Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo. – 2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese. – 3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati. – 4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato. – 5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo.
Le spese di giudizio, nella loro accezione più ampia, ricomprendono tutti quegli esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo di un processo. In base ad una ricostruzione funzionale elaborata dalla dottrina, i costi del processo amministrativo possono essere suddivisi in tre diverse categorie: i costi necessari (contributo unificato), quelli normali (per lo più costituiti dai compensi dei legali) e quelli eventuali (spese aggravate, sanzione pecuniaria, astreinte)[1].
Tali tipologie di spese assolvono a funzioni differenti: il contributo unificato serve a finanziare il funzionamento dei tribunali, i compensi agli avvocati servono a garantire il diritto di ciascuno a difendersi in giudizio, mentre le sanzioni per i comportamenti processuali illeciti o comunque abusivi servono a punire i responsabili degli stessi e ad evitare la reiterazione di tali condotte processuali.
A queste diverse funzioni corrispondono differenti regole per il loro riparto: il contributo unificato segue le regole della soccombenza e dell’anticipazione[2], i compensi spettanti ai difensori sono generalmente assoggettati alla regola della soccombenza[3], le c.d. spese aggravate e le sanzioni processuali, previste per le parti che si comportano in maniera illecita o comunque abusiva, richiedono una serie di requisiti specifici per la loro irrogazione[4].
La condanna alle spese, pertanto, può racchiudere al suo interno componenti molto diverse tra loro che non sono assoggettate ad un regime unitario, ma seguono regole differenti per la loro attribuzione a carico delle parti del processo[5].
Una componente quantitativamente molto rilevante della condanna alle spese è costituita dai compensi professionali degli avvocati che prendono parte al giudizio in qualità di rappresentanti delle parti costituite. Le regole per il loro riparto e i criteri da seguire per la loro quantificazione hanno da sempre ingenerato notevoli questioni interpretative che ad oggi non possono ritenersi sopite.
A tal proposito si possono enucleare nella prassi almeno due problematiche ricorrenti: la prima è costituita dalla resilienza del giudice amministrativo a condannare alle spese la parte soccombente, abusando del suo potere discrezionale di compensazione; la seconda è costituita dalla mancanza di aderenza delle liquidazioni giudiziali ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 per le prestazioni professionali forensi.
2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese.
Nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è stato da sempre ancorato al principio di soccombenza[6], ancor prima di mutuare la propria disciplina dal processo civile[7]. Inizialmente, però, tale principio è stato largamente eluso dalla neo-istituita Sezione IV del Consiglio di Stato, che aveva stabilito il principio secondo il quale la pubblica amministrazione che agisce in veste di autorità non può essere condannata alle spese[8].
Col passare degli anni tale irresponsabilità nei confronti delle amministrazioni (statali) si è progressivamente attenuata, ma tutte le pubbliche amministrazioni hanno conservato a lungo un regime di privilegio nei confronti della condanna alle spese. Infatti, il requisito dei “giusti motivi” ha permesso per molto tempo al giudice amministrativo di disporre la compensazione con ampia (e talora eccessiva) generosità nei confronti delle parti soccombenti, soprattutto qualora queste fossero delle pubbliche amministrazioni.
La regola della soccombenza è stata poi ripresa dalla successiva l. n. 1034/1971[9] e confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti[10]. L’art. 91, comma 1, c.p.c. prevede che, all’esito della definizione della controversia, vadano addebitate alla parte soccombente non solo le spese necessarie per lo svolgimento del processo, ma anche gli onorari per la difesa in giudizio e che entrambi gli importi debbano essere liquidati nella sentenza[11].
Quella della soccombenza, così come prevista dal nostro codice di procedura civile, non è una regola assoluta, ma può subire delle eccezioni. Il giudice, infatti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., può compensare (parzialmente o per intero) le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca e di accoglimento parziale della domanda ovvero nel caso di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. L’art. 92 c.p.c., però, è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha ridefinito sensibilmente i limiti, dichiarando l’illegittimità costituzionale del secondo comma nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti (parzialmente o per intero) anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre quelle nominativamente indicate[12].
Nonostante questo pronunciamento della Consulta, si deve evidenziare che la coeva generosità del giudice amministrativo nel compensare le spese è un fenomeno tuttora estremamente attuale[13]. Infatti, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la decisione del giudice di compensare le spese costituisce una valutazione discrezionale insindacabile in sede di appello, a cui fanno eccezione solo le statuizioni che siano manifestamente irragionevoli, abnormi, illogiche ovvero le condanne a somme palesemente inadeguate[14]. Tale potere discrezionale talvolta si fonda non solo su motivazioni di ordine giuridico, ma anche su ragioni di equità e di convenienza[15].
Questo atteggiamento, in parte comprensibile a causa della maggiore aleatorietà delle controversie amministrative (che, generalizzando, sono di solito più complesse e incerte di quelle civili[16]), negli ultimi tempi si è notevolmente attenuato, ma tuttora si rinvengono di frequente sentenze che compensano le spese richiamandosi semplicemente ai generici “giusti motivi”[17].
Tale prassi, alla luce dell’attuale quadro normativo, non può essere condivisa, poiché rischia di comprimere il diritto della parte vittoriosa di essere interamente ristorata dei costi sostenuti per il suo legittimo diritto di agire e difendersi in giudizio[18]. La compensazione delle spese di lite dovrebbe sempre essere prevista entro i limiti tracciati dal combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. come interpretato dalla Corte costituzionale e fornita di un’adeguata motivazione[19].
3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati.
Le regole del codice di procedura civile e del codice del processo amministrativo fino ad ora analizzate riguardano l’an della condanna alle spese, ossia i limiti entro i quali il giudice deve applicare o meno la regola della soccombenza e condannare chi ha perso a sopportare i costi della lite.
Per definire il quantum della soccombenza[20], invece, la succitata normativa non è sufficiente, dovendo essere integrata dalla disciplina prescritta dal d.m. n. 55/2014, il quale prevede i criteri e i parametri per la liquidazione dei compensi spettanti ai difensori per l’attività svolta in giudizio[21].
Il giudice, nel condannare la parte soccombente alla refusione delle spese legali del vincitore, dovrebbe calcolare i relativi importi applicando i parametri medi previsti nel citato decreto per ognuna delle cinque diverse fasi previste con riferimento alle controversie davanti al giudice amministrativo, ossia: la fase di studio della controversia, la fase introduttiva del giudizio, la fase istruttoria e/o di trattazione, la fase decisionale e la fase cautelare[22].
Nonostante le tabelle prescrivano degli importi fissi (valori medi) per ogni fase delle controversie aventi il medesimo valore, il giudice ha comunque alcuni strumenti attraverso i quali può graduare (in aumento e in diminuzione) il quantum della condanna. Infatti, il compenso dell’avvocato deve essere liquidato in maniera proporzionale all’attività svolta, tenendo conto di una serie di fattori che consentano di variare la liquidazione aumentando o diminuendo gli importi in percentuale rispetto ai valori medi previsti[23]. A tal fine, l’art. 4, d.m. n. 55/2014, consente al giudice sia di aumentare i valori (espressamente qualificati come) medi delle tabelle allegate al decreto di regola fino all’80%[24], sia di diminuire detti valori in ogni caso non oltre il 50% e non oltre il 70% per la fase istruttoria[25].
Pertanto, nonostante i parametri medi siano predeterminati, al giudice rimane comunque un’ampia discrezionalità in sede di liquidazione dei compensi. Nella prassi, però, tale discrezionalità non viene quasi mai esternata attraverso un’adeguata motivazione che dia conto dell’aderenza ai succitati parametri medi e alle variazioni rispetto agli stessi.
Nel processo amministrativo, normalmente, il quantum del rimborso viene stabilito forfettariamente dal giudice, anche perché, al contrario di quanto accade nel giudizio civile, i difensori solitamente non depositano la nota spese quando la causa passa in decisione[26].
Le spese legali liquidate, inoltre, oltre ad essere stabilite forfettariamente senza alcuna motivazione che permetta un collegamento ai parametri normativamente previsti, il più delle volte sono anche eccessivamente ridotte, ossia si pongono al di sotto della somma che dovrebbe essere liquidata avuto riguardo ai parametri minimi, ossia ai parametri medi previsti al netto delle possibili (massime) riduzioni da applicare.
4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato.
Il caso di specie riguarda la contestazione in appello di una sentenza del T.A.R. Lazio con la quale veniva liquidato, in favore dei difensori delle parti vittoriose, un importo ritenuto sproporzionato rispetto al valore medio dei parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[27].
Più precisamente, il giudice di primo grado, chiamato a decidere su quattro ricorsi aventi ad oggetto l’ottemperanza relativa al pagamento di somme a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (ai sensi della c.d. legge Pinto[28]), previa loro riunione, li ha accolti, condannando il Ministero dell’economia e delle finanze resistente a corrispondere l’esigua somma complessiva di 400 euro (pari a 100 euro a favore di ogni ricorrente)[29].
I ricorrenti, pur se vittoriosi in primo grado, decidevano di appellare la sentenza del T.A.R. deducendo l’incongruità del quantum della condanna alle spese, essendo la stessa in palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. prevedenti la disciplina della condanna alle spese nel giudizio amministrativo e con le regole previste dal d.m. n. 55/2014 per la quantificazione compensi forensi.
L’adita Sezione IV del Consiglio di Stato ha accolto il proposto appello rideterminando la somma spettante in complessivi 2.000 euro per le spese dei quattro giudizi di primo grado (ossia 500 euro per ciascuna parte) compensando, però, le spese del giudizio d’appello.
La sentenza in commento, nel rideterminare il quantum della soccombenza statuita in primo grado, ricalca pedissequamente altre pronunce della Sezione IV del Consiglio di Stato con le quali, relativamente a giudizi di ottemperanza similari a quello considerato, è stata fissata una sorta di “soglia minima” (sempre pari a 500 euro) sotto la quale non sia ammissibile liquidare i compensi spettanti ai difensori[30].
Il Collegio, nell’iter argomentativo a supporto di questa decisione, preliminarmente ricorda che il giudice amministrativo gode di ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione[31], con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi[32]. Viene precisato però che, qualora il giudice amministrativo decida di disporre la condanna al pagamento delle spese (non compensando le stesse), esso deve “tenere conto” del d.m. n. 55/2014, non potendo la liquidazione delle spese essere “manifestamente sproporzionata” rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto.
Quindi, la sentenza, pur non statuendo esplicitamente il valore vincolante ed inderogabile dei parametri, prescrive che il giudice, nel liquidare i compensi spettanti ai legali, debba quantomeno tenerli in debita considerazione[33]. Ma nonostante tale corretta affermazione di principio, il Consiglio di Stato, nel rideterminare l’importo della condanna alle spese, invece di operare una liquidazione in aderenza ai parametri, decide a sua volta di adottare la diversa quantificazione forfettaria di 500 euro per ogni giudizio di primo grado, limitandosi a richiamare la consolidata giurisprudenza anzi citata della Sezione IV sul punto[34].
Una possibile spiegazione di questo scostamento è rinvenibile in quella giurisprudenza di una diversa Sezione del Consiglio di Stato (la Sezione III) che non ritiene di applicare ai giudizi in materia di ottemperanza i parametri previsti per i giudizi amministrativi davanti al T.A.R. (tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014) ma, piuttosto, quelli relativi alle procedure esecutive mobiliari (tabella n. 16 allegata al d.m. n. 55/2014)[35]. Ma di tale impostazione – di per sé fortemente opinabile – non vi è traccia nella sentenza in commento, che non aggancia la liquidazione delle spese a quei parametri di cui, poco prima, ha raccomandato l’osservanza.
5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
In linea generale, nei casi in cui il giudice amministrativo riesce a vincere la sua endemica tendenza a ricorrere alla compensazione delle spese di lite, spesso (per non dire sempre) la condanna è liquidata in misura forfettaria, di gran lunga in ribasso rispetto ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 e senza alcuna motivazione a riguardo; quasi mai, alla parte vittoriosa è liquidata una somma realmente satisfattiva che gli consenta di restare “indenne dalla lite”[36] dal punto di vista patrimoniale.
La sentenza in commento costituisce un chiaro esempio di queste due diverse criticità, ossia, l’abuso della compensazione con esclusivo riferimento alla sussistenza dei “giusti motivi” e la persistenza delle liquidazioni forfettarie non agganciate ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014. Tali problematiche convivono all’interno della medesima pronuncia poiché, da una parte, il giudice d’appello ridetermina forfettariamente il quantum della condanna alle spese di primo grado e, dall’altra, compensa le spese del giudizio d’appello adducendo la presenza dei “giusti motivi” di compensazione.
Con riferimento al potere di compensare le spese legali non si può che richiamarsi a quanto detto in precedenza. Pur trattandosi di un potere altamente discrezionale, esso deve essere esercitato entro il perimetro tracciato dall’art. 92 c.p.c. nella sua versione costituzionalmente orientata. Pertanto, il giudice che decida di compensare le spese al di fuori dei casi normativamente previsti, dovrà esplicitare quali sono le “altre gravi ed eccezionali motivazioni” che lo hanno determinato in tal senso, non potendo i generici “giusti motivi” costituire una causa legittima per non addossare le spese alla parte soccombente.
Con riferimento alla quantificazione della soccombenza, occorre rilevare come nella prassi, solitamente, chi vince si vede riconosciuta una somma molto inferiore rispetto a quella che poi dovrà corrispondere al suo difensore per l’attività svolta[37]. Il fulcro del problema risiede nel riconoscimento o meno di un’efficacia vincolante ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[38]. A tal proposito nella giurisprudenza amministrativa si sono formati due contrapposti orientamenti: quello che legittima il potere del giudice amministrativo di derogare a detti parametri[39] e quello che predica la necessità per il giudice di attenersi agli stessi[40].
La sentenza in commento sembra propendere per il rispetto dei succitati parametri. Infatti, pur non prevedendo esplicitamente l’inderogabilità dei parametri minimi, stabilisce che la liquidazione delle spese non possa essere «manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale». Pertanto, anche volendo aderire alla teoria della derogabilità dei parametri, il giudice che ritenga di non volerli rispettare dovrebbe quantomeno esplicitare i motivi eccezionali che lo hanno determinato ad effettuare tale scelta con riferimento alle circostanze del caso concreto.
Tale pronuncia, quindi, appare condivisibile nella misura in cui conferma la crescente consapevolezza del giudice amministrativo della necessità di adeguare il quantum delle condanne a degli importi realmente satisfattivi per la parte vittoriosa, in ottemperanza a quanto prescrive il d.m. n. 55/2014. Non lo è altrettanto, invece, né quando concede la compensazione delle spese in appello con la formula dei “giusti motivi”, né quando ridetermina le spese dovute in primo grado forfettariamente, in misura inferiore e senza alcun riferimento ai parametri previsti per i giudizi amministrativi.
A tal proposito è lecito augurarsi un cambiamento delle abitudini sia da parte degli avvocati, che potrebbero (analogamente a quanto avviene nel processo civile) depositare note spese comprovanti l’attività svolta (senza temere che questo sia indizio della loro scarsa dimestichezza con il giudizio amministrativo agli occhi del Collegio), sia da parte dei giudici, che dovrebbero sempre più liquidare i compensi a carico della parte soccombente e in misura rispettosa dei parametri normativamente previsti.
* * *
[1] F.G. SCOCA, Il costo del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir. proc. amm., n. 4/2014, p. 1432. In senso sostanzialmente analogo, ma con riferimento al processo civile, già F. CARNELUTTI, Istituzioni del diritto processuale italiano, I, Roma, 1956, p. 216, distingueva i costi generali (da intendersi come la frazione imputabile a ciascun processo delle spese generali dell’amministrazione della giustizia) da quelli particolari (da intendersi come le spese necessarie per i singoli atti del processo, comprendenti sia le spese vive che il compenso dovuto a difensori e consulenti tecnici).
[2] Sul regime giuridico del contributo unificato e sulla sua problematica onerosità si segnalano: A. CRISMANI, I procedimenti giurisdizionali eccessivamente onerosi, n. 12/2014, p. 2819 ss.; F. SAITTA, Effettività della tutela e costo del processo amministrativo in materia di appalti: la (discutibile) opinione dei giudici europei sul contributo unificato, in www.lexitalia.it, n. 10/2015; C. LAMBERTI, La corte di giustizia «salva» il contributo unificato e devolve al giudice l’«esonero» dal cumulo, in www.giustamm.it, n. 12/2015; F. MONCERI, Costi del processo amministrativo. Limiti alla imposizione del contributo unificato sui c.d. motivi aggiunti e tutela europea del diritto di difesa, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[3] Sul riparto delle spese legali nel processo amministrativo si segnalano: E. FOLLIERI, Condanna al pagamento delle spese di lite, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 194 ss.; A. BARLETTA, La difesa in giudizio delle parti e la disciplina in materia di spese di lite, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, vol. II, p. 120 e ss.; M. MENGOZZI, Spese di giudizio, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 359 e ss. al quale si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema (p. 359).
[4] Sulle spese aggravate e sulle sanzioni processuali si segnalano: M.A. SANDULLI, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in www.federalismi.it, n. 20/2012; N. PAOLANTONIO, Linee evolutive della figura dell’abuso processuale in diritto amministrativo, in www.giustamm.it, n. 10/2014; M. LIPARI, La nuova sanzione per “lite temeraria” nel decreto sviluppo e nel correttivo al codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, 2011, in www.giustizia-amministrativa.it
[5] In tale contributo ci si soffermerà esclusivamente sulla ripetizione delle spese legali dovute per l’attività degli avvocati. Ci si limita ad evidenziare che l’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 112/2002 prescrive una disciplina particolare per il contributo unificato nel processo amministrativo, precisando che tale tributo è dovuto “in ogni caso” dalla parte soccombente, anche nell’ipotesi di compensazione delle spese. Esso, pertanto, non viene trattato alla stessa stregua delle spese legali. Altrettanto può dirsi in relazione alla responsabilità aggravata e alla sanzione per la temerarietà della lite che devono rispettare i requisiti previsti dall’art. 26 c.p.a. e dall’art. 96 c.p.c. per la loro applicazione.
[6] Secondo l’insegnamento di G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, p. 243, «soccombente è colui contro il quale la dichiarazione del diritto, la pronuncia del giudice, avviene: sia il convenuto contro il quale la domanda è accolta; sia l’attore contro il quale la domanda è dichiarata senza fondamento». La soccombenza, conosciuta anche come la regola del c.d. victus victori (in base alla quale il rimborso delle spese, letteralmente “vitto”, spetta al vincitore) trova la sua ragion d’essere nella circostanza che la parte vittoriosa in giudizio deve ottenere il riconoscimento integrale del suo diritto e che, quindi, non deve subire un danno patrimoniale dipendente dall’esborso monetario per il fatto di essersi dovuta rivolgere a un giudice.
[7] La norma originaria era prescritta nell’art. 50 del Regolamento di procedura dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, 17 ottobre 1889, n. 6516, secondo il quale: «le parti soccombenti sono condannate nelle spese». Successivamente, la regola della soccombenza è stata prevista in linea generale anche dall’art. 68 del r.d. n. 642/1907.
[8] Tale esclusione veniva motivata dal fatto che la pubblica amministrazione nel processo amministrativo non assumesse la veste e la qualità di parte e che stesse in giudizio solo per la tutela dell’interesse pubblico affidatole (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 8 gennaio 1891, in Giust. amm., 1891, I, p. 22 ss.). Sul tema si rinvia a: G. CHIOVENDA, La Pubblica Amministrazione e la condanna nelle spese davanti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in Giust. amm., 1896, vol. IV, p. 84 ss.; F. CAMMEO, La condanna solidale nelle spese giudiziali dinanzi alle giurisdizioni di giustizia amministrativa, in Giur. it., 1911, vol. III, p. 6 ss.; R. MALINVERNO, La condanna alle spese nei giudizi amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1932, I, p. 509 ss.
[9] L’art. 26, comma 4, della l. n. 1034/1971 prevedeva che: «In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese di giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del codice di procedura civile».
[10] L’art. 26, comma 1, c.p.a. prevede, poi, la possibilità per il giudice, anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata in presenza di “motivi manifestamente infondati”. Tale norma ricalca pedissequamente il dettato dell’art. 96, comma 3 c.p.c., salvo differenziarsene per due elementi di specialità: il presupposto della condanna (che viene individuato nella manifesta infondatezza dei motivi) e la sua quantificazione (che non può eccedere il doppio delle spese liquidate dal giudice). L’art. 26, comma 2 c.p.a., inoltre, prescrive una vera e propria sanzione per la parte che agisce o resiste temerariamente in giudizio, che può essere condannata, anche d’ufficio, al pagamento di una somma non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo.
[11] L’art. 91, comma 1, c.p.c., quando parla di “onorari di difesa” si riferisce esclusivamente ai compensi spettanti ai difensori per l’espletata attività giudiziaria, mentre quando parla di “spese giudiziali” si riferisce a tutti i restanti esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo del processo.
[12] Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, in Giur. cost., n. 2/2018, p. 703 ss. Per un commento a tale sentenza si rinvia a F. TEDIOLI, La Corte costituzionale estende il perimetro della compensazione delle spese giudiziali, in Studium Iuris, n. 10/2018, p. 1147 ss.
[13] In linea generale, infatti, nonostante l’attuale quadro normativo, sembra comunque piuttosto radicata nella giurisprudenza l’idea di un’ampia discrezionalità del giudice amministrativo in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei “giusti motivi” di compensazione. Esemplificativamente, a riguardo, si può citare tra le tante: Cons. St., Sez. III, 26 aprile 2019, n. 2689, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Per la pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria anche nell’attuale quadro normativo, il Tar ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. St., A.P., 24 maggio 2007, n. 8)».
[14] In tal senso ex multis si vedano le recenti: Cons. St., Sez. IV, 30 marzo 2020, n. 2167, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 28 febbraio 2020, n. 1454, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 17 febbraio 2020, n. 1204, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] In tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 23 giugno 2014, n. 3131, in Foro amm., n. 6/2014, p. 1741.
[16] In tal senso V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, p. 661, secondo il quale nel processo amministrativo sono «spesso estremamente incerte le posizioni della ragione e del torto».
[17] Secondo J. BERCELLI, Parti, difensori, spese, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 419: «Una così patente e costante elusione della legge da parte dei giudici amministrativi trova la sua giustificazione storica e logico giuridica nella circostanza (…) che il processo amministrativo è sì un processo di parti, ma non è mai stato e non è tuttora un processo di parti paritarie».
[18] In tal senso vedasi già G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, cit., p. 84.
[19] Secondo T.A.R. Lombardia (Milano), Sez. II, 10 gennaio 2020, n. 74, in www.giustizia-amministrativa.it, le altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni possono «individuarsi nella complessità delle questioni affrontate dal Collegio». In tale direzione si pone anche qualche recente sentenza del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. di St., Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6995, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale la decisione di compensare le spese (anche alla luce della sentenza Corte Cost. n. 77/2018) è «una valutazione riservata all’organo giudicante e avente natura discrezionale, che il Legislatore ha però circondato di un onere motivazionale rinforzato, al fine di mantenere inalterato il rapporto di regola ad eccezione, esistente tra i principi di condanna del soccombente e compensazione delle spese».
[20] È bene chiarire che la quantificazione complessiva delle spese di giudizio è cosa diversa dalla quantificazione delle spese legali propriamente intese, che vengono liquidate a favore della parte vittoriosa per il pagamento della sua difesa tecnica in giudizio. La quantificazione totale delle spese, infatti, dipende dalla sommatoria di tutti gli elementi che compongono la condanna alle spese. Oltre agli onorari (rectius compensi) di difesa bisogna calcolare la ripetizione del contributo unificato anticipato dal ricorrente e le eventuali ulteriori somme che il soccombente sarà costretto a pagare a titolo di responsabilità ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 96 c.p.c. Per la quantificazione delle spese legali, invece, salva una possibile loro riduzione per la violazione dei doveri imposti ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c. (spese eccessive o superflue) e dell’art. 26, comma 1, c.p.a. (doveri di chiarezza e sinteticità), occorre riferirsi alle regole prescritte nel d.m. n. 55/2014.
[21] Il d.m. giustizia n. 55/2014 “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247” ha previsto un innovativo sistema di quantificazione delle prestazioni professionali degli avvocati, abolendo le precedenti tariffe forensi (onorari e diritti) e sostituendole con dei parametri per la liquidazione delle prestazioni da calcolarsi in relazione all’attività svolta e al valore della controversia. Tali parametri, inizialmente introdotti, in applicazione dell’art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 (c.d. Legge dell’ordinamento forense), dal d.m. n. 140/2012, sono attualmente previsti dal d.m. n. 55/2014 come da ultimo modificato con il d.m. n. 37/2018.
[22] Sono previste due diverse tabelle rispettivamente per i giudizi innanzi al Tribunale amministrativo regionale (tabella n. 21) e per i giudizi innanzi al Consiglio di Stato (tabella n. 22). In entrambe le tabelle, per ognuna delle succitate fasi, sono previsti dei parametri (medi) diversi a seconda del valore della controversia.
[23] Più precisamente, l’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 prevede che: «Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti».
[24] Altri aumenti sono poi previsti in relazione all’esito della controversia: in caso di conciliazione giudiziale o di transazione, la liquidazione del compenso può essere aumentata fino a un quarto (art. 4, comma 6), mentre può essere concesso un aumento fino a un terzo del compenso quando le difese della parte vittoriosa sono state dichiarate manifestamente fondate (art. 4, comma 8). È previsto, inoltre, che il compenso possa essere aumentato del 30% rispetto al valore previsto quando gli atti, depositati con modalità telematiche, sono redatti «con tecniche informatiche idonee ad agevolare la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto» (art. 4, comma 1-bis). Il riferimento è relativo a quelli che vengono chiamati “collegamenti ipertestuali”, ossia i link che consentono, una volta realizzati all’interno dell’atto predisposto dal legale con il proprio software di videoscrittura, di poter visualizzare e consultare immediatamente, con un semplice click del mouse, il documento citato nell’atto e allegato nella “busta telematica”. È poi previsto che il compenso relativo alla fase introduttiva del giudizio è di regola aumentato sino al 50% quando sono proposti motivi aggiunti (art. 4, comma 10-bis). Inoltre, quando l’avvocato assiste più soggetti, tali importi possono essere ulteriormente aumentati in percentuali variabili a seconda del numero dei clienti assistiti (art. 4, comma 2).
[25] Art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 che è stato significativamente inciso dal d.m. n. 37/2018 che ha posto un limite al potere giurisdizionale di ridurre i compensi eliminando la locuzione “di regola” (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018) e precisando che la diminuzione non potrà andare “in ogni caso” oltre il 50% per cento e oltre il 70% per la fase istruttoria (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018). Il regolamento prevede poi anche due diversi casi in cui il compenso dovrebbe essere ridotto rispetto a tali valori per un comportamento non adeguato del difensore: viene previsto che costituisce elemento da valutare negativamente in sede di liquidazione del compenso l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, comma 7); e viene sancita la riduzione del 50% del compenso liquidabile al difensore nei casi di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., nonché nei casi di pronunce di inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione (art. 4, comma 9).
[26] In questi termini E. FOLLIERI, op. cit., p. 195. In tal senso vedasi ex multis Cons. St., Sez. V, 11 luglio 2017, n. 3407, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «costituisce prassi consolidata nella giurisprudenza amministrativa liquidare spese e onorari in misura forfetaria, senza analiticamente rifarsi agli elementi della tariffa professionale, in applicazione di dominanti criteri di equità, prassi alla quale si è adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e delle spese con riferimento alle singole voci della tabella; in tale ottica i criteri di liquidazione vengono ricavati non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, peculiari per ogni giudizio, variabili di volta in volta, quali la maggiore o minore complessità delle questioni affrontate, l’applicazione di precetti giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede l’affermazione e il comportamento tenuto dalle parti».
[27] La sentenza in commento è Cons. St., Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547, che ha annullato T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 19 settembre 2019, n. 11130, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Si tratta della l. n. 89/2001 recante “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”.
[29] Le spese sono state liquidate ai due difensori, dichiaratesi antistatari, nella misura di 200 euro ciascuno, dato che questi avevano proposto due ricorsi ciascuno (nell’interesse di altrettanti ricorrenti) che sono poi stati riuniti dal T.A.R. Lazio che li ha decisi con la citata sentenza n. 11130/2020.
[30] I precedenti conformi della Sezione IV che vengono richiamati sono: Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e n. 4434; Cons. St., Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8126; Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7360, n. 7366 e n. 7380; Cons. St., Sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 6798; Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2019, n. 6682 e n. 6683; Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2019, n. 6446, 6448, n. 6449, n. 6450 e n. 6451; Cons. St., Sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6321; Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2019, n. 6260; tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[31] A tal proposito vengono citate diverse sentenze del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8, in www.giustizia-amministrativa.it. Inoltre, il Collegio richiama anche la nota sentenza Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, cit., con la quale sono stati estesi i poteri di compensazione del giudice amministrativo anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre a quelle nominativamente indicate dall’art. 92, comma 2, c.p.c.
[32] Tra le sentenze citate si segnalano le recenti sentenze “gemelle” Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4434, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] La sentenza prevede che il giudice amministrativo, nel liquidare i compensi, debba altresì considerare le caratteristiche dell’attività prestata, il valore dell’affare e gli altri criteri normativamente previsti dall’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014.
[34] Nel caso di specie, però, detto importo, seppur rideterminato in aumento, non è comunque in linea con la somma che la parte vittoriosa avrebbe dovuto ottenere applicando i parametri minimi, prendendo come base di calcolo i parametri medi previsti dalla tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014.
[35] Vedasi a riguardo Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2016, n. 1247, in Foro amm., n. 3/2016, p. 560, secondo la quale il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto inferiore e paragonabile alle procedure esecutive mobiliari, necessità per cui si dovrebbero applicare i (più bassi) parametri previsti dalla tabella n. 16.
[36] Per usare le parole di G. CHIOVENDA, op. cit., p. 244, «Io non ripeterò mai abbastanza che il diritto deve uscire indenne dalla lite, e che l’obbligo dell’indennità dee far capo a chi della lite fu causa».
[37] A tal proposito occorre fare una importante precisazione: quando parliamo della condanna alle spese legali, intendiamo la liquidazione delle spese di lite effettuata dal giudice a favore della parte vittoriosa, che è cosa ben diversa dal diritto al compenso professionale che l’avvocato matura nei confronti del suo cliente in virtù di un rapporto civilistico di natura obbligatoria. Infatti, benché tra la disciplina del compenso professionale dell’avvocato e quella inerente all’obbligo di rifusione delle spese tra le parti vi siano innegabili connessioni logiche e giuridiche, le stesse si pongono su due piani diametralmente diversi, essendo due obbligazioni distinte sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. La disciplina relativa al compenso degli avvocati attiene ai rapporti che ciascuna parte del processo ha con il proprio legale ed ha ad oggetto un diritto di credito che origina da un contratto di mandato (ovvero un vincolo di carattere contrattuale) e la relativa regolamentazione va ricercata nelle norme del codice civile e nella legge professionale forense.
[38] Lo stesso concetto di “parametro” non è ontologicamente un qualcosa di rigido ed immodificabile, ma un’espressione ammantata di una valenza orientativa più che precettiva. È anche vero, però, che il d.m. n. 55/2014 prescrive dei limiti precisi entro i quali poter diminuire i parametri medi previsti per ogni tipologia di giudizio in relazione al valore della controversia.
[39] Vedasi ex multis: Cons. di St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014.
[40] Sebbene la giurisprudenza prevalente deponesse per la natura non vincolante dei parametri (in tal senso vedasi: Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014, p. 2284; Cons. St., Sez. IV, 29 dicembre 2014, 6381, in Foro amm., n. 12/2014, p. 3092), di recente la Corte di Cassazione con due ordinanze (Cass., civ., Sez. II, ord. 17 gennaio 2018 n. 1018, in Dir e giust., 18 gennaio 2018; e Cass. civ., Sez. II, ord. 31 agosto 2018 n. 21487, in Dir e giust., 5 settembre 2018) ha previsto il divieto per il giudice di liquidare il compenso professionale al di sotto dei parametri previsti. A supporto di tale seconda impostazione depone anche l’ultima modifica dell’art. 1, comma 4, d.m. n. 55/2014 ad opera dell’art. 1, comma 1, d.m. 37/2018 che ha previsto l’impossibilità di diminuire “in ogni caso” i valori dei parametri al di sotto del 50%.