Il tempo dell’usura (nota a Cons Stato Sez. Terza, 2.11.2020 n. 6755)
di Simone Francario
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Il risarcimento del danno da ritardo: note introduttive e orientamenti giurisprudenziali a confronto - 3. Il danno da ritardo nella concessione di un mutuo nell’ambito del coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura.
1.La fattispecie.
Un imprenditore, ritenendo che il precedente mutuo concessogli dalla banca fosse usuraio, si rivolgeva al Commissario Straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura chiedendo la concessione di un ulteriore mutuo al fine di recuperare liquidità per portare avanti la propria attività.
Dopo più di un anno dalla presentazione dell’istanza, il commissario straordinario la respingeva affermando, in particolare, che ai fini dell’accesso al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, così come disciplinato dal relativo DPR 19 febbraio 2014, n. 60, era necessario l’accertamento del reato di usura, la cui sussistenza, tuttavia, nel caso di specie era stata esclusa al termine di un procedimento penale attivato parallelamente.
Il privato, allora, decideva di impugnare tale provvedimento di rigetto chiedendo in particolare il risarcimento del danno da ritardo essendosi la PA pronunciata ben oltre i termini previsti dalla legge, ma il giudice amministrativo, in primo grado e in secondo grado, respingeva il ricorso.
A conclusione della vicenda, la sentenza del Consiglio di Stato offre spunti interessanti per esaminare un tema di stretta attualità e da tempo dibattuto in dottrina e giurisprudenza, ossia: il risarcimento del danno da ritardo.
2. Il risarcimento del danno da ritardo: note introduttive e orientamenti giurisprudenziali a confronto.
Al fine dell’analisi del risarcimento del danno da ritardo, è opportuno, innanzitutto, ricostruire brevemente la normativa di riferimento[1].
In primo luogo, la legge sul procedimento amministrativo (art. 2 della l. 241/1990) pone in capo alla PA l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro un determinato termine.
In tale contesto l’apposizione di un termine, da un lato, costituisce diretta applicazione dei principi fondamentali regolanti l’attività amministrativa, come il principio di legalità, efficienza, buon andamento e imparzialità, dall’altro, svolge una funzione acceleratoria dell’attività stessa e di certezza dei rapporti tra amministrati e amministranti[2].
Nello specifico, è noto che ai sensi dell’art. 2 della l. 241/1990 il procedimento amministrativo si deve concludere entro un termine non superiore a novanta giorni, decorrente dalla presentazione dell’istanza del privato o dall’inizio del procedimento d’ufficio e, qualora manchi una apposita previsione legislativa o regolamentare in tal senso, il termine si intende fissato in trenta giorni[3].
Per far fronte ad eventuali ipotesi di ritardo nella conclusione del procedimento da parte della PA, l’ordinamento prevede rimedi preventivi[4] e successivi[5].
Ai fini che qui interessano è opportuno porre l’accento su questi ultimi, nei quali rientra, affianco al potere sostitutivo e al ricorso avverso il silenzio inadempimento, l’azione per il risarcimento del danno da ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, di cui all’art. 2-bis della l. 241/1990[6].
Tale norma prevede che, nei casi in cui il silenzio della PA non abbia valore significativo e corrisponda ad una ipotesi di silenzio-inadempimento, “le pubbliche amministrazioni […] sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.”[7]
Dalla lettura della disposizione, come confermato anche da costante giurisprudenza, pare che il legislatore abbia voluto ricondurre tale comportamento dell’amministrazione nel più ampio genere della responsabilità extracontrattuale, la quale, come è noto, ai sensi dell’art. 2043 c.c. richiede la verifica positiva di alcuni elementi: la colpa o il dolo del danneggiante; il nesso causale tra il comportamento del danneggiante e l’evento di danno; e infine l’ingiustizia del danno[8].
Così inquadrata la cornice normativa di riferimento, è necessario analizzare la posizione della giurisprudenza, nella quale, facendo leva sull’elemento della ingiustizia del danno, si sono registrati due distinti orientamenti: un primo orientamento (ad oggi maggioritario) in base al quale, ai fini della risarcibilità del danno da ritardo, è necessario accertare la spettanza del bene della vita finale in capo al privato, ed un secondo orientamento (minoritario) per cui sarebbe risarcibile anche il solo danno da mero ritardo[9].
Quest’ultimo orientamento si basa sulla concezione che il tempo dell’azione amministrativa, seppur costituisca dal punto di vista giuridico un interesse procedimentale, stante la risarcibilità degli interessi legittimi già affermata con la nota sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione[10], rientra nel novero degli interessi meritevoli di tutela e la sua lesione, pertanto, configurerebbe la presenza di un danno ingiusto, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. al pari del bene della vita finale[11].
In altre parole, come affermato anche in recenti sentenze del Consiglio di Stato, “l’ingiustizia del danno […] può derivare dalla lesione al bene della vita costituito dal tempo e cioè dalla lesione all’affidamento sui tempi di svolgimento dell’attività amministrativa ed alla certezza della programmazione delle proprie attività personali e dei propri interventi finanziari” in quanto, prosegue il giudice amministrativo, “la ritardata conclusione del procedimento e, quindi, l’incertezza sul legittimo svolgimento dell’attività richiesta, può incidere negativamente sull’impegno di risorse, così come può comportare la rinuncia ad altre opportunità o avvalersi di altre circostanze favorevoli che non abbiano durata indefinita.”[12]
In questo senso, quindi, il tempo costituisce un bene della vita autonomo e la sua mera lesione fa sorgere in capo alla PA un’ipotesi di responsabilità aquiliana, indipendentemente da un giudizio prognostico circa la spettanza in capo al privato dell’utilità finale ambita.[13]
Invece, secondo l’opposto orientamento giurisprudenziale il danno da mero ritardo non è risarcibile, in quanto il fattore tempo non è mai stato considerato dal legislatore come bene della vita suscettibile di autonoma protezione.[14]
Ciò significa che la sua mera lesione non integrerebbe un danno ingiusto e non si potrebbe configurare alcuna ipotesi di responsabilità aquiliana in capo alla PA.
Secondo il giudice amministrativo, infatti, affinché si possa utilmente esperire azione di risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell’art. 2-bis della l. 241/1990, non si può in alcun caso prescindere “dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile. L’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stato adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente, ovvero avrebbe dovuto essere adottato sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al procedimento.”[15]
Ebbene, si ritiene che l’elemento dell’ingiustizia del danno ricorra solo laddove, oltre al fattore tempo, sia leso anche il bene della vita finale cui tende il privato; in altre parole, il privato deve poter dimostrare in giudizio che sussistevano tutti i presupposti per il rilascio di un provvedimento a lui favorevole (bene della vita) di cui non ha potuto godere per tutto il periodo di inerzia della PA (lasso di tempo cui si riferisce il danno da ritardo).
L’adesione all’uno o all’altro orientamento non è questione di poco conto e ciò si percepisce soprattutto in tema di determinazione del danno: nel caso in cui si aderisca alla tesi che riconosce tutelabile il danno da mero ritardo, sarebbe risarcibile il solo interesse negativo, ossia il danno emergente; nell’altro caso, invece, oltre al danno emergente sarebbe risarcibile anche il lucro cessante.[16]
3. Il danno da ritardo nella concessione di un mutuo nell’ambito del coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura
Alla luce di quanto esposto la sentenza n. 6755 del 2020 del Consiglio di Stato si inserisce nell’orientamento giurisprudenziale, più restrittivo, che non ritiene risarcibile, ex se, il danno da mero ritardo.
Con apposito motivo di ricorso l’appellante illustrava che la pubblica amministrazione aveva emesso il provvedimento finale (di rigetto della sua istanza di concessione di un mutuo) dopo più di un anno dal deposito dell’istanza, in assenza di adeguate ragioni istruttorie che giustificassero la dilazione del termine a provvedere.
Sosteneva, altresì, che la mancata corresponsione della cifra richiesta, se comunicata tempestivamente, avrebbe sicuramente indotto l’istante a rivolgersi altrove per recuperare liquidità al fine di proseguire la sua attività imprenditoriale.
Il Collegio non ha ritenuto meritevole di accoglimento la tesi sostenuta dal ricorrente in quanto “il tempo dell’azione amministrativa non è un bene in sé” e deve pertanto trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale sopra citato secondo cui “l’espresso riferimento al danno ingiusto […] induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria in tali fattispecie, come in quelle in cui la lesione nasce da un provvedimento espresso, non possa in alcun caso prescindersi dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto della sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile.”
Ciò significa che, per potersi verificare una ipotesi di responsabilità aquiliana, “l’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stato adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente ovvero sarebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata.”
Nel caso di specie si trattava di effettuare, dunque, un giudizio prognostico (che costituisce declinazione particolare del nesso di causalità tra evento danno e danno conseguenza nell’ambito della responsabilità civile) sulla spettanza in capo al ricorrente del bene della vita finale costituito, in questo caso, dalla concessione del mutuo.
Volendo utilizzare altri termini, più incisivi, il giudice amministrativo doveva effettuare un giudizio prognostico, secondo il canone del “più probabile che non”, al fine di stabilire se il privato possedeva tutti i requisiti necessari per poter accedere alle somme messe a disposizione dal Commissario Straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura[17].
Nella fattispecie in esame, tuttavia, tale giudizio ha dato esito negativo in quanto è stato accertato che il procedimento penale parallelamente attivato aveva escluso l’esistenza del reato di usura a danno dell’istante.
La sussistenza di tale reato, infatti, ai sensi dell’art. 20 del DPR 19 febbraio 2014, n. 60 (ossia, il Regolamento recante la disciplina del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura), costituiva un presupposto necessario per ottenere il mutuo richiesto alla PA[18].
Pertanto, siccome il ricorrente non avrebbe mai potuto ottenere la concessione del mutuo richiesto, la violazione, seppur notevole, del termine di provvedere non faceva sorgere in capo alla PA alcuna ipotesi di responsabilità civile ex 2043 c.c. per mancanza dell’ingiustizia del danno.
Anche sulla base di tali motivazioni, l’appello veniva respinto.
La sentenza sembra pertanto aderire alla corrente maggioritaria che si è formata in seno alla giurisprudenza amministrativa che ritiene che il tempo non costituisca un bene della vita autonomo ma, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana in capo alla PA per violazione colposa o dolosa del termine di provvedere ex art. 2-bis della l. 241/1990, ritiene non sufficiente la sua mera violazione, ma reputa necessario un giudizio prognostico che attesti, secondo il parametro del “più probabile che non”, la spettanza in capo al privato dell’utilità finale ambita; assumendo che, solo in questo caso, se risulta lesa anche l’utilità finale, si verificherebbe il danno ingiusto richiesto dall’art. 2043 c.c.
[1] In generale, sui rapporti tra tempo e diritto, si veda in dottrina M.A. SANDULLI, Il tempo del processo come bene della vita, in Federalismi.it, dove si legge che: “Ancora di più, come insegniamo ai nostri studenti, il diritto amministrativo è tradizionalmente condizionato dall’evoluzione della società e dal passaggio del tempo e ha nella sua essenza la necessità di seguirlo, finalizzando l’esercizio del potere, che, appunto per questo, non si consuma mai al miglior raggiungimento del pubblico interesse, come essi si viene man mano configurando nel contesto sociale, politico ed economico, anche in rapporto agli altri interessi, tanto privati che pubblici, in gioco. E in ciò sta, non solo il fondamento di istituti come l’annullamento d’ufficio e la revoca, ma la stessa distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, che, diversamente dal primo, non ha una forza di resistenza assoluta, ma resta sempre recessivo rispetto alla necessità dell’amministrazione di rivedere le proprie scelte in ragione dell’interesse pubblico, come progressivamente configurato dall’indirizzo politico espresso dal legislatore.”
[2] In dottrina, tra tutti, si veda M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 244 e ss. dove l’A. afferma che: “In definitiva, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 l. 241/1990 dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita dell’interesse pubblico di cui è portatrice, sia a quella dei soggetti privati che devono poter programmare le proprie attività facendo affidamento sulla tempestività nell’adozione degli atti amministrativi necessari per intraprenderla.”
[3] Ex multis, sull’obbligo di provvedere della PA si rinvia a A. CIOFFI, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Giuffre, Milano, 2005.
[4] Tra i rimedi preventivi previsti dall’ordinamento si fa riferimento in primo luogo alle ipotesi di silenzio qualificato della pubblica amministrazione che, a seconda dei casi, può assumere la duplice forma di silenzio-assenso o silenzio-diniego. L’art. 20 della l. 241/1990 prevede che trovi applicazione generalizzata l’istituto del silenzio assenso, ad eccezione dei procedimenti (ivi indicati) dove si fanno valere interessi sensibili o primari, e dei casi in cui è la legge stessa che qualifica il silenzio serbato dall’amministrazione come rigetto.
[5] I rimedi successivi previsti dalla legge sul procedimento amministrativo sono costituiti, in particolare, dal c.d. potere sostitutivo (per cui, il privato, in caso di inerzia dell’amministrazione, può rivolgersi al titolare del potere sostitutivo il quale deve concludere il procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, avvalendosi o delle strutture competenti o di un commissario ad acta) e dal ricorso avverso il silenzio (con tale azione, il privato può chiedere, innanzitutto, l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere della PA, e in particolari circostanze -art. 31, co. 3, cpa- può anche chiedere al giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio).
[6] L’art. 2-bis della l. 241 del 1990 è stato introdotto dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e per la sua azionabilità in giudizio va letto in combinato disposto con gli artt. 30 e 34 del codice del processo amministrativo (di cui al D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) disciplinanti l’azione di condanna, la quale ha un carattere “atipico” in quanto il giudice, su richiesta della parte, può ordinare alla pubblica amministrazione non solo il pagamento di determinate somme di denaro (nelle quali rientra l’esaminando danno da ritardo) ma anche “l’adozione di misure idonee a soddisfare la situazione giuridico soggettiva dedotta in giudizio.”
Sul punto si veda F. PIGNATIELLO – O. TORIELLO, L’azione di condanna, in Manuale del processo amministrativo, a cura di F. CARINGELLA e M. GIUSTINIANI, II ed., Dike, 2017, p. 187, dove si legge che: “La disciplina dell’azione di condanna si rinviene nel combinato disposto degli artt. 30 e 34 cpa. L’azione di condanna si configura, innanzitutto, come condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante, nei casi di giurisdizione esclusiva, dalla lesione sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi; nei casi di giurisdizione di legittimità, dalla lesione dei soli interessi legittimi, conseguente all’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o al mancato esercizio di quella obbligatoria (art. 30, comma 2, cpa). Può essere, altresì, chiesta la condanna al risarcimento del c.d. danno da ritardo, ossia il danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa da parte della PA del termine di conclusione del procedimento (art. 30, comma 4, cpa).” Nel proseguo si sottolinea anche il carattere atipico dell’azione di condanna, in virtù del quale “il giudice può condannare l’Amministrazione, non solo al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno (per equivalente o in forma specifica ex art. 2058 c.c.), ma altresì ‘all’adozione delle misure idonee a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio’ (condanna ad un facere).”
[7] Il rimedio ora in esame non va confuso con l’indennizzo da mero ritardo stabilito nel seguente comma 1-bis dell’art. 2-bis, l. 241/1990 in base al quale, fatto salvo l’eventuale risarcimento del danno di cui al comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di violazione del termine di provvedere su procedimenti iniziati ad istanza di parte, al privato spetta un indennizzo forfettario determinato dalla legge.
[8] Considerata l’ampiezza del tema, per quanto qui di interesse è opportuno soffermarsi brevemente sul solo concetto di “danno ingiusto” nell’ambito della responsabilità aquiliana. Utilizzando le parole della nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1999, di cui infra in nota, “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità.”
In dottrina, ex multis, si veda A. ZITO, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp. 89 e ss., dove l’A., commentando la sentenza n. 500/1999 delle S.U. afferma a riguardo che: “la locuzione danno ingiusto non va correlata ad una situazione giuridico soggettiva tipizzata in altra norma: essa va invece interpretata come una clausola generale che offre protezione nei confronti dei danni arrecati anche ad interessi che, pur non essendo riconosciuti da altra norma in termini di situazione giuridica soggettiva, tuttavia appaiono meritevoli di tutela e protezione da parte dell’ordinamento giuridico, la cui selezione spetta al giudice attraverso ‘un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto e cioè dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del gatto è volto a perseguire’, così da ‘accertare se il sacrificio del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza’.”
Cfr. anche F. PIGNATIELLO – O. TORIELLO, L’azione di condanna, op. cit., pp. 188 e ss.
[9] Sulla ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali succedutisi nel tempo in materia del danno da ritardo, si veda, ex multis, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, XIII ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, pp. 82 e ss., dove l’A. ribadisce che il danno da ritardo “assume rilievo pratico soprattutto quando il procedimento amministrativo comporti un’immobilizzazione di risorse economiche che il cittadino avrebbe ragionevolmente potuto destinare diversamente, se l’amministrazione gli avesse risposto subito con un provvedimento negativo. In questo caso il danno è provocato non da un provvedimento illegittimo, ma dalla condotta illegittima dell’amministrazione che non rispetta i termini per la conclusione del procedimento. Una parte della giurisprudenza ammise anche in queste ipotesi un risarcimento del danno, riconoscendo che l’interesse legittimo può essere leso non solo da un provvedimento illegittimo ma anche da ogni altro svolgimento del potere amministrativo che non sia conforme alla legge.” In origine, tuttavia, Il Consiglio di Stato, aderendo alla tesi più restrittiva, sosteneva che “se non fosse spettato al cittadino un provvedimento favorevole non sarebbe stata neppure configurabile una lesione a un suo ‘bene della vita’ e senza una lesione al ‘bene della vita’ non vi sarebbe spazio per un risarcimento.” Tale conclusione, prosegue l’A., non è cambiata neanche con l’introduzione dell’art. 2-bis nella l. 241/1990 tanto che il Consiglio di Stato “ha confermato in genere il proprio indirizzo precedente e la posizione prevalente non sembra scalfita neppure da Cons. Stato, ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5, che ha dichiarato (ma solo incidentalmente) di condividere la tesi meno restrittiva.”
[10] In via di estrema sintesi, con la sentenza 22 luglio 1999, n. 500, la Suprema Corte a Sezioni Unite, tramite argomentazioni evolutive di carattere sostanziale e processuale, ha invertito il precedente orientamento per cui la tutela risarcitoria ex 2043 c.c. riguardava i soli diritti soggettivi ed ha espanso la sua applicabilità anche agli interessi legittimi, facendo altresì venir meno la c.d. pregiudiziale amministrativa. Con tale pronuncia, infatti, la Cassazione conclude che: “La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della PA abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento. In altri termini, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della PA, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.”
Sul punto, cfr anche A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, op. cit., pp. 77 e ss.
[11] Tra le varie pronunce che si inseriscono in questo orientamento si segnalano, ex multis: Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 ottobre 2019, n. 6740; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 4 maggio 2018, n. 5; Consiglio di Stato, Sez. IV, 1 luglio 2015, n. 3258; Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; Consiglio di Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271.
[12] Cfr. Consiglio di Stato del 7 ottobre 2019, n. 6740, dove il giudice amministrativo, dopo aver preso atto della presenza del diverso orientamento giurisprudenziale che subordina il risarcimento del danno da ritardo alla spettanza del bene della vita finale, ritiene superata tale concezione anche a seguito di successivi interventi legislativi. Si legge in sentenza che: “In altri termini, il riferimento, per la risarcibilità del danno, al concetto di danno ingiusto, ove l’unica posizione considerata e tutelata sia quella avente ad oggetto il bene della vita richiesto con l’istanza che ha dato origine al procedimento, non potrebbe che postulare la subordinazione dell’accoglimento della domanda risarcitoria all’accertamento della fondatezza della pretesa avanzata, altrimenti si perverrebbe alla conclusione paradossale e contra legem di risarcire un danno non ingiusto. Viceversa, la novità della novella legislativa del 2009 sembra individuabile nel fatto che l’ingiustizia del danno risarcibile deriva dalla lesione di un bene della vita differente rispetto a quello, vale a dire della lesione del tempo come bene della vita. Ne consegue che, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione, ove la stessa sia fonte di un obbligo di provvedere, il cittadino (o l’impresa) farebbe valere non solo una posizione di interesse legittimo pretensivo ad ottenere il bene della vita richiesto con l’istanza, ma anche una autonoma pretesa ad ottenere nei termini stabiliti dalla legge una risposta conclusiva circa l’attribuzione o meno di quel bene.”
[13] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della PA, in Principi e Regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2020, p. 215, dove l’A. afferma che: “In ordine alla rilevanza del fattore tempo come bene della vita autonomo, la dottrina, quindi, nel tratteggiare la trasformazione del modello di amministrazione verificatasi negli ultimi decenni -sintetizzabile nella formula “dalla funzione al servizio”-, ha evidenziato come essa abbia contribuito a modificare l’approccio alla tematica della responsabilità, in quanto il cittadino, dismessi i panni di spettatore passivo, diventa “destinatario” dell’esercizio, garantito e spesso anche partecipato, di una potestà. La trasformazione rende doveroso individuare strumenti di responsabilizzazione dell’attività amministrativa, tra cui viene compresa la responsabilità civile in relazione alle ipotesi di malfunzionamento, di cui il danno da omessa o ritardata emanazione di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei cittadini costituisce una delle manifestazioni. Il bene tutelato è individuato nella certezza dei tempi procedimentali o nella certezza, sotto il profilo temporale, del rapporto giuridico tra amministrazione e cittadino.”
[14] Tra le pronunce giurisprudenziali che, sostenendo la tesi più restrittiva, non ritengono risarcibile il danno da mero ritardo, si segnalano le più recenti decisioni: Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 luglio 2020, n. 4669; Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437; Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2019; Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4951.
Nello stesso senso, ma più risalenti, si vedano: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 3 dicembre 2008, n. 13; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15 settembre 2005, n. 7.
[15] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 luglio 2020, n. 4669.
[16] Cfr. M.L. MADDALENA, Il danno da ritardo: profili sostanziali e processuali, in L’azione Amministrativa, a cura di A. ROMANO, G. Giappichelli Editore, Torino, 2016, pp. 189 e ss., dove l’A. a proposito del danno risarcibile specifica che: “Nel caso risarcimento del danno da ritardo previo accertamento della spettanza, ciò che si risarcisce -come si è visto- è sia la perdita subita che il mancato guadagno in relazione al bene della vita. Che cosa deve essere risarcito invece nel caso del danno da ritardo mero? […] Secondo una seconda tesi, che la recente giurisprudenza sembra condividere, l’oggetto della tutela risarcitoria, in caso di danno da ritardo mero, non è la perdita di tempo in sé, ma sono gli altri beni della vita lesi in conseguenza del mancato rispetto del termine procedimentale. Il parametro di riferimento è dunque quello della responsabilità da atto illecito o meglio della responsabilità precontrattuale, nella quale l’entità del risarcimento è limitata all’interesse negativo, mentre l’oggetto di tutela risarcitoria sono tutti i danni conseguenza, di natura patrimoniale e non.”
[17] Sul punto, prosegue il Collegio specificando che: “In questa prospettiva, deve qui aggiungersi, il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita si presenta come un’applicazione particolare dei principi generali in tema di nesso di causalità materiale e mira a stabilire quale sarebbe stato il corso delle cose se il fatto antigiuridico non si fosse prodotto e, cioè, se l’amministrazione avesse agito correttamente. […]
Ciò si ricollega – declinando il principio nella dimensione del danno da ritardo – al giudizio sulla spettanza del bene della vita e, cioè, al nesso fra l’inerzia della pubblica amministrazione e la frustrazione di una situazione giuridica o di un interesse a carattere preventivo vantato dal privato.”
[18] L’art. 20 del DPR 60/2014 disciplina il contenuto e la documentazione da allegare alla domanda di concessione del mutuo a favore dei soggetti che si ritengono lesi dal reato di usura e al comma 1 prevede che: “La domanda per la concessione del mutuo, sottoscritta dall’interessato, contiene: a) la dichiarazione dell’interessato di essere vittima del reato di usura […].”