Scrivo queste note mentre in Cile (in realtà a Santiago), con il solito, immenso, coraggio che li caratterizza, migliaia di cileni si sono riversati per le strade per protestare contro Kast, il presidente di estrema destra appena eletto, al grido di: “Chupalo Kast” (Kast suca!).
Mi piacerebbe essere lì esattamente come un anno fa.
Era l’ultimo anno di Boric presidente. Si sapeva già allora che avrebbe vinto la destra, magari non la destra più estrema, magari non un uomo compromesso con il regime di Pinochet come è Kast, ma che l’egemonia fosse di destra era evidente. La vittoria alle primarie del centro sinistra dell’”eurocomunista” Janette Jara, come la chiamavano alcuni sostenitori sottolineando la sua moderazione, mi aveva fatto per un momento sperare. Errore questo che noi pessimisti cosmici non dovremmo mai fare: la speranza non costa niente, diceva Califano, ma opacizza il senso critico perché ti impedisce di guardare in faccia la realtà. Per questa ragione, per questo terribile amore per la realtà, durante il mio mese cileno avevo frequentato tante persone al di fuori del mio giro di sinistra. La mattina andavo nei luoghi dell’orrore del regime (centri di detenzione, tortura e sterminio per ricostruire una mappa del consenso alla dittatura) mentre il pomeriggio incontravo gente che avevo conosciuto in rete, quasi tutta gente di destra. Avevo bisogno di capire come fosse possibile che un’ampia fetta di popolazione continuasse a essere di estrema destra nonostante non fosse ricca né socialmente tutelata. Da dove viene questo bisogno di ordine? Perché milioni di cileni sono stati disposti a votare per un uomo che ha detto esplicitamente di essere pronto a ristabilire una dittatura se ce ne fosse bisogno?
La memoria non c’entra nulla con la storia
“Kast è Pinochet incarnato”, dice un amico cileno che insegna sociologia all’università Cattolica. “Il pinochettismo piace, hanno fatto egemonia, hanno vinto la battaglia culturale. La sinistra ha dimenticato Gramsci. Lui e la sua alleata Margaret Thatcher sono riusciti nell’impresa di imporre un’ideologia dominante, quella del mercato come natura umana. E chi va contro natura è il nemico, cioè comunista. I comunisti, come qui chiamano la sinistra, da quella riformista a quella radicale, sono tutti quelli che tentano di imporre regole al mercato”.
Gli chiedo la ragione per cui la memoria della dittatura non ha faccia presa sull’elettorato. La risposta è netta: “La memoria non c’entra nulla con la storia. La memoria è un elemento coltivato dalle comunità per cui noi abbiamo la nostra memoria, ma loro hanno un’altra memoria e un’altra percezione della storia”.
Dev’essere per questo che in campagna elettorale Kast ha dichiarato che il primo golpista cileno fu Salvador Allende poiché aveva vinto le elezioni del 1970 con una minoranza risicata poi ratificata dal senato e dopo mille giorni di governo fu sfiduciato.
Kast non dice che l’11 settembre del 1973 Allende avrebbe annunciato il plebiscito, lo strumento costituzionale con cui avrebbe chiesto all’elettorato attivo se avesse dovuto proseguire con il mandato oppure abdicare. Il capo delle forze armate, Augusto Pinochet, che aveva giurato fedeltà al presidente appena un mese prima, insieme ad altri tre generali, bruciarono letteralmente Allende sul tempo. Ciò non toglie che l’intervento militare era stato esplicitamente e trasversalmente chiesto da parlamento e senato.
“Dove erano questi e perché non li vedevamo?”, si chiedeva Pablo Neruda rispetto alla gente che scendeva in piazza ad applaudire i militari nei giorni del golpe. Al poeta premio Nobel di Canto General finalmente erano caduti gli occhiali che non gli consentivano più di vedere la sua gente, quel pezzo di cileni, ricchi, poveri e di classe media, fieramente anticomunisti, che in Italia aveva assunto il nome di “maggioranza silenziosa”.
Perché vince l’estrema destra?
Qui – come altrove nel mondo – non ha vinto un giovane uomo carismatico alla fine di una guerra di trincea in un paese stremato. Ha vinto un miliardario di mezza età (come Berlusconi, come Trump, come il suo predecessore Piñera) con un padre nazista e un fratello ministro di Pinochet, che ha battuto alle primarie altri due candidati altrettanto di destra ma non compromessi con il regime.
A dimostrazione che esiste un’internazionale di destra (ne esiste anche una a sinistra, le idee si diffondono molto velocemente in un mondo iperconnesso) in uno dei suoi ultimi comizi Kast ha usato l’espressione “buonista”, ovviamente in senso dispregiativo, contro i migranti.
Gli elettori di Kast hanno votato per un uomo che promette linea dura contro i clandestini (i venezuelani sono quelli che hanno disgregato l’ordine cileno) e torsione autoritaria contro i “comunisti”, cioè tutti quelli che vogliono sovvertire il sistema. Insomma hanno votato per l’ordine. Kast (come gli altri destri a iniziare da Milei) non è tecnicamente fascista, ma i fascisti trovano in Kast una risposta alla loro esigenza di ordine.
Fieramente elitario, Kast ha festeggiato l’elezione nel quartiere dove vive, il super esclusivo Las Condes, alle pendici della cordigliera delle Ande, dove l’aria è buona, i giardini sono puliti, non c’è traffico né caos. Una gate community senza gate, cioè i cancelli ci sono, ma sono gli invisibili cancelli di classe. E allora perché vince anche tra i poveri? Perché è il tedesco che ce l’ha fatta da solo.
Josè Antonio Kast è nato nel 1966 ed è l’ultimo genito di Michael, classe 1924, ufficiale della Wermacht, morto nel 2014. Michael aveva combattuto in Italia con i nazisti e arrivò in Cile nel 1950 grazie alla ratsline, la via dei topi vaticana. Lì aprì un salumificio, la Cecinas Bavaria a cui deve la sua fortuna. Non ho fonti, ma non mi stupirebbe scoprire che il nome di battesimo del nuovo presidente cileno, è in onore di Josè Antonio Primo de Rivera, il fascista spagnolo fondatore del partito falangista fucilato dai repubblicani nel 1936.
Tutti elementi questi che dovrebbero far pensare a Kast come a un fascista. Io invece penso invece che sia successa una cosa ben peggiore: il fascismo non solo ha perduto la sua veste perturbante, ma può essere pensato come un’opzione politica tra le altre.
L’elitarismo di sinistra
“Mi sorprende molto chi crede che la destra vinca per l’ignoranza dell’elettorato”, mi dice l’amico sociologo. “L’elettorato di destra vuole quello che propongono Kast, Milei, Trump. Vogliono che si tagli ogni forma di sussidio sociale per poter essere liberi di lavorare fino allo sfinimento in un contesto sicuro ed edulcorato. Altro che ignoranza!”
A questo proposito mi ha colpito leggere l’articolo di Luigi Manconi “La passarella della destra” su Repubblica. Manconi si chiedeva retoricamente la ragione per cui la destra meloniana in questi tre anni non ha prodotto nulla di significativo sul piano culturale: una rivista, un saggio innovativo, un romanzo, una canzone, scrive Manconi. A parte le canzoni (che per altro ci sono eccome, a iniziare da Piazzale degli Eroi di Tutti Fenomeni con quel verso: “Saluti romani a piazzale degli Eroi pеrché ogni croce celtica, alla fine, sta parlando di noi”), Manconi cita prodotti culturali novecenteschi, morti e sepolti. E soprattutto ha un’idea di cultura elitaria, scolastica, chiusa.
L’articolo di Manconi mi ha fatto pensare molto alla storia cilena che mostra che “i grandi processi di trasformazione non sono affatto stati animati da una società illuminata in senso classico. L'Unidad Popular di Allende, al contrario, era costruita con alti livelli di analfabetismo funzionale e bassa istruzione formale, ma con un'esperienza collettiva di base molto densa: sindacati, associazioni territoriali, scambio quotidiano, organizzazione sociale, arte popolare, musica, teatro, murales. La cultura non era un bene di consumo né una credenziale simbolica; era un modo per stare insieme e per comprendere il conflitto sociale vissuto non come esigenza estetica”, come scrivono Jaime Bravo e Jorge Coulon in un loro articolo apparso all’indomani della vittoria di Kast. Non pensate al terzo settore finanziato dagli enti locali in Italia, bensì ad associazioni di mutuo soccorso non compromesse con i governi locali, ma anzi in conflitto con essi come necessità di sopravvivenza.
In altri termini, gli ignoranti, i diseredati, i senza casa, i senza terra, erano anche e soprattutto con la sinistra. O, più precisamente, la sinistra era lì con la sua gente.
Sappiamo dove è andata la sinistra in questi ultimi trent’anni, sappiamo il senso di repulsione che prova per i ceti popolari, sappiamo quanto il realismo politico (e quanto l’obbedienza al partito) abbia accecato anche quel pezzo di sinistra ancora popolare. In questo senso hanno vinto la Thatcher e i suoi epigoni: la società è stata abolita concettualmente e con essa il bene pubblico e gli individui sono rimasti soli a lottare per la sopravvivenza perché questa è la natura umana. In Italia ancora non abbiamo idea di cosa significhi la privatizzazione totale del welfare (suggerirei di andare in Cile a vedere, prima di parlare di neoliberismo…).
Si alza una nuova cortina tra comunisti e fascisti immaginari
Due candidati su quattro dell’estrema destra, alle primarie cilene, avevano dichiarato pubblicamente che se fosse stato necessario sarebbero ricominciate le torture. In campagna elettorale non solo avevano elogiato le misure economiche del regime di Pinochet, ma anche la parte più cruente, quella di soppressione dei diritti civili se necessario. Un pezzo consistente dell’elettorato attivo cileno ha votato consapevolmente per un potenziale dittatore, perché?
La risposta è più semplice di quello che si pensi: perché lo vogliono. Ma la cosa più sconvolgente è che anche un pezzo consistente dell’elettorato di sinistra, pensa che non ci sia alternativa al mercato (basti vedere il consenso di cui godono le liberalizzazioni di Bersani che hanno trasformato i nostri centri storici in squallidi mercatini per turisti, il consenso per l’urbanistica contrattata modello Sala e Gualtieri, il consenso per la privatizzazione della sanità e più in generale gli istituti di welfare avvenuta in Italia in primis con i governi di centrosinistra). La destra ha vinto la più importante di tutte le battaglie, quella culturale. Ma non quella dei libri o dei film più raffinati come chiede Manconi nel suo articolo, ma la cultura che conta a livello politico: il libero mercato e l’individuo assoluto come misura di tutte le cose come ideologia e l’odio per chiunque cerchi di imporre limiti e regole. In questo contesto si alza una nuova cortina, fumogena non di ferro, tra due fantasmi novecenteschi: i comunisti e i fascisti. Nella campagna elettorale cilena (così come tante altre in occidente) si sono scontrate due visioni del mondo che poco hanno a che fare con le due categorie reali del novecento ma che evidentemente sono ancora presenti nell’immaginario come una traccia mnestica. A parte qualche sparuto gruppetto, a sinistra non c’è nessuno che voglia la rivoluzione proletaria. E a destra non ci pensano proprio a consegnare allo Stato il monopolio dell’impresa, dell’etica, della morale come invece voleva il fascismo. Solo il mercato può essere totalitario e l’elemento autoritario può intervenire solo quando forze sociali contrarie provano a impedire agli attori di sviluppare la libertà totale del mercato (come profetizzava l’economista ultraliberista Robert Barro ormai un quarto di secolo fa nel suo Nothing is sacred. Economic Ideas for the New Millennium). È con queste idee che hanno vinto, che hanno occupato i centri di potere e del monopolio della violenza (lo stato): per attrezzarsi a sedare le rivolte popolari conseguenti all’impoverimento di massa che ci sta per travolgere.
- Federico Bonadonna
- Cultura e società
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