I crediti di lavoro e gli interessi dopo l'intervento delle Sezioni Unite
di Luigi Cavallaro
Relazione all’incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura sul tema “I crediti di lavoro e gli interessi: l’intervento delle Sezioni Unite” (Napoli, Castel Capuano, 12 luglio 2024).
Sommario: 1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c. - 2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta - 3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta? - 4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c. -
1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c.
La questione degli interessi legali dovuti in caso di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria è stata recentemente oggetto di un duplice intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, a seguito di due distinte rimessioni pregiudiziali ex art. 363-bis c.p.c. da parte del Tribunale di Milano e del Tribunale di Parma.
Entrambe le rimessioni avevano tratto origine da altrettanti processi esecutivi: nel caso del Tribunale di Milano, la parte opponente si era doluta che, a fronte di una statuizione di condanna del giudice civile, che recava il pagamento della sorte e degli interessi legali, la parte creditrice avesse precettato a titolo d’interessi un importo comprensivo non solo degli interessi legali per come calcolati ai sensi del 1° comma dell’art. 1284 c.c., ma anche di quelli determinati a norma del successivo 4° comma dell’art. cit., che – com’è noto – prevede che “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”; e la stessa cosa era accaduta nel caso del Tribunale di Parma, salvo che, trattandosi di un’opposizione all’esecuzione in materia di lavoro, la parte opponente aveva più radicalmente contestato che il 4° comma dell’art. 1284 sia applicabile ai crediti di lavoro.
I due quesiti rivolti alle Sezioni Unite concernevano, perciò, anzitutto, la possibilità che, quando il giudice della cognizione non abbia specificato gli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi a dire “interessi legali” o “di legge”, il giudice dell’esecuzione possa ritenere che a partire dalla data di proposizione della domanda possano considerarsi liquidati anche quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284; in secondo luogo, se l’art. 429, comma 3°, c.p.c., nella parte in cui stabilisce che alla condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro debbano aggiungersi “gli interessi nella misura legale” (oltre che il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito), costituisca norma speciale rispetto all’art. 1284, comma 4°, c.c., con conseguente inapplicabilità di quest’ultimo ai crediti di lavoro, oppure se, al contrario, il rinvio che l’art. 429 c.p.c. opera nei confronti dell’art. 1284 c.c. debba valere nella sua interezza, includendo cioè anche il 4° comma e gli interessi legali maggiorati a far data dalla domanda giudiziale.
A dire il vero, il quesito rivolto dal Tribunale di Parma alle Sezioni Unite concerneva anche una questione ulteriore, se cioè il 4° comma dell’art. 1284 dovesse applicarsi ai soli crediti da rapporto contrattuale o anche a quelli di fonte extracontrattuale, come i danni da risarcimento da fatto illecito. Ma la curiosità del Tribunale parmense (come anche la nostra) è andata delusa, perché le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12449 del 2024, hanno risposto negativamente al primo dei due quesiti pregiudiziali (quello del Tribunale di Milano) e, una volta affermato che, se il titolo esecutivo giudiziale dispone il pagamento di “interessi legali” senz’altra indicazione, la misura degli interessi maturati dopo la domanda resta fissata nel saggio previsto dall’art. 1284, comma 1°, c.c., hanno ovviamente dovuto dichiarare inammissibile il duplice quesito posto dal nostro collega: e per la banale e troncante ragione che il titolo esecutivo, nel suo caso, recava condanna al pagamento della somma “oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo”, senza altro specificare (si veda Cass. S.U. n. 12974 del 2024).
Mi spiace solo dovervi dire che questo sfortunato esito del rinvio pregiudiziale che più ci interessava non mi permette di chiudere qui il mio intervento e andarci a bere un buon caffè e chiacchierare d’altro: perché le Sezioni Unite, decidendo nel merito il rinvio pregiudiziale di Milano, hanno comunque svolto alcune considerazioni che potrebbero tornare utili nell’affrontare la questione che aveva posto il Tribunale di Parma: che riguarda, certo, l’applicabilità dell’art. 1284, comma 4°, c.p.c. ai crediti di lavoro privato, ma appena più oltre anche l’applicabilità degli interessi maggiorati ai crediti di lavoro pubblico e di previdenza e assistenza sociale.
Il passaggio argomentativo delle Sezioni Unite che più interessa ai nostri fini è contenuto nel terzo paragrafo della motivazione, lì dove si legge che “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale”: ciò infatti equivale a dire che, ai fini dell’applicazione del tasso maggiorato di cui al 4° comma dell’art. 1284, è richiesto l’accertamento della sussistenza di presupposti ulteriori rispetto all’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, che le Sezioni Unite individuano rispettivamente nell’assenza di una determinazione negoziale della misura degli interessi, nell’individuazione del momento di proposizione della domanda giudiziale e, soprattutto, nella “natura della fonte dell’obbligazione”: che, dicono le Sezioni Unite, può essere “la più varia” e richiede perciò uno “specifico accertamento da parte del giudice della cognizione”, che concerne “la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio” e può condurre ad esiti differenti a seconda che si tratti di “obbligazioni contrattuali” o “derivanti da responsabilità extracontrattuale” o ancora “crediti di lavoro”, per i quali, ricordano ancora le Sezioni Unite, vale la “specifica disciplina” di cui all’art. 429, comma 3°, c.p.c.-
Il messaggio, insomma, pare piuttosto chiaro: non basta che il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione sia sanzionato con gli interessi legali perché possa automaticamente scattare, a far data dalla domanda giudiziale, l’obbligo di pagamento degli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.; è necessario, piuttosto, indagare anzitutto quale sia la “natura” dell’obbligazione di cui si discute e verificare se l’attribuzione degli interessi maggiorati sia con essa compatibile.
2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta
Quando abbiamo studiato il diritto privato, ci siamo imbattuti tutti in una distinzione che inizialmente ci è parsa a dir poco astrusa: quella tra debiti di valore e debiti di valuta. Ricordate? I debiti di valuta sono quelli che hanno per oggetto una somma di denaro e sono perciò soggetti al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., con la conseguenza che – come leggiamo ad es. nel Manuale di diritto privato di Galgano – l’obbligazione di pagare mille euro, sorta dieci anni or sono e con scadenza ad oggi, resta obbligazione di pagare mille euro, anche se nel frattempo il potere d’acquisto della moneta, ossia la quantità di beni che si possono acquistare con quei mille euro, dovesse essere diminuita per effetto dell’inflazione o, al contrario, dovesse essersi accresciuta in conseguenza di una deflazione.
“Debiti di valore” sono invece quei debiti in cui la somma di denaro è dovuta non come bene in sé, ma in quanto valore di un altro bene, come ad es. il valore del bene danneggiato o distrutto a causa di un fatto illecito: e ciò perché qui il denaro viene in rilievo semplicemente in quanto equivalente economico del bene danneggiato o distrutto, il cui valore dev’essere stimato dal giudice per quel che è al momento della liquidazione. Vale a dire che, se è pronunciata oggi la condanna al risarcimento di un danno cagionato dieci anni or sono, il giudice liquiderà una somma pari al valore odierno (e non al valore di dieci anni fa) del bene distrutto dal danneggiante o pari al costo odierno, (e non al costo di dieci anni fa) delle riparazioni necessarie per eliminare le conseguenze dannose del fatto illecito altrui. “Il concetto – spiega ancora Galgano – è che al danneggiato dovrà essere corrisposta a una somma che gli permetta di riacquistare un bene equivalente alle odierne condizioni di mercato o che gli permetta di affrontare ai costi odierni le spese di riparazione”.
Perché ho riesumato questa antica (e per molti, prima ancora che astrusa, inutile) distinzione? Semplicemente perché è assai diversa la disciplina degli interessi legali a seconda che ci si trovi in presenza di un debito di valore o di un debito di valuta.
Per la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, i debiti di valuta sono assoggettati al regime dell’art. 1224 c.c., che, in caso di inadempimento, prevede per il creditore il diritto al risarcimento del danno in misura pari almeno al saggio legale d’interesse di cui all’art. 1284, salva la prova del maggior danno da svalutazione monetaria, che può ritenersi presunto in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. S.U. n. 19499 del 2008); in questi casi, l’obbligazione d’interessi ha natura accessoria e soprattutto autonoma rispetto a quella concernente il capitale, tant’è che deve formare oggetto di apposita domanda giudiziale, in assenza della quale è precluso al giudice liquidarli d’ufficio (così già Cass. n. 977 del 1999).
Affatto diversa è la regola per ciò che concerne i debiti di valore: qui, infatti, gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito (Cass. S.U. n. 8520 del 2007); e ciò non soltanto comporta che essi debbano essere liquidati anche d’ufficio, cioè indipendentemente da un’apposita domanda della parte creditrice, ma soprattutto che la misura in cui vengono attribuiti può (e anzi deve) prescindere dal saggio legale tutte le volte in cui la loro attribuzione si risolva in una inammissibile locupletazione del creditore. Prova ne sia che, in una vicenda in cui era stata invocata proprio l’applicazione dell’art. 1284 comma 4° c.c. a far data dalla proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale, la Cassazione ha affermato che, a tal fine, è necessario dedurre e dimostrare che il maggior saggio degli interessi di cui al 4° comma dell’art. 1284 sia più adeguato all’entità effettiva del danno subito: gli interessi “compensativi”, infatti, hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori regolati dall’art. 1224 c.c., giacché valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo e la liquidazione, e la loro corresponsione non è in alcun modo automatica o presunta iuris et de iure, occorrendo invece che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento (Cass. n. 19063 del 2023).
Detto altrimenti, la disciplina degli interessi legali è completamente differente a seconda che ci si trovi davanti ad un debito di valore o ad un debito di valuta, il che retroagisce significativamente sulla possibilità che il ritardo nell’adempimento possa essere sanzionato con gli interessi legali maggiorati di cui all’art. 1284, comma 4° c.c. La qual cosa, finalmente, ci porta alla questione che più propriamente ci riguarda: i crediti di lavoro sono debiti di valore o sono debiti di valuta?
3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta?
Se andiamo a vedere i lavori parlamentari da cui trasse origine l’art. 429 comma 3° c.p.c., ci accorgiamo subito di quale fosse l’intento del legislatore: la sua formulazione attuale, secondo cui, quando pronuncia sentenza di condanna a favore del lavoratore, il giudice deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno subito dal lavoratore per la diminuzione di valore dei suo credito, si deve ad un emendamento proposto, nella seduta del 22 giugno 1971, dal deputato comunista Franco Coccia, il quale spiegò la sua proposta emendativa (che fu poi accolta dalla maggioranza) con l’intento di introdurre nel nostro sistema il principio che la retribuzione costituisce “credito di valore e non di valuta” e di sganciare in tal modo la liquidazione del danno da ritardo dalla disciplina dell’art. 1224 c.c.
Proprio per ciò, i primissimi (e più acuti) commentatori della riforma scorsero nitidamente nella norma non solo il principio secondo cui la rivalutazione monetaria veniva ad essere liquidata a prescindere dalla prova in concreto di qualunque danno, ma altresì la regola che tale liquidazione doveva prescindere dalla costituzione in mora del debitore: il che non era meno importante, sol che pensiamo che la mora, per i crediti di lavoro, non consegue affatto alla scadenza del termine per l’adempimento, com’è invece per la maggior parte delle obbligazioni pecuniarie in grazia del combinato disposto degli artt. 1182, comma 3°, e 1219, comma 2°, n. 3, c.c., giacché il luogo dell’adempimento dell’obbligazione retributiva era (e ancora è) costituito di regola non già dal domicilio del creditore, ma dal luogo di esecuzione della prestazione lavorativa.
D’altra parte, questa marcata differenziazione della disciplina dei crediti di lavoro rispetto a quella delle altre obbligazioni pecuniarie non mancò di suscitare subito dubbi di costituzionalità per violazione del principio di parità di trattamento, né di riproporne nei trent’anni successivi, via via che, a causa delle complesse vicende storiche e sociali che ha attraversato il nostro Paese, mutava il tessuto ordinamentale di riferimento. Ed è proprio nelle risposte che diede la Corte costituzionale a questi dubbi (mi riferisco soprattutto alle sentenze nn. 13 del 1977, 207 del 1994 e 459 del 2000) che possiamo provare a rinvenire qualche elemento di risposta al quesito circa la natura dei crediti di lavoro.
Se volessimo ricapitolare il significato di queste tre pronunce, potremmo dire che il meccanismo dell’art. 429 comma 3° c.p.c. possiede per la Corte costituzionale una triplice funzione: anzitutto, di conservazione del valore della prestazione dovuta al lavoratore, allo scopo di ripristinarne il potere di acquisto in termini di beni reali; in secondo luogo, di recupero dell’arricchimento illegittimamente conseguito dal datore di lavoro mediante l’inadempimento; in terzo luogo, di “remora” all’inadempimento stesso. Tutte e tre, dice la Corte, concorrono a configurare una forma speciale di tutela, che è costituzionalmente necessitata e si riflette sulla stessa natura dell’obbligazione retributiva.
Ora, che la norma in esame recasse una regolamentazione sostanziale di carattere speciale rispetto all’art. 1224 c.c. fu colto già nel corso della discussione parlamentare, sebbene all’indomani della sua adozione un nutrito gruppo di processualisti, capitanato da Elio Fazzalari, ancora sostenesse che il giudice non avrebbe potuto condannare alla rivalutazione monetaria in assenza di specifica domanda e in mancanza di prova del maggior danno. E che il significato sostanziale della previsione fosse quello di parificare i crediti di lavoro ai crediti di valore fu colto da un civilista (e lavorista) del calibro di Francesco Santoro-Passarelli, il quale, già nella ventiseiesima edizione delle sue Nozioni di diritto del lavoro (1973), scrisse limpidamente che il debito di retribuzione non si poteva più considerare come “un debito di moneta o pecuniario, al quale trovi applicazione il principio nominalistico”, ma aveva assunto “natura di debito di valoreanche se espresso in termini pecuniari”: più o meno, potremmo aggiungere, come il debito degli alimenti, il cui oggetto, dovendo proporzionarsi alle necessità del creditore alimentando e dunque necessariamente in relazione alle variazioni del potere d’acquisto della moneta, non è – nella notissima ricostruzione ascarelliana – propriamente costituito da una determinata somma di denaro, ma da un “valore”, che può corrispondere, in momenti diversi, a somme di denaro diverse.
È nondimeno risaputo che la tesi dell’avvenuta trasformazione del debito retributivo in debito di valore non ha incontrato il consenso maggioritario né della dottrina né della giurisprudenza: e ciò indipendentemente dal fatto che, specie nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di “debito di valore” ha assunto un significato affatto differente da quello che intendeva ascrivergli Tullio Ascarelli, finendo per identificarsi con quei debiti in cui l’oggetto originario della prestazione non è costituito da una somma di denaro, sebbene poi l’obbligazione possa essere adempiuta mediante la prestazione di una somma di denaro.
È però singolare, e se si vuole perfino sintomatico, che l’applicazione pratica dell’art. 429 comma 3° c.p.c. abbia finito per equiparare quoad effectum il debito retributivo ai debiti di valore, precisamente sul rilievo che il meccanismo di adeguamento previsto dalla norma avrebbe fatto sì che la rivalutazione e gli interessi costituiscano “componenti essenziali” della prestazione retributiva, che spettano per il solo fatto oggettivo del ritardo nell’adempimento e indipendentemente dalla colpa dell’obbligato: ciò, infatti, equivaleva in sostanza a riconoscere che, prendendo a prestito proprio parole di Ascarelli, la svalutazione della moneta non viene in questo caso in considerazione come “danno” da risarcire, ma solo per permettere al lavoratore di conseguire quel “valore” che costituisce oggetto del debito (e di qui la regola secondo cui il lavoratore non deve dare alcuna dimostrazione del “maggior danno” che la svalutazione stessa ha comportato).
Si deve semmai ricordare che le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere il contrasto nuovamente insorto nella Sezione Lavoro sulle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, pur non mancando di rilevare che il debito di valore costituisce “categoria non legale, comunemente accettata per decenni nella pratica del foro ma ultimamente da qualcuno contestata”, hanno deciso di comporlo affermando che gli interessi debbono calcolarsi sulla somma via via rivalutata (Cass. S.U. n. 38 del 2001): che è, com’è noto (e come le stesse Sezioni Unite non hanno mancato di ricordare), la modalità tipica con cui si procede al risarcimento del danno nelle obbligazioni da illecito extracontrattuale, che dei debiti di valore costituiscono esempio paradigmatico.
La questione, ai nostri fini, potrebbe essere tutt’altro che irrilevante. Come abbiamo già ricordato, nei debiti di valore gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, come invece nei debiti di valuta, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito; ed è proprio per ciò che, come abbiamo pure ricordato, la Cassazione ha recentemente escluso che, quando si verte in materia di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, gli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c. possano essere riconosciuti indipendentemente dalla prova che la loro attribuzione valga ad adeguare il risarcimento dovuto all’entità effettiva del danno subito.
Trasferendo questi principi nel campo dei debiti retributivi, si potrebbe allora sostenere che, dal momento che il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi previsto dall’art. 429 comma 3° c.p.c. costituisce semplicemente una tecnica liquidatoria della prestazione retributiva corrisposta in ritardo, il maggior saggio degli interessi legali di cui all’art. 1284 comma 4° c.c. non potrebbe essere rivendicato se non sul presupposto – da provarsi in concreto – che il minor saggio di cui al comma 1° è insufficiente, unitamente alla rivalutazione monetaria, a ricostituire il “valore” della retribuzione non corrisposta; ed è evidente che, se hanno ragione le Sezioni Unite (mi riferisco qui a Cass. S.U. n. 38/2001, cit.) a sostenere che il cumulo di rivalutazione monetaria e interessi assolve ex se al compito di coprire integralmente il danno emergente e il lucro cessante derivante dall’inadempimento (ovvero, secondo l’ottica qui prospettata, di restaurare il “valore” della retribuzione inadempiuta), la disposizione in esame, salvo casi di specie veramente eccezionali, resterebbe praticamente estranea alla materia dei crediti di lavoro.
4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c.
Naturalmente, si può revocare in dubbio la stessa distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore o comunque perorare il suo abbandono come relitto d’un tempo che fu: in passato è stato fatto da giuristi della statura di Rosario Nicolò e Giuseppe Ferri e più recentemente da altri studiosi che vi hanno volto la riflessione.
Si potrebbe per contro argomentare che, se non s’intende abbandonare quella distinzione, ben difficilmente si può continuare a sostenere che il debito retributivo non debba appartenere ai debiti di valore, ma è discussione che ci porterebbe troppo lontano. Preferisco dunque esplorare l’ipotesi che quanto abbiamo detto fin qui sia del tutto implausibile e che i crediti di lavoro debbano considerarsi alla stregua di normali obbligazioni pecuniarie, ad onta del caveat delle Sezioni Unite del maggio scorso. Significa forse che si apre la strada (e anzi un’autostrada) per un’applicazione pura e semplice del saggio d’interesse previsto dal 4° comma dell’art. 1284?
È perfino ovvio rilevare che nulla osterebbe, sul piano meramente letterale, a che il rinvio agli interessi legali, che leggiamo nel terzo comma dell’art. 429 c.p.c, debba riferirsi all’intero contenuto dell’art. 1284 c.c., e dunque anche alla previsione del suo 4° comma.
Tuttavia, se è vero che la lettera di una disposizione normativa non esime l’interprete dal compito di inquadrare i singoli istituti nella sistematica giuridica (lo hanno detto le Sezioni Unite in una memorabile pronuncia, la n. 5379 del 1988), è altrettanto ovvio che, quand’anche si vogliano considerare i debiti di lavoro come normali debiti pecuniari, non si può prescindere dal fatto che di essi il legislatore ha dettato una disciplina per più aspetti derogatoria rispetto a quella dell’art. 1224 c.c.; e la caratteristica tipica delle discipline derogatorie è, notoriamente, quella di resistere ad innovazioni legislative extratestuali, quand’anche concernano norme generali in esse eventualmente richiamate: anzi, la loro attitudine a regolare in via esclusiva la classe di fattispecie che disciplinano è tale che, in talune circostanze, può far sì che la norma generale richiamata resti addirittura cristallizzata nel testo antecedente a successive modifiche che l’abbiano riguardata, quasi si trattasse di un rinvio recettizio. Lo abbiamo visto nella vicenda dell’art. 18 St. lav., le cui modifiche ad opera della legge n. 92/2012 sono state ritenute non applicabili ai rapporti di pubblico impiego.
Ora, è risaputo che la ratio che ispirò il frettoloso legislatore a introdurre il 4° comma dell’art. 1284 c.c. risiedeva nell’esigenza di “evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale di interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato”. E perfino banale è constatare che lo strumento approntato a tal fine ha una veste smaccatamente sanzionatoria: se è vero che, da due secoli e mezzo a questa parte, il sistema della responsabilità civile si è faticosamente costruito sul principio secondo cui il necessario ripristino dell’equilibrio patrimoniale del creditore vittima dell’illecito non può giustificare alcun suo indebito arricchimento, mi pare francamente difficile sostenere che un saggio d’interesse pari al tasso di riferimento della Banca centrale europea maggiorato di otto punti percentuali sia volto semplicemente a “ripristinare” il patrimonio del creditore; più realistico mi pare supporre che si sia voluto introdurre una vera e propria pena privata a carico del debitore, sull’assunto che la misura prevedibile del risarcimento, essendo prima ancorata al (solo) saggio d’interesse legale, non costituisse una ragione sufficiente per indurlo ad astenersi dall’inadempimento, in quanto – per ipotesi – inferiore al lucro ritraibile dall’inadempimento stesso.
Sennonché, è proprio tale funzione sanzionatoria ad entrare in tensione con la speciale disciplina approntata per la tutela dei crediti retributivi da lavoro privato: basterà qui ricordare che, nel risolvere il contrasto relativo alle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 38/2001, hanno espressamente affermato che già il calcolo degli interessi sul capitale via via rivalutato impone al datore di lavoro un aggravio rispetto alla mera ricostituzione del “valore” della retribuzione non corrisposta, che può giustificarsi solo in relazione a quella funzione di “remora” (ossia di pena privata) che abbiamo visto essere tipica del 3° comma dell’art. 429 c.p.c.; ed è evidente che, sommando indiscriminatamente a questa anche gli interessi “punitivi” previsti dal comma 4° dell’art. 1284 c.c., ci troveremmo di fronte ad un cumulo sproporzionato di pene private, che potrebbe essere sospettabile di incostituzionalità per irrazionalità manifesta.
Ragioni di tempo mi impediscono anche solo di accennare ad una questione intimamente connessa con quella di cui qui abbiamo discusso, vale a dire se la disciplina dell’art. 1284 comma 4° sia applicabile ai crediti da lavoro pubblico e a quelli di previdenza e assistenza, per i quali – come sappiamo – non opera il meccanismo di liquidazione del danno di cui all’art. 429, 3° comma, c.p.c., ma il diverso regime di cui all’art. 16, comma 6, l. n. 412/1991: su questo non posso che rinviarvi ad uno scritto che dovrebbe essere già stato messo a vostra disposizione (https://accademiaassociazionecivilisti.it/il-valore-del-lavoro-la-disciplina-dei-crediti-retributivi-tra-rivalutazione-monetaria-interessi-legali-e-interessi-punitivi/), nel quale anche gli argomenti qui sommariamente trattati hanno trovato più completa esposizione. Non senza, naturalmente, ringraziarvi per l’attenzione.
Immagine: Victor Dubreuil, The Eye of the Artist, ca. 1898 — Source.