Il coronavirus in Austria: l’erba del vicino non sempre è più verde (breve nota ad una pronuncia del Tribunale costituzionale austriaco)
di Marco Bignami
Giustizia insieme rivolge uno speciale ringraziamento al Presidente Enrico Altieri che ha provveduto alla traduzione della corposa sentenza del Tribunale costituzionale austriaco dalla quale ha preso spunto il commento di Marco Bignami.
Sommario: 1. Il Tribunale costituzionale austriaco si pronuncia sulla normativa contro il coronavirus - 2. Chiusura di aziende e indennizzo - 3. L’obbligo di dimora - 4. L’accesso ai locali commerciali - 5. Il giudizio di proporzionalità - 5.1. Sindacato di costituzionalità sugli atti secondari - 6. Aperture al sindacato di costituzionalità sui d.P.C.m anti-coronavirus - 6.1. I d.P.c.m. quali atipiche ordinanze contingibili e urgenti.
1. Il Tribunale costituzionale austriaco si pronuncia sulla normativa contro il coronavirus
Con le decisioni riunite che qui brevemente si annotano (G 202/2020, V 411/2020, V 363/2020) il Tribunale costituzionale austriaco è intervenuto su frammenti della risposta normativa approntata contro la pandemia da coronavirus del 2020.
La pronuncia ha motivi di interesse anche per il lettore italiano, poiché conferma la marcata convergenza degli ordinamenti, anche in ragione dei vincoli loro imposti dal diritto europeo, verso analoghe tecniche di risoluzione di conflitti giuridici.
Prima ancora, a fronte delle grida d’allarme da molti lanciate nei confronti dei tratti, che si vorrebbero autoritari, assunti dalla legislazione italiana dell’emergenza (e persino dei bizzarri rigurgiti di complottismo mai domati del tutto, pur alla luce del dramma in corso), la vicenda austriaca conferma che la politica perseguita dal Governo della Repubblica non ha costituito un unicum motivato da chissà quali reconditi obiettivi, ma, piuttosto, una articolazione delle modalità di reazione al contagio suggerita dalla ragionevolezza, e come tale praticata pressoché ovunque, sia pure con distinte sfumature.
2. Chiusura di aziende e indennizzo
Il giudice costituzionale austriaco si è pronunciato sia sulla legge adottata in risposta all’epidemia, sia sul regolamento ministeriale con cui le si è dato attuazione.
Quanto alla prima, il problema affrontato concerne una specifica doglianza di lesione del principio di uguaglianza, e dello statuto della proprietà, avanzata dalle imprese commerciali alle quali è stata imposta la cessazione temporanea delle attività.
Difatti, ciò è accaduto senza previsione di indennizzo.
Ora, anche sulla base della CEDU, il Tribunale non ha avuto difficoltà a negare il carattere sostanzialmente espropriativo della misura, con conclusioni alle quali giungerebbe verosimilmente, in analoga fattispecie, anche il giudice italiano, atteso che la temporaneità della previsione non era tale da sottrarre definitivamente, o con apprezzabile intensità, un’utilità connessa alla proprietà.
Tuttavia, il problema veniva posto con riferimento alla legge generale sulle epidemie del 1950, la quale, invece, prevede l’obbligo di indennizzo a favore delle imprese che sono obbligare a chiudere i battenti. I ricorrenti sostenevano pertanto che, anche nel caso del coronavirus, sarebbe stato necessario adottare analoga misura, e che la disciplina normativa speciale fosse stata, al contrario, predisposta in eccesso di potere legislativo proprio per conseguire l’effetto contrario.
Non ha qui grande importanza soffermarsi sulle ragioni che hanno indotto il Tribunale costituzionale a rigettare per tale parte la questione, tra le quali, non ultime, le robuste misure ad hoc di assistenza economica, attribuite all’intero sistema imprenditoriale scosso dalla crisi.
Piuttosto, può essere utile notare che anche in Austria si è ritenuto opportuno, e certamente giustificato costituzionalmente, l’impiego di una legislazione speciale modellata sul coronavirus, piuttosto che della normativa generale già disponibile per il caso di diffusione di malattie infettive.
La ragione di ciò è stata rinvenuta dallo stesso giudice austriaco nelle del tutto peculiari caratteristiche epidemiologiche assunte dal nuovo bacillo, la cui diffusione generalizzata sul territorio nazionale ha comportato l’inadeguatezza di una logica settoriale di governo della crisi, alla quale si ispirava invece la legislazione del 1950.
Quest’ultima, in altri termini, si riferisce a colpi epidemici ancora localizzati in certe aree del paese, sicché la corrisponde restrizione a selezionati, e relativamente poco numerosi, soggetti delle misure di contenimento del contagio permette di per sé l’adozione di una logica indennitaria. Un analogo approccio fallisce, viceversa, se il virus colpisce ovunque con pari intensità, e la chiusura che ne segue ha carattere generale. In tal caso, sembra suggerire il Tribunale costituzionale, viene meno la intrinseca diseguaglianza che è la ragione prima del meccanismo indennitario. Con esso, infatti, l’amministrazione riequilibra, di regola per via monetaria, un assetto ugualitario che l’interesse pubblico, o talvolta la sola cattiva sorte, ha spezzato a danno di pochi, e nell’interesse dei molti. Ma se è l’intera collettività a subire il tracollo, l’approccio indennitario non si giustifica, perché vi è invece la necessità di una risposta normativa e amministrativa di ben più ampio respiro.
Non vi è, in altri termini, la diseguaglianza, e ciò che essa sempre comporta in termini di vigilanza contro gli abusi del potere pubblico, sospettato di approfittarne per infierire sul debole; vi è, invece, una terribile uguaglianza nella tragedia, che piuttosto induce a non sopravvalutare il pericolo di arbitrio, e a concentrarsi invece sulla efficacia e sulla proporzionalità delle misure adottate in via generale dall’apparato pubblico.
Sia pure sul diverso piano delle libertà personali, anziché della iniziativa economica, questa constatazione potrebbe essere opposta a chi in Italia ha ragionato, e continua a ragionare, come se l’emergenza da coronavirus non avesse quel tratto di odiosa ubiquità che la rende trasversale, ma al contrario potesse offrire l’occasione per discriminazioni lesive delle libertà fondamentali: è il noto dibattito sulla pretesa necessità che le misure di confinamento presso la dimora dovessero essere oggetto di convalida giudiziaria ai sensi dell’art. 13 della Costituzione, sostenuto anche con richiami ad una giurisprudenza internazionale maturata sul terreno di piccole epidemie locali, e non certo di una pandemia globale. Ed è da notare che, come subito si vedrà, il giudice austriaco annette tali misure alla libertà di circolazione e soggiorno.
3. L’obbligo di dimora
Infatti, a cadere sotto la scure del sindacato di costituzionalità è anche il regolamento con il quale il ministro della salute aveva disposto la chiusura di tutti i luoghi pubblici, con ristrettissime eccezioni, confinando le persone nelle proprie dimore.
Su tale capo della pronuncia si tornerà in seguito: basti fin d’ora osservare, tuttavia, che il giudice costituzionale non ha affatto negato la astratta compatibilità di tale gravosa limitazione con la Costituzione, ma piuttosto, individuando il parametro pertinente appunto nella libertà di circolazione, ha reputato che essa fosse priva di base legislativa, in quanto eccedente dai limiti concessi all’esecutivo dalla legge speciale dell’emergenza.
Non ne viene, insomma, alcuna riprovazione comparatistica nei confronti dell’analoga misura disposta dalla legislazione italiana, che, anzi, come si vedrà, annoverava espressamente l’obbligo di dimora tra le restrizioni adottabili.
4. L’accesso ai locali commerciali
In terzo luogo, il Tribunale costituzionale si è confrontato con un regolamento ministeriale, basato su un conferimento legislativo del potere normativo, che aveva disposto sia la chiusura di attività commerciali, sia le deroghe, in verità piuttosto ampie, a tale provvedimento.
Tra tali deroghe, il regolamento annoverava gli esercizi di superficie non superiore a 400 mq. In altri termini, si permetteva di proseguire nell’attività a negozi di piccole e medie dimensioni, precludendola invece ai centri commerciali più sviluppati, e persino vietando a questi ultimi di ristrutturare i propri spazi interni, così da rientrare nella tolleranza dimensionale concessa dal regolamento.
Tali previsioni sono stare reputate dal giudice lesive del principio di uguaglianza.
Il Governo austriaco, in effetti, le aveva difese, sostenendo che lo scopo della distinzione consisteva nello scoraggiare l’”aumento della mobilità”, che sarebbe stato causato dalla confluenza dei consumatori verso i locali commerciali più ampi.
È tuttavia anche vero che, nel contrasto al contagio, ciò che conta non è in sé il numero di persone che converge verso uno spazio comune, quanto piuttosto il rapporto tra tali persone e le dimensioni dell’ambiente ove si trovano riunite.
L’assembramento, in altri termini, può rivelarsi altrettanto fatale in un locale di medie dimensioni, ove siano riuniti meno individui, ma in uno spazio più contenuto, che in un vasto centro commerciale, ove a più persone presenti corrisponda maggiore agio nel distribuirsi lungo l’ambiente.
A proposito di tale soluzione di merito, è da notare, per i nostri fini, che il giudice austriaco ancora una volta non ha affatto reputato incostituzionale la chiusura dei locali commerciali per evitare il diffondersi della malattia, a fronte della libertà di iniziativa economica vantata dall’impresa, ma così compressa. Questo punto, in verità, non è mai stato in discussione. Piuttosto, esso si è insinuato in una incongruenza “tecnica” del regolamento, le cui ragioni giustificatrici sono apparse per tale profilo deboli, innanzi al trattamento diseguale che esso comportava per gli operatori economici.
5. Il giudizio di proporzionalità
Da ciò possono trarsi alcuni utili spunti di riflessione sulla speculare situazione di casa nostra.
Da un lato, se ne trae conferma che, perlomeno agli occhi degli operatori giuridici austriaci, il cd. lockdown, anche per la parte riferita alla serrata del commercio, non ha costituito ragione di dubbi di costituzionalità in sé, e si è dunque anche in quel caso imposto quale misura di pubblica igiene da presupposti scientifici così saldi, da non meritare neppure una reazione giurisdizionale.
Dall’altro lato, ciò non ha significato che qualunque misura di contenimento sia di per sé proporzionata, e perciò legittima. È infatti preferibile fuggire la logica dell’aut aut, per la quale o la reazione normativa al virus ha ferito a morte democrazia e libertà, ed è tutta quanta incostituzionale (non è mancato chi ha ragionato così), o essa va digerita sempre e comunque, in nome della salus rei pubblicae.
Piuttosto, dal Tribunale costituzionale austriaco viene un esempio di come si possa accettare, senza malriposte ansie democratiche, che l’esercizio di certe libertà sia provvisoriamente sospeso a tutela della vita, e nel contempo richiamare il potere pubblico al proprio dovere di compiere scelte basate sulle evidenze scientifiche, piuttosto che sulle suggestioni o persino sull’impiego di criteri normativi elaborati ad altro scopo, e impropriamente riesumati a fronte di una nuova emergenza (significativamente, la regola del 400 mq è stata difesa dal Governo austriaco, anche perché si tratta di un limite dimensionale già presente nella legislazione di settore, ma per altri obiettivi).
Certo, non si può nascondere che il giudizio curiale sulla proporzionalità di specifiche misure è assai delicato. Un conto, infatti, è confrontarsi con un’emergenza tale, da imporre che ogni attività venga arrestata, salvo straordinarie eccezioni. Qui, non vi è che da prendere atto che la scienza conforta il decisore politico, e che quindi non si inseguono i mulini a vento, o peggio.
Quando, invece, si apre e si chiude, a seconda dei casi, dei luoghi e dei tempi, inseguendo l’indice di contagiosità e comparando salute con sviluppo economico e benessere sociale, la faccenda si fa ben più complessa, ed i giudici rischiano di trovarsi in difficoltà nel controllare idoneità, necessità, e proporzionalità in senso stretto delle misure.
5.1. Sindacato di costituzionalità sugli atti secondari
Quest’ultima osservazione conduce all’ultimo spunto di riflessione offerto dal caso austriaco.
Come si è visto, oggetto del controllo di costituzionalità è stato (anche) un regolamento ministeriale, nell’ambito del ricorso diretto che l’individuo può esperire innanzi al giudice costituzionale a fronte di atti che ne ledano immediatamente e direttamente i diritti costituzionali.
La fattispecie decisa nel caso di specie conforta ulteriormente su un tratto della risposta normativa al virus seguito anche in Italia, ma a sua volta oggetto di dubbi di costituzionalità da parte di alcuni. In Austria, dunque, così come in Italia (ma, è facilmente intuibile, nella sostanza in tutto il mondo), la crisi è stata governata dal potere esecutivo, sia pure dietro conferimento legislativo del potere di ordinanza, anziché dai Parlamenti. Non potevano essere questi ultimi, nella forma della legge, ad inseguire il virus nelle infinite e repentine direzioni verso le quali ha corso (o poteva correre) in questi mesi. La prontezza della risposta esigeva, dunque, l’impiego di forme provvedimentali più agili e immediate, senza che ciò renda giustificato il timore di alcuni circa un sovvertimento della forma di governo.
6. Aperture al sindacato di costituzionalità sui d.P.C.m anti-coronavirus
Ciò detto, la decisione che si commenta è significativa, anche perché, a fronte di una pandemia diffusa internazionalmente, è tra le poche che provengono in tale materia da un giudice costituzionale, anziché comune.
Come è noto, nel nostro paese, in particolare, la giurisprudenza, per lo più amministrativa, ha avuto modo di occuparsi di questioni a rilievo costituzionale poste dai d.P.C.m. che si sono susseguiti durante la crisi, anche se ciò è avvenuto nella stragrande maggioranza dei casi con riguardo a profili di competenza nel rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali.
Viceversa, pur innanzi ai timori per le sorti dello Stato democratico manifestati da alcune voci, la Corte costituzionale non è stata chiamata in campo, se non con riguardo ad alcuni profili concernenti gli effetti della sospensione dei processi sui termini di prescrizione, per i quali pende incidente di legittimità costituzionale.
Certo, che ciò non sia accaduto con riferimento all’impianto di base di reazione al contagio, tracciato dai decreti legge adottati a tal fine, è dovuto, secondo chi scrive, alla inevitabile acquiescenza ad una brutale realtà, tale da trasformare, alla maniera di Jellinek, il fatto in fonte del diritto, anche agli occhi di chi si poneva dubbi di costituzionalità (sul punto debbo rinviare a quanto osserverò in un articoletto di prossima uscita su Questione Giustizia).
Ma, quanto agli aspetti più dettagliati, e indubbiamente più critici, della disciplina recata dai d.P.C.m., il discorso muta. Qui, come è ovvio, ha giocato la tradizionale perimetrazione del controllo di costituzionalità agli atti aventi forza di legge, secondo un criterio formale invano contestato da Mortati.
Il Tribunale costituzionale austriaco è dunque potuto intervenire sul regolamento ministeriale, grazie al ricorso diretto contro gli atti direttamente e immediatamente lesivi di diritti costituzionali, che il nostro ordinamento non conosce.
In linea di principio, non si tratta di un ostacolo al buon funzionamento della giustizia costituzionale. In un ordinamento retto dal principio di legalità sostanziale, e peraltro irrobustito, sul piano delle libertà, da vigorose riserve di legge, si può ben ammettere che sia il giudice comune ad occuparsi di profili di costituzionalità imputabili alle sole fonti e ai soli atti secondari, perché ci si attende che essi coprano componenti minori dell’assetto normativo. Laddove, invece, il più grave vizio si annidasse nella legge, il regolamento sarebbe meramente esecutivo di quest’ultima, e la questione dovrebbe giungere alla Corte.
Tuttavia, questo modo di ragionare entra in crisi, quando ad essere scrutinate sono le ordinanze contingibili e urgenti, per le quali la saldatura contenutistica con la legge è davvero minima.
Proprio in quanto pensate per far fronte, con capacità derogatoria rispetto alle fonti primarie, a situazioni di eccezionale ed imprevedibile urgenza, tali ordinanze si fondano su di un conferimento legale di carattere formale (la potestà è istituita e descritta dalla legge nei suoi presupposti), ma si prestano a rivestire, sul piano della legalità sostanziale, un contenuto assai variegato, e per definizione non predeterminabile dal legislatore, prima che il nemico di turno (un virus, ad esempio) si sia concretamente manifestato.
In tali casi, forse, la tesi di Mortati meriterebbe una rinnovata attenzione.
In quest’ottica, sarebbe proprio l’inevitabile deficit di legalità sostanziale che affligge le ordinanze contingibili e urgenti (non già per patologia, ma a causa della struttura intrinseca che è loro propria), e che rende la legge un involucro formale di scelte assunte in altra forma, a dover trovare compensazione nel sindacato accentrato di costituzionalità, perlomeno ove l’atto sia direttamente lesivo dei diritti costituzionali delle persone. Divenendo poco spendibile, infatti, il consueto ragionamento, prima abbozzato, sul rapporto tra legge e atto secondario, quanto al vizio di costituzionalità, non sarebbe peregrino postulare che il contenuto della fonte primaria sia insufflato ex post dalle decisioni provvedimentali d’urgenza, che la legge ha potuto (solo) autorizzare formalmente, ma delle quali, proprio per tale ragione, è tenuta a rispondere come se fossero scelte legislative.
In fondo, non si sarebbe abissalmente distanti dalla logica dei noti precedenti costituiti dalle sentenze n. 1104 del 1988 e n. 456 del 1994 della Corte costituzionale sul rapporto tra legge e regolamenti dei servizi pubblici, con le quali si è ritenuta sindacabile la legge che avesse poggiato il proprio contenuto su quanto disposto ex ante in sede regolamentare, venendo a censurare proprio tale sostanza (in seguito, sentenze n. 224 del 2018, n. 242 del 2014, n. 34 del 2011, n. 354 del 2008).
Nel caso delle ordinanze contingibili e urgenti, il rapporto temporale tra fonte primaria e atto secondario si inverte (il contenuto dell’ordinanza non può essere noto al legislatore, quando ne permette l’adozione), ma la compenetrazione sostanziale tra la legge e il contenuto del provvedimento è la medesima, nel senso che la prima, in difetto del secondo, nulla stabilisce e nulla conforma, sicché essa vive nel solo contenuto che l’ordinanza ha tracciato in vece del legislatore.
Su un piano generale, il caso austriaco dimostra che un giudice costituzionale è particolarmente attrezzato ad esercitare il controllo di legalità nei confronti di atti lesivi delle libertà costituzionali. Sia perché è necessario avere spalle robuste per cancellare con un tratto di penna scelte delle quali l’esecutivo proclama la assoluta corrispondenza ad un superiore bene comune, che, senza di esse, sarebbe compromesso. Sia perché il sindacato sulla proporzionalità delle misure (che è poi il succo di quanto attende i nostri operatori giuridici, via via che aperture e chiusure delle attività si faranno più selettive) esige uno sguardo di insieme, un’attitudine alla verifica dei bilanciamenti, e anche la capacità di dotarsi delle migliori conoscenze tecniche, che una Corte costituzionale possiede per natura (e le recenti modifiche delle norme integrative da parte della nostra Corte rassicurano sul più ampio accesso al fatto, di cui ora essa dispone). Sia perché, in ultima analisi, se davvero vi è un attentato alle libertà costituzionali da parte dei pubblici poteri, là non può non far sentire la propria voce il custode giudiziario della Costituzione.
Tutto ciò detto, in linea di principio, sarebbe però disonesto tacere su un tratto della legislazione italiana in tema di contrasto alla pandemia, che non ha ricevuto per lo più l’attenzione che esso merita, ma che spicca proprio nel contrasto con la legislazione austriaca.
Come si apprende dalle decisioni in commento, la legge Covid-19 aveva autorizzato il ministro della salute a vietare con regolamento l’acceso in determinati luoghi, “nella misura necessaria a prevenire la diffusione della malattia”.
Il regolamento così adottato, però, aveva invece introdotto un generale divieto di accesso ai luoghi pubblici, che finiva perciò con il tradursi nell’obbligo, imposto alle persone, di permanere nella propria dimora.
Il giudice costituzionale non ha perciò avuto difficoltà a rilevare che, per tale via, il regolamento aveva di gran lunga superato l’ambito conferitogli dalla legge, introducendo, anziché un divieto specifico di accesso a certi luoghi, un obbligo di dimora lesivo della libertà di circolazione, e privo di base primaria.
Se si pensa, allora, ai decreti legge anti-coronavirus succedutisi in Italia, l’impressione è che essi abbiano avuto un contenuto ben più determinato perlomeno degli omologhi austriaci, così vaghi, invece, da condannare all’insuccesso l’iniziativa ministeriale.
È appena il caso di ricordare, infatti, che nel nostro paese l’indispensabile divieto di lasciare la dimora, se non per giustificati motivati, è stato espressamente previsto dalla legge, sicché al d.P.C.m. è toccato soltanto di attivarlo, una volta che le condizioni epidemiologiche lo imponessero.
Insomma, la tanto vituperata legislazione dell’emergenza si rivela, nel rapporto con il caso austriaco, ben più idonea, anche sul piano della determinatezza, di quanto i suoi lesti critici avessero supposto.
6.1. I d.P.c.m. quali atipiche ordinanze contingibili e urgenti
E, in effetti, l’ampia copertura legislativa delle misure poi dosate con i d.P.C.m. potrebbe anche rendere di incerta applicazione, nel caso di specie, il suggerimento che si è innanzi ipotizzato in ordine all’espansione del sindacato di costituzionalità.
Infatti, sebbene ne abbiano certamente la struttura e gli effetti, i d.P.C.m. in questione possono essere assimilati alle ordinanze di necessità e di urgenza in senso stretto solo per effetto di una certa inclinazione del giurista nell’applicare alla mutevole realtà le categorie giuridiche con le quali ha più familiarità.
Come precisò la Corte costituzionale con la penna di Vezio Crisafulli (sentenza n. 4 del 1977), infatti, non si danno “ordinanze libere”, se non laddove “il contenuto dei provvedimenti stessi non è prestabilito dalla legge, ma da questa rimesso alla scelta discrezionale dell'organo agente, secondo richiesto dalle circostanze, diverse da caso a caso, che ne impongono l'emanazione”, e purché “dette circostanze non (siano), a loro volta, previste - né, di regola, sono prevedibili in astratto - da specifiche disposizioni di legge”.
È ovvio che la tipica ordinanza contingibile e urgente si pone a fronte di una minaccia dal volto ancora ignoto, mentre, nel caso contrario, il legislatore è nelle condizioni di valutare direttamente l’opportunità delle misure alle quali ricorrere, per quanto, poi, la loro applicazione debba essere graduata a seconda dell’andamento delle cose, e non possa perciò che venir rimessa all’atto secondario.
Come nel caso austriaco, ma con maggior determinatezza, il legislatore nazionale non si è affidato ai poteri contingibili già presenti nell’ordinamento, ed in particolare nel codice della protezione civile (al quale peraltro sono operati rinvii), ma ha ben più opportunamente configurato peculiari forme di reazione, nonché una specifica ripartizione dei compiti (il punto di minor tenuta del sistema, come si sa) con Regioni ed enti locali.
In tal modo, è innegabile che la copertura legislativa delle misure somministrate dai d.P.C.m. sia stata più corposa di quanto non accada solitamente con il potere di ordinanza contingibile e urgente. Ciò da un lato dovrebbe ulteriormente confortare chi, come chi scrive, non ha mai minimamente paventato rischi per la nostra democrazia, né intravisto nell’operato del Governo pulsioni autoritarie, in una con i gravosi dubbi di costituzionalità da più parti avanzati (in verità, fino ad ora almeno, con un riscontro nella pratica giudiziaria davvero modesto). Il tasso di legalità e dunque di democraticità, della risposta normativa al coronovirus è stato, insomma, più elevato di quanto si creda.
Dall’altro lato, bisognerebbe continuare a domandarsi se, nonostante tale fattore, non continui ad apparire perlomeno auspicabile un dibattito su di una maggiore apertura del sindacato di costituzionalità verso atti incidenti con immediatezza sulle libertà costituzionali, in funzione surrogatoria di fonti legislative, strutturalmente inidonee a tenere il passo con l’evoluzione di un’epidemia.
Che, insomma, in Austria sia stato il Tribunale costituzionale, con una sentenza valevole erga omnes e soprattutto inappellabile, a cancellare con prontezza un regolamento lesivo della basilare libertà di circolazione, anziché un giudice comune, nell’ambito di un processo strutturato su più gradi (e, magari, con qualche incertezza sulla giurisdizione titolata a provvedere) sembra, una volta tanto, un elemento di funzionalità del sistema, anziché (come spesso si pensa dei ricorsi di amparo e di Verfassungsbeschwerde), un intralcio che ingolfa i ruoli dei giudici costituzionali.