglia essere il difensore della giustizia, che come compito innaturale egli affronta sempre con grande disagio, se non con riluttanza. Il secondo svantaggio consiste nel fatto che il mio legale deve procedere con grande cautela, altrimenti sarà ripreso dai giudici e aborrito dai confratelli come uno che voglia sminuire l’esercizio della legge. E perciò mi restano soltanto due metodi per conservare la mia vacca. Il primo consiste nel comperare l’avvocato del mio avversario con un doppio onorario, e allora egli tradirà il suo cliente insinuando che la giustizia è dalla sua parte. La seconda via consiste, per il mio legale, nel far si che la mia causa appaia quanto più ingiusta possibile, ammettendo che la vacca appartiene al mio avversario; e questo, se abilmente fatto, assicurerà certamente il favore della corte.
Ora, Vostro Onore deve sapere che questi giudici sono persone incaricate di decidere tutte le controversie della proprietà cosi come i processi dei criminali, e sono scelti tra gli avvocati più abili divenuti vecchi o pigri; ed essendo questi stati inclini per tutta la vita ad agire contro la verità e l’equità, si trovano a tal punto nella fatale necessità di favorire la frode, lo spergiuro e l’oppressione, che alcuni di loro da me conosciuti hanno rifiutato una grossa somma dalla parte che era nel giusto pur di non recare ingiuria alla Facoltà facendo una cosa disdicevole alla loro natura e al loro ufficio.»
I giuristi non godono di buona letteratura e gli avvocati ed i giudici di Swift sono i predecessori dell’Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi.
Donato Carusi si chiede le ragioni di tanto astio e conclude argutamente che la “storia della letteratura pullula di grandi autori che prima di essere tali furono avviati a studi giuridici” senza entusiasmo, studi abbandonati con un senso di liberazione ( fra questi Balzac, Proust, Kafka e Marquez ).
Può essere che vi siano ragioni biografiche dell’astio, anche ricorrenti.
Ma il punto è – lo ammette anche Donati - che il diritto nasce per limitare il potere ma spesso si trasforma nel suo strumento.
Questa ambiguità costitutiva del diritto deve essere presente alla coscienza dei giuristi perché essi possano svolgere il loro lavoro con qualche antidoto, a garanzia dell’autodeterminazione del soggetto moderno e non della sua oppressione.
Un errore da non compiere assolutamente è poi pensare che il diritto sia il centro del mondo.
Mentre il diritto si comprende bene quando non si è solo giuristi ma anche un po' filosofi, letterati, sociologi, economisti e perfino un po' medici o epistemologi.
L’eclettismo fa bene al giurista purché non sia all’insegna del fai da te ma del confronto con le scienze ed i saperi di ogni epoca.
Il processo amministrativo aperto allo scrutinio della discrezionalità tecnica è una scommessa aperta in questo senso.
Né può dirsi che il diritto con il suo formalismo sia nemico della cultura.
Ne è anzi uno strumento di essenziale promozione e protezione.
Piuttosto è vero il contrario i giuristi (spesso temperamenti pedanti) sono sensibili alla cultura, alla letteratura ed all’arte mentre gli spiriti artistici disdegnano il diritto a sensazione, senza forse nemmeno del tutto conoscerlo (nota Donati e si deve ammettere che ci sia della ragione in questa notazione).
Il diritto ha anche spesso la tentazione di chiudersi nella sua autosufficienza (la dottrina pure del diritto come reazione difensiva in tempi difficili di avvento dei totalitarismi) ma sempre profondo ed ineliminabile è il rapporto fra il diritto e la storia (come crocianamente fra la storia e l’arte e quindi alla fine fra diritto ed arte). Tutto ciò Kelsen lo sapeva assai meglio di certi kelseniani di vedute ristrette.
Kelsen infatti scrive su Dante Alighieri per andare a fondo nello studio delle origini dello Stato.
E tanto questo è vero che sino ad oggi questo rapporto non si è perso : Calamandrei, Betti, Pugliatti, Cordero, Rescigno e Zagrebelsky sono maestri radicati nell’umanesimo che costituisce la prima radice degli studi giuridici.
A parte sta Salvatore Satta che ha tenuto insieme il diritto e l’arte del romanziere, non senza che la seconda forse ne soffrisse per emergere ed essere riconosciuta quasi che al giurista a tutto tondo non convegna essere anche un artista.
Ma certamente questo nesso fra il diritto e la letteratura serve a promuovere la coscienza della centralità del Soggetto moderno come uomo che anela alla bellezza ed alla felicità attraverso istituzioni decenti.
Inoltre il mantenimento di tale nesso può far conoscere il diritto praticato in altri tempi o in altre società e contesti culturali e geografici, può far sviluppare la fantasia facoltà utile per comprendere cosa sta dietro le “fredde carte” di un processo, ricorda perennemente cosa sia un principio universale di giustizia, come anelito ed attività adeguata all’uomo (il sabato è per l’uomo non l’uomo per il sabato); ricorda che non esiste una sola idea di giustizia ma tante idee quante società che la coltivano, abituando al pluralismo dei valori ed ad un relativismo non nichilistico.
Ricorda Carusi che ciascuna di queste ragioni per studiare le relazioni fra diritto e letteratura è valida ma a ciascuna possono muoversi obiezioni.
La letteratura nell’occuparsi del diritto non mira a descriverlo fedelmente sicché per questo occorrono storici del diritto o antropologi o sociologi del diritto.
Resta vero che la letteratura stimola la fantasia e che il diritto in ogni branca si giova più o meno intensamente della fantasia (nel diritto criminale si tratterà di ricostruire la scena di un crimine ed all’inquirente giova nel sopralluogo avere fantasia immaginare cosa possa essere accaduto dalle tracce rimaste visibili, perché questo aiuta a individuare anche le tracce più nascoste; al civilista giova fare ipotesi e domande che vadano oltre la narrazione del cliente; all’amministrativista giova ad es. ricostruire gli scenari del potere anche politico che possono ispirare a volte legittimamente a volte no le decisioni amministrative).
Certo anche nel contesto di civil law giova la fantasia che non deve essere mai usata per decampare dal dettato della legge ma piuttosto per ricostruirne i presupposti applicativi con la necessaria finezza.
Si tratta della lecita creatività della giurisprudenza messa spesso sotto accusa dall’illusione metodologica che il diritto possa risolversi nello studio pacificante degli universali.
Un ultimo punto: la letteratura, coltivata nella lettura, porta al buon uso del linguaggio, ci rende confidenti del suo uso onesto ma anche – siamo uomini – del suo uso disonesto.
Anche di questo essere immerso nei giochi linguistici è fatto il Soggetto moderno (Wittgenstein docet con il suo scrivere aforistico letterario tanto apprezzato da George Steiner).
Non si tratta solo di un coltivare un gesto, una esperienza, un fatto estetico, ma, attraverso l’estetica, di compiere un tirocinio morale consistente nella ricerca perenne della abissalità dei significati, dell’insufficienza del linguaggio a cogliere la cosa, in definitiva, del limite del nostro operare nella giustizia umana.