Tutela effettiva contrattuale “individuale”: le c.d. nullità di protezione[1]
di Enzo Vincenti*
Sommario: 1. Premessa e inquadramento del problema - 2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea - 3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede) - 4. Conclusioni.
1. Premessa e inquadramento del problema
Nell’ambito di una più ampia riflessione che investe i profili “collettivo” e “individuale” del principio di effettività della tutela in ambito contrattuale e dei correlati poteri del giudice, le considerazioni che seguono atterranno soltanto al secondo degli anzidetti profili.
Il settore in cui detto principio (o anche meta-principio di orientamento) è potuto maturare e consolidarsi, secondo un’evoluzione costante, sebbene non sempre lineare, è certamente quello consumeristico, che, nella sua configurazione di tutela individuale, ha rinvenuto il proprio referente privilegiato e ormai tradizionale anzitutto nella materia, di matrice europea, delle clausole abusive (note nel nostro ordinamento come clausole vessatorie), di cui alla datata direttiva 93/13 (ma di recente modificata dalla direttiva 2161/2019/UE, in un’ottica di pubblic enforcement); ambito nel quale, poi, ha trovato alimento e definizione l’apparato rimediale di tutela e, dunque, la perimetrazione dei poteri esercitabili dal giudice.
È, in particolare, il territorio – forse non ancora del tutto sminato – delle nullità di protezione (di cui, anzitutto, all’art. 36 del codice del consumo, sulla base legale dell’art. 6 della citata dir. 93/13), la cui declinazione al plurale non deve, però, ingannare sull’aspirazione di quella frammentazione casistica di fattispecie disseminate in più settori, secondo le peculiari esigenze dello specifico mercato di riferimento, a strutturarsi in categoria di sistema – quella della nullità di protezione al singolare -, così da entrare anch’essa a far parte della dogmatica tradizionale delle invalidità negoziali, e ciò in base a taluni caratteri unificanti.
Caratteri che la dottrina (o meglio parte di essa, perché altra parte contrasta decisamente questa aspirazione unitaria) ha individuato essenzialmente nei tratti della “necessaria parzialità”, nella “legittimazione relativa”, nella “rilevabilità d’ufficio” e, rispetto a quest’ultimo carattere, nei corollari della “inefficacia relativa ab origine” del contratto e della sua “sanabilità” ad opera del solo consumatore o, meglio, del contraente debole.
E questo perché, come accennato, la vocazione della nullità di protezione è di farsi categoria che va oltre il perimetro della tutela propriamente legata all’abusività della clausole contrattuali imposte dal professionista a danno del consumatore, per farsi paladina di una situazione oggettivabile, ossia della debolezza contrattuale, al fine di ristabilire a valle l’equilibrio sostanziale dell’accordo che difetta in origine proprio per l’asimmetria di posizioni (dovuta, per lo più, a gap informativi, ma non solo) e che ritroviamo anche – in via solo esemplificativa - nella disciplina sull’abuso di dipendenza economica (art. 9, comma 1, l. 192/1998) o in quella sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 7, comma 1, d.lgs. n. 231/2002).
Di quell’opera sistematrice può, dunque, dirsi in qualche modo concorrente la giurisprudenza della Cassazione, che, con le note sentenze gemelle del 2014 delle Sezioni Unite (n. 26242 e n. 26243), prendendo in considerazione precipuamente il carattere della rilevabilità officiosa, ha inteso ravvisare anche nelle nullità di protezione il carattere della virtualità, proprio perché “species” del più ampio “genus” delle nullità tradizionali, accomunate tutte da obiettivi di tutela trascendenti gli interessi meramente privati, per guardare le prime, quelle di protezione, a valori fondamentali come il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), riconoscendo che lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese.
Un percorso che trova ulteriore maturazione con la più recente sentenza delle Sezioni Unite in tema di “nullità selettive”, la n. 28314 del 2019, nella quale – in quella stessa prospettiva di tutela valoriale - si ribadisce l’esistenza di uno statuto proprio della nullità di protezione, un regime giuridico unitario, a partire dalla legittimazione riservata al consumatore (o, meglio, al cliente in ambito finanziario e bancario) e dalla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, ma a precipuo vantaggio della parte debole del negozio, così da evidenziare una “vocazione funzionale” dell’istituto alla correzione parziale del contratto, ossia limitatamente alle parti che pregiudicano il contraente che in via esclusiva può far valere il vizio.
Una “vocazione funzionale” che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 898 del 2018, avevano già ravvisato, del resto, nella forma del contratto quadro di investimento, ritenuto quindi valido anche se “monofirma”.
E’ un profilo, quello dello statuto unitario prefigurato dalle Sezioni Unite del 2014 e predicato esplicitamente dalle Sezioni Unite del 2019 (e ribadito poi anche dalla successiva ordinanza della Sesta-I n. 13217 del 17 maggio 2021), di particolare problematicità, oggetto di un serrato dibattito e di critica da una parte della dottrina. Ed è un profilo su cui non mancherà qualche breve riflessione più avanti.
2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
È certo, però, che il percorso così intrapreso si è avvalso dell’apporto, decisivo, del materiale giuridico sovranazionale e, specialmente, dei principi enucleati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, di cui, pertanto, è necessario dare conto, seppure in estrema sintesi, al fine di saggiare di come il dialogo con la Corte di cassazione si sia tradotto, in ambito nazionale, nella materia contrattuale.
Principi, quelli della Corte di Lussemburgo, che si sono evoluti diacronicamente secondo una direttrice guidata dal consueto pragmatismo che connota gli interventi di quel giudice, spesso a geometria variabile, anche perché l’azione comunitaria nella materia contrattuale si sviluppa eminentemente in base ad esigenze, concrete, di politica economica piuttosto che farsi tentare da una compiuta e ineccepibile architettura di sistema.
È, come noto, una politica orientata anche da dettami ordoliberisti, che mirano all’efficienza del mercato pure attraverso l’eliminazione di quelle situazioni di debolezza che ne minano il corretto funzionamento.
Sicché, la Corte di giustizia è giunta solo in un secondo momento a tradurre in potere-dovere (a partire dalla sentenza Mostaza Claro dell’ottobre 2006) la mera facoltà del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di protezione (come enunciato con la sentenza Oceano del giugno 2000), affermando poi a chiare lettere (con la sentenza Asturcom dell’ottobre 2009 e più di recente con la sentenza OPR Finance del marzo 2020) che l’art. 6 della direttive 93/13 declina “un canone di ordine pubblico di protezione”, per l’appunto, fondativo, attraverso lo strumento negoziale, di “una politica dirigistica di ricerca dell’equilibrio giuridico nei rapporti negoziali non conclusi fra imprenditori”.
Di qui, poi (con la sentenza Pannon del giugno 2009) la correlazione del principio di obbligatorietà del rilievo giudiziale officioso della clausola abusiva con il dovere, del medesimo giudice, di interpellare il consumatore sugli esiti di quel rilievo, ossia se costui intenda opporsi alla declaratoria di nullità della clausola vessatoria.
Sebbene, poi, il Giudice europeo (con la sentenza Banif Plus del febbraio 2013) abbia precisato che, una volta che il consumatore sia stato informato dei propri diritti (il c.d. diritto all’interpello), il giudice nazionale non è tenuto ad attendere che lo stesso esprima in modo esplicito la propria di volontà di ottenere la caducazione della clausola abusiva, ma può comunque procedere a trarre le conseguenze derivanti da tale accertamento.
E, in tema di conseguenze dell’accertamento della vessatorietà, appare particolarmente significativo l’arresto della sentenza Gutiérrez Naranjo (del dicembre 2016) che – nell’ottica di effettività piena della protezione del consumatore, la quale postula che il rimedio invalidante della clausola abusiva presenti un carattere di deterrenza seria e, quindi, assegni particolare forza al profilo di “non vincolatività” della clausola stessa - ha ritenuto che soltanto il giudicato pregresso, e non altre ragioni giustificative, avrebbe potuto inibire la ripetibilità delle somme indebitamente versate in base alla clausola di cd. tasso minimo degli interessi su mutuo ipotecario e così intaccare l’altro valore preminente, ossia quello dell’effettività della tutela.
Trova, quindi, specifico rilievo il principio della intangibilità della decisione di un giudice a presidio del valore preminente della certezza del diritto; principio ribadito con la sentenza Banco Primus del gennaio 2017 nella sua declinazione di intangibilità del giudicato esplicito sulla validità delle clausole contrattuali.
In quest’ambito sono maturate, altresì, le conclusioni dell’Avvocato Generale Tanchev (in data 15 luglio 2021) sulle questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di giustizia dal Tribunale di Milano circa il divieto per il giudice dell’esecuzione di rimettere in discussione il giudicato implicito sulla vessatorietà di clausole contrattuali formatosi per la mancata opposizione di un decreto ingiuntivo.
L’Avvocato Generale ha ritenuto che un siffatto divieto contrasti con l’art. 6 della direttiva 93/13, assumendo, dunque, che soltanto una valutazione esplicita e sufficientemente motivata della vessatorietà di una clausola contrattuale possa fondare il principio di intangibilità del giudicato nell’ambito della tutela consumeristica.
Se la decisione della Corte fosse nel senso auspicato dalle anzidette conclusioni, lo statuto della nullità protettiva potrebbe arricchirsi di un’ulteriore colorazione.
E ancora, rivestono indubbia importanza, soprattutto per la perimetrazione dei poteri officiosi del giudice, gli interventi della Corte di giustizia in materia di abusività delle clausole che definiscono il meccanismo di fissazione del tasso d’interesse variabile in un contratto di prestito concluso da un consumatore.
Con la sentenza Banco di Santader dell’agosto 2018, il Giudice di Lussemburgo ha ritenuto conforme alla direttiva 93/13 sia la qualificazione, ad opera del giudice nazionale, della natura abusiva di una clausola che impone al consumatore in mora il pagamento di interessi al tasso superiore di oltre due punti percentuali rispetto a quello degli interessi corrispettivi previsto dal contratto di mutuo, da ritenersi come tale “indennizzo di importo sproporzionatamente elevato”; sia l’intervento soppressivo, sempre da parte di quel giudice, di una siffatta clausola abusiva, pur mantenendo in vita la maturazione degli interessi corrispettivi previsti dal medesimo contratto.
E questa sentenza ha trovato particolare enfasi nella decisione assunta dalle Sezioni Unite in tema di interessi usurari nel contratto di mutuo (sentenza n. 19597 del 18 settembre 2020), che ha ritenuto applicabile anche agli interessi moratori la disciplina antiusura, con possibilità di trarre il tasso soglia anche dai decreti ministeriali di cui alla legge n. 108 del 1996.
La sentenza n. 19597 del 2020 ha, quindi, affermato che, accertata l’usura, troverà applicazione il comma secondo dell’art. 1815 c.c., con la conseguenza che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell'art. 1224, comma primo, c.c.: e in ciò, per l’appunto, è dato riconoscere l’adesione al secondo corno della anzidetta decisione di Lussemburgo.
La decisione delle Sezioni Unite ha, poi, precisato che nei contratti conclusi con i consumatori l’interessato può scegliere tra questo rimedio e la nullità, e quindi l’eliminazione, della clausola abusiva in base agli artt. 33 e 36 del codice del consumo: e a tal fine è richiamato l’insegnamento che si desume, in particolare, dalla sentenza Unicaja Banco del gennaio 2015.
Il tema dei poteri del giudice ritorna in modo significativo in due orientamenti che sembrano assumere posizioni non certo collimanti sulla portata dei poteri di integrazione contrattuale ad opera del giudice, alimentando un dibattito – che è attuale anche nel nostro ambito nazionale – sulla discrezionalità giudiziale interferente con l’autonomia privata.
Con la sentenza Dziubak dell’ottobre 2019, la Corte di giustizia, per un verso, ha ritenuto che la modifica dell’oggetto principale del contratto non consenta un’operazione di eliminazione della sola clausola illecita, ma comporti l’invalidazione dell’intero contratto, sempre tenuto conto dell’interesse del contraente debole, come dal medesimo rappresentato.
Per altro verso, la stessa decisione (ma in ciò ribadendo un indirizzo già maturato) ha delimitato il potere del giudice reputando attingibile il contenuto integrativo del contratto – in luogo della clausola abusiva - dalle sole disposizioni di diritto interno di natura suppletiva o applicabile in caso di accordo tra le parti, ossia da quelle regole standard poste dal legislatore nazionale in forza delle quali si presume che venga ristabilito l’equilibrio tra l’insieme dei diritti e degli obblighi delle parti contrattuali. Operazione che, invece, si è ritenuta non ammissibile in presenza di disposizioni nazionali di carattere generale di cui non è dato predicare quella presunzione di non abusività, come può accadere con l’integrazione che sia effettuata in applicazione del principio di equità o in base agli usi.
L’orientamento espresso dalla sentenza Dziubak suggerisce una fulminea digressione ancora sulla sentenza n. 19597 del 2020 in tema di interessi usurari: l’aver assunto le Sezioni Unite a paradigma del calcolo del tasso soglia i decreti ministeriali – integrativi della disposizione di legge – è soluzione che si mostra coerente proprio con il principio della sostituzione della clausola vessatoria con norma suppletiva, ossia con un parametro che dia contezza di una ponderazione di non abusività e non che rimetta al giudice una conformazione secondo equità del contratto.
Un diverso approccio, invece, sembra delinearsi nella sentenza Banca B. SA. del 25 novembre 2020, nella quale il Giudice di Lussemburgo, in controtendenza con i propri precedenti, giunge a dilatare sensibilmente la discrezionalità del giudice quanto ai poteri di intervento sul contenuto contrattuale. Questo perché, in quel caso, la Corte di giustizia ha affermato che, ove il contratto non possa sussistere dopo la soppressione della clausola abusiva gravemente lesiva per il consumatore, in quanto non emendabile mediante norme suppletive, il giudice nazionale deve adottare, tenendo conto del complesso del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore, incluso l’invito alle parti a rinegoziare il metodo di calcolo del tasso d’interesse.
Più di una voce, in dottrina, ha avanzato dubbi sulla coerenza di tale approdo con il consolidato orientamento pregresso della stessa Corte di giustizia, esibendo una certa preoccupazione per una operazione di ortopedia giudiziale in contrasto con l’autonomia privata e ritenuta eccedente la stessa policy giurisprudenziale di interventi a geometria variabile, che abbiamo visto essere un topos del giudice sovranazionale.
3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede)
Al di là degli esiti di un tale dibattito, questi ultimi rilievi consentono di affrontare in medias res l’indagine sul più recente posizionamento della giurisprudenza di legittimità, di come essa abbia dato concretezza al precipitato cardine del principio di effettività della tutela in ambito negoziale, ossia all’equilibrio sostanziale tra i contraenti, e quali istituti siano stati messi in campo nel modulare un tale equilibrio, che investe il contratto nel suo complesso, sia come atto, che come rapporto.
In questo contesto, un luogo tematico privilegiato è certamente quello delle nullità selettive, che ha impegnato le Sezioni Unite con la sentenza n. 28314 del 2019, innanzi menzionata.
L’approdo cui giungono le Sezioni Unite esibisce un armamentario rimediale che mira ad un equilibrio contrattuale reale e, soprattutto, complessivo, tale da saggiare sino in fondo la consistenza della posizione del contraente debole per antonomasia (il consumatore/cliente), sino a disvelarne possibili abusi, anch’essi ritenuti suscettibili, dunque, di attivare interventi di riequilibrio tra i contraenti.
I tratti fisiologici della vicenda, che, come detto, si lega ad una nullità per difetto di forma scritta del contratto-quadro di investimento, sanzionata dall'art. 23 del TUF, portano anzitutto ad affermare – in coerenza con la giurisprudenza sovranazionale – la legittimazione riservata dell'investitore, per cui gli effetti non solo processuali, ma anche sostanziali dell'accertamento della nullità opereranno soltanto a suo vantaggio.
Il che sta a significare anche che non varranno le regole sulle reciproche restituzioni, né quelle sull’indebito oggettivo in favore dell’intermediario.
Si è fatto cenno in precedenza alle critiche dottrinali che investono, in definitiva, la stessa predicabilità del regime giuridico unitario delle nullità di protezione, che la decisione delle Sezioni Unite in esame ha inteso dedurre segnatamente dal paradigma dell’art. 36 del codice del consumo.
L’estensione della legittimazione riservata dell’investitore anche agli effetti sostanziali dell’accertamento della nullità chiama in causa la categoria, innanzi evocata, della inefficacia ab origine relativa, che, come detto, è per una parte della dottrina corollario della rilevabilità officiosa, ma il cui legame con la previsione di “non vincolatività” della clausola abusiva – come si esprime l’art. 6 della direttiva 93/13 e che serve ai fautori proprio per accreditare l’istituto - non è reputato sufficiente da chi ritiene, invece, che gli effetti sostanziali dell’invalidità non siano una componente indefettibile di uno statuto generale della nullità protettiva e, a tal fine, debba, invece, aversi riguardo a quanto, di volta in volta, statuisce il diritto positivo.
A tal fine, si richiamano sostegno le previsioni testuali dell’art. 127 del TUB e dell’art. 167 del codice delle assicurazioni, là dove quest’ultima norma (che consente all'assicurato di trattenere gli indennizzi e le somme eventualmente corrisposte o dovute dall'impresa non autorizzata) è stata letta come una nullità “a vantaggio” però eccedente, ossia che va oltre la mera tutela della parte debole, per innescare un meccanismo sanzionatorio dell’impresa che non avrebbe dovuto operare sul mercato.
È evidente che un tale dibattito disvela ancora una volta quella tensione che si genera nel voler istituire – in settori (o meglio, mercati) differenti e, dunque, con discipline proprie, il cui tratto comune è l’esigenza, certamente valoriale, di tutelare la parte debole del rapporto contrattuale – una sorta di cinghia di trasmissione tra regola generale e regola speciale, là dove poi la regola di sintesi – in questo caso sulla riscrittura degli effetti dell’azione di nullità -, è confezionata proprio dalla giurisprudenza, secondo un ruolo nomopoietico che la stessa dottrina fa fatica ad assegnargli.
Il tema, lo sappiamo, è complesso e meriterebbe un diverso approfondimento e molti distinguo; ciò che, per ovvie ragioni, non è consentito in questa sede.
Tuttavia, una sintetica e non certo esauriente considerazione sembra possibile proprio alla luce degli orientamenti sopra sintetizzati della Corte di giustizia in materia e cioè che la “vocazione funzionale” delle nullità protettive, valorizzata dalle Sezioni Unite, possa operare in coerente rispondenza con il meta-principio dell’effettività della tutela se davvero, in applicazione del principio di settore – quello somministrato dall’art. 6 della direttive 93/13 –, l’equilibrio reale del contratto contenente le clausole abusive, che rifugge, in linea di principio, da un suo annullamento integrale, viene a realizzarsi secondo una prospettiva “a vantaggio” del consumatore, in ciò soltanto ristabilendosi la effettiva uguaglianza tra le parti ab origine insussistente.
Se è proprio questa la prospettiva che ha condotto le Sezioni Unite a prefigurare uno statuto delle nullità protettive giungendo – in sintonia con l’atteggiarsi del principio di effettività della tutela - ad una correlazione forte tra posizioni sostanziali e posizioni processuali delle parti contraenti, accreditando per l’una (l’investitore) e, al contempo, negando per l’altra (l’intermediario) determinati poteri all’interno del processo, su un diverso piano, sebbene interferente con quello appena richiamato, sembrano collocarsi le conseguenze del modus operandi processuale dell’investitore, là dove quest’ultimo, in ragione di quella legittimazione riservata e “a vantaggio”, abbia richiesto l’invalidazione soltanto di alcuni ordini di acquisto.
È questo il caso, dunque, che consente alla Cassazione di saggiare l’equilibrio sostanziale delle posizioni negoziali andando oltre la disciplina speciale, perché in campo entrano anche i referenti più generali che governano lo svolgimento dell’autonomia negoziale.
Infatti, malgrado il diritto positivo di settore abbia già individuato il soggetto tutelabile (ossia l’investitore, perché essenzialmente in una posizione di deficit informativo) e il rimedio tipico (e cioè la nullità di protezione), realizzando uno statuto non derogabile dall’autonomia privata, è il principio di buona fede e correttezza contrattuale, alimentato dai principi solidaristici di matrice costituzionale, che si ritiene possa operare trasversalmente e in modo tale da poter essere utilizzato per rimuovere un pregiudizio ingiustificato arrecato all’altra parte.
Trova, quindi, configurazione, nella costruzione delle Sezioni Unite, anche un obbligo di lealtà dell'investitore in funzione di garanzia per l'intermediario che abbia assolto i propri obblighi informativi, sicché quest’ultimo può opporre l'eccezione di buona fede se (e soltanto se) la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini conseguiti alla conclusione del contratto quadro.
In questo caso, il parametro della buona fede va oltre la caratterizzazione soggettiva dell’exceptio doli e necessita di modularsi sulla complessiva vicenda negoziale, venendo altrimenti a contrastare con il regime giuridico delle nullità di protezione la mera equivalenza tra la violazione di detto canone e l’uso selettivo delle nullità.
La valorizzazione di una siffatta prospettiva la si rinviene pure in ambiti diversi da quelli tradizionali della disciplina consumeristica, come ad esempio nella tutela del promissario acquirente di immobile da costruire assicurata dalla garanzia accessoria di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 1995 imposta al costruttore promittente venditore.
La nullità del contratto preliminare di vendita dell’immobile da costruire in assenza della prestazione da parte del costruttore di una fideiussione all’atto della stipula opera, secondo la sentenza n. 30555 del 22 novembre 2019, in base allo statuto proprio della nullità di protezione a vantaggio del solo promissario acquirente (principio più generale ribadito con la sentenza n. 19510 del 18 settembre 2020). Ma anche in questo caso si ritiene trattarsi di nullità a “vocazione funzionale”, volta a preservare – in una situazione di asimmetria economica - l’interesse della parte debole del rapporto (oltre all’interesse più generale della certezza dello scambio e della circolazione della ricchezza), il cui pieno soddisfacimento (ossia venuto a compimento il trasferimento del bene costruito) comporta, però, che non possa più utilmente azionarsi la nullità del contratto, perché ciò determinerebbe un palese sviamento delle finalità della legge e, dunque, un abuso del diritto.
Figura che viene letta, alla luce dei valori costituzionali, come in stretta correlazione con l’obbligo di buona fede e correttezza, reputandosi i due principi in vicendevole integrazione.
4. Conclusioni
L’impostazione adottata dalla giurisprudenza di legittimità innanzi richiamata ha innescato, come detto, un vivo dibattito che non è possibile ripercorrere per intero, né risolvere in poche battute.
Nell’essenza, ciò che viene messo criticamente in rilievo – nell’ottica di un ormai risalente addebito che viene fatto all’esercizio dei poteri rimediali da parte del giudice nel campo riservato all’autonomia privata – è il c.d. spostamento dei criteri della decisione giudiziaria dalla fattispecie legale ai principi generali, suscettibili, questi ultimi, di essere governati con tasso di discrezionalità che si reputa sovente esercitato oltre l’ambito dell’enunciato posto dal legislatore.
In particolare, la struttura della nullità di protezione, anche (e forse soprattutto) nel suo predicato statuto unitario, non tollererebbe incursioni ab externo, in base ad un paradigma assiologico – come la buona fede – che viene fatto operare a contenimento di facoltà processuali legate proprio al contenuto sostanziale del diritto.
Invero, altra parte della dottrina, ci ricorda come il contratto non sia solo fattispecie, ma anche regolamento o, meglio, regola tra le parti negoziali, per cui è ben possibile che la regola subisca l’incidenza delle clausole generali, orientata dai principi costituzionali, in primis quello di solidarietà sociale.
Il che trova, però, altra obiezione nel rilievo che le vicende oggetto delle pronunce sopra richiamate muovono proprio da una patologia della fattispecie, ossia da una nullità di forma, seppure a vocazione funzionale.
Il dibattito in sede dottrinale non sembra sopirsi, ma – allo stato – il “diritto vivente”, come evidenziato dalle sopra richiamate pronunce, anche successive alle Sezioni Unite del 2019, appare sostanzialmente coeso nel mantenere fermo il principio di diritto enunciato dal massimo organo di nomofilachia della Cassazione.
Il che – senza strozzature della discussione in corso o velleitarie aspirazioni di autoreferenzialità giurisprudenziale - costituisce comunque un punto di vista che occorre ben tenere presente.
*Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione
[1] Testo della relazione tenuta al Convegno di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura – Struttura della formazione decentrata della Corte di cassazione il 17-18 novembre 2021 su “Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Bibliografia essenziale di riferimento: M. Girolami, Nullità di protezione, in Enc. Dir., I tematici, I-Contratto a cura di G. D’Amico, 2021; R. Rordorf, Buona fede e nullità selettiva nei contratti d’investimento finanziario, in Questione Giustizia, 2020; Claudio Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, in Corriere Giur., 2020; G. D’Amico, Sul carattere c.d. “selettivo” della nullità di protezione, Nuovo diritto civile, 2020; G. Guizzi, Le Sezioni Unite e “le nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica, in www.dirittobancario.it, 4 dicembre 2019; I. Pagni, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. Dir., Annali, X, 2017.