Capita una sera di giugno, per caso, di ascoltare un concerto fuori dall’ordinario.
Di norma non è facile scrivere la recensione di un concerto, ma questo fa eccezione. Per chi non lo conoscesse - come me prima di oggi - Nano Stern è un cantautore quarantenne cileno della tradizione folk-jazz, dotato di una voce straordinaria, una capacità strumentale alla chitarra fuori dal comune e di una grande creatività e profondità nei testi. La grande Joan Baez (con la quale Nano ha duettato in diverse occasioni, tra le quali il concerto per il suo 75° compleanno) lo ha definito il miglior cantautore cileno della sua generazione.
Trovandosi a Roma in visita da amici, Nano ha tenuto il 20 giugno un concerto, ma invece di teatri affollati come quelli che troverà ad Amburgo, Stoccolma, Boston, in Spagna, in Cile e in molte altre sedi che toccherà con il suo prossimo tour, lo ha fatto nel piccolo circolo di Santa Libbirata, La Carretteria, al Pigneto, di fronte a un pubblico di una quarantina di persone - alcuni dei quali suoi amici - tra cui, per puro caso, ho avuto la fortuna di esserci anche io.
L'artista sale sul palco canticchiando scherzosamente senza microfono "lasciatemi cantare …" (il ritornello de L'Italiano vero di Toto Cotugno), per richiamare l’attenzione del pubblico. Ma è solo un attimo e la serata prende poi subito dopo tutt’altra direzione. In effetti, il concerto è subito coinvolgente grazie alla capacità dell’artista di mixare i suoi ritmi latini con la narrazione dei brani, spiegandone in lingua italiana la genesi ed il contenuto dei testi ed insegnando al pubblico prima dell’esecuzione i ritornelli da cantare poi insieme.
Durante una performance di più di due ore il cantautore ha interpretato molti suoi brani originali, ma anche canzoni popolari della nueva canciòn chilena resi popolari in Italia a partire dagli anni ’70 soprattutto per opera dal complesso degli Inti Illimani. Molti di questi brani sono del grande cantautore cileno Victor Jara, torturato ed assassinato durante la feroce dittatura di Pinochet, ma anche brani popolari cileni e del Perù andino in lingua quechua.
I testi, ancorché cantati in spagnolo, arrivano subito al cuore. Lo scaldano.
Ascoltiamo così una serie di brani di Victor Jara come il famoso “Te recuerdo Amanda” (Ti ricordo Amanda), conosciuta in italia grazie agli Inti Illimani ed eseguita anche da Francesco Guccini in una traduzione in italiano molto fedele al testo originale. È una composizione romantica e, al tempo stesso, un inno politico che racconta di due operai i quali devono sfruttare la breve pausa di cinque minuti durante il lavoro per potersi vedere. Di questo brano lo stesso Victor Jara nel suo ultimo concerto prima di essere assassinato disse: «parla dell’amore di due operai, di quelli che voi stessi vedete per strada, e a volte non vi rendete conto di ciò che esiste dentro la loro anima». Nano Stern ne dà una rilettura struggente e intensa, restituendo tutta la delicatezza e la dignità del sentimento raccontato. La sua interpretazione, profondamente rispettosa e vibrante, riesce a far rivivere non solo la melodia, ma lo spirito stesso di Victor Jara, un canto che è insieme denuncia e carezza, memoria e speranza.
Sempre di Jara esegue poi la canzone "El derecho de vivir en paz" (Il diritto di vivere in pace), uno dei brani maggiormente emblematici della Nueva Canción Chilena, un inno potente contro l'oppressione e a favore della dignità umana e della pace. Scritta a suo tempo come atto di solidarietà con il popolo vietnamita durante la guerra, è diventata nel tempo un simbolo di pace che Nano rende attualissimo nel momento che stiamo vivendo. E ancora altri brani di Jara come “El pimiento” (il peperone), “Luchín” (dal nome del piccolo Luchino, simbolo della tenerezza nascosta nella povertà e della necessità di una società più giusta) per concludere con “La partida” (La partenza) brano solo musicale, ma così potentemente struggente e malinconico da riuscire a trasmettere senza bisogno delle parole un senso di lontananza e di esilio: un inno poetico a una resistenza silenziosa.
Nano vuole dare anche un tributo alla canzone italiana e così, pur dichiarando il suo amore per Fabrizio De Andrè, nel corso della sua performance ci fa ascoltare un brano della tradizione seicentesca veneziana cantato in italiano, trasformato e reso attualissimo attraverso la sua chitarra e la sua possente voce.
Ma sono alcuni dei brani originali del cantautore che forse regalano le emozioni più grandi, che coinvolgono e commuovono maggiormente chi ascolta. Il messaggio arriva chiaro, anche se cantato in spagnolo. Tra questi “Inventemos un pais” (Inventiamo un paese), brano fusion tra folk, rock e ritmi latinoamericani, una sorta di Lennoniana “Immagine” in salsa latino-americana, ma forse meno utopica.
Segue il brano che il cantautore scrisse per la fine di un grande amore. Nano spiega che le canzoni d’amore si riconducono, di norma, a due paradigmi Beatlesiani: She loves you (l’amore felice) e Yesterday (l’amore infelice). Questo brano si pone invece in una posizione diversa: si può anche “festeggiare” con serenità la fine di un amore che non c’è più.
Ascoltiamo poi “Lagrimas de oro y plata” (Lacrime di oro e argento) un brano basato su una mitologia andina che narra del continuo inseguimento tra il sole e la luna che porta i due astri prima a lottare tra di loro, poi a pentirsi della loro violenza e quindi a piangere facendo piovere sulla terra argento (la luna) e oro (il sole). Il brano ricorda che dietro alle ricchezze c’è sempre la violenza e conclude che oro è argento non ripagano mai il dolore che li ha prodotti.
C’è anche lo spazio per un brano un brano dedicato al tema dell’immigrazione: “Festejo de color” (Festa di colori) che racconta la forza della memoria e la dignità del migrante: «Sei arrivato da un’altra terra, lasciando indietro una vita, partendo senza un addio, in fuga da una guerra… ti do il benvenuto con affetto e fervore. Che le nostre voci si uniscano per dare vita a una canzone».
Con “Aùn creo en la beleza” (Ancora credo nella bellezza) - che richiama la delectatio victrix di Agostiniana memoria - Stern dichiara la sua fede ottimistica nella bellezza, intesa non solo come estetica, ma anche come etica, speranza e forza rigeneratrice, e nell’importanza dei piccoli gesti: «credo nelle cose sacre: il sole, la natura e tra tanta bruttezza, credo ancora nella bellezza!». “Un gran regalo”, infine, è di nuovo un ottimistico piccolo-grande inno alla resilienza emotiva, alla forza della connessione umana e alla gratitudine: «Molte volte mi sento triste, non trovo più il senso per andare avanti quando tutto spinge indietro. E guardo verso il cielo e non vedo la luce, e tocco la terra e non sento il calore, e arriva un amico e mi fa ricordare che la vita è un grande regalo». Il pubblico canta il ritornello dapprima senza pensarci troppo sù, poi con più entusiasmo la seconda volta, poi sempre con più convinzione tutte le volte successive nella quali l’artista invita a ripeterlo. Le parole toccano dentro. Ripeterle invita a riflettere su sè stessi. Qualcuno ha gli occhi lucidi e, con discrezione, asciuga una lacrima di commozione.
Il concerto si avvia così alla fine, ma il pubblico, trascinato dall’entusiasmo e dalla magia ancora viva nell’aria, a gran voce richiede il bis. Il primo è un virtuosismo alla chitarra e al flauto andino. Per il secondo Nano richiama sul palco la support band che aveva aperto il concerto (il gruppo di virtuosi strumentisti Latin Tram Quartet) ed esegue una rilettura in ritmo bossa-nova del brano “Todo cambia” dell’attivista e cantautrice argentina Mercedes Sosa.
Si chiude con Nano che si commiata dal pubblico riassumendo in tre punti la sua filosofia: cantare rende felici, cantare insieme ad altri rende ancora più felici, ma cantare le cose vere della vita è ancora meglio.
Si esce e il bicchiere di birra consumata scambiando due chiacchiere con Nano sembra avere un sapore diverso. Si torna a casa con un senso di leggerezza e di ottimismo, e anche di gratitudine, come se si fosse respirata un’aria più limpida nonostante la canicola romana.
Restano impresse e tornano alla mente le parole più belle, quelle che spesso dimentichiamo, ma che almeno una volta abbiamo sperimentato come vere: «La vita è un dono grande».
* La foto è stata scattata da Federico Bonadonna, scrittore e antropologo, autore, tra gli altri, del libro Sulle corde del tempo. Una storia degli Inti Illimanni (Jorge Coulon).