Dice di aver sofferto per il trattenimento impostole dalla regista Carine Tardieu e di aver ceduto in qualche occasione a vere e proprie crisi di nervi. In effetti, dinanzi a questa pellicola il primo elemento che balza agli occhi è una Valeria Bruni Tedeschi oltremodo contenuta, “frustrata”, come lei stessa si è definita. Ma questo forzato zittire la sua fragilità travolgente non ha fatto perdere di potenza a un personaggio pressoché perfetto, capace di sorreggere l’intero film. Perché è lei, la vicina di casa Sandra, l’impalcatura sulla quale si reggono la trama e l’intreccio de L’attachement – La tenerezza, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno per la sezione Orizzonti e arrivato nelle sale italiane soltanto ora, quanto la Bruni Tedeschi è pronta ad accogliere il successo dell’ultimo lavoro di Pietro Marcello, Duse.
Adattamento del romanzo L’intimité di Alice Ferney per la sceneggiatura di Tardieu, Moussafir e Feuvre, La tenerezza, nonostante i temi talvolta tragici e fortemente intrisi di umanità, è un film sussurrato, in punta di piedi, come la grazia che resta negli occhi dello spettatore mentre scorrono i titoli di coda.
Per presentarlo, Valeria Bruni Tedeschi ha citato più volte Simone Weil e il suo concetto di miracolo racchiuso nell’alterità, nell’incontro con l’altro-da-sé, nell’empatia della quale l’uomo sa essere capace. Attorno a questo incontro si dipana la trama de La tenerezza, dove Sandra, la vicina di casa schiva, una sigaretta dopo l’altra, vestiti larghi e occhiali da vista a protezione di occhi non incapaci di brillare, libraia femminista, non moglie, né madre, che non fa entrare nessuno in camera da letto (gli incontri occasionali si tengono nella sala gremita di libri), si trova catapultata suo malgrado nelle dinamiche familiari dei dirimpettai. La giovane coppia suona al suo campanello all’alba per affidarle momentaneamente il figlio Elliot (César Botti, un portento naturale) perché alla donna si sono rotte le acque e nessun parente risulta rintracciabile. Non c’è un sorriso a condire una disponibilità oltremodo riluttante, ma che non è in grado di tirarsi indietro, non un sorriso nemmeno per accogliere un bambino fin da subito sveglio e diretto, che lo spazio, prima nella casa, poi nella giornata, infine nella vita di Sandra saprà prenderselo da solo.
Gli eventi della famiglia scivolano in un vortice ad alta velocità, dove l’unità di misura è la crescita della piccola Lucille, dalla sua nascita fino al compimento dei due anni di età, tempo nel quale si dipanano ruoli sempre più definiti, tra piccoli egoismi e momenti di profonda malinconia. Così, Alex (Pio Marmaï, sempre convincente), un uomo impreparato a tenere insieme i pezzi di un nucleo familiare poliedrico, si mostrerà in tutta la sua incapacità tipicamente umana agli occhi di Sandra, che saprà spronarlo con ruvida dolcezza, quell’alchimia che sa attrarre i bambini molto più di una tenerezza sbandierata (e talvolta molto più forte di qualsiasi istinto materno).
Il titolo francese fa riferimento alla differenza tra attaccamento e amore, evocata da David, il padre biologico di Elliot, catturato dal distacco intellettuale di Sandra, un Raphaël Quenard carico di verve, perfettamente calzante al personaggio, discendente di una famiglia di allevatori di ostriche di Cancale, apparentemente inaffidabile, ma saggio e capace di quell’affetto paterno che Sandra, in conclusione a una scena significativa, definirà salomonico. Lei, che inizialmente rifiuta le ostriche che l’uomo offre ad ogni cerimonia, che sia un funerale, un compleanno o un matrimonio, finirà per accettarle (una scena densa di una raffinatezza plateale, che sospende il ritmo della narrazione).
Una menzione merita anche Marie-Christine Barrault, la nonna dei bambini, un ruolo soltanto a prima vista in disparte, ma che riesce a spiccare nel suo mostrarsi trasognata dal dolore e intrisa di pianto, anche quando sceglie di non apparire, dimostrazione che la regista è stata pienamente in grado di riempire una pellicola in sottrazione, fatta di dialoghi credibili e spesso crudi, nonostante il ricorso a qualche cliché del genere.
Sentimenti umani, dunque claudicanti, talvolta meschini e tal altra vibranti, ma mostrati senza concettualizzazioni, muovono le relazioni dei personaggi complessi e mai retorici portati in scena da Tardieu, tra affetto, dolore, empatia, sensi di colpa e la grande forza alla quale si è chiamati quando si ammette di aver amato. Una rete di delicatezza dove l’ordito non è necessariamente il vincolo di sangue. Insomma, una famiglia.