Romanzo di una strage
di Filippo Ruggiero
Tra le diverse narrazioni che ha avuto, nei diversi ambiti giudiziario, storico, e artistico letterario, Piazza Fontana al cinema è soprattutto Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2012). A 50 anni dal 12 dicembre del 1969, le riflessioni ancora oggi si concentrano sulla scena di allora, che ha marcato indelebilmente la storia recente italiana. Come del resto suggerito dal titolo, a guardare gli eventi di allora attraverso il cinema si guarda un romanzo, efficace ed ancora attuale. In due ore di narrazione sono concentrate tante pillole di fatti, necessari alla contestualizzazione; sullo sfondo dell’autunno caldo si intrecciano le vite spezzate di semplici comparse della storia, come Annarumma, e l’intimità dell’ambiente familiare e domestico di un protagonista, come il commissario Calabresi (Valerio Mastandrea) e la moglie Gemma (Laura Chiatti); una società civile in fermento in relazione alla quale, tra i vari, lo sguardo si sofferma da una parte sulla figura di Pinelli (Pierfrancesco Favino), visto come padre nelle sue due diverse famiglie, e dall’altra su quelle di altri attori che hanno giocato il ruolo dei soldati, su un palcoscenico diretto da chi, dietro la scena, cercava di guidare a sé gli eventi. In questo contesto, un venerdì pomeriggio, in una banca allora colma di gente in piena attività di contrattazione, un orologio segna le 16.37 e una deflagrazione attesa si materializza agli occhi dello spettatore. Si può sentire lo stordimento di chi accorre sulla scena; si può vedere la reazione commossa della città, nelle scene di repertorio dei funerali sullo sfondo della musica di Mozart. La storia è storia, ed è nota. Al romanzo sono concesse licenze. Così è concessa la costruzione di un rapporto personale pacificante tra due protagonisti come Pinelli e Calabresi; è concesso prendere una posizione anche solo parziale sui fatti che seguirono la strage, la morte di un uomo che si trovava nelle mani di rappresentanti dello Stato; così come è concessa la libera ispirazione sul racconto dell’ultimo cambio di cravatta della vita del commissario Calabresi (stando al racconto che ne fu poi fatto dalla moglie). Ma al di là delle licenze, il romanziere vuole mostrare il crinale che la democrazia italiana ha attraversato in quel periodo. Perché in situazioni di incertezza, gli italiani seguono le voci sicure; perché in situazioni di incertezza si assiste al muoversi di spinte autoritarie; perché le tendenze della società civile, inoltre, possono orientarsi sulla base di fake news ante litteram, costruite ad arte, fatte diffondere allo scopo e che diventano verità. Il romanziere, alla fine del racconto, non crede che sia stata fatta giustizia per i fatti di allora; crede, anzi, che si sia preferita un’opera di rimozione, lasciando che fosse il tempo a lenire la ferita di morti innocenti. Ma ciononostante, non è la delusione il sentimento prevalente e il romanzo è caratterizzato da una tensione positiva; a fronte delle tentazioni autoritarie, una democrazia giovane – come quella italiana di allora e di oggi – è una conquista che si deve preservare e custodire con premura, attraverso il necessario impegno di tutti i suoi attori: sapienti uomini delle istituzioni, pronti a non assecondare tali impulsi; uno Stato composito, dove giostrano servizi oscuri e personaggi stravaganti come il questore Guida, ma anche persone come lo stesso commissario Calabresi o il magistrato Paolillo; una vedova, rappresentante della società civile che, nonostante tutto, trova in questi interlocutori la conferma alla propria fiducia nella giustizia. È grazie all’impegno di uomini come loro, a vario titolo, che il pericolo può essere evitato.