Felicità*
di Christine Von Borries
Sono felice. Sto aspettando il mio amore che deve ritornare dal lavoro. Sono fortunata, come mi fa sempre notare. Lavoro come commessa in un supermercato vicino a casa mia e ho orari fissi. Otto-tredici. Quindici-diciannove. La paga non è alta. Millecinquecento euro al mese. Ma almeno è certa. Non come Pietro che, nonostante abbia finito il liceo, combatte da anni contro capi che non lo apprezzano abbastanza, lo sfruttano e ogni tanto lo licenziano perché invidiosi delle sue capacità e per paura che lui faccia loro ombra. Quando l’ho conosciuto, un anno fa, aveva appena cominciato un nuovo lavoro come rappresentante di una famosa casa farmaceutica. È il responsabile per Toscana, Umbria e Marche e deve viaggiare molto. Era stato appena lasciato da una fidanzata della quale non mi ha mai voluto parlare, ma che doveva averlo trattato molto male. Era dovuto tornare a casa della madre che vive vicino a dove lavoro. Così ha cominciato ogni tanto a fare lì la spesa. Non l’ho notato solo io. Quando vedevamo le porte scorrevoli aprirsi e lui che entrava, con le mie amiche ci facevamo un cenno e ognuna pregava che scegliesse la propria cassa. Alto, muscoloso, un ciuffo sbarazzino sugli occhi grandi. Vestito sportivo e alla moda. Jeans strappati e magliette attillate nel fine settimana. Camicia e cravatta quando lavorava. Non so perché abbia scelto me. Ancora adesso ringrazio il cielo. Ho venticinque anni, sono timida, non arrivo al metro e sessantacinque. Ho un bel sorriso, mi diceva mia madre prima che morisse per un tumore cinque anni fa. Mio padre era morto qualche anno prima ma non avevamo sentito la sua mancanza. Si erano lasciati quando mia madre non ce l’aveva più fatta, forse anche a causa mia.
Ho spolverato tutti i mobili e sto finendo di dare l’aspirapolvere in salotto. Pietro ama l’ordine e la pulizia. Non sopporta la polvere, lo sporco, la sciatteria e io purtroppo non facevo troppo caso a queste cose. Fino a che ci siamo fidanzati.
Dopo un mese che sceglieva sempre la mia cassa mi ha invitato a bere qualcosa al bar all’angolo. Dopo pochi giorni stavamo insieme e nel giro di alcune settimane si è trasferito a casa mia. È lì che mi ha fatto la prima scenata. A ragione. Un giorno ha passato un dito per terra in salotto e lo ha rialzato con un filo di polvere sopra. Non mi ha parlato per due giorni e mi sono sentita morire. Da allora pulisco la casa tutti i giorni, ma purtroppo mi capita ancora di sbagliare e lui giustamente ogni volta si arrabbia di più. Un conto è dire le cose una volta, un’altra è doverle ripetere a una persona che si rifiuta di capire. Ad esempio, continuo a non pulire e ordinare in modo adeguato e lui è bravissimo a scoprire quello che trascuro. Ogni volta che penso che lui sarà orgoglioso di me, trova qualche pecca: il lampadario coperto di polvere, il pavimento sporco sotto al mobile della cucina, il cassetto della mia biancheria sottosopra.
Sospiro e apparecchio il tavolo di cucina coperto da una tovaglia come piace a lui, stando attenta a sistemare i piatti, le posate e i bicchieri in modo geometrico. Sposto più volte le cose finché mi ritengo soddisfatta. Ho preparato coniglio in umido e il purè di patate che gli piace tanto. Guardo l’orologio appeso sopra al tavolo. Le otto meno venti. Normalmente arriva verso le otto, ma a volte può ritardare anche fino alle dieci. Accendo il gas a fuoco basso sotto alle padelle. L’importante è non bruciare niente, ma è difficile quando ritarda tanto. Spesso mi ha fatto notare come io sia distratta ed egoista. Una sera, dato che stavo svenendo dalla fame, non l’ho aspettato e ho mangiato senza di lui. Si era trasferito da me da una settimana e ha minacciato di andarsene, alzando per la prima volta la voce. Mi ha insultato e sono rimasta sconvolta. Non per le offese, ma perché non l’avevo mai visto arrabbiato e avevo il terrore che mi lasciasse. Lui per me è diventato tutto. La mia famiglia, il mio amante, l’uomo che amo e che dà un senso alla mia vita. Non sopporto l’idea di rimanere di nuovo sola, la casa vuota, nessuno a cui pensare, nessuno che mi voglia bene.
Fortuna che Pietro ha pazienza e che non si stanca di farmi notare tutti i miei difetti in modo che possa migliorare. Non so cucinare come sua madre, sono sciatta ed egoista, non penso abbastanza a lui e ai suoi bisogni.
Ho cominciato a imparare. Ora non mangerei mai prima del suo arrivo e preparo i piatti che lui preferisce e che sua madre gli cucina così bene. Nulla in confronto a quello che faccio io. Ma lui è paziente e si accontenta.
Il telefono squilla. Strano. Guardo il display. È una mia amica d’infanzia. L’unica che mi chiama ancora. Guardo preoccupata l’orologio. Mancano cinque minuti alle otto. L’altra cosa che Pietro non sopporta sono gli amici che avevo prima, anche se non ne avevo tanti. Se ricevevo una telefonata Pietro si rabbuiava e pensava che fossero uomini che mi corteggiavano e che mi frequentavano al solo scopo di venire a letto con me. Le mie rassicurazioni erano state inutili. Siamo usciti qualche volta con il mio gruppo di amiche e amici, ma è stato un disastro. È rimasto in silenzio imbronciato e la sera abbiamo litigato. Ha tirato fuori lati negativi in ognuno e mi ha detto che cominciava ad avere dubbi anche su di me visto che frequentavo persone così. Mi è dispiaciuto, ma ho rinunciato a tutti pur di non perderlo. Ogni tanto mi sento sola, ma quando torna Pietro e mi prende tra le sue braccia dimentico tutto il resto del mondo.
Mi sforzo ogni giorno di migliorare i miei difetti, anche se diventa sempre più difficile. Mio padre aveva ragione. Anche lui urlava spesso con mia madre e, quando sono cresciuta ho capito che, quando si chiudevano in camera, non erano solo parole quelle che volavano e il perché dei lividi che mia madre tentava di nascondere con il fondo tinta. Anche io venivo rimproverata per ogni piccola cosa. Facevo disordine, confusione, non obbedivo prontamente ai suoi ordini, ero stupida, non capivo, non sarei mai riuscita a combinare qualcosa di buono. Sono diventata sempre più insicura e sbagliavo cose che prima mi riuscivano. Se lui mi guardava cadevo dalla bicicletta, facevo cadere le cose che tenevo in mano, rompevo oggetti a cui lui teneva. Mia mamma lo ha lasciato la prima volta che mi ha picchiato. Avevo sbattuto contro la libreria del salotto facendo cadere un vaso che era stato di mia nonna e lui mi ha colpito con un pugno che mi ha fatto sbattere la testa contro uno scaffale. Sono svenuta e mi hanno portato in ospedale. Mia madre, che non aveva mai reagito quando lo faceva con lei, ha trovato la forza di andarsene di casa con me e di rifugiarsi dai suoi genitori. Forse però mio padre non aveva tutti i torti a vedere tutti quei difetti in me che anche Pietro nota.
Mi decido e rispondo alla telefonata della mia amica. È contenta di sentirmi e mi rimprovera bonariamente perché non mi faccio mai viva. Sono mesi che non ci vediamo. Dovrei mentire a Pietro e lui lo scopre sempre quando gli nascondo qualcosa. Le dico che sono felice, ma sento che è scettica. Mi chiede perché mi sono allontanata dagli amici e le spiego che Pietro non è socievole e preferisce stare solo con me. In fondo anche se mi piacerebbe vedere altre persone insieme a lui, devo avere la maturità di venire incontro alle esigenze dell’uomo che amo. Non mi piace la piega che ha preso la nostra conversazione e, più lei si mostra dubbiosa dell’uomo che amo, più io lo difendo, nascondendo aspetti che anche a me a volte fanno riflettere. Sono a metà di una frase quando sento la porta di casa aprirsi. Attacco senza salutare e infilo in fretta il telefono nella tasca dei pantaloni. Mi volto verso la porta della cucina mentre entra e gli vado incontro. Mi alzo sulla punta dei piedi e gli do un bacio sulla bocca. Lui rimane immobile e mi guarda serio.
«Con chi eri al telefono?»
«Con nessuno.»
«Non mi mentire, lo sai che non lo sopporto.»
«Ti giuro non stavo parlando con nessuno, stavo controllando l’ora per vedere se stavi per arrivare», insisto.
Non riesco a smettere eppure so che sto peggiorando la mia situazione. Bastava dirgli che era la mia unica amica, ma so che si sarebbe arrabbiato ugualmente e ho cercato di evitarlo.
«Dammelo.»
«Cosa?»
«Lo sai.»
A malincuore gli tendo il cellulare e capisco che devo confessare.
«Hai ragione, mi ha chiamato Maria e io…»
Lo schiaffo mi colpisce in piena faccia prima che me ne renda conto. Mentre la testa viene spinta di lato mi arriva un manrovescio così violento che sbatto con il corpo sul frigorifero. È molto più forte di me e i colpi si susseguono senza tregua. Fitte dolorose mi trafiggono mentre continua a bersagliarmi con schiaffi e pugni. Cado a terra e continua a darmi calci nello stomaco, nei reni, nella schiena, finché un buio pietoso cala su di me e non sento più niente.
Apro un occhio piano, dato che l’altro è così gonfio che rimane chiuso. Cerco di capire cos’è successo e perché sento così male in tutto il corpo. Mi muovo e gemo. Sento una mano che mi accarezza il braccio delicatamente. Mi giro. Sono nel nostro letto e lui è seduto su una sedia. Si china su di me e mi mormora parole di scuse e di amore. Era preoccupato. Sono svenuta e lui mi ha infilato la camicia da notte e messa a letto. È mattina e ha già chiamato il direttore del supermercato e gli ha detto che sono malata e che mancherò per un paio di giorni. Non riesco bene a parlare, ho un labbro spaccato. Chiedo dell’acqua e lui sollecito mi avvicina il bicchiere e mi aiuta a mettermi seduta. È distrutto dal dispiacere e dalla vergogna. Mi chiede perdono, dice che non lo farà mai più e che non capisce come ha fatto a perdere il controllo. D’altra parte gli ho mentito e ho parlato alle sue spalle con la mia amica. Ho violato una promessa. Effettivamente ha ragione. Sono stata una stupida, ma lui ha esagerato. Mi dà ragione, si mette a piangere e mi chiede di non lasciarlo. Mi fa pena e gli accarezzo la testa posata sul grembo. Tanto ieri sera mi faceva paura e mi pareva un mostro, quanto ora sembra un bambino piccolo bisognoso di protezione. Gli credo e lo perdono. Ci abbracciamo con attenzione perché non c’è parte del corpo che non mi faccia male e io piango lacrime di sollievo che si mischiano alle sue di pentimento. È ancora lui il mio amore, il mio unico amore.
* In libro di 30 racconti sulla violenza alle donne “La sica Nera” edizioni Tea curatore Marco vichi del 2019