Relazione introduttiva al V Congresso nazionale di Area DG, 10 ottobre 2025 a Genova del Segretario Ciccio Zaccaro.
Benvenuti a tutti.
Grazie alla Sindaca Salis per il calore e l’energia con la quale ha portato i saluti di questa bella città.
Grazie agli amici di AreaDG genovese che hanno organizzato questo congresso e soprattutto i tantissimi eventi che hanno riempito la citta nei giorni scorsi. Dal carcere, dallo scandalo del sovraffollamento carcerario alla tutela dei minori nel processo, dal lavoro povero, dal lavoro pericoloso alla giustizia riparativa, dalla riforma Nordio al diritto, la guerra e la pace.
La pace, l’art. 11 Cost.: l’Italia ripudia la guerra. Da giurista, mi vergogno per come abbiamo consentito che la forza delle armi abbia annichilito il diritto degli esseri umani. Ed anche per questo, il titolo di questo congresso è “la forza ed il diritto”.
Quando ad inizio settembre abbiamo visto la folla che si accalcava per portare i viveri da imbarcare sulla flottiglia diretta a Gaza abbiamo capito di avere fatto bene a venire a Genova.
Genova medaglia d’oro della Resistenza in quest’anno che festeggiamo gli 80 anni della Liberazione dell’Italia dei nazi fascisti.
Genova porto di partenza dei nostri avi per emigrare in America, memoria che abbiamo perduto visto che ci ostiniamo a rendere tanto difficile salvare chi si mette in mare verso il nostro paese.
Genova i cui magistrati sono stati vittima di una campagna mediatica per avere indagato e processato “potenti” locali ed ai quali nessuno ha chiesto scusa.
Genova la cui Accademia, il cui Foro, la cui Magistratura tanto ha dato all’evoluzione del diritto italiano, agli studi sulle fonti del diritto, sulla interpretazione giurisprudenziale. Alpa, Rodotà, Roppo, Bessone, Tarello, Guastini fino all’amico Benedetti, ma l’elenco è lungo.
Non per nulla, qui, cinquanta anni fa, è nato il danno biologico. Ricordarlo è importante soprattutto oggi quando in molti tendono a mortificare gli spazi di interpretazione lasciati al giudice. Ricordare la fecondità dello scambio fra l’Università, l’avvocatura, i giudici è importante soprattutto oggi in cui in tanti vogliono separare invece di unire.
I
Questo congresso inizia con quello che ci eravamo detti due anni fa a Palermo.
Allora ci eravamo interrogati sul destino della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo.
Sul pericolo che le legittime maggioranze vedessero come un ostacolo le decisioni e le funzioni degli organi di garanzia e fra tutti quelle della Giurisdizione.
Ci eravamo impegnati a mantenere una luce accesa su tali pericoli. A difendere il diritto dei magistrati ad associarsi, ad intervenire nel dibattito pubblico sui temi dei diritti e della giustizia, ad esercitare – con la dovuta continenza - un pensiero critico.
Proprio mentre parlavo a Palermo si scatenava la polemica su un giudice catanese che aveva “disapplicato” il decreto Cutro. Non aveva preso una decisione sovversiva. Aveva semplicemente ritenuto la primazia del diritto dell’Unione Europea. Ancora non si sapeva il suo nome. Io dissi “c’è un giudice a Berlino”.
Quella giudice era Iolanda Apostolico.
La sua persona è stata sottoposta ad un’intensa campagna mediatica. La sua vita è stata setacciata, coinvolgendo anche i suoi affetti più cari.
Però la sua decisione non venne mai impugnata o meglio il ricorso non venne mai coltivato.
I suoi argomenti sono stati avallati da altre decisioni di giudici italiani ed infine dalla sentenza della Corte di Giustizia.
Quella giudice si è infine dimessa, senza che ad oggi ancora le abbiano chiesto scusa.
Quella stessa sorte l’hanno passata o la stanno passando tanti giudici, da Bologna a Roma, a Milano che si ostinano a prendere decisioni sgradite alle maggioranze di turno. Noi non li lasciamo soli!
A Palermo eravamo stati facili profeti. Quelli che allora sembravano fenomeni preoccupanti ma ancora marginali sono diventati la regola.
La politica rinuncia ad elaborare ed offrire un’idea di futuro migliore.
Così facendo inevitabilmente si sottrae al dovere di offrire soluzioni, limitandosi ad ingigantire i problemi ed a diffondere la paura.
Nel frattempo, avvocati e magistrati, nei limiti del singolo caso a loro sottoposto, devono invece offrire soluzioni, non possono sottrarsi a rispondere alle singole domande di giustizia.
Ed è questo il conflitto fra politica e giurisdizione: la politica annaspa nel dare risposte di sistema alle sfide del presente, i magistrati sono costretti a prendere una decisione sulla base delle fonti del diritto interno ed internazionale.
Altro che straripamento del potere giudiziario!
Se la politica rinuncia a pensare un mondo migliore e si limita ad incarnare il sentimento popolare contingente, se il consenso passa dalla immedesimazione sentimentale fra eletti ed elettori, le prime vittime sono gli organi di controllo e garanzia che fisiologicamente devono tutelare il nocciolo duro ed insopprimibile della democrazia, qualunque sia il volere delle maggioranze contingente.
Ed allora è gioco facile accusare i giudici, che devono tutelare i diritti e le garanzie di tutti, anche dei pochi e dei pochissimi, di essere contro il popolo, contro gli interessi nazionali, contro le decisioni delle maggioranze.
Emblematico quel che accade negli Stati Uniti.
La decisione dell’amministrazione Trump sui dazi è stata dichiarata illegale dalla Corte per il Commercio Internazionale il 28 maggio, decisione confermata il 30 agosto dalla Corte d’Appello federale. Vedremo cosa dirà a breve la Corte Suprema.
L’invio della Guardia Nazionale a Los Angeles per fronteggiare le proteste contro la politica governativa sull’immigrazione è stata sospesa, dapprima dal giudice distrettuale, poi dalla Corte di appello di San Francisco.
Il licenziamento di Lisa Cook, componente del Consiglio dei governatori della Fed che si opponeva al taglio dei tassi di interesse richiesto da Trump, è stato sospeso dalla Corte federale di Washington.
Tutte le volte, i giudici che hanno deciso sono stati accusati di boicottare l’azione governativa e di non fare l’interesse degli americani. Quando è stato possibile, i giudici che hanno preso decisioni sgradite sono stati rimossi o sospesi.
Ma l’apparente contrasto fra sovranità elettorale e giurisdizione passa soprattutto dalla debolezza della politica. Una politica che fonda il suo consenso sui valori e sui progetti non traballa a fronte di una decisione giudiziaria che è - per forza di cose - contingente e relativa.
Ed invece anche qui la cronaca ci racconta una realtà diversa.
Yoon Suk-Yeol, Presidente della Corea del Sud, fra l’altro ex magistrato e procuratore generale, è stato all’inizio del 2025 arrestato e, poi, con decisione della Corte Costituzionale dell’aprile di quest’anno rimosso.
Le elezioni del Presidente della Repubblica di Romania sono state annullate dalla Corte Costituzionale.
Marine Le Pen, leader della destra francese e grande favorite per la prossima competizione elettorale, è stata condannata il 31 marzo dalla giudice Benedicte de Perthuis, magistrata del tribunale di Parigi, alla pena di 4 anni di carcere e soprattutto a cinque anni di ineleggibilità con effetto immediato, ritenendola colpevole di una frode da 2,9 milioni di euro al Parlamento europeo.
Per inciso, pochi giorni fa è stato condannato anche l’ex Presidente Sarkozy. Non si è contestato il merito della decisione ma il fatto che la giudice era un’attivista del sindacato dei magistrati che aveva protestato contro una riforma proposta da Sarkozy. La stessa tecnica di delegittimazione che, nelle stesse ore, era adottata, in Italia, contro una decisione della Corte dei Conti sul ponte di Messina.
Insomma, ogni volta, i giudici sono accusati di essere “politicizzati”.
Noi magistrati italiani ci siamo sentiti rivolgerci tante volte questa accusa. L’ultima addirittura innanzi alla Assemblea delle Nazioni Unite.
C’è la terza guerra mondiale a pezzetti, chi sa se anche quella è colpa dei giudici…
L’accusa nemmeno ci scandalizza più.
Continuano però a scandalizzare le parole di un sotto segretario che ci definisce come cancro da estirpare o quelle di un ministro che ci paragona ai killer che ammazzano. Qualche parola di scusa servirebbe. Le aspettiamo con pazienza.
Sia chiaro, noi non cerchiamo la supplenza giudiziaria, noi non vogliamo essere la guida politica e tanto meno etica del paese.
Ci preoccupa, invece, la debolezza della politica, che cerca nemici fra le altre istituzioni, che cerca alibi, che decide di non decidere ed inevitabilmente lascia ogni singolo magistrato nelle condizioni di dovere decidere in assenza di leggi, di dovere affrontare contenziosi che nascono dal fallimento del welfare, di dovere applicare norme senza le risorse necessarie. Ma questo è il tema della tavola rotonda che comincerà fra qualche minuto…
II
Nel frattempo, la politica e la giurisdizione cedono il passo innanzi alla tecnologia, alla concentrazione dei big data e delle competenze tecnologiche nelle oligarchie di pochi, che sfuggono alla regolamentazione degli Stati, che addirittura ambiscono a sostituirsi a chi viene eletto, che sono indifferenti alle decisioni delle Corti.
L’ intelligenza artificiale è fra noi, da tempo.
È un’innovazione che sta cambiando le professioni intellettuali e tocca da vicino i temi della giurisdizione. Per quanto la si voglia studiare, regolamentare, limitare, è già fra noi. È nelle scuole e nell’università, negli studi professionali, nelle aule di giustizia.
Certamente, la decisione sarà sempre riservata al giudice e spetta a lui valutare le risposte offerte dalla I.A.
Ma la possibilità di calcolare e predire il possibile esito di un giudizio influenzerà chi vuole intraprenderlo.
La I.A. influenzerà la giurisdizione e la tutela dei diritti non perché condizionerà le decisioni (od almeno speriamo che non accada) ma perché eviterà addirittura che certe questioni arrivino davanti ad un giudice.
Una I.A. predittiva funziona sulla elaborazione di migliaia di precedenti decisioni in casi simili ma se non c’è qualcuno che rischia di andare “contro” il precedente, di fare causa “nonostante” il precedente, la giurisprudenza ed il diritto non si evolvono.
Se la I.A. inibisce dal rischiare un giudizio per cercare di affermare un principio nuovo, corriamo tutti il rischio di fermarci allo status quo.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il danno biologico, che, lo ripeto, è nato qui, a metà anni 70, e saremmo ancora alla giurisprudenza Gennarino per la quale il figlio di un ciabattino subisce un danno minore.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il Pretore di Cingoli che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5 cp ed ha ricostruito il sistema penalistico italiano sulla base del principio di colpevolezza.
Se l’ I.A. è addestrata con dati parziali, restituisce un precedente giurisprudenziale conveniente per chi l’ha addestrata e nasconde i precedenti giurisprudenziali scomodi.
Quindi la questione è ben più seria e ben più ampia del vigilare e sanzionare.
Riguarda l’oligopolio in mano a soggetti privati, riguarda la gestione dei big data, riguarda la popolazione dei motori di ricerca e l’addestramento leale delle macchine per l’I.A.
Un Ministero che non ha idee e progetti per l’ammodernamento della giustizia, che offre ai suoi operatori strumenti che nascono vecchi, che esternalizza funzioni strategiche come quelle dell’informatica e della tecnologia è consapevole delle opportunità e dei rischi dell’I.A. o si limita ad introdurre qualche reato nuovo?
III
Il ruolo del magistrato, le colpe dei magistrati.
Se vogliamo essere magistrati al passo con i tempi, se vogliamo tenere accesa la luce affinché il diritto freni la forza e la giurisdizione presidi i diritti, non dobbiamo rintanarci nella comodità delle nostre funzioni.
Mi ha colpito quello che ha detto la ex Prima Presidente circa la deriva impiegatizia della magistratura.
I magistrati sono lavoratori, sono usurati da carichi insostenibili, mortificati dalla cronica mancanza di risorse, denigrati come categoria.
È comprensibile che lottino anche per tutelare le loro condizioni di lavoro e di vita. Del resto, solo un magistrato sereno può rendere un buon servizio.
Quando però si parla di impiegatizzazione della magistratura, io vedo un rischio diverso e maggiore.
Quello di adagiarsi sulla comodità del precedente, di non cercare la soluzione migliore per il caso concreto, di conformarsi a quel che dicono gli altri, di non rivendicare che i magistrati si differenziano solo per funzioni ma - per il resto - sono tutti uguali, hanno pari dignità professionale e costituzionale, dal Primo Presidente al più giovane dei mot presente oggi in platea.
Una magistratura così chiusa in se stessa non è degna erede della magistratura che ha contribuito alla crescita culturale e giuridica del paese, degna erede del Tribunale di Genova che ha depatrimonializzato il danno alla persona, del Pretore che ha dubitato che l’ignoranza della legge non scusa.
Una magistratura che non ha consapevolezza culturale di sé, del suo ruolo nel sistema multilivello di tutela dei diritti, è una magistratura più povera e che rende più povera la società italiana.
Le quotidiane delegittimazioni, le campagne stampa, gli insulti mirano proprio a questo. Ad indurre tutti noi a chiuderci in difesa. Ad indurre tutti noi a cercare di limitare il danno. A ridurci a ceto impiegatizio, ben remunerato, ben tutelato ma che evita decisioni che possano intralciare i piani dei governanti di turno.
Le prime vittime, ovviamente, sarebbero i cittadini. Soprattutto quelli che non hanno tutela e difesa se non da una giustizia imparziale, efficiente e libera.
Le altre sono gli avvocati, che già vivono un momento di crisi professionale profondissima e che sono tutti consapevoli che la delegittimazione della giurisdizione colpisce i magistrati e gli avvocati, allo stesso modo. Lo svilimento del magistrato svilisce anche l’avvocato. Perché dietro ogni decisione che un magistrato prende, c’è un avvocato che chiede giustizia. E spiace che lo sappiano e lo dicano gli avvocati che incontriamo nei corridoi, ma che siano molto più timide le loro rappresentanze istituzionali. Forse colpa della nostra autoreferenzialità, ma amici avvocati il percorso è lungo e stiamo tutti dalla stessa parte della barricata!
Anche il CSM deve vigilare sul rischio di burocratizzazione della funzione giudiziaria.
Non lo deve avallare con valutazioni solo quantitative del lavoro negli uffici, non lo deve promuovere auto rappresentandosi come datore di lavoro dei magistrati.
Il CSM deve essere uno degli attori della scena della giustizia, con prestigio ed importanza pari e forse superiore al Ministro della Giustizia.
Non per nulla, era buona e feconda prassi – temo disattesa di recente - che ogni nuovo Ministro, fra i primi adempimenti, andasse in Consiglio a presentare il suo programma.
Ha fatto bene, al di là del merito delle proposte, il Consiglio, quando questa estate ha evidenziato il rischio del mancato parziale raggiungimento degli obiettivi PNRR ed ha offerto al decisore politico alcune soluzioni facilmente praticabili, evidenziando i settori, dalla materia della cittadinanza a quella della protezione internazionale al tributario, che affossano le corti italiane per improvvide scelte amministrative e normative.
È stata deludente, invece, la risposta governativa, che – nel paniere delle tante soluzioni offerte – ne ha scelte solo alcune.
Ha rinunciato ad intervenire sui motivi del sorgere del contenzioso civile, così come rinuncia ad intervenire sul contenzioso penale ed anzi è uno dei promotori del panpenalismo che solo nei convegni e negli articoli sui giornali dice di avversare.
Ha rinunciato ad un esame di alto profilo, come invece gli aveva suggerito il Consiglio ed ha promosso invece solo misure di piccolo cabotaggio, misure contingenti, che guardano all’oggi ma non al domani.
Misure che - con il cottimo - avallano la concezione impiegatizia della magistratura, che - con l’uso dei mot - rischiano di sacrificare la formazione dei giovani colleghi che è il fondamento primo della loro legittimazione professionale.
Sono certo che, verificato il funzionamento di tali interventi, il CSM saprà riguadagnare il suo ruolo politico ed istituzionale insistendo nelle misure di riforma infrastrutturale e legislativa che, a prescindere dagli obiettivi PNRR, potranno garantire una giustizia giusta e celere, come meritano i cittadini italiani.
IV
La debolezza della politica, le frizioni fra giurisdizione e populismo, l’impatto della tecnologia e dell’I.A., la deriva impiegatizia della funzione giudiziaria sono tanti i temi che ci interrogano e che ci hanno interrogato.
Non so se anche il Ministro Nordio si interroghi su questi temi.
Quello che so è che ha impegnato la legislatura sulla riforma che porta il suo nome.
Una riforma che non risolve nessuno dei problemi della giustizia.
Non rende i processi più veloci, non li rende più giusti.
Una riforma che non guarda alla Magistratura come servizio ma solo come potere e cerca di mortificarla nel rapporto con gli altri poteri dello Stato.
Una riforma che ci riporta - nel dibattito - indietro di decenni. Che finge che nel frattempo non ci sono state leggi che rendono di fatto impossibile il transito dai ranghi dei PM a quello dei giudici e l’inverso.
Una riforma che sottrae il diritto di voto ai magistrati, creando un precedente assai pericoloso.
Una riforma che sposta il giusto processo dalla sede processuale, dove si devono rafforzare le garanzie sostanziali, prima fra tutte quella della celerità, a quella ordinamentale.
Una riforma che sposta la terzietà ed imparzialità del giudice dal momento del giudicare al momento della carriera.
Una riforma che spacca il paese, che spacca gli operatori del diritto, che spinge tutti a schierarsi per il sì o il no, in un tempo in cui le sfide della modernità e dei diritti vanno combattute tutti insieme.
Una riforma che con uno slogan poco fortunato viene giustificata con l’esigenza che il giudice, nella pausa del processo, non vada al bar insieme al PM.
Al di là che nelle pause di udienza, al bar vanno tutti insieme giudici, PM ed avvocati.
Io vi chiedo: in un tempo in cui i diritti sono negati, in cui la forza schiaccia la ragione, ha senso dividere? Questo è invece il tempo di unire tutti sotto la stessa bandiera, quella del diritto.