La Corte costituzionale a ranghi ridotti: inefficienze e rischi derivanti dalla perdurante mancata elezione del quindicesimo giudice costituzionale
di Corrado Caruso e Pietro Faraguna
Sommario: 1. Le norme - 2. I fatti - 3. I rischi - 4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione? - 5. I possibili rimedi
1. Le norme
Lo scorso 24 luglio, in occasione della cerimonia del ventaglio al Quirinale, il Presidente Mattarella ha esortato, “con garbo e determinazione”, il Parlamento a eleggere il quindicesimo giudice costituzionale.
I motivi di questa esortazione sono forse noti, ma nel dubbio conviene ripassare le coordinate normative e i fatti istituzionali che hanno portato al monito. Quanto alle norme, «la Corte costituzionale è composta di quindici giudici», afferma l’art. 135 della Costituzione. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa immediatamente dalla carica e dall’esercizio delle funzioni, recita ancora l’art. 135 Cost., modificato dalla l. cost. 2/1967, che ha eliminato la prorogatio originariamente prevista dalla Costituzione. La stessa legge costituzionale poi, all’art. 5, secondo comma, dispone che, «in caso di vacanza a qualsiasi causa dovuta, la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa». Le fonti costituzionali delineano dunque un duplice obbligo, il secondo conseguenza del primo: la Corte deve essere composta da 15 giudici; là ove, per qualsiasi causa, l’integrità del collegio venisse meno, è necessario che l’istituzione incaricata provveda entro trenta giorni a ripristinarne l’originaria composizione.
Come noto, i giudizi di estrazione parlamentare sono un terzo del totale: per l’elezione di questi ultimi la legge cost. n. 2/1967, ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori ordinari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati delle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli, stabilita dalla l. cost. n. 2/1967, è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (sul punto si sprecano varianti di paradossi di Alf Ross[1]). Non è sempre stato così: nell’assetto originario dell’ordinamento repubblicano, prima dell’entrata in vigore della l. cost. n. 2/1967, le super maggioranze per l’elezione dei giudici costituzionali erano imposte… da una legge ordinaria (la legge n 87 del 1953)!
2. I fatti
Quanto ai fatti: i giudici costituzionali sono oggi quattordici, per la precisione dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra e dei Vicepresidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati infatti 12, ma gli ultimi due sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune (la prima, e sinora unica donna che il Parlamento ha eletto nella storia della Repubblica), è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.
Negli ultimi trent’anni, dall’avvento del «bipolarismo rusticano»[2] della cosiddetta seconda Repubblica fino all’odierno, instabile, assetto tripolare, si è avuta una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Basti pensare alle prolungate tempistiche per la sostituzione dei giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi: 25 febbraio 1995-24 gennaio 1996), Caianiello (quasi venti mesi: 23 ottobre 1995-18 giugno 1997), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi: 21 novembre 2000-24 aprile 2002), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi: 2 maggio 2007-21 ottobre 2008)[3], sino ai 16 mesi necessari a colmare la vacanza aperta dalle uscite di Silvestri, Mazzella e Mattarella, pure cessati dalla carica in momenti diversi[4], chiusa con l’elezione, nel dicembre 2015, di Barbera, Modugno e Prosperetti (in scadenza a fine 2024)[5]. Tali difficoltà sono state più facilmente superate quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante ma più d’uno, così da consentire un accordo tra diversi gruppi parlamentari e raggiungere l’elevato quorum richiesto dalla Costituzione.
Simile prassi è perfettamente comprensibile, e conduce a un progressivo accrescimento dell’elezione parlamentare: poiché non si raggiunge l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e al loro pacchetto si “unirà” l’ulteriore elezione del giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà inevitabilmente sempre più grande: abbiamo già assistito in passato agli effetti di questo processo (con la sostituzione contestuale di tre giudici che avevano terminato il mandato in momenti diversi) e potremmo presto assistere al “record” negativo, se il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra verrà riempito solo quando scadrà il pacchetto dei prossimi tre giudici parlamentari in uscita contestuale.
3. I rischi
Il fatto che la dinamica sia facilmente comprensibile sul piano descrittivo, non ne trasforma la natura: essa rimane una inadempienza costituzionale, con gravi effetti collaterali. Alcuni piccoli, uno molto grande. Tra quelli piccoli vi è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavora a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).
Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il funzionamento della Corte costituzionale è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale finisce naturalmente per travolgere come una valanga l’equilibrio e il funzionamento stesso dell’Istituzione, una volta che si vengano a creare pacchetti di 4 o 5 giudici da sostituire.
Come anticipato, il pacchetto di 4 giudici potrebbe essere realtà dal prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i Vicepresidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare), o per più tempo se la sostituzione del folto pacchetto dovesse incappare in difficoltà non previste.
La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la stessa operatività del giudice delle leggi: ai sensi dell’art. 16 della legge n. 87 del 1953, «[l]a Corte funziona con l’intervento di undici giudici»: ciò significa che quando il collegio è completo, ci sono ben quattro assenze “di margine”, che non influiscono sull’operatività del collegio. Quando i giudici in carica si ritroveranno soltanto 11, qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – potrebbe mettere a repentaglio il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: un assetto a 11 metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice un potere, certamente del tutto alieno all’assetto costituzionale pensato dal Costituente, di impedire il funzionamento dell’organo, consentendo a questi di impedire al collegio di prendere qualsivoglia decisione mediante la sola forza della sua assenza. Si tratta di uno scenario evidentemente assai indesiderabile, e tutto suggerisce l’opportunità di evitare che tale scenario possa verificarsi. Obiettivo che si potrebbe tutto sommato raggiungere agevolmente, non facendo niente di più che adempiere a quanto chiede la Costituzione: assicurare che la Corte costituzionale sia composta da 15 giudici, non uno di meno.
4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione?
Ma perché non eleggere immediatamente il giudice mancante? La tattica “attendista” sembra avere motivazioni schiettamente politiche. Piuttosto che cercare attivamente un accordo immediato con l’opposizione (o una parte di essa) – attraverso l’individuazione di un profilo almeno parzialmente condiviso, oltre il perimetro della maggioranza che sostiene il governo – la coalizione governativa sembra voler esprimere un candidato “identitario”, verosimilmente vicino a Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa. Peraltro, eleggendo contemporaneamente quattro giudici costituzionali a dicembre – un evento, lo ripetiamo, senza precedenti nella storia repubblicana –, la maggioranza potrebbe ambire a nominare tre giudici, scegliendo, sulla base di convenienze contingenti, quale partito della frammentata opposizione premiare con l’individuazione dell’ultimo giudice.
La stessa Presidente del Consiglio Meloni ha espressamente rivendicato la prerogativa – sua e della maggioranza che la sostiene – di eleggere “suoi” giudici costituzionali, rispondendo a talune voci critiche, tra cui quella dell’ex Presidente della Corte Giuliano Amato, che hanno sollevato preoccupazioni sulle implicazioni illiberali di questa posizione[6]. Secondo Meloni, «questa idea della democrazia per la quale quando vince la sinistra chiaramente deve poter avere tutte le prerogative che riguardano la maggioranza e quando vince la destra no» avrebbe riflessi autoritari, collocandosi al di fuori della libera dialettica democratica[7].
Sebbene esprimere un giudice di “area” rappresenti una comprensibile aspettativa, applicare alle nomine costituzionali meccanismi da spoil system, distinguendo tra giudici costituzionali (appartenenti a partiti) di destra o di sinistra, è profondamente sbagliato, come ribadito a più riprese dall’attuale Presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera[8]. Eppure, l’idea della Presidente del Consiglio sembra essere condivisa dalle diverse forze politiche, come dimostra la silenziosa acquiescenza dell’opposizione, le cui varie anime sembrano più interessate a contendersi le “spoglie” dei giudici uscenti che a soddisfare l’obbligo costituzionale o denunciarne il perdurante inadempimento.
Sia chiaro: non ci pare che questi sviluppi testimonino un’imminente deriva autoritaria, comunque impedita o quantomeno resa assai difficoltosa dagli alti quorum di elezione, dalla variegata estrazione del collegio e dalla diversità delle istituzioni chiamate a nominare o eleggerne i componenti. Assistiamo piuttosto al rischio di una cattura partitocratica della Corte costituzionale, secondo una tendenza generale che da tempo caratterizza il nostro sistema politico[9], ma che oggi pare amplificata dalla fine dei grandi collanti ideologici, dalla mutazione dei partiti di massa in partiti “cartello” e dalla immedesimazione identitaria con l’elettorato che contraddistingue trasversalmente le forze politiche, inesorabilmente attratte dalle sirene del populismo[10].
Lo spoil system applicato alla Corte costituzionale è contrario alla Costituzione. Un conto è, infatti, provare a convergere verso personalità provenienti da una certa cultura politica, nell’ottica di caratterizzare il collegio in senso pluralistico; altro è ripartire, col famoso manuale Cencelli, i giudici costituzionali sulla base dell’appartenenza partitica. Questa conclusione si trae da una lettura sistematica delle norme costituzionali: il Parlamento in seduta comune svolge, non diversamente da quanto avviene per l’elezione del Presidente della Repubblica, funzioni di collegio elettorale «imperfetto»[11]: non sono giuridicamente previste la presentazione e la discussione di candidature, né le audizioni degli interessati, né la presentazione di programmi di giustizia costituzionale. Il giudice eletto non è il mandatario né il rappresentante di alcuna forza politica, ma agisce in nome del popolo e nell’interesse della Costituzione.
Inoltre, l’art. 135 Cost. si distingue da altre disposizioni costituzionali, come quelle relative alla composizione delle commissioni parlamentari permanenti (artt. 72.3) speciali (art. 82.3) o al collegio elettorale presidenziale (art. 83.2 Cost.), non prevedendo «che la composizione della Corte rifletta gli equilibri tra le diverse componenti parlamentari»[12]. Non c’è in altri termini la necessità di rispecchiare una proporzione tra le forze politiche: non a caso, gli alti quorum previsti, che avvicinano il voto a maggioranza all’unanimità, riflettono l’idea che la selezione del giudice avvenga per consenso piuttosto che sulla base di un semplice computo maggioritario dei voti.
Un processo di designazione in cui ogni partito nomini il proprio giudice rischierebbe di intaccare l’imparzialità della Corte, favorendo la fedeltà organica rispetto all’apertura a diverse visioni del mondo, alterando la percezione di imparzialità che ne ha l’opinione pubblica: la Corte costituzionale è, in fondo, “anche” un giudice[13] e, come tutti i giudici, deve non solo essereimparziale, ma anche sembrare tale all’esterno.
Infine, le nomine a pacchetto rischiano di produrre effetti indesiderabili sul corretto funzionamento della Corte indipendentemente da chi venga eletto: la sostituzione contestuale di 1/3 del totale dei giudici determinerebbe un cambiamento radicale e improvviso nella composizione del collegio, rischiando di interrompere, per una mera questione di discontinuità personale, l’andamento della giurisprudenza costituzionale, che in un ordinamento orientato al rispetto della rule of law è importante invece sia stabile e prevedibile (anche nel suo sviluppo e nella sua inevitabile trasformazione), in ossequio al fondamentale valore della certezza del diritto.
In un sistema ideale, il problema dell’inerzia parlamentare verrebbe risolto attraverso un approccio strategico o deliberativo delle forze politiche. I partiti dovrebbero abbandonare la pratica di nominare i giudici in base a profili di parte e optare invece per candidati con curricula impeccabili, che abbiano cultura politica ma non siano servitori del principe di turno. Basterebbe ricordare, a questo proposito, l’identikit, tratteggiato da Costantino Mortati, del perfetto giudice costituzionale: questi deve vantare profondità di cultura e possesso delle raffinatezze della tecnica giuridica, e, allo stesso tempo, «conoscenza della storia e delle istituzioni costituzionali», «piena indipendenza dalle parti politiche [...]» e, d’altra parte, «informazione precisa della posizione di ogni formazione politica, della loro ragion d’essere, dei loro programmi, del loro peso», «consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei termini dei problemi sociali che vanno elaborandosi nella coscienza delle moltitudini»[14]. D’altronde, quanto più ampia è la legittimazione (in termini tecnici, politici e culturali) del giudice, tanto più facile è recidere i legami con l’istituzione di nomina[15]. Questo sarebbe fondamentalmente il risultato ottimale di una costituzione collaborativa, in cui ogni attore istituzionale opera all’interno di una relazione eterarchica di reciprocità, riconoscimento e rispetto[16].
5. I possibili rimedi
Tuttavia, la politica del mondo reale non funziona in questo modo. Il monito del Presidente Mattarella è solo l’ultimo, nella storia repubblicana, di una serie di richiami presidenziali volti a sollecitare le elezioni parlamentari dei giudici costituzionali[17]. In un caso, questo messaggio si è spinto fino a minacciare lo scioglimento anticipato delle Camere[18].
In effetti, il pericolo maggiore delle nomine a pacchetto risiede nella loro stessa percorribilità. Se, per qualsiasi ragione, le forze politiche non riuscissero a trovare la quadratura del cerchio, e si andasse al di sotto del quorum di 11 giudici, avremmo la paralisi certa di un organo costituzionale.
Proprio per evitare tale rischio, i Costituenti avevano disegnato un meccanismo volto ad evitare la scadenza contestuale di tutti i giudici[19], con un sistema di rinnovazione parziale del collegio: l’art. 135 Cost., nella sua formulazione originaria, prevedeva infatti che «[i] giudici sono nominati per dodici anni, si rinnovano parzialmente secondo le norme stabilite dalla legge e non sono immediatamente rieleggibili»[20]. La rinnovazione parziale cui faceva riferimento la formulazione originaria dell’art. 135 Cost. veniva disciplinata dalla legge 1/1953, il cui art. 4 stabiliva che «[i] giudici che sono nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte si rinnovano, decorsi nove anni, mediante sorteggio di due giudici tra quelli nominati dal Presidente della Repubblica, di due tra quelli nominati dal Parlamento e di due tra quelli nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa. Il sorteggio dei giudici è fatto dalla Corte tre mesi prima della scadenza del predetto termine di nove anni.
Decorsi gli altri tre anni, si rinnovano i giudici che non sono stati rinnovati. Successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni. In caso di vacanza dovuta alla scadenza del termine di dodici anni o ad altra causa la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa».
Questo complesso meccanismo, in sintesi, era vòlto a far uscire dalla porta esattamente quanto la recente prassi ha fatto rientrare dalla finestra: la sostituzione di giudici costituzionali attraverso nomine a pacchetto.
Molti altri interventi sarebbero in linea di principio concepibili: si potrebbe pensare di modificare i quorum di elezione, in modo da abbassare o alzare la maggioranza necessaria per eleggere un singolo giudice. Queste soluzioni, al di là della loro fattibilità concreta, non risolverebbero il problema: l’innalzamento promuoverebbe nomine bipartisan ma non eviterebbe il rischio di paralisi; l’abbassamento renderebbe più facile l’elezione ma alimenterebbe la partigianeria dell’eletto. L’amara realtà è che è ben difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: un’ipotesi, tuttavia, di cui si sta discutendo in Germania, ove si vorrebbe costituzionalizzare durata e quorum di elezione dei giudici (oggi disciplinati nella Bundesverfassungsgerichtsgesetz)[21].
Un’altra soluzione sarebbe un emendamento costituzionale che reintroduca la proroga del mandato dei giudici uscenti, ove ii loro sostituti non siano effettivamente e tempestivamente eletti. Anche in questo caso, la soluzione richiederebbe un intervento politico lungimirante, e che – forse proprio in quanto tale – sembra una soluzione scarsamente praticabile.
In alternativa, in caso di grave e perdurante paralisi la Corte stessa potrebbe annullare le norme costituzionali che contribuiscono a determinare la paralisi: l’oggetto potrebbe essere dato dalle disposizioni che escludono la prorogatio dei giudici, oppure quelle che impediscono alla Corte di funzionare con un collegio composto da meno di 11 giudici. Come extrema ratio potrebbe essere la Corte stessa ad auto-investirsi di tali questioni. In effetti, il potere di auto-rimessione consente alla Corte costituzionale di chiamare se stessa a controllare un atto legislativo, finanche avente rango costituzionale, facendo nascere un giudizio costituzionale indipendente da uno in corso: la Corte ha usato questo potere abbastanza raramente – circa 30 volte in quasi 70 anni – ma recentemente si è dimostrata meno riluttante nell’utilizzo di questa tecnica processuale[22]. Tuttavia, questa sarebbe veramente una last resort option, se non proprio un’ipotesi ai limiti del fantadiritto. L’opzione nucleare potrebbe aversi solo nel caso in cui lo stallo politico portasse la Corte a una completa paralisi, e l’occasione potrebbe persino originare da una lite interorganica promossa dalla Corte stessa contro l’inadempiente Parlamento in seduta comune. Si tratterebbe comunque di un irrealistico scenario non privo di ulteriori effetti collaterali. Uno su tutti: rischiare di dilapidare una reputazione “giurisdizionale” faticosamente conquistata.
Fermi, perciò, questi caveat, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare alle ordinanze di incostituzionalità prospettata, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare che la Corte risolva da sé un problema che spetterebbe ad altri risolvere (ogni giorno di più, nell’ordinamento costituzionale non ogni cosa è “al suo posto”[23]).
In una parola: la politica che si cura da sé è fantapolitica (o quasi), la Corte che risolve da sé è fantadiritto (o quasi). In questo generalizzato quadro di fantasia, la realtà la perdurante assenza un giudice costituzionale. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che, secondo la Costituzione, è un grave inadempimento che va perpetrandosi dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale. Il fatto che, a seguito del monito del Capo dello Stato, il Presidente della Camera abbia annunciato[24] che, a partire da settembre, il Parlamento si riunirà in seduta comune una volta a settimana per eleggere il giudice costituzionale è un segnale che va nella giusta direzione; ma, come la saggezza proverbiale ci ha insegnato, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, profondo e burrascoso, della politica.
Il saggio sviluppa le considerazioni degli stessi autori pubblicate su La Repubblica del 15 luglio 2024, Un giudice da eleggere per la Costituzione e sul Verfassungsblog, Delegitimizing by Procrastinating Parliamentary Inertia in the Election of Constitutional Judges in Italy, 11 luglio 2024. Il contributo è frutto di una riflessione congiunta dei due autori. Ai soli fini degli almanacchi che governano il mondo della produzione scientifica, specifichiamo che Corrado Caruso è autore dei paragrafi 2 e 4, mentre Pietro Faraguna è autore dei paragrafi 1, 3 e 5.
[1] A. Ross, Theorie der Rechtsquellen. Ein Beitrag zur Theorie des positive Rechts auf Gundlage dogmenhistorischer Untersuchungen, Leipzing und Wien, 1929 (spec. cap. XIV).
[2] A. Barbera, Sussidiarietà e bipolarismo “mite” (Relazione al Convegno promosso dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà Sala Zuccari - Senato della Repubblica 29 marzo 2007), sul Forum di Quaderni costituzionali (https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0021_barbera.pdf)
[3] I dati sono riportati in A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quad. cost., 2024, p. 412.
[4] Il 28 giugno 2014 cessarono dalle funzioni i giudici Silvestri e Mazzella, mentre il 2 febbraio 2015 fu il turno di Mattarella, nel frattempo asceso al soglio presidenziale.
[5] Riferimenti in D. Stasio, L’attività della Corte è a rischio, adesso il Parlamento deve difenderla, in La Stampa, lunedì 15 luglio 2024.
[6] Democrazia a rischio: l’Italia può seguire Polonia e Ungheria, intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 2 gennaio 2024.
[7] Conferenza stampa della Presidente del consiglio, 4 gennaio 2024, https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-meloni/24717.
[8] A partire dalla conferenza stampa tenuta al momento dell’insediamento il 12 dicembre 2023, e poi ribadite nell’intervista a Liana Milella il 17 gennaio 2024, nella relazione sull’attività svolta dalla Corte nel 2023 (illustrata il 18 marzo 2024) e, da ultimo, nell’intervista a Emilia Patta per il Sole24ore il 28 giugno 2024.
[9] L’A. che per primo ha conferito dignità scientifica alla “partitocrazia” è G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia (Lezione inaugurale dell'anno accademico '49-'50), Editrice universitaria, Firenze 1950.
[10] Per una analisi della evoluzione del sistema dei partiti in Italia cfr. P. Ignazi, Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2022.
[11] Riassumono il dibattito a riguardo A. Poggi, La elezione del Presidente della Repubblica. Le proposte sulle candidature: questioni di metodo e di merito in Oss. Cost., 2/2022, pp. 39 e ss., nonché D. Chinni, Elezione e mandato del Presidente della Repubblica, lavoro inedito.
[12] A. Pugiotto, Come e perché, cit., p. 413.
[13] Insiste sull’anima giurisdizionale della Corte costituzionale, pur con diversità di accenti, R. Romboli, Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro
Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in Id. (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 1 e ss., A. Ruggeri, Tendenze della Costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, al bivio tra mantenimento della giurisdizione e primato della politica, ivi, pp. 99-116.
[14] C. Mortati, La Corte costituzionale e i presupposti della sua vitalità, in C. Mortati, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano, Giuffrè, pp. 683-684.
[15] M. Gren, Judges at Constitutional Courts / Supreme Courts, in Max Planck Encyclopedia of Comparative Constitutional Law, Oxford University Press, ad vocem.
[16] A. Kavanagh, The Collaborative Constitution, Cambridge University Press, 2023, pp. 86 e ss.
[17] Come ricostruito da A. Pugiotto, Come è perché, cit. p. 413, e da D. Stasio, L’attività della Consulta è a rischio, cit., numerosi sono stati i messaggi presidenziali: Antonio Segni (16 settembre 1963), Carlo Azeglio Ciampi (26 febbraio 2002), Giorgio Napolitano con un apposito comunicato (3 ottobre 2008), nonché lo stesso Mattarella, una prima volta, il 2 ottobre 2015.
[18] Così fece il Presidente Cossiga il 7 novembre del 1991.
[19] Sulle prime nomine alla Corte costituzionale vedi F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, Roma, 1996, p. 91 ss.
[20] La VII disp. trans. e fin. specificava poi che «[i] giudici della Corte costituzionale nominati nella prima composizione della Corte stessa non sono soggetti alla parziale rinnovazione e durano in carica dodici anni».
[21] Cfr. E. Caterina, La Corte prima della tempesta: come premunire le corti costituzionali da futuri assalti? La situazione in Germania e in Italia, in Diritticomparati.it, 15 febbraio 2024.
[22] P. Faraguna, A. Pugiotto, Corte costituzionale e autorimessione: una radiografia giurisprudenziale, in Quad. cost., 2024, pp. 373 e ss.
[23] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023.
[24] Cfr. la dichiarazione del Presidente Fontana a margine della conferenza dei capigruppo. Ne danno conto D. Stasio, Grave lo stop sui giudici costituzionali. La Consulta non è terra di conquista, in La Stampa, 25 luglio 2024, p. 8 e A. Pugiotto, Il Parlamento gioca con la consulta ma Mattarella gli rovina la festa, in L’Unità, 27 luglio 2024.