Ruolo di anzianità e teorica dei rapporti esauriti: un cortocircuito? (nota a Tar Sicilia, sez. III, 2 febbraio 2023, n. 294)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda e i suoi presupposti. – 3. Il contenuto della pronuncia. – 4. La teorica dei rapporti esauriti. – 5. L’atto paritetico evapora, il rapporto si esaurisce: una sentenza “politica”?. – 6. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza che si annota dischiude una molteplicità di spunti interessanti e fa interrogare sulla persistente attualità della categoria pretoria dell’atto paritetico in giurisdizione esclusiva, quando si tratta di valutare gli effetti potenzialmente retroattivi di una pronuncia della Corte costituzionale su giudizi diversi da quello a quo[1]. Nel caso di specie, peraltro, si insinua un ulteriore fattore di complicazione rappresentato dalla sussistenza sul punto di un parere del Consiglio di Stato[2] richiesto dall’Amministrazione degli Interni, parte in causa nel giudizio dinanzi al Tar.
Ce n’è abbastanza per porsi una serie di domande sull’ubi consistam della giurisdizione esclusiva, come faceva Antonio Romano Tassone all’indomani dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo[3], aggiungendovi l’aggravante “istituzionale” dell’ombra del mancato rispetto dei cardini del giusto processo. Chi scrive ha in più occasioni difeso la persistente dignità della specialità del giudice amministrativo[4], sicché anche la critica vuole qui essere una costruttiva occasione di dialogo e confronto, non certo una ideologica e pregiudiziale presa di posizione a favore dell’unità della giurisdizione.
2. La vicenda e i suoi presupposti
Un poliziotto chiede l’accertamento del diritto alla retroazione giuridica della sua nomina a vice sovrintendente della Polizia di Stato richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 224/2020, che ha giudicato sussistente una disparità di trattamento tra il sistema di progressione ordinario e quello straordinario, dichiarando illegittimo l’art. 75 del D.P.R. 335/1982, in relazione agli art. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui «non prevede l’allineamento della decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente promosso per merito straordinario a quella più favorevole riconosciuta al personale che ha conseguito la medesima qualifica all’esito della selezione o del concorso successivi alla data del verificarsi dei fatti».
Si consideri che fino al 2001, una volta conseguita la nomina nella qualifica di vice sovrintendente, non vi era alcuna significativa differenza, in punto di decorrenza giuridica, tra quanti avessero ottenuto la promozione mediante concorso e coloro i quali fossero stati promossi per merito straordinario. Infatti, l’art. 21 del d.P.R. n. 335 del 1982 prevedeva che i dipendenti che avessero superato il concorso per titolo ovvero per titoli ed esame erano immessi nel ruolo superiore solo alla data di conclusione con esito positivo del prescritto corso di formazione. L’art. 75, comma 1, d.P.R. 335/1982 prevedeva, a sua volta, che le promozioni per merito straordinario decorressero dalla data nella quale si fosse verificato il fatto che ha dato luogo al conferimento di tale qualifica. Sennonché, il comma 7 dell’art. 24-quater del d.lgs. n. 53 del 2001 ha modificato il termine di decorrenza della promozione ordinaria, retrodatandolo alla data del «1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze (da intendersi come vacatio di posti) e con decorrenza economica dal giorno successivo alla data di conclusione del corso medesimo». Tale intervento normativo ha determinato una disparità di trattamento tra il sistema di progressione ordinario e quello straordinario, sulla quale è intervenuta la Consulta con la sentenza richiamata.
Il Giudice delle leggi, infatti, pronunciandosi su un’ordinanza di rimessione del Tar Sicilia, ha affermato che: «La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata può farsi – con riferimento alla fattispecie in esame – escludendo lo “scavalcamento” nella decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente da parte di coloro che l’abbiano conseguita con procedura concorsuale o selettiva (e quindi dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze) in un momento successivo rispetto alla nomina di quelli che la stessa qualifica abbiano in precedenza già ottenuto per merito straordinario (e quindi con decorrenza «dalla data del verificarsi dei fatti» posti a fondamento della nomina stessa). Ciò può realizzarsi mediante il necessario riallineamento della decorrenza giuridica della nomina di questi ultimi a quella dei primi nell’ipotesi in cui, in concreto, tale evenienza si verifichi, senza peraltro che ciò incida sulla decorrenza economica che – come già rilevato – non soffre la differenziazione qui censurata».
3. Il contenuto della pronuncia
Il ricorrente, quindi, chiedeva l’accertamento del diritto alla retrodatazione sulla base di tale presupposto, attraverso il rito del silenzio perché nel caso di specie l’amministrazione non aveva risposto a una sua diffida volta appunto alla retrodatazione e alla connessa ricostruzione di carriera, mentre l’amministrazione eccepiva l’incompetenza territoriale, l’inammissibilità del ricorso poiché la posizione vantata è di diritto soggettivo, la sua infondatezza nel merito perché la declaratoria di incostituzionalità non può applicarsi ai rapporti esauriti.
Il Tar respinge l’eccezione di incompetenza, mentre, per quanto riguarda quella di inammissibilità del ricorso, dopo aver ricordato che per giurisprudenza costante il ricorso avverso il silenzio non è consentito in caso di diritti soggettivi, anche quando si operi in giurisdizione esclusiva, dispone il mutamento del rito convertendolo in giudizio ordinario di accertamento su diritti soggettivi.
Ciononostante, dopo aver richiamato il già citato parere del Consiglio di Stato, il Tar configura il ruolo di anzianità del personale di una pubblica amministrazione come provvedimento amministrativo, e quindi ritiene che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare nei termini – si badi, prima della sentenza della Consulta – il suo scavalcamento nel ruolo di anzianità, e così respinge il ricorso.
4. La teorica dei rapporti esauriti
Il richiamato parere del Consiglio di Stato, al netto per ora della questione relativa alla sua ammissibilità, ricostruisce nel dettaglio la problematica questione degli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale nel diritto amministrativo, distinguendo il caso del giudizio a quo da quello dei giudizi ancora pendenti innanzi al giudice amministrativo.
Si afferma che anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha nel tempo ritenuto che le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e la efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato[5], l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza.
Si dice, inoltre, che l’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio di costituzionalità, ossia sul seguito nei giudizi amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a quo, della dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere amministrativo, si traduce in un’indagine sulla sorte del provvedimento amministrativo adottato sulla base della disposizione incostituzionale, se cioè questo debba essere considerato inesistente, nullo o annullabile.
Dopo aver aderito alla consolidata[6] teoria dell’invalidità derivata, il Consiglio di Stato si pone il problema del rilievo ex officio della questione, e sembra risolverlo positivamente: la disciplina del processo amministrativo sarebbe stata sottoposta ad una interpretazione di adeguamento alle dinamiche del controllo di costituzionalità in via incidentale, con l’unico limite della pendenza della controversia e della rilevanza della questione ai fini della decisione del giudice amministrativo. Per vero, questa impostazione è (forse impropriamente) combinata a quell’altra che distingue tra le norme sul quomodo di esercizio del potere e quelle sulla genesi del potere, aggiungendosi che il rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della norma non incontra il limite dei motivi del ricorso quando la Corte costituzionale dichiari illegittima una norma sulla “genesi” del potere.
In ogni caso, ciò che più conta in questa sede è che il Consiglio di Stato, con passaggi pedissequamente ripresi dal Tar Sicilia, insiste sulla teorica dei rapporti esauriti, la quale già di suo meriterebbe forse più attenta riconsiderazione, nella misura in cui finisce per frustrare esigenze di legalità costituzionale e di effettività della tutela, specie nel caso in cui la stabilità del rapporto si acquisisce prima e a prescindere dalla pronuncia di incostituzionalità. La sensazione, in altre parole, è che la nozione di rapporto esaurito sia sfruttata per eludere un problema delicato e tuttora alquanto inesplorato, ossia l’individuazione del corretto punto di bilanciamento tra la necessità di assicurare l’affermazione della legalità costituzionale e quella di scongiurare il rischio di una perenne esposizione dei rapporti all’instabilità derivante dal potenziale contenzioso. Il tema, per l’appunto, non è stato al centro del dibattito, quantomeno di quello animato dagli amministrativisti, ma a ben vedere meriterebbe di essere coltivato, coinvolgendo, tra le tesi sul punto circolanti, anche qualche riflessione sull’annoso tema del dies a quo del termine di impugnazione[7], senza escludere a priori che tale termine iniziale possa coincidere con la pronuncia di illegittimità costituzionale della norma attuata dal provvedimento sub judice[8].
Al netto di tali problematiche più ampie, che riguardano anche il giudizio generale di legittimità, a mio avviso la teorica dei rapporti esauriti risulta comunque inconferente nel caso di specie.
5. L’atto paritetico evapora, il rapporto si esaurisce: una sentenza di “politica” giurisprudenziale?
Il problema è quindi generale e di sistema e rileva anche nell’ambito della giurisdizione di mera legittimità, impattando sulla delicata questione del dies a quo.
Nella residua giurisdizione esclusiva sul pubblico impiego solleva un’altra questione, legata all’incerta ampiezza della categoria degli atti paritetici[9].
Come è ben noto, fra i grandi meriti del giudice amministrativo “pretore”, subito dopo forse solo alla “bruta normazione giurisprudenziale” sul giudizio di ottemperanza e sul giudizio sul silenzio, vi è la sentenza “Fagiolari” che, alla fine degli anni ’30, supera l’equivalenza fra ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento nel caso vi sia in discussione un diritto soggettivo del cittadino e l’atto dell’amministrazione non costituisca esercizio di un potere.
Non è un caso che ciò avvenga proprio nell’ambito del pubblico impiego. È stato in questo cruciale settore che «la giurisprudenza del Consiglio di Stato prima (attraverso la ben nota sentenza “Fagiolari”), il legislatore del 1971 dopo, e la Corte costituzionale ancora più tardi (attraverso le sentenze additive degli anni ’80), [hanno abbandonato] quella che pure la Relazione al Re che accompagnava il decreto istitutivo del 1923 indicava come la ragione fondamentale della creazione della giurisdizione esclusiva: assoggettare i diritti soggettivi al medesimo trattamento processuale degli interessi legittimi, là dove fossero più̀ marcate le esigenze di pubblico interesse alla definizione della controversia»[10].
Questo passaggio può essere sottovalutato, da parte ad esempio di chi osserva: «Si prenda il caso emblematico del pubblico impiego, sulla cui natura giuridica (pubblicistica, privatistica o mista) da decenni si disquisiva: non solo il titolo, ma anche gli atti di gestione del rapporto di lavoro divengono atti “amministrativi”. Il punto di equilibrio con l’origine privatistica, al fine di evitare che il mutamento della qualificazione potesse importare una diminuzione della tutela, ha soltanto bisogno di un piccolo accorgimento, ossia l’invenzione degli atti amministrativi “paritetici”, la cui impugnazione è sottratta al breve termine decadenziale. Niente di più»[11].
Ma non può comunque essere del tutto eluso.
E a me francamente pare che è proprio questo che fa nella sentenza che si considera il Tar Sicilia, il quale uno “spartito” chiaro l’aveva (parafrasando il titolo del recente libro di Fabio Saitta)[12], con la consapevolezza che nel caso in esame si trattava di diritti soggettivi in giurisdizione esclusiva (consapevolezza che emerge nella parte in cui il rito sul silenzio viene convertito); ciononostante, conclude per l’applicazione della regola della decadenza e non della prescrizione del diritto, valutando un atto di gestione del rapporto di impiego come il ruolo di anzianità del personale di polizia alla stregua di un provvedimento amministrativo non impugnato su cui opera il limite dei rapporti esauriti.
Si badi: si è consapevoli che la giurisprudenza in questi casi ritiene che la pretesa del ricorrente ai fini dell’accertamento del diritto all’anzianità comprensiva del servizio svolto presso altri comparti delle forze armate si traduce in un migliore inquadramento, che però è consacrato in un apposito atto dell’amministrazione di appartenenza, cosicché i sospirati effetti sulla carriera del dipendente non possono prodursi senza l’eliminazione di tale sbarramento formale[13].
Si tratta di una impostazione che non convince fino in fondo, anche perché sin dagli anni ’70[14], come è noto, la nozione di atto paritetico si estende al di là delle questioni strettamente patrimoniali, cui peraltro quella in esame a rigore va annoverata. E comunque non vi è dubbio nella giurisprudenza del giudice del lavoro che, per i rapporti contrattualizzati, l’atto del datore di lavoro incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo, per cui una diversa disciplina sul punto rischia di rinnovare quelle disparità di trattamento tra lavoratori sulle quali la Consulta negli anni ’80 si è più volte pronunciata.
Si aggiunga, infine, la patente contraddizione nel nostro caso con il mutamento del rito in giudizio ordinario di accertamento su diritti soggettivi.
6. Conclusioni
Si tratta, in conclusione, di una pronuncia che non convince sotto un profilo di stretto diritto processuale, poiché fa ingiustificatamente prevalere la teorica dei rapporti esauriti su quella dell’atto paritetico (categoria cui, a mio sommesso e minoritario avviso, andrebbero ricondotti gli atti in questione), combinando denegata tutela della parte e lacune negli effetti del giudizio di costituzionalità. Si badi: ove, comunque, il diritto sorto prima della sentenza della Consulta fosse prescritto, ciò continuerebbe a legittimare, per ovvie ragioni di certezza, la teorica dei rapporti esauriti. Per ovvie ragioni legate al carattere teorico del presente commento, non interessa qui andare a compiere una siffatta verifica.
Né può fungere di aiuto un breve passaggio della motivazione della sentenza, e qui si tocca il diritto sostanziale, ove si afferma che in regime di diritto pubblico il ruolo di anzianità andrebbe annoverato come provvedimento amministrativo. Non mi pare condivisibile tale – pur stringato – passaggio, poiché se il rapporto di impiego “non contrattualizzato” permane nella giurisdizione esclusiva, questo non può fa venir meno la teorica dell’atto paritetico nato proprio in quella sede, a meno di non voler ritenere che la contrattualizzazione del pubblico impiego abbia sottratto l’applicazione dell’atto paritetico a quei rapporti che sono rimesti affidati al giudice amministrativo. Il che, francamente, non convince, rivelandosi un’inaccettabile conseguenza della contrattualizzazione. Semmai ci si lamenta in sede teorica dei margini di sindacato del giudice del lavoro, ma non risulta a chi scrive che la mutazione di giurisdizione abbia alterato la teoria degli atti paritetici nelle materie di pubblico impiego non contrattualizzato che permangono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Né (ulteriore subordinata, ma qui siamo proprio nel comodo mondo delle congiunture e del divertissement) è possibile ritenere che tale persistente caratura pubblicistica (che ci farebbe fare un balzo indietro nel tempo addirittura pre-sentenza “Fagiolari”) possa essere il prodotto dello speciale regime di impiego della Polizia, il cui assetto continua ad essere connotato da marcati tratti di complessità e verticalizzazione, ma che, grazie soprattutto alla legge n. 121/1981, si è evoluto sotto vari aspetti: unità funzionale dei ruoli, efficienza nel sistema di reclutamento, democraticità tramite la rivoluzionaria smilitarizzazione[15].
Infine, una chiosa “istituzionale”.
Il Consiglio di Stato, nel parere richiamato dal Tar Sicilia, insiste nell’affermare che per garantire il corretto equilibrio istituzionale, va esclusa la «possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali», e in tal senso ritiene di potersi esprimere nel limitato ambito dell’individuazione dei «principi consolidati che reggono la materia; non sarà effettuata, né espressamente né implicitamente, qualsivoglia interpretazione della sentenza della Corte costituzionale in relazione al caso specifico». Il problema si è posto anche dinanzi al Tar Sicilia, che non a caso richiama in diversi punti tale parere.
Non è mia intenzione riprendere qui il tema delle criticità sul piano dei principi di imparzialità del giudice e parità fra parti che emergono in questa vicenda: certo, il richiamo alla teorica dei rapporti esauriti come limite alla retroattività delle sentenze della Corte costituzionale, specie quando siano in questione sentenze di “spesa” come quella qui in esame, desta in chi scrive qualche sospetto sulla “politicità” dell’opera di protezione dell’erario che si situa nell’asse Palazzo Spada-Viminale, nella misura in cui va ad incidere così profondamente sulla teorica dell’atto paritetico nella giurisdizione esclusiva.
Parrebbe un’ennesima peculiare declinazione della tecnica modulazione nel tempo degli effetti della sentenza, tecnica ormai pienamente attecchita anche presso il nostro giudice amministrativo[16], a tutela di valori “alti” e “altri”, ma diversi da quelli propri di una giurisdizione di tipo soggettivo qual è la nostra sulla base dell’art. 24 Cost.
[1] Sul tema v. C. Padula, Gli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale sugli atti amministrativi applicativi della legge annullata, in AA. VV., Scritti in onore di Lorenza Carlassare, a cura di Brunelli – Pugiotto – Veronesi, Napoli, 2009, 1513 ss.; N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in Federalismi, fasc. 6/2021, 140 ss.
[2] Sez. I, n. 1984/2021.
[3] A. Romano Tassone, La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro, in A. Cavallari-G. De Giorgi Cezzi-G.L. Pellegrino-P.L. Portaluri-E. Sticchi Damiani-A. Vantaggiato (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Atti del Convegno di Lecce del 12-13 novembre 2010, Napoli, 2011, 101 ss.
[4] Ad es.: G. Tropea, La specialità del giudice amministrativo, tra antiche criticità e persistenti insidie, in Dir. proc. amm., 2018, 889 ss.
[5] Sul punto occorre tuttavia dare atto che rispetto alla spinta verso l’affermazione della legalità (nel caso in esame si trattava della legalità europea) l’argine del giudicato sembra meno stabile. Il riferimento è alle note pronunce Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17 e 18, in cui si prospetta la cessazione di tutte le proroghe delle concessioni balneari illegittimamente disposte, indipendentemente dal fatto che esse siano state disposte per legge e che siano state oggetto di un giudicato favorevole (cioè di un giudicato interno che avesse, in ipotesi, riconosciuto la legittimità degli atti di proroga).
[6] Sin da Cons. Stato, Ad. plen., 8 aprile 1963, n. 8.
[7] Fortemente inciso dalla, pur discutibile, Cons. Stato, Ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12, che teorizza come è noto una decorrenza “a gradi” del dies a quo.
[8] Devo questa riflessione ad Annalaura Giannelli.
[9] Giò autorevolmente segnalata, con molteplici riferimenti giurisprudenziali, da A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato ed ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 148 ss.
[10] A. Romano Tassone, La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro, cit.
[11] M. Mazzamuto, L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, sez. II, n. 8546/2020), in www.giustiziainsieme.it, 1° marzo 2021.
[12] F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023.
[13] Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2013, n. 607.
[14] Consiglio di Stato, Ad. plen., 26 ottobre 1979, n. 25
[15] Cfr. R. Ursi, La sicurezza pubblica, Bologna, 2022.
[16] Basti il riferimento, ancora, alle notissime Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, nn. 17 e 18.