Quando i giudici non indossavano lo spezzato , Piero Cenci -edizioni Futura- 2017.
Novembre 1965. Appena venticinquenne, Piero Cenci, fresco tirocinante in Magistratura, viene redarguito dal Presidente della Corte d’appello perché indossa un abito spezzato (giacca blu e pantaloni grigi), inadatto al decoro di un Magistrato, anziché un più serioso abito intero, preferibilmente di colore scuro.
Inizia così la carriera di un uomo che sognava già da bambino di diventare Giudice: nei suoi ricordi, ricchi d’ironia, emergono episodi di vita e personaggi che raccontano un'umanità variegata attraverso mezzo secolo di storia del nostro paese. Nel libro sono narrati tanti episodi di una Giustizia amministrata in piccole realtà di provincia ed in piccoli Uffici, una Giustizia, per così dire, “minore” ma non per questo meno importante per i destinatari cioè per i cittadini; in un arco di riferimento piuttosto ampio, dal 1965 al 2009, anni di grandi modificazioni nel tessuto sociale, economico e politico dell’Italia, modificazioni di cui – naturalmente – risente anche la magistratura.
La moglie, i figli (uno dei quali magistrato) e i nipoti (che hanno curato la copertina e le godibilissime illustrazioni dei capitoli) dell’Autore, già Presidente del Tribunale per i minorenni dell’Umbria, hanno ritenuto di portarne a compimento l’impegno, pubblicando postumo a scopo di beneficenza il libro che raccoglie i ricordi di vita, professionale e personale, che il Collega Piero Cenci (prima in Pretura e in Tribunale ordinario, poi, per più di trenta anni, nel Tribunale per i minori) negli ultimi mesi della sua esistenza, consapevole di essere malato, aveva affidato ad un dattiloscritto, la cui stesura lo ha aiutato ad affrontare, insieme all’impegno lavorativo, mai abbandonato, la sofferenza e il grave disagio della malattia. Benchè scritto in questo difficile contesto, è un libro pieno di speranza: speranza nel futuro, nella vita, nei giovani.
La Giustizia descritta è una Giustizia, come si legge in una delle qualificate prefazioni al testo, “mite” (come mite era l’aspetto dell’anziano Pretore del paesino di cui si parla nella prima pagina) ed “umana”:
quanto alla mitezza, poiché, secondo le convinzioni dell’Autore, una pena mite, ove ne ricorrano le condizioni, non è segno di debolezza dell’apparato repressivo dello Stato, ma, al contrario, di forza, poiché un ordinamento credibile ed autorevole non ha bisogno di pene esemplari, ma di sanzioni giuste, all’esito di processi garantiti e celebrati in tempi accettabili;
l’ humanitas è lo strumento che consente al Giudice di “filtrare” adeguatamente la tristezza delle vicende che vengono portate alla cognizione del giudice, sia civile (si parla soprattutto di contenzioso in materia di famiglia) che penale, provando talora compassione per chi vive direttamente sulla sua pelle il processo, ma mantenendo comunque il necessario distacco, sforzandosi di interpretare in senso conforme alla Costituzione leggi spesso poco chiare ed applicandole lealmente nei confronti di tutti, con imparzialità e serietà, senza timori ma anche, secondo l’insegnamento di Piero Calamandrei, senza aspettative di nessun tipo di “ritorno”.
Il tema dell’abito del Giudice, presente già nel primo capitolo del libro, cui dà il titolo, viene infine ripreso nel capitolo conclusivo, per sottolineare il valore – naturalmente, non certo del colore della stoffa di un vestito, ma – di una simbologia anche esteriore della serietà, dell’impegno, dell’apparire, oltre che dell’essere, del riserbo, persino dell’isolamento sociale che appare opportuno per chi è chiamato al delicatissimo compito di giudicare – uomo – gli uomini.
Un libro la cui piacevole lettura appare assai utile, particolarmente oggi.
Daniele Cenci