Era un venerdì come tanti quel terribile 13 novembre del 2015, giorno in cui Parigi è stata teatro degli attentati terroristici al Bataclan, allo Stadio di Francia e presso alcuni bistrot della città.
Centotrenta i morti e trecentocinquanta i feriti.
I numeri (impressionanti) non raccontano le storie di quei ragazzi e ragazze le cui vite sono state spezzate mentre si godevano momenti di spensieratezza: una passeggiata, un aperitivo o un concerto.
Erano le 21: 20 e al Bataclan gli Eagles of Death Metal stavano suonando la canzone Kiss the Devil (“Io amo il Diavolo, amo cantare la sua canzone, amerò il Diavolo e la sua canzone”) quando una scarica di proiettili ha atterrato centinaia di corpi.
Forse solo un altro terribile scherzo del destino, o forse gli attentatori avevano studiato in anticipo la scaletta (chissà); certamente quel famoso V13 non il Diavolo ma la parte più oscura dell’essere umano ha fatto ingresso in un luogo ove allegria, musica e leggerezza fino a quel momento erano stati gli unici ospiti graditi.
Quegli eventi hanno squarciato non solo la Francia, ma tutta l’Europa. Una ferita profonda che nel corso degli anni è stata al centro di dibattiti ed oggetto di riflessioni da parte di storici, esperti di geopolitica, giornalisti e non solo.
Nel 2022 la penna illuminata di Emmanuel Carrère ha dato luce a V13, un’opera difficilmente catalogabile nei canonici generi letterari, ma con un impatto emotivo che lascia il segno .
Un resoconto delle udienze del processo ai complici e all’unico sopravvissuto tra gli autori del massacro; un processo a cui l’autore ha assistito per una decina di mesi e di cui ha riferito in articoli settimanali, rielaborati poi nel libro.
Il racconto si apre l’8 settembre 2021 quando all’ Île de la Cité, nel pieno centro di Parigi, nel tribunale sito tra la Sainte-Chapelle e il quai des Orfèvres, in un’aula appositamente costruita, inizia il processo. Nella prima parte (forse la più toccante) sono presentate le parti civili, “feriti, congiunti, persone offese”; parlano i sopravvissuti o i parenti degli uccisi, le cui testimonianze fanno vivere le scene orribili e strazianti dell’attacco, i vissuti di chi lo ha subito, le conseguenze devastanti e permanenti in chi è rimasto in vita.
Tra le vittime di quella strage c’era anche un’italiana, Valeria Solesin, giovane ricercatrice veneziana di 28 anni, simbolo di una generazione europea che vede oltre i confini territoriali una opportunità e sogna la libertà, la ricerca e gli scambi, umani e culturali.
Valeria, come tanti, credeva in una Europa aperta e inclusiva: uno spazio dove viaggiare, sperimentare e confrontarsi.
Quel progetto non è fallito, ma occorre accettare il fatto che sia stato tradito da persone che sono cresciute e vissute in Europa proprio grazie a quell’idea inclusiva; un’idea che hanno volontariamente deciso di sporcare con il sangue di corpi innocenti.
È innegabile che ciò faccia male, a tutti.
Lo spiega bene la testimonianza di Nadia Montagner, madre di Lamia, uccisa in un bistrot di boulevard Voltaire, a centocinquanta metri da casa: “Pensare che quelli che l’hanno uccisa avevano la sua età. L’età di tutti loro, tra i venticinque e i trent’anni. Che sono stati accompagnati a scuola tenendoli per mano, come lei accompagnava Lamia, tenendola per mano. Erano dei bambini che venivano tenuti per mano.”
Salah Abdeslam, l’unico degli attentatori sopravvissuti (condannato all’ergastolo all’esito del processo nel quale, senza essere creduto, ha riferito: “ho rinunciato a far esplodere la mia cintura per umanità”) è nato il 15 settembre 1989 a Bruxelles, in Belgio ed è cresciuto nel quartiere di Molenbeek – Saint Jean. Figlio di genitori marocchini, immigrati in Belgio negli anni ’70, ha vissuto in una famiglia normale e rispettata nel quartiere . Salah aveva due fratelli, tra cui Brahim Abdeslam, che ha partecipato agli attentati di Parigi e si è fatto esplodere in un bar la sera del 13 novembre.
Salah ha frequentato un istituto tecnico e poi, per un periodo, ha lavorato per la compagnia dei trasporti pubblici di Bruxelles. In seguito, con il fratello, Salah ha gestito un bar a Bruxelles e solo nel 2014-2015 ha iniziato un percorso di radicalizzazione islamista.
La sua biografia pone tanti interrogativi sulla evoluzione del pensiero verso la scelta finale. Né le indagini, né il processo hanno consentito di comprendere – prima ancora che accertare – cosa abbia indotto Salah, suo fratello ed altri giovani ragazzi “normali” a organizzare, nel nome dello Stato islamico, un commando armato che ha seminato solo morte e terrore.
Ed allora occorre indagare il mistero del male, della radicalizzazione e della colpa, senza temere di non saper trovare risposte ai molti interrogativi che la vicenda ha posto nella mente di ciascuno di noi.
Interrogativi sulla esistenza umana, ma anche sulla stessa funzione del linguaggio, della memoria e dello stesso processo penale.
Nel tribunale parigino la giustizia si è trasformata in rito civile: il processo non solo quale strumento verso la punizione, ma quale senso del dolore che trova posto al centro di Parigi ( nella “scatola bianca” costruita ad hoc per celebrare il processo), perché è al centro dell’attenzione, anche mediatica, che deve essere ricollocato, così come prima è stato protagonista il terrore.
E poi vi è il trauma collettivo ed il tentativo di una società intera di “processare” un evento che è contemporaneamente causa ed epilogo.
In questa prospettiva il linguaggio diventa la stampella della memoria e la parola diviene l’unico strumento per affrontare l’orrore.
È ancora la voce di Nadia, la mamma di Lamia, a descrivere il dolore per la perdita della figlia in modo lucido e realistico: “Allora si è aperta una botola. Siamo stati risucchiati, ingoiati dal fondo di una stiva. Al di sopra sul ponte gli altri continuano ad agitarsi. Noi non facciamo più parte di questo mondo con il quale pochi minuti prima eravamo in empatia. Non ho urlato. In me è venuta una dissociazione. Era irreale e reale”.
È reale ammettere che anche noi, quali spettatori non protagonisti, abbiamo provato spaesamento e dubitato dell’idea che la sicurezza di tutti abbia come presupposto le parole accoglienza e integrazione.
Dobbiamo ammettere che quell’attentato ha spezzato anche la nostra empatia verso il mondo ed il genere umano. Ma da quello strappo occorre ripartire per non far sì che la strategia del terrore porti con sé, come strascico, la risposta dell’odio.
Lo strazio subito dalle vittime, il dolore dei loro familiari e lo stress post-traumatico con il quale convivono i sopravvissuti devono responsabilizzare tutti per perseguire e perseverare in quella strada di apertura e integrazione.
Nel giorno della commemorazione delle vittime (la parola anniversario – come ha ricordato un sopravvissuto in una recente intervista pubblicata su La Repubblica – suona troppo allegra) è stato inaugurato il “Jardin du 13 novembre 2015”, un nuovo spazio verde nel cuore di Parigi dedicato al ricordo delle stragi.
Un luogo che oltre ad essere simbolo della memoria si auspica diventi spazio di incontro e convivialità: tutto può ripartire da un giardino, come progettualità di una effettiva integrazione che inizia dalle strade, dai bar, dagli stadi e dai teatri.
Forse anche un piccolo gesto quotidiano può divenire un vero atto politico, un grido contro la paura in grado di lenire una ferita collettiva che (forse) non sarà mai completamente rimarginata.
Mi piace immaginare che in quel giardino ci sia una panchina in cui tra qualche giorno potrà sedersi una giovane e brillante ricercatrice italiana, giunta a Parigi per inseguire i propri sogni e con lo sguardo trasparente di chi intravede nell’altro una opportunità e non un pericolo.
E nel frattempo al Bataclan si suona ancora.
