Si conclude, con le riflessioni dei cinque costituzionalisti coinvolti dai Professori Oreste Pollicino e Corrado Caruso, il focus aperto da Giustizia Insieme sul fine vita all'indomani dei noti interventi della Corte costituzionale sul caso del dj Fabo.
I piani di indagine prescelti- penale, comparato, civile, filosofico e costituzionale - sono stati vivificati da numerosi studiosi, capaci di offrire un quadro estramamente poliedrico di contenuti e prospettive che hanno accompagnato, in questi mesi, i lettori e che, idealmente, si offre ora in tutta la loro ricchezza e problematicità al decisore politico.
Il fine vita e il legislatore pensante
5. Il punto di vista dei costituzionalisti
Considerazioni di Stefano Agosta, Lucia Busatta, Carlo Casonato, Giacomo D’Amico e Chiara Tripodina
Introduzione di Corrado Caruso e Oreste Pollicino
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli) - Il fine vita e il legislatore pensante. 4. Il punto di vista dei civilisti (di Mirzia Bianca, Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano)]
Introduzione
Corrado Caruso e Oreste Pollicino
Talune recenti pronunce della Corte costituzionale (ord. n. 207 del 2018, sent. n. 242 del 2019) hanno reso nuovamente attuale le problematiche che ruotano attorno al fine vita, sia da punto di vista dei principi costituzionali coinvolti, sia rispetto alla disciplina positiva da predisporre in un ambito particolarmente delicato sul piano dei valori coinvolti. Si rendono così necessarie le riflessioni degli studiosi di diritto costituzionale, chiamati a discutere anche dell’eventuale riforma della legge n. 219 del 2017 e, più in generale, di un quadro normativo coerente con la giurisprudenza costituzionale.
Hanno partecipato a questo dibattito: Stefano Agosta, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’ Università di Messina, Lucia Busatta, dottoressa di ricerca e docente a contratto in diritto costituzionale presso l’Università di Trento, Carlo Casonato, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università di Trento, Giacomo D’Amico, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Messina e Chiara Tripodina, professoressa ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università del Piemonte Orientale.
1. Le pronunce sul caso “Cappato” della Corte costituzionale (e prima ancora, la sentenza “Englaro” della Cassazione, alla quale ha fatto seguito la legge n. 219 del 2017) possiedono un indubbio valore “normativo”. Può ritenersi vigente oggi, nelle trame dell’ordinamento, un diritto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Tutt’altro che facile (anche solo provare ad) abbozzare in poche, sintetiche, battute una risposta a così ampi ed articolati interrogativi. In via del tutto preliminare può, innanzitutto, precisarsi come neppure troppo si siano invero fatte attendere in dottrina quelle voci miranti a rilevare (già nel metodo, prima ancora che nel merito su cui ci si sta, più nello specifico, per soffermare) un singolare slittamento del giudizio di costituzionalità – dalla nuda e cruda fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen. alla vera e propria richiesta di suicidio medicalmente assistito del singolo nei confronti delle strutture ospedaliere pubbliche – il quale avrebbe finito per portare la Corte costituzionale inevitabilmente a pronunziarsi, per così dire, extra petitum.
Venendo al versante del merito – prima di ricondurne nell’alveo della c.d. alleanza terapeutica tra medici e degenti il quomodo della protezione – è ovviamente indispensabile una disamina dell’an costituzionale della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» [così ord. n. 207/2018 (punto 9 cons. dir., ultimo cpv) e sent. n. 242/2019 (punto 2.3 cons. dir., ultimo cpv)], che possa eccezionalmente spingersi fino al legittimo accesso ad un farmaco letale. Nella riconosciuta impossibilità di una ricostruzione, per così dire, a “rime obbligate” discendente tanto dai principi costituzionali che EDU (rispetto ai quali ultimi la relativa giurisprudenza è stata, casomai, ritenuta assai fumosa, nella migliore delle ipotesi, quando non correttamente ricostruita, nella peggiore), è ovvio che intanto potrà legittimamente ammettersi un vero e proprio diritto dei degenti in relazione alla richiamata somministrazione in quanto non ci si accontenti del ricorso al comune procedimento di estensione analogica: dal positivo diritto di essere curati ex art. 32 Cost., cioè, al suo speculare negativo di abbandonare ogni cura sino al sopraggiungere della morte ovvero, da quest’ultimo, direttamente a quello di ottenere che siano predisposti e forniti presidi farmacologici con proprietà abbrevianti della vita stessa.
Allo scopo è stato, al contrario, evocato (non già dal giudice remittente bensì dalla Consulta) in campo il criterio ternario di cui al tradizionale giudizio d’eguaglianza ex art. 3 Cost. Essendosi giovati insomma, come tertium comparationis, del riconoscimento già operato in materia dalla l. n. 219/2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, nel 2018 [cfr. ord. n. 207 cit. (punto 9 cons. dir., ultimo cpv)], anche la più forte declinazione della libertà di autodeterminazione terapeutica supra cit. – intesa, appunto, nel senso della legittima accessibilità ai farmaci letali – ha così potuto finalmente entrare nel delicato gioco del bilanciamento con le altre esigenze costituzionali coinvolte, nel successivo giudizio del 2019.
Alla luce di quanto appena detto, è ad ogni modo di tutta evidenza come non sia certo stato un assoluto ed incondizionato diritto al suicidio tout court quello avuto di mira dalla giurisprudenza – come invece inizialmente suggerito dalla medesima Corte d’Appello di Milano – quanto, ed all’opposto, un relativo e condizionato diritto al suicidio medicalmente assistito (e, pertanto, anch’esso frutto di una ponderazione con l’imperativa esigenza di tutela della vita in capo allo Stato ancora peculiarmente emergente dall’art. 580 cit.). La titolarità del quale ultimo è stata, in altre parole, eccezionalmente ammessa solo a beneficio di un ristretto novero di aventi (loro malgrado…) diritto, in virtù di taluni canonizzati presupposti: tra di essi non potendo non assumere precipuo rilievo proprio l’elevato grado di sofferenza di cui costoro finirebbero per essere drammaticamente vittima (tale riconoscimento rispecchiando, d’altro canto, non solo le condizioni in cui aveva tragicamente versato Fabiano Antoniani nella vicenda giudiziaria in concreto ma, anche, quelle a suo tempo autorevolmente delineate dallo stesso Comitato nazionale di bioetica in materia).
Dott.ssa Lucia Busatta
Sicuramente esiste un diritto a chiedere di ricevere assistenza medica al morire, se sussistono le condizioni soggettive espressamente indicate, e definite in modo minuzioso, dal giudice costituzionale. Personalmente escluderei l’esistenza di un “diritto al suicidio” tout court. La Corte è infatti assai attenta nel circoscrivere l’ambito di operatività della propria (duplice) decisione. Da un lato, infatti, esclude che si possa parlare di piena incostituzionalità dell’art. 580 c.p. perché tale norma «assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ord. 207/2018, p.to 6 considerato in diritto).
La Corte radica la possibilità di chiedere l’assistenza medica al suicidio, per una persona che si trovi in condizioni di salute gravissime e irreversibili, secondo la descrizione dei criteri delineata già a partire dall’ordinanza del 2018, nelle trame del principio di eguaglianza. La condizione esclusiva per riconoscere uno spazio effettivo nel nostro ordinamento a tale possibilità consiste nella situazione clinica della persona: questi deve essere sottoposto a un trattamento medico rispetto al quale potrebbe esercitare il diritto al rifiuto previsto dalla legge n. 219 del 2017.
Sono tanti, quindi, gli argini che la Corte costruisce per limitare la possibilità di poter parlare di un diritto al suicidio. Tutti i limiti individuati, inoltre, sono espressamente previsti per la tutela della persona e per proteggere chi si trova in situazioni di maggiore fragilità.
Sebbene esista un diritto a chiedere l’assistenza al suicidio, poi, non pochi sono i vuoti di effettività, come ora vedremo.
Prof. Carlo Casonato
La questione è complessa. Cercherò, anzitutto, di fare un po’ di ordine.
Nel caso di Eluana Englaro, la questione non si poneva in termini di suicidio, ma di interruzione di trattamenti di sostegno vitale di una persona che non poteva esprimere alcuna volontà attuale. Il principio del consenso informato e il diritto al rifiuto delle cure, già riconosciuti dall’art. 32, secondo comma della Costituzione letto in combinato con gli articoli 2 e 13 (a partire dal primo gennaio 1948, quindi) hanno dovuto attendere, rispettivamente, il 2007 e il 2008 per essere concretamente considerati per via giurisprudenziale ordinaria (caso Welby) e poi costituzionale (sent. n. 438 del 2008), e addirittura il dicembre del 2017 per essere precisati a livello legislativo (legge n. 219). Tale intervento normativo, fra l’altro, ha confermato e specificato l’esistenza di un diritto al rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, comprese nutrizione e idratazione artificiali, indicando, come noto, anche gli strumenti per esprimere le proprie volontà anticipate (disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione condivisa delle cure). Dopo tali passaggi, quindi, il consenso informato è oggi un dato giuridico costituzionale non più discutibile.
Il caso “Cappato” aggiunge una ulteriore tappa nel percorso di riconoscimento di una più ampia tutela dell’autonomia individuale nelle fasi finali della propria esistenza; tappa riferibile alla non punibilità, a determinate condizioni, dell’assistenza al suicidio. Anche qui può essere utile articolare il discorso su più piani. Il suicidio in sé, nonostante in alcuni paesi comportasse in passato sanzioni sia per il suicida (sepoltura fuori dalle mura della città o in territorio non consacrato) sia per gli eredi (trattenuta sul patrimonio), consiste in un atto cui non è collegata oggi alcuna conseguenza giuridica di sfavore. In questi termini, alcuni ne parlano come di una facoltà. Altra cosa, evidentemente, è l’assistenza al suicidio, condotta che in Italia era, e in molti paesi ancora è, considerata reato in termini assoluti e incondizionati.
A fronte dell’’inerzia del Parlamento, come noto, è stata la Corte costituzionale (sent. n. 242 del 2019) a ritagliare la non punibilità per chi agevoli “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare di un diritto all’assistenza al suicidio come di un diritto di libertà; diritto condizionato, però, da quattro requisiti, uno dei quali (la presenza di trattamenti di sostegno vitale) fortemente problematico, in quanto legato sì alla logica adottata dalla Corte, ma foriero di possibili discriminazioni.
D’altro canto, la mia posizione è che, in presenza dei quattro requisiti citati, le strutture del Servizio Sanitario Nazionale non possano negare la presa in carico del malato e la soddisfazione della sua richiesta di assistenza. Se la sentenza è chiara nel non porre “alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, è altrettanto precisa nell’affidare la verifica delle quattro condizioni citate “a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”, alla stregua di quanto già disposto in riferimento, ad esempio, alla sent. n. 96 del 2015 sull’ampliamento nell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Se quindi la sentenza lascia libero il singolo professionista di aiutare o meno il malato, la struttura non potrebbe rifiutarsi di assisterlo nel porre fine alla sua esistenza accampando motivi di delicatezza etica o di incertezza giuridica. Tale condotta, similmente a quanto è già accaduto in riferimento alla condanna della Regione Lombardia da parte del TAR Lombardia (sent. n. 214 del 26.1.2009) e del Consiglio di Stato (sent. n. 4460 del 2014) per non aver ottemperato alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro, costituirebbe, quindi, un atto contrario ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza della Pubblica Amministrazione.
Se non si può parlare quindi di un diritto al suicidio in termini generali e assoluti, in presenza dei quattro menzionati requisiti, la persona malata ha diritto a che la struttura si attivi per soddisfare la sua richiesta.
Prof. Giacomo D’Amico
La risposta a questa domanda non può che essere decisamente negativa perché non è rinvenibile nelle due pronunce sul caso “Cappato” né nella sentenza Englaro alcuna indicazione che possa giustificare una simile affermazione. Per questa ragione discutere di “diritto al suicidio” può risultare fuorviante e può addirittura costituire un argomento per una lettura denigratoria delle decisioni sopra citate. Ma vi è di più. Infatti, non solo non vi è traccia di questo diritto nelle motivazioni della Corte costituzionale e della Cassazione ma neanche Marco Cappato – imputato nel processo – ha rivendicato questo presunto diritto. Ribadito, quindi, che di un diritto al suicidio non può discutersi, occorre circoscrivere la portata delle due decisioni del Giudice delle leggi a quella che la stessa Corte definisce «l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio».
Volendo provare a leggere queste pronunce alla luce di alcuni topoi argomentativi della giurisprudenza costituzionale, può dirsi che in queste decisioni confluiscono alcuni orientamenti consolidati sugli anacronismi legislativi. È infatti l’evoluzione della scienza medica (che ha permesso la sopravvivenza dell’individuo financo in uno stato vegetativo permanente, come nel caso della povera Eluana Englaro) ad aver reso anacronistica l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio e quindi l’automatica riconduzione di ogni caso di aiuto alla fattispecie penale di cui all’art. 580 c.p. In altre parole, l’accertamento dell’anacronismo ha determinato l’illegittimità costituzionale di quello che potrebbe definirsi, non senza qualche approssimazione, l’automatismo sanzionatorio di cui all’art. 580 c.p. (si discute di automatismo nel senso che ogni condotta di aiuto, anche la più blanda, rientrava nella fattispecie penale). Illuminanti sono al riguardo gli esiti di un recente studio sugli automatismi legislativi, nel quale si fa notare che l’«ineliminabile discrasia fra quanto astrattamente prescritto e il campo del concretamente verificabile impone la necessità che il profilo materiale sia in grado di condizionare quello formale; in altri termini che vengano prescritti meccanismi interpretativo-applicativi che permettano l’adattabilità dell’effetto al fatto» (L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Napoli 2020, 69). Proprio in questa direzione sembra essersi mosso l’intervento della Corte, che ha eliminato la «discrasia» creatasi come conseguenza di un anacronismo legislativo, rendendo così inaccettabile l’automatismo sanzionatorio.
In definitiva, la prospettiva da cui ha preso le mosse la Corte non è quella del riconoscimento di un illimitato diritto a scegliere come porre fine alla propria esistenza, ma è piuttosto quella, ben delimitata e inevitabilmente circoscritta alle caratteristiche del caso sottoposto al suo esame, della repressione penale della condotta di chi, in presenza delle condizioni tassativamente indicate dal Giudice delle leggi, agevola l’altrui proposito suicidario.
Da questo punto di vista, a mio avviso si registra una singolare analogia tra l’argomentazione della Corte costituzionale nella sent. 242 del 2019 e nell’ord. 207 del 2018 e quella della Cassazione nel caso Englaro (sent. n. 21748 del 2007). In quest’ultima pronuncia, infatti, il principio di diritto enucleato dalla Cassazione era ritagliato sulla vicenda di Eluana e si presentava in una veste analoga a quella che, per le pronunce della Consulta, assumono le c.d. decisioni additive di procedimento.
In conclusione, la Corte costituzionale non si è occupata di un diritto al suicidio; piuttosto, ha ritagliato un’area di immunità penale nell’ambito della fattispecie di aiuto al suicidio che continua a essere prevista nell’art. 580 c.p.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Le pronunce della Corte costituzionale sul Caso Cappato possiedono un sicuro “valore normativo”, se con ciò si intende la capacità di una decisione giurisprudenziale di concorrere alla definizione dell’ordinamento giuridico. In particolare, la sent. 241/2019 Corte cost. ha inciso sulla fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio, delimitandone una “circoscritta area” sottratta alla punibilità: il c.d. suicidio medicalmente assistito. Ha infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. «nella parte in cui non esclude la punibilità» di chi agevola l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona «a) affetta da una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Prima della pronuncia della Corte, il suicidio senz’altro non era “diritto”, bensì “libertà”: l’ultima libertà, estrema e di fatto, di gettarsi oltre la soglia. Sarebbe stato diritto se su altri fosse gravato l’obbligo di agevolare il suicida o di non ostacolarlo. Ma così non era – e non è -, esistendo all’opposto nel nostro ordinamento il divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e il dovere di impedire l’altrui suicidio nella ricorrenza dei presupposti dell’omissione di soccorso (art. 593 c.p.).
Ma anche dopo la pronuncia della Corte non si può dire che il suicidio, neppure nella sola forma del suicidio medicalmente assistito, sia assurto al rango di diritto. In primo luogo, perché è la Corte costituzionale stessa a non pronunciare mai la parola “diritto”. Usa esclusivamente la parola “libertà”: «libertà di autodeterminazione» del paziente «nella scelte delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» (includendo – forzatamente - il suicidio medicalmente assistito tra le terapie anti-dolore che il paziente può scegliere).
In secondo luogo, perché «un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui corrisponde» [S. Weil, La prima radice, 1943]. All’assenza del “diritto” corrisponde nella sentenza l’assenza dell’“obbligo”; rectius la sua esplicita esclusione: la Corte, infatti, esclude «la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Ma è ineludibile: se sul medico non ricade l’obbligo di aiutare il paziente a suicidarsi, questi non è titolare di alcun diritto, bensì, al più, della libertà di esprimere una richiesta di essere aiutato a suicidarsi. Se la libertà del paziente si incontra con quella del medico di accettare tale richiesta, ciò non è ora più punibile. Ma questo non rende il suicidio (medicalmente assistito) un diritto.
2. Con le menzionate decisioni, il Giudice delle leggi ha inaugurato una innovativa tecnica decisoria. A suo parere, si tratta di un modus decidendi ispirato alla leale collaborazione istituzionale, capace di valorizzare la discrezionalità legislativa o, al contrario, di ridurre lo spazio di azione delle Camere in questioni eticamente (e politicamente) sensibili?
Prof.Stefano Agosta
Non poche volte, com’è noto, le pronunzie sui diritti (specie, se non principalmente, su quelli di natura personalissima, come nel nostro caso) finiscono anche profondamente per incidere sul piano dei poteri e, in particolar modo, sulle tecniche decisorie in concreto adottate (così come, pure, viceversa) [sul cruciale punto ha molte volte insistito, ad esempio, A. RUGGERI, ex plurimis nei suoi “Dialogo” tra le Corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali, in www.diritticomparati.it (19 novembre 2013); Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie delle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2017, 1 ss.; Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in Dir. fondam., n. 2/2018, 1 ss.].
A tale generale considerazione non fa eccezione – e anzi, a ragion veduta, può essere preso ad emblematica testimonianza di essa – proprio il c.d. caso Cappato [e – in termini parzialmente sovrapponibili – la più recente questione di legittimità costituzionale, rispettivamente, degli artt. 595, comma 3, cod. pen. (Diffamazione) e 13 l. n. 47/1948, Disposizioni sulla stampa, di cui all’ord. n. 132/2020]. È anche in quest’ultima occasione, del resto, che la Consulta non ha mancato di offrire ulteriore efficace prova, nel metodo, della «sostanziale fungibilità delle tecniche decisorie» [così, nuovamente, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in www.giurcost.org (20 novembre 2018), 571] allo scopo, neanche poi tanto velatamente perseguito, di cogliere il risultato di una maggiore flessibilizzazione della disciplina del processo costituzionale; così come, nel merito, di volere audacemente intraprendere – e battere fino in fondo ai suoi ultimi esiti – l’intermedio, innovativo, sentiero della pronunzia c.d. “ad incostituzionalità differita”: di una peculiare decisione, vale a dire, collocabile tra quel quid pluris rappresentato dal tradizionale strumento dell’accoglimento mediante additiva di principio e quel quid minus costituito, invece, dall’altrettanto diffuso ricorso all’inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore (di norma affiancata pure da un monito rivolto al Parlamento nel senso di risolversi al più presto a provvedere).
Quasi inutile dare, a questo punto, conto – se non, appunto, di sfuggita – del fitto polverone di critiche che una pronunzia così confezionata (di ordinanza, nella forma, e, ciononostante, di sentenza di accoglimento, nella sostanza) ha finito, nell’immediato così come anche nel prosieguo, di sollevare. Se è difatti in astratto che dall’introduzione di questo nuovo genere di decisione il primato stesso della Costituzione potrebbe giovarsi – e, anche per tale via, riaffermarsi – è tuttavia sul diverso piano del vincolo in concreto discendente da tale pronunzia che sono sembrate emergere le maggiori perplessità: in altri termini quindi, per un verso, con riferimento alla persistenza dell’obbligo o meno di applicazione della normativa indubbiata da parte del giudice a quo, degli altri giudici diversi dal primo, così come, pure, di ogni altro operatore giuridico ovvero della Pubblica amministrazione [la previsione temporaneamente salvata pur sempre reclamando, ad ogni buon conto, «l’applicazione che compete alle norme che continuano a comporre l’ordinamento, e che non ne siano ancora state espunte formalmente»: in tal senso, M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it (19 novembre 2018)]; per un altro, nei confronti dello stesso Tribunale costituzionale (se vincolato o meno al proprio, così ingombrante, decisum, qualora ad esempio ne sia, nel frattempo, mutata la composizione); per un altro ancora, infine, avuto riguardo allo stesso legislatore, se sol si consideri la non insolita – e anzi, spesso, fisiologica – vocazione degli stessi decisa costituzionali ad innescare (piuttosto che sopire ovvero immobilizzare) i processi di produzione normativa.
Dott.ssa Lucia Busatta
Non ho una risposta univoca a questa domanda.
Da un lato, infatti, ho trovato convincenti le motivazioni con le quali la Corte, nell’ordinanza 207, spiega perché ha scelto di escludere la strada “tradizionale” del rigetto (o dell’inammissibilità, che forse sarebbe stata la via più semplice per il giudice costituzionale e più facile da adattare alle maglie dell’ordinanza di rimessione), cui aggiungere un monito al legislatore. Chiudere il giudizio costituzionale, in quel caso specifico, avrebbe però aperto più problemi rispetto a quelli risolti. Altre persone, nella medesima posizione dell’imputato Cappato, sarebbero infatti andate incontro a un processo penale. Altri malati, nelle condizioni di Antoniani, si sarebbero trovati ancora nell’impossibilità di dare seguito alle proprie volontà. Quasi di sicuro, una questione simile sarebbe in breve tornata al Palazzo della Consulta.
La Corte dimostra una sensibilità particolare per le vicende umane che si celano dietro la questione ad essa rimessa e per l’eventualità – per nulla peregrina – che si possano ripresentare situazioni analoghe. Del resto, dinamiche simili possono essere osservate anche in altri ordinamenti (è di poche settimane fa, ad esempio, una sentenza del Tribunale costituzionale austriaco, G-139/2019 dell’11 dicembre 2020, mentre il Bundesverfassungsgericht tedesco si è pronunciato il 26 febbraio 2020).
Su questa linea, non posso dire di trovare eccessivamente invasive le indicazioni per il legislatore contenute nella prima ordinanza. Mi sembra che la Corte abbia cercato di declinare rispetto alle specificità del caso in discussione nel processo a quo il monito rivolto al legislatore.
Dall’altro lato, però, qualcosa di poco convincente, a mio avviso, rimane. Il problema non sta nei contenuti dell’ordinanza n. 207, ma in qualcosa che viene prima (e, a dirla tutta) anche in ciò che è venuto poi, ossia la definizione della “procedura” stabilità nella sentenza n. 242.
Sospendere il giudizio per undici mesi per consentire al Parlamento «ogni opportuna riflessione e iniziativa» può rispecchiare effettivamente una visione attuale della leale collaborazione istituzionale, nella quale il giudice delle leggi è calato anche nella concretezza delle situazioni individuali. Prendere tale decisione, però, significa aver già meditato sulle sue implicazioni e sul risultato finale, dal punto di vista legislativo (ossia, sull’eventualità in cui il legislatore rimanga inerte). La prospettiva che la Corte adotta per decidere come pronunciarsi, in altre parole, si pone non tanto – come invece le motivazioni dell’ordinanza sembrano far intendere – nella (sola) dimensione del caso concreto da cui la questione di legittimità costituzionale prende origine, ma in un’ottica legislativa propriamente detta. D’altro canto, in considerazione della velocità dei rivolgimenti tecnologici e valoriali che caratterizzano la società contemporanea, non si può pensare, per tematiche tanto delicate, di inaugurare un’annosa stagione di pronunce dai moniti progressivamente più severi rivolti a un legislatore tradizionalmente lento sulle questioni c.d. eticamente sensibili. La giurisprudenza stessa della Corte, però ci insegna che è possibile anche scegliere subito la via dell’accoglimento della questione, imponendo, di fatto, l’intervento legislativo necessario a chiarire come realizzare quanto affermato dal giudice delle leggi (mi sto riferendo alla sentenza n. 27 del 20175, con cui la Corte si pronunciò per la prima volta sul reato di aborto, dichiarandolo in parte incostituzionale e cui, come è noto, è seguita la legge n. 194 del 1978).
Ciò che, forse, non è molto aderente ad una leale collaborazione istituzionale pienamente intesa sta nell’eccesso di zelo nel definire come procedere in attesa dell’agognato intervento legislativo (v. sent. n. 242). Questo, a mio avviso, tradisce un’eccessiva sfiducia nei confronti del legislatore e sembra lasciar trasparire un intento dai tratti forse pedagogici in cui il giudice delle leggi non dovrebbe incappare.
Sulle implicazioni future di tale innovativa tecnica decisoria, poi, tutto è ancora da scrivere. La Corte ha già sperimentato nuovamente la possibilità di rinviare di un anno la propria decisione in attesa di un’opportuna iniziativa parlamentare (cfr. ordinanza n. 132 del 2020, in tema di libertà di stampa): in questo caso i giochi sono ancora aperti e si vedrà nei prossimi mesi quale seguito avrà la scelta della Corte e se tale tecnica decisoria avrà successo.
Prof. Carlo Casonato
In presenza di questioni eticamente sensibili, la Corte mi sembra abbia sempre agito con la massima cautela adottando pronunce (sentenze o ordinanze) di inammissibilità. Si pensi, fra le altre, alla sentenza n. 84 del 2016 in cui, pur di non negare la “dignità antropologica” che alcuni attribuiscono all’embrione fin dai suoi primi stadi di sviluppo, ne ha negato l’impiego a fini di ricerca, anche se l’alternativa, trattandosi di embrioni non impiantabili, è quella di essere mantenuti in uno stato di crioconservazione indefinitamente. Il fatto è che moltissime questioni eticamente sensibili sono anche costituzionalmente inquadrabili, e quindi non possono sfuggire all’esame da parte della Corte, a meno di non riconoscere una “zona franca” dell’oggetto all’attenzione della Corte ovvero di non produrre una “de-costituzionalizzazione” dei parametri di riferimento.
In questi casi, la tecnica adottata dalla Corte mi sembra costituire un apprezzabile bilanciamento fra le esigenze di tenuta del sistema costituzionale, che non può sopportare riduzioni del controllo della Corte oltre la sfera della discrezionalità politica, e la fisiologia che vorrebbe che fosse il Parlamento ad adottare discipline generali e comprensive su questioni che coinvolgono il diritto e i diritti costituzionali. L’alternativa ad una decisione di “illegittimità differita”, del resto, sarebbe consistita in una pronuncia di rigetto con monito, che non avrebbe garantito in alcun modo il ripristino del vulnus costituzionale, o da una decisione di accoglimento di principio, che avrebbe lasciato margini di incertezza ancora maggiori.
Prof. Giacomo D’Amico
Per tentare di dare una risposta a questa domanda occorre chiarire due profili preliminari: innanzitutto, cosa si intende per «leale collaborazione istituzionale» e quanto questa si differenzia da un atteggiamento di mera deferenza nei confronti del legislatore? In secondo luogo, quali tecniche decisorie avrebbe potuto adottare la Corte in alternativa a quella poi fatta propria?
Quanto al primo interrogativo, non vi è dubbio che la risposta sia condizionata dal modo di concepire i rapporti tra Giudice delle leggi e Legislatore, di tal che, per quella parte della dottrina particolarmente critica nei confronti degli atteggiamenti “suprematisti” della Corte (su tutti, A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss.), la leale collaborazione non può che coincidere con un atteggiamento di massima deferenza nei confronti dell’organo deputato all’approvazione delle leggi. Rispetto a questa posizione, degna di massima considerazione e comprensibile (almeno per alcuni versi), è lecito però ritenere che l’inerzia del legislatore su tante questioni e la possibilità per quest’ultimo di intervenire in qualsiasi tempo e senza alcuna preclusione consentano al Giudice delle leggi un “margine di movimento” utile esclusivamente a garantire un’effettiva tutela di alcuni diritti fondamentali che, senza l’intervento della Corte, potrebbe essere definitivamente compromessa (ancora di recente, G. Amato nel webinar su Rappresentanza, populismo, democrazia, la cui registrazione è disponibile in https://fb.watch/41I49EtbFV/). Da questo punto di vista, il caso Cappato è particolarmente emblematico: una pronuncia di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore avrebbe infatti portato alla condanna dell’imputato, soluzione, questa, che francamente sarebbe risultata inaccettabile agli occhi di molti (se non di tutti).
Quanto al secondo interrogativo, si è già fatto riferimento a una possibile decisione di inammissibilità, con le conseguenze che da essa sarebbero derivate. Parimenti “pesante”, ma per ragioni opposte, sarebbe risultato l’accoglimento secco delle questioni già a seguito dell’udienza pubblica svoltasi a ottobre 2018. Altre soluzioni intermedie, pur apprezzabili teoricamente, come ad es. un’eventuale additiva di principio, avrebbero fatto ricadere sulle spalle del giudice comune il peso di una decisione formalmente di accoglimento ma di problematica attuazione nella sostanza. Infatti, la naturale genericità dell’addizione operata dalla Corte in questi casi (appunto, di un principio) avrebbe determinato un’estrema difficoltà a rinvenire nella sentenza l’indicazione di un percorso concreto da seguire per giungere all’assoluzione dell’imputato.
Ed allora, ben venga una nuova tecnica decisoria!
In particolare, l’aver differito di un anno la decisione delle questioni di legittimità costituzionale mediante l’ord. n. 207 del 2018 va oltre il mero rinvio di una questione cui talvolta la Corte ha fatto ricorso per consentire l’intervento del legislatore (il riferimento è al rinvio dell’udienza di discussione della questione concernente il sistema elettorale c.d. Italicum). L’ord. n. 207 è tale, infatti, solo per il nomen utilizzato ma già dall’articolazione della motivazione (suddivisa in Ritenuto in fatto e Considerato in diritto) e soprattutto dalla pregnanza delle argomentazioni svolte si deduce la sua sostanza di sentenza.
Non a caso l’allora Presidente della Corte Giorgio Lattanzi ha parlato di un’«incostituzionalità prospettata», aggiungendo che «la Corte ha inteso evidentemente riconoscere il primato delle Camere nel definire dettagliatamente la regolamentazione della fattispecie in questione, perciò confido fortemente che il Parlamento dia seguito a questa nuova forma di collaborazione, nel processo di attuazione della Costituzione, e non perda l’occasione di esercitare lo spazio di sovranità che gli compete. Il successo della tecnica dell’ordinanza di “incostituzionalità prospettata” sarebbe anzitutto un successo per la funzione rappresentativa del legislatore, che andrebbe perduto se tale funzione non fosse in concreto esercitata» (Relazione in occasione della Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, in www.cortecostituzionale.it, 12-13).
Sebbene, com’è noto, questa tecnica decisoria non abbia fin qui prodotto gli effetti sperati (né nel caso Cappato né nell’altra ipotesi in cui si è ad essa fatto ricorso, ord. n. 132/2020), stante la perdurante inerzia del legislatore, credo che le parole del Presidente Lattanzi e, prima ancora, la soluzione adottata dalla Corte siano del tutto condivisibili. Ciò nondimeno, possono immaginarsi correttivi, come ad es. quello di concedere un rinvio più lungo, specie là dove la decisione della Corte dovesse intervenire a ridosso dello scioglimento delle Camere; peraltro, la previsione di un rinvio più lungo potrebbe costituire un’alternativa preferibile rispetto a un’eventuale pronunzia della Corte che manipoli gli effetti temporali di una decisione di accoglimento, posticipandone il momento di produzione.
Si potrebbe ancora immaginare una ordinanza di rinvio (della causa ad altra udienza) un po’ più “contenuta” nella trattazione dei profili di merito rispetto a quella adottata nel caso Cappato, proprio al fine di non limitare eccessivamente i margini di manovra del legislatore e della stessa Corte. In ogni caso, però, credo che la strada tracciata dall’ord. n. 207/2018 costituisca uno strumento utile per garantire la leale collaborazione istituzionale.
Prof.ssa Chiara Tripodina
La Corte costituzionale, con la “doppia pronuncia” sul caso Cappato, ha in effetti inaugurato una nuova tecnica decisoria, data da un’“ordinanza di incostituzionalità prospettata” [Lattanzi], a cui segue una sentenza di accoglimento additiva di regola.
In particolare, nell’ord. 207/2018, la Corte, benché riscontrasse un vulnus costituzionale nel divieto assoluto di aiuto al suicidio ex dell’art. 580 c.p., non lo dichiarava nel dispositivo: riconoscendo che la questione di legittimità costituzionale si collocava all’«incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone[va …] scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere», i giudici costituzionali sospendevano il loro giudizio, dando al Parlamento undici mesi di tempo per «assumere le necessarie decisioni». Tali decisioni erano rimesse «in linea di principio alla sua discrezionalità»; ma, in linea di fatto, avrebbero dovuto essere adottate «nei limiti indicati dalla presente pronuncia» e «in conformità alle segnalate esigenze di tutela». Limite ed esigenze dettati in modo così stringente da fare pensare a un’“ordinanza-delega”, con tanto di indicazione di oggetto, principi, criteri direttivi e termine.
Che in undici mesi il Parlamento italiano - in quel momento storico e con quella maggioranza – potesse giungere a un accordo per un’apertura all’aiuto al suicidio nel senso indicato dalla Corte era assai improbabile. Così è infatti stato: non essendo sopravvenuta «nessuna normativa in materia», la Corte, ha adottato la sent. 241/2019.
Unico freno alla Corte costituzionale all’adozione di una sentenza additiva di regola avrebbe potuto venire – e in passato veniva – dal fatto che per disciplinare la materia fossero possibili plurime «risposte differenziate» e non vi fosse alcun contenuto che discendesse “a rime obbligate” dalla Costituzione. Ma la Corte ha reputato superato quel suo storico self-restraint: ciò «non è di ostacolo». Ove «i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali», la Corte «può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
Nel caso di specie, invero, non vi era un “vuoto di disciplina”, giacché il legislatore si era premurato di colmarlo con l. 219/2017, prevedendo per i pazienti nelle condizioni indicate dalla Corte il diritto alla rinuncia o alla sospensione dei trattamenti terapeutici vitali e la possibilità della sedazione profonda e continua e dichiarando al contempo inesigibili e irricevibili i «trattamenti sanitari contrari alle norme di legge», quali l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente.
Alla luce di ciò, benché la Corte costituzionale cerchi di collocare il suo innovativo modus procedendi in un contesto «collaborativo e dialogico fra Corte e Parlamento», a me non pare si possa parlare di “leale collaborazione istituzionale”: una questione così irriducibilmente divisiva a livello etico, giuridico, medico, politico e sociale, come superare il tabù del non uccidere e rendere non punibile una seppur circoscritta area di aiuto al suicidio, rispetto alla quale la Costituzione italiana non dice, meno che mai “a rime obbligate”, non avrebbe dovuto essere risolta dalla Corte costituzionale attraverso una scelta politica – quale inevitabilmente è una scelta che si assume in assenza di vincoli costituzionali - ma dal Parlamento, unico organo al quale la Costituzione riconosce tale potere, perché rappresentativo dei cittadini e dell’evoluzione della loro coscienza sociale. È la Corte Costituzionale stessa, per altro, ad affermarlo nell’ordinanza 207/2018: la questione «reclama una valutazione approfondita da parte del legislatore» e «richiede un approccio prudente delle corti», il cui «compito naturale» è quello «di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica», pur «con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte». Salvo poi di fatto discostarsi da questo quadro teorico.
E non vale dire che l’ordinanza del 2018 aveva proprio l’obiettivo di far decidere il Parlamento, rimasto colpevolmente inerte: in primo luogo, perché l’ordinanza conteneva già una decisione politica, poi confermata dalla sentenza, e si chiedeva al Parlamento di ratificarla, o al più di dettagliarla; e poi perché, come detto, una scelta sul fine-vita il legislatore l’aveva da poco compiuta con la legge del 2017. Neppure vale dire che era in questione un “diritto fondamentale” che non poteva essere lasciato privo di protezione, perché, in realtà neppure la Corte osa poi chiamare l’aiuto al suicidio medicalmente assistito “diritto” né apprestare le necessarie tutele che un diritto fondamentale esigerebbe a garanzia della sua effettività.
3. A pochi anni dall’approvazione della legge n. 219 del 2017, quali margini ha il legislatore rispetto alle coordinate fissate dal Giudice delle leggi e quali nodi è chiamato a sciogliere?
Prof. Stefano Agosta
Già ad una superficiale lettura, non pochi né secondari appaiono invero i semi variamente sparsi dalla giurisprudenza costituzionale in esame che il legislatore potrebbe decidere di far germogliare, fino a mettere utilmente a frutto, per il futuro.
In disparte l’ovvia considerazione per cui quelle fatte oggetto di censura non siano state norme qualsiasi bensì incriminatrici penali (con tutto quello che ne consegue in termini di variabile ampiezza del sindacato di legittimità costituzionale) e che, lungi dall’essere aggiornate alla luce del più recente progresso tecnico-scientifico, esse apparissero già assai usurate ed obsolescenti – e, in quanto tali, bisognose di un dibattito pubblico ed un successivo intervento legislativo che potesse così ri-nobilitare lo stesso Parlamento (il quale avrebbe potuto, ad esempio, non limitarsi ad intervenire sul solo aiuto al suicidio ma spingersi a ripensare l’intero ambito del fine-vita) – è pur sempre al legislatore che incombe la decisione ultima sul se adoperarsi e sul come farlo: in astratto anche decidere di non decidere, come si usa dire, rappresentando un naturale esercizio di discrezionalità legislativa (oltre che dimostrarsi in linea con talune indicazioni deontologiche e legislative in tema di responsabilità medica).
In concreto tuttavia – nonostante l’auspicio che il mantenimento di questo contegno normativo in materia possa in qualche misura rafforzare la «‘sovranità’ del sofferente» (così, S. PRISCO, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Biolaw Journal, n. 3/2018, 169) – il rischio è piuttosto che un legislatore non legiferante finisca solo per consolidare il ruolo di supplenza dei giudici comuni, «sollecitati a produrre le regole richieste dal principio (…) somministrato dalla Corte» (in tal senso, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., 573). Qualora dovesse invece risolversi a colmare quel vuoto di tutela (già ex se costituzionalmente dannoso) conseguente all’incostituzionalità dell’art. 580 cit., sempre al Parlamento spetterebbe, poi, di definire quale sia l’ordine di priorità dei lavori da cui cominciare: se, cioè, dare finalmente avvio ad un vero e proprio processo riformatore dell’intero settore – a partire, ad esempio, dalla mancata (o largamente incompleta…) attuazione della l. n. 38/2010, Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore – ovvero semplicemente accontentarsi di un circoscritto atto più o meno formalmente ossequioso delle linee-guida tracciate dalla Consulta intorno ai «casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della richiesta di aiuto al suicidio» [così, U. ADAMO, In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare, in www.diritticomparati.it (23 novembre 2018), 3] (non troppo dissimilmente dalla pregressa esperienza dell’interruzione volontaria della gravidanza, ad esempio, introducendo una sorta di “scriminante procedurale”, il rispetto delle cui condizioni delimiterebbe l’ambito del penalmente consentito).
Dott.ssa Lucia Busatta
A mio avviso sarà necessaria una legge ad hoc, autonoma rispetto alla legge n. 219 del 2017.
La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, infatti, è stata pensata come una legge di carattere generale, volta a regolare molteplici profili del consenso all’atto medico. Diversamente da quanto comunemente molti credono, la legge n. 219 del 2017 non si occupa solo di fine-vita. Certo, essa prende in considerazione anche i casi e le circostanze nelle quali la persona non desideri intraprendere un determinato trattamento oppure lo voglia rifiutare e, necessariamente, disciplina tutte le relative conseguenze, inclusa l’ipotesi in cui dal rifiuto possa derivare la morte della persona. Il consenso viene, poi, declinato anche nella dimensione temporale, ossia per un (più o meno) eventuale momento futuro in cui la persona, per un evento accidentale o a causa di una malattia già nota, perda la capacità di manifestare validamente e contestualmente la propria volontà.
Il perno della legge n. 219 è, dunque, il consenso, cardine della relazione di cura che si costruisce tra medico e paziente.
Differente è, invece, la natura giuridica dell’assistenza medica al morire. Si tratta, infatti, di una particolare tipologia di prestazione che, in linea con alcuni profili enucleati dalla Corte costituzionale stessa, dovrà essere ancorata ad un forte ruolo di controllo sia sulle condizioni di ammissione che sulle modalità di attuazione alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale.
Al legislatore restano molti nodi da sciogliere, a cominciare dalla decisione o meno di definire l’assistenza medica a morire come trattamento sanitario, in carico al Sistema sanitario nazionale, in via esclusiva o meno. Questa scelta necessariamente preliminare condizionerà, di conseguenza, l’intero impianto di una futura legge. A me pare, però, che questo sia il contenuto costituzionalmente vincolato che la Corte attribuisce ad una necessaria disciplina normativa della materia. Il giudice costituzionale, infatti, sottolinea ripetutamente che l’assistenza medica a morire può essere richiesta solo da una persona che, rientrando nelle condizioni cliniche e soggettive già richiamate, potrebbe esercitare il proprio diritto al rifiuto secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017. A motivo delle condizioni in cui la persona versa, però, un mero rifiuto non sarebbe sufficiente a realizzare l’autodeterminazione terapeutica e si rende, invece, necessario un ulteriore intervento esterno che non può che qualificarsi come intervento di carattere medico.
Questa strada, a mio avviso, è l’unica che può aiutare il legislatore a costruire una regolazione ragionevole e costituzionalmente rispettosa di tutti i molteplici valori coinvolti. Non è un percorso, però, scevro da ostacoli: come si è avuto modo di sostenere in altra sede, infatti, anche la medicina è in qualche modo costretta a rivedere il proprio statuto ontologico, dando maggiore rilievo al progetto di vita della persona e non solo al dato biologico.
Gli altri nodi che il legislatore dovrà sciogliere, poi, seguono tutti a grappolo il grosso problema definitorio di cui si è già detto e sono stati in larga parte già individuati dal giudice delle leggi. Il primo di essi consiste nello stabilire se riservare in via esclusiva o meno al sistema sanitario tali interventi, anche se ad avviso di chi scrive, così come con l’interruzione volontaria di gravidanza, deve essere preservato il ruolo del servizio pubblico per salvaguardare l’eguaglianza e l’universalità nell’accesso ad un trattamento per propria natura delicatissimo. Tutto il procedimento da seguire, poi, si presenta come un fitto groviglio, con interrogativi non di poco conto: a chi affidare l’incarico di verificare la sussistenza dei requisiti; se definirli diversamente rispetto a quelli indicati dalla Corte (il caso Trentini, da questo punto di vista, è significativo); quanti medici coinvolgere; se e come disciplinare l’obiezione di coscienza; se prevedere il ruolo obbligatorio o facoltativo di organismi collegiali, quali i comitati etici, e, nel caso, entro quali limiti; se disciplinare una procedura d’urgenza, e così via.
Un lavoro scritto da un gruppo interdisciplinare di medici e giuristi, pubblicato pochi mesi prima della sentenza n. 242 cerca di affrontare in modo bilanciato alcuni di questi interrogativi.
Prof. Carlo Casonato
In termini generali, il mio giudizio sulla legge n. 219 è certamente positivo. Ciò non toglie che ci siano alcuni aspetti che la normativa non ha previsto, e che andrebbero aggiunti; e altri che, invece, sono stati disciplinati ma in termini migliorabili. Fra le prime, va detto che la legge si occupa del diritto di esprimere le proprie volontà anticipate con strumenti molto efficaci, come le DAT (art. 4 ) e, ancor di più, la pianificazione condivisa delle cure (art. 5). La legge tace, però, sulla disciplina relativa alla prosecuzione dei trattamenti per malati che siano caduti in uno stato di incapacità senza aver lasciato alcuna disposizione al riguardo. Su questo punto, la legge potrebbe essere integrata, ad esempio, con quella che in Francia è definita la procedura collegiale, che precisa il percorso da intraprendere per ricostruire la volontà dell’incapace o per considerare la futilità o meno (ostinazione irragionevole) dei trattamenti.
Fra le parti che potrebbero essere migliorate, a mio giudizio, stanno la disciplina delle volontà dei minori, che a differenza di altri Stati europei è in Italia ancora solamente presa in considerazione, rimanendo però il consenso informato “espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale”, oltre che un concetto di capacità tuttora ancorato a categorie giuridiche fisse e poco adattabili alle mille sfumature che la realtà delle malattie neurodegenerative o delle demenze, ad esempio, presenta. La clausola di invarianza finanziaria (art. 7) è inoltre del tutto inadeguata, attesi, ad esempio, i compiti di formazione dei professionisti e di sensibilizzazione della società civile che la legge stessa presuppone.
Per quanto più da vicino riguarda le vicende del fine-vita, e la sentenza n. 242 in particolare, ritengo che il Parlamento dovrebbe intervenire ad eliminare il requisito della presenza dei trattamenti di sostegno vitale. Tale condizione è una conseguenza della logica adottata dalla Corte che, più che basarsi sul diritto all’autodeterminazione individuale, ha preferito poggiarsi sul principio di eguaglianza e, in particolare, sull’equiparazione fra i malati che potrebbero chiedere l’interruzione delle cure e quelli per cui tale interruzione provocherebbe, come nel caso di Fabiano Antoniani, una agonia considerata contraria alla propria dignità. D’altro canto, però, imporre tale condizione produce risultati paradossali. Alcuni malati, ad esempio, potrebbero non voler essere ventilati meccanicamente o idratati artificialmente, e richiedere l’aiuto nel porre fine alla propria vita proprio per evitare tali interventi. Costringerli a subire questi trattamenti al solo scopo di rientrare nelle condizioni per essere assistiti nel suicidio sarebbe irragionevole; e potrebbe rivelarsi incostituzionale in quanto lesivo del «rispetto della persona umana» che rinforza la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, sui trattamenti sanitari obbligatori. Le condizioni cliniche di altri malati, inoltre, potrebbero non essere compatibili con una tracheostomia o una PEG, ad esempio, privandoli, così, dell’assistenza richiesta per motivi del tutto casuali. Procedendo nel solco della decisione adottata per il caso di Davide Trentini dalla Corte d’assise di Massa Carrara (27 luglio 2020), e andando oltre, sarebbe quindi utile – ritengo – sganciarsi da tale requisito, il quale, non a caso, non appare all’interno dell’ormai ampio panorama offerto dal diritto comparato.
Un ultimo elemento critico della sentenza n. 242 che ritengo debba essere precisato dal Parlamento – che auspico intervenga in tempi non lunghissimi – si riferisce all’intervento contestuale delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e di un Comitato etico.
Prof. Giacomo D’Amico
I margini di manovra del legislatore sono, per definizione, ampi e lo sono in modo particolare nel caso di specie. La legge n. 219 del 2017, che pure costituisce una straordinaria conquista di civiltà, è pur sempre limitata al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento. Sul primo versante, la legge afferma «che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1). Sul secondo fronte, si stabilisce che «[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (art. 4).
Al di fuori dei casi anzidetti e in assenza dei presupposti sopra indicati esiste a tutt’oggi un vuoto normativo. Al riguardo, la stessa Corte nella sent. n. 242 del 2019 precisa che «[l]a declaratoria di incostituzionalità attiene […] in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge [n. 219 del 2017]» (punto 5 cons. dir.).
In particolare, è evidente che manca nel quadro normativo una disciplina relativa ai comportamenti attivi (diversi, quindi, dalla mera rinuncia a trattamenti vitali) volti a porre termine alla propria esistenza in condizioni di particolare sofferenza, come quelle di Davide Trentini. In questa prospettiva le coordinate fissate dalla Corte costituzionale nelle due decisioni sul caso Cappato costituiscono un punto di partenza, non un punto di arrivo. Restano infatti da definire le condizioni generali per porre fine alla propria esistenza, valevoli in astratto e non ritagliate sui singoli casi. Sia chiaro, non vi è una soluzione obbligata ma non si può negare che la strada tracciata dalla Corte abbia definito i confini di una decisione legislativa conforme ai principi costituzionali dell’autodeterminazione della persona, della dignità dell’individuo, ma anche del sostegno dei soggetti particolarmente vulnerabili. Muovendo da queste premesse i nodi principali da sciogliere sono – come dicevo sopra – quelli della definizione delle condizioni in presenza delle quali il singolo individuo può essere “sostenuto” e “accompagnato” nella sua scelta di porre fine alla propria esistenza.
Su un piano diverso, resta poi il grande problema dell’effettività dell’offerta di cure palliative e di terapia del dolore che, se pure regolato a livello legislativo, sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie» (così la Corte nella sent. n. 242 riprendendo il parere del 18 luglio 2019 «Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito» del Comitato nazionale per la bioetica). Anche su questo punto, forse, un intervento del legislatore statale, oltre che un’iniziativa coordinata in sede di Conferenza Stato-Regioni, potrebbe contribuire ad assicurare quel “sostegno” di cui sopra si è detto.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nel dettare la disciplina del suicidio medicalmente assistito, la Corte dichiara più volte che essa è valida «nelle more dell’intervento del legislatore» [sent. 242/2019]. Quella della Corte è dunque sì un’opera di supplenza, ma sub condicione; una sorta di sentenze self executing, «fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
La Corte ha tuttavia posto dei paletti stringenti, rispetto ai quali il Parlamento non avrebbe margini di discostamento in caso di intervento, a meno di non volere innescare un conflitto istituzionale: nelle ultime parole della sent. del 2019, la Corte, se da un lato ribadisce «l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore», dall’altro conclude «conformemente ai principi precedentemente enunciati».
I paletti sono, in primis, il riconoscimento della libertà di autodeterminare la propria morte con suicidio medicalmente assistito per le persone si trovino nelle condizioni delineata dalla Corte.
«Dalle coordinate del sistema vigente» - e in particolare dagli artt. 1 e 2 della l. 219/2017 - la Corte ricava, poi, le «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa chiedere aiuto [al suicidio]»: la necessità che la persona sia «capace di agire»; che la sua volontà sia acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare»; che sia sempre assicurata «la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà». Sempre dalla legge si ricava che il medico deve prospettare al paziente «le conseguenze» della sua decisione «e le possibili alternative», tra le quali il coinvolgimento in un percorso di cure palliative, giacché, dice la Corte, proprio «l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta […] a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita».
Alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale la Corte riserva «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio» e la verifica delle «relative modalità di esecuzione», che dovranno essere «tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». A un organo collegiale terzo - che nelle more dell’intervento del legislatore la Corte individua nei comitati etici territorialmente competenti – è riservata la «tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità».
Infine la Corte, discostandosi in ciò dalla legge 219/2017, riconosce al medico l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza.
Oltre questi paletti, restano comunque margini di discrezionalità al legislatore: se difficilmente egli potrebbe tornare indietro rispetto all’apertura tracciata dalla Corte, pena un conflitto istituzionale, potrebbe però andare avanti nel solco già tracciato.
Potrebbe, ad esempio, decidere di riconoscere la libertà (o questa volta il diritto) di determinare il proprio modus moriendi anche a persone che si trovino in condizioni diverse da quelle individuate dalla Corte costituzionale: anche alle persone che, pur affette da patologia irreversibile, in preda a sofferenze intollerabili, capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, non vedano tuttavia la loro vita dipendere da trattamenti di sostegno vitale; oppure anche alle persone che, versando in condizioni tali per cui è loro precluso anche quel barlume di autosufficienza che consentirebbe di darsi la morte premendo con le labbra lo stantuffo di una siringa (i locked-in), chiedono non di essere aiutate nel suicidio, ma di essere direttamente uccise (omicidio del consenziente, ex art. 579 c.p.). Come la Costituzione non impone il riconoscimento dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, infatti, neppure lo vieta. Semplicemente non dice.
Il punto più estremo potrebbe essere il riconoscimento dell’esistenza di un diritto universale a morire nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire. Una volta fatto saltare il tabù del “non aiutare a morire” e in definitiva del “non uccidere” in ragione dei parametri dell’autodeterminazione, della dignità umana e dell’uguaglianza, infatti, tutti gli argini volti a strettamente circoscrivere l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio potrebbero poi saltare.
Resterebbe, in ogni caso, il vincolo costituzionale dato dai principi di solidarietà e autodeterminazione, che impone che sia garantita la certezza che la scelta della morte sia compiuta da persone autenticamente libere nella volontà e coscienza, e non costrette dalla percezione che la morte è l’unica via d’uscita a una situazione di sofferenza fisica e morale, alla quale la Repubblica (ciascuno incluso) non sa dare alternative dignitose.
4. Quale ruolo sono chiamati a svolgere i comitati etici, anche rispetto alle ipotesi che giustificano il ricorso all’aiuto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Premessa la peculiare parabola cui sembra andato incontro l’innesto di un organo di consulenza indipendente (solo eventualmente previsto nell’ord. n. 207 cit. per poi essere ritenuto indispensabile nella successiva sent. n. 242 cit.) all’interno della procedura di suicidio medicalmente assistito, affatto scontato invero è che esso debba poi finire interamente per coincidere col comitato etico competente per territorio. Qualora, poi, la scelta dovesse ricadere proprio su quest’ultimo, ad ogni modo, di perplessità non ne mancherebbero. E, ciò, non tanto – o non solo – sotto il profilo dell’attitudine in astratto di tale organo «a garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità» [così, sent. n. 242 cit. (punto 5 cons. dir., dodicesimo cpv)] quanto, piuttosto, su quello della sua idoneità in concreto.
Se, difatti, può seriamente non discutersi – per così dire, in vitro – l’importanza del parere reso da quest’organo intorno ai presupposti di liceità dell’aiuto al suicidio assistito così come alle sue modalità esecutive (seppure originariamente immaginato per la sperimentazione di tipo farmacologico e clinico e solo successivamente integrato con funzioni di consulenza squisitamente etica), non altrettanto potrebbe dirsi della sua effettiva capacità nel vivo dell’esperienza: vale a dire una volta che si siano attentamente vagliate una serie di non trascurabili variabili spazianti dalla vincolatività o meno del parere eventualmente reso alla potenziale diversità di esiti cui potrebbero approdare comitati tendenzialmente frazionati sul territorio, passando attraverso la composizione assai eterogenea che tradizionalmente connota tale comitato (in quanto tale, non propriamente calibrata sulla valutazione di condizioni ex se più clinico-mediche che non semplicemente etiche).
Dott.ssa Lucia Busatta
Il ruolo dei comitati etici, come enucleato nella sentenza n. 242, è – a mio avviso – il punto più critico dell’intera vicenda. La Corte li ha indicati quali organismi privilegiati per tutelare le persone vulnerabili da eventuali abusi, ma non specifica (né, a rigore, avrebbe potuto farlo) come esattamente essi vengano coinvolti nel procedimento. Rimane, poi, aperto il nodo della competenza dei Comitati etici per la sperimentazione clinica, che sono gli organismi cui le norme di legge che la Corte cita fanno precipuo riferimento, che sono distinti dai Comitati etici per la pratica clinica. Questi ultimi, sia per composizione che per funzioni, parrebbero più adeguati a svolgere il compito di tutela che il giudice costituzionale vorrebbe ad essi attribuire. Laddove presenti, poi, non si può nemmeno escludere che possano pronunciarsi entrambi: il primo sull’utilizzo della sostanza da somministrare; il secondo sui profili più strettamente attinenti alla relazione di cura.
Il problema, però, oggi sta a monte: difficilmente un’azienda sanitaria si prende la responsabilità di avviare l’intera procedura, sebbene i contorni della legittimità dell’agire per l’assistenza medica al morire siano accuratamente cesellati dalla Corte. Un caso riportato nei giorni scorsi dagli organi di stampa (cfr. V. Zagrebelsky, Suicidio assistito, la legge negata, in La Stampa, 24 febbraio 2021, sulla lettera di Mario C.) lo dimostra chiaramente: prima di pensare a quale ruolo dovrebbero o potrebbero avere i Comitati etici, dobbiamo ragionare su come concretamente si può avviare il procedimento disegnato dal giudice costituzionale ormai più di un anno fa, in attesa che il legislatore intervenga a colmare evidenti vuoti di effettività. In questo senso, la Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana, con il parere 2/2020, prendendo atto degli esiti della decisione, ha cercato di affrontare le immediate ripercussioni della sentenza costituzionale sull’organizzazione sanitaria regionale.
Prof. Carlo Casonato
La Corte affida alle strutture del SSN il compito di verificare la concreta presenza delle quattro condizioni menzionate e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, che dovranno essere tali “da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. Inoltre, vista la delicatezza dei valori in gioco, la Consulta richiede “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Tale organo dovrebbe essere rappresentato dai comitati etici per l’etica clinica di cui alcune, ma non tutte le realtà territoriali, dispongono; in loro assenza, tale responsabilità è affidata ai comitati etici per la sperimentazione clinica.
Come anticipato, tali compiti non possono essere disattesi a pena di non contraddire il disegno tracciato dalla Corte e, quindi, di instaurare una situazione non compatibile con il quadro costituzionale. Su queste basi, le strutture del SSN e i comitati etici devono attivarsi per prendere in carico ogni richiesta di aiuto.
Da un punto di vista procedurale, sarebbe peraltro utile, pur nelle more della legge invocata dalla Corte, un decreto ministeriale o forse anche una circolare, che precisasse alcuni passaggi necessari, come i tempi (necessariamente rapidi) da rispettare e il carattere (presumibilmente obbligatorio ma non vincolante) del parere del comitato. Pur in assenza di una normativa nazionale di riferimento per la costituzione dei comitati etici per l’etica clinica, inoltre, sarebbe molto utile che tutte le realtà territoriali si attivassero per la loro costituzione, a motivo del fatto che i comitati etici per la sperimentazione, per composizione e per attività ordinariamente esercitata, non appaiono i più adatti a svolgere l’assegnato compito di verifica delle situazioni di vulnerabilità.
Prof. Giacomo D’Amico
Com’è noto, la Corte costituzionale, nella sent. n. 242 del 2019 (ma non anche nell’ord. n. 207 del 2018) si è fatta carico, «[n]elle more dell’intervento del legislatore», dell’onere di “costruire” una «procedura medicalizzata» analoga a quella prevista nella legge n. 219 del 2017. In questa procedura trovano spazio i comitati etici territorialmente competenti, il cui intervento si giustifica – nella prospettiva del Giudice delle leggi – sia per la loro composizione (la Corte discute di «un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità»), sia per le loro attribuzioni («[t]ali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici»).
In questa prospettiva, i comitati etici costituiscono uno strumento per salvaguardare la posizione dei «soggetti vulnerabili». Invero, il riferimento a questi organi risulta non privo di un certo tasso di creatività, specie se si considera che l’attività di questi comitati è a tutt’oggi caratterizzata da forti ambiguità. Si allude ad ambiguità che investono sia la loro reale indipendenza dall’amministrazione sanitaria presso cui sono incardinati sia la loro stessa mission; in altre parole, essi ampliano o restringono il dibattito pubblico sulle questioni etiche? (su questi aspetti E. Furlan, Comitati etici in sanità. Storia, funzioni, questioni filosofiche, Milano 2015, spec. 34 ss.).
A ciò si aggiunga il carattere di precarietà che li contraddistingue e che certamente non favorisce la loro autonomia e indipendenza, riconosciuto dallo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica (I Comitati per l’etica nella clinica, 31 marzo 2017, 3), che già in passato ne aveva sottolineato gli aspetti problematici (I Comitati etici, 27 febbraio 1992; I Comitati etici in Italia: problematiche recenti, 18 aprile 1997; Orientamenti per i Comitati etici in Italia, 13 luglio 2001).
Come si vede, dunque, il riferimento ai Comitati etici risulta alquanto audace, non potendosi, in base al quadro normativo vigente, immaginare il loro intervento al di fuori delle ipotesi espressamente indicate dalla stessa Corte, vale a dire «al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante “Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”)».
5. La Corte costituzionale ha riconosciuto ai sanitari la possibilità di opporsi all’aiuto al suicidio per ragioni di coscienza. L’obiezione di coscienza ha lo stesso rango costituzionale del diritto all’autodeterminazione terapeutica? Entro quali coordinate essa può essere riconosciuta ed esercitata?
Prof. Stefano Agosta
Singolare, innanzitutto, è che all’obiezione di coscienza del personale sanitario il giudice delle leggi pare aver voluto dedicare uno spazio (quantitativo) ed un approfondimento (qualitativo) inversamente proporzionale all’importanza che ad essa invece dovrebbe comprensibilmente spettare in un campo talmente delicato come quello in discussione (a meno di non volersi rassegnare all’idea dell’ennesimo diritto proclamato ma non praticato e, per ciò, malinconicamente relegato nel cono d’ombra di una sostanziale ineffettività): la natura bifronte di ogni diritto – ivi (se non soprattutto) compreso proprio quello del ammalato a vedersi somministrati farmaci con proprietà abbrevianti della vita – dovendo necessariamente convertirsi, d’altro canto, nella imposizione, anche “mite”, di un frontistante dovere altrui.
Mentre, ad ogni modo, ci si può ancora confrontare sull’esistenza per il singolo medico in concreto di un vero e proprio obbligo oppure di una mera facoltà di dare seguito alla richiesta del malato – a seconda se sia, ad esempio, possibile intravedere una continuità ovvero una discontinuità con quanto già disposto in tal senso dalla l. n. 219 cit. (ovvero che si vogliano o meno sottovalutare le esiziali ricadute che un siffatto dovere potrebbe provocare per la professionalità dell’intera categoria medica) – non ugualmente può certo dirsi in capo al sistema sanitario nel suo complesso interamente considerato. Con l’inevitabile corollario, insomma, che ogni struttura pubblica di riferimento dovrà costantemente garantire la presenza e la disponibilità di almeno un medico non obiettore.
Dott.ssa Lucia Busatta
Allo stato attuale, non possiamo parlare di un vero e proprio diritto all’obiezione di coscienza per i medici, poiché la Corte non crea in capo ad essi un obbligo giuridico. Se si presenterà il caso, dunque, i medici potranno eventualmente richiamarsi alla clausola di coscienza prevista all’art. 22 del loro codice di deontologia medica.
In assenza di una legge che definisca il procedimento da seguire e le modalità per realizzare un intervento di assistenza al morire, a mio avviso, è difficile individuare precisamente i confini dell’obbligo di intervento del medico e la sua possibilità di sottrarsi ad esso. Anche per questo serve una legge: per chiarire ai medici (anche a quelli che vorrebbero poter aiutare persone nelle condizioni di Fabiano Antoniani o di Davide Trentini a trovare una morte dignitosa, non solo a quelli che non vorrebbero farlo) quali sono i termini del loro obbligo professionale.
L’intervento legislativo, dunque, è dovuto non solo per i pazienti, ma anche e soprattutto per i professionisti della salute che scelgono di dedicare la propria vita alla cura e alla salute degli altri e che per svolgere al meglio la propria professione devono potersi muovere entro un terreno giuridico chiaro e certo.
Prof. Carlo Casonato
In realtà la sentenza si limita a “escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”. In questo senso, non è necessario attivare in termini propri l’istituto dell’obiezione di coscienza, con i relativi limiti, tempistiche, procedure ecc., come ad esempio previsto per la legge n. 194 del 1978 in riferimento all’interruzione volontaria di gravidanza. In termini concreti, così, ogni professionista può decidere del tutto liberamente la propria disponibilità o meno all’aiuto al suicidio. Anche a motivo dell’incertezza che questo assetto potrebbe provocare, tale profilo dovrebbe essere affrontato specificamente nella legge che il Parlamento – mi auguro – non tarderà troppo ad approvare.
Prof. Giacomo D’Amico
Quanto alla possibile obiezione di coscienza dei medici, la sua previsione nella «procedura medicalizzata» costruita dalla Corte, pur apparendo in una certa misura scontata, non è priva di venature problematiche. Se è vero, infatti, che lo stesso Giudice delle leggi si fa carico di precisare che dalla declaratoria di incostituzionalità non deriva «alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», restando affidato «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (sent. n. 242 del 2019, punto 6 cons. dir.), è altrettanto vero che l’obiezione di coscienza non può avere lo stesso rango del diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Utili sono al riguardo le considerazioni svolte dalla Corte, in alcune risalenti pronunce, in relazione a due vicende tra loro profondamente differenti: l’obiezione di coscienza all’aborto e quella al servizio militare. In particolare, si segnalano, per la loro pertinenza rispetto al tema del quesito, la sent. n. 467 del 1991 e la sent. n. 43 del 1997, entrambe relative all’obiezione al servizio militare.
Nella prima, la Corte ha affermato che «la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico». In questa prospettiva «la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana».
Ciò nondimeno, la Corte ha precisato che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili», «se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale».
Dunque, non di un diritto assoluto si deve discutere, ben potendo il legislatore bilanciare la previsione di esenzione dall’assolvimento di doveri pubblici con l’esigenza di tutela di doveri o beni di rilievo costituzionale.
Ancora più esplicita è la Corte nella sent. n. 43 del 1997, nella quale si puntualizza che la protezione dei c.d. diritti della coscienza «non può ritenersi illimitata e incondizionata». Spetta, infatti, «al legislatore stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà ch’essa reclama, da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la Costituzione (art. 2) impone, dall’altro, affinché l’ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi».
Se dunque, da un punto di vista teorico, è chiaro il carattere “non illimitato” e “non incondizionato” del diritto all’obiezione di coscienza, non altrettanto semplice è definire in concreto le coordinate entro le quali essa può essere esercitata nell’ambito delle ipotesi (rese dall’intervento della Corte) lecite di aiuto al suicidio. La difficoltà nasce dalla fondamentale constatazione che l’obiezione di coscienza non è stata qui configurata dal legislatore, delineandone magari presupposti e condizioni, bensì dalla Corte in un passaggio abbastanza sbrigativo della pronuncia.
Più che definire le coordinate, si può dunque tentare di delineare i confini di questa ipotesi di obiezione di coscienza: innanzitutto, non deve avere carattere pretestuoso (come emblematicamente avvenuto nel caso di recente deciso dalla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 9-15 febbraio 2021, n. 3780, a proposito dell’asserita obiezione di coscienza di un magistrato in relazione al ricorso all’aborto da parte di una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare); in secondo luogo, l’obiezione di coscienza del medico in relazione a condotte di aiuto al suicidio non può determinare la sostanziale vanificazione del diritto del paziente, gravando quindi sui responsabili delle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale (espressamente individuate nella sent. n. 242 del 2019) la responsabilità di assicurare la presenza di medici non obiettori.
È dunque sul versante del bilanciamento «con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale» che si può configurare un diritto del medico all’obiezione di coscienza.
In conclusione, vale la pena ricordare che analoghi problemi sono stati affrontati dal Bundesverfassunsgericht nella sentenza del 26 febbraio 2020, nella quale, pur riconoscendo un diritto alla morte autodecisa, il Tribunale costituzionale tedesco ha precisato che «il singolo deve, fondamentalmente, sopportare la mancanza di disponibilità medica individuale all’aiuto al suicidio come decisione tutelata dalla libertà di coscienza della persona che gli sta di fronte. Dal diritto alla morte autodecisa non deriva alcuna pretesa nei confronti di terzi ad essere sostenuti nella propria decisione a suicidarsi».
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nella sentenza del 2019 la Corte afferma che «resta affidato […] alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato», giacché la sentenza stessa «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Questo passaggio è cruciale, sia perché la Corte si discosta dal «preciso punto di riferimento» normativo che essa stessa aveva assunto, ossia la l. 219/2017, che non prevede alcuno spazio per l’obiezione di coscienza dei medici in caso di rifiuto o rinuncia a trattamento sanitario anche salva vita; sia perché l’«impellente esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore», che la Corte assume a ragione giustificativa della sua sentenza, mostra di non essere davvero tale, se i supposti “diritti fondamentali” vengono poi degradati a mere “richieste”: come più sopra detto, se sui medici non ricade alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio richiesto dal paziente, questi non può dirsi titolare di alcun diritto, meno che mai fondamentale.
Neppure si può dire che, se il singolo medico è libero, le strutture pubbliche del servizio sanitario sono invece vincolate a garantire il suicidio medicalmente assistito, trovando altro medico a ciò disposto: in capo ad esse la Corte pone solo oneri di verifica delle condizioni del paziente e delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, non anche di esecuzione dello stesso.
Nelle mani del paziente che si trovi nelle condizioni indicate dalla Corte, resta dunque solo la libertà di richiedere l’aiuto al suicidio, che il medico ha la libertà di accogliere oppure rifiutare. Due libertà che si fronteggiano: possono incontrarsi e fondersi, oppure restare su binari separati e paralleli. Nessun diritto, nessun dovere. Questa costruzione è il chiaro sintomo della fragilità del fondamento costituzionale del supposto diritto all’aiuto al suicidio. All’opposto, il rifiuto o la rinuncia di trattamenti terapeutici, anche salva-vita, gode del solido fondamento dell’articolo 32.2 Cost., ed è questa la ragione per la quale correttamente la legge del 2017 non consente alcuna obiezione di coscienza al medico.
6. Quali soluzioni hanno individuato gli altri ordinamenti (in special modo europei)? Quali suggerimenti potrebbe cogliere il legislatore da queste esperienze?
Prof. Stefano Agosta
Il sempre maggiore rilievo che la comparazione giuridica è andata nel corso degli ultimi anni acquistando, tanto nelle esperienze di giustizia costituzionale che in quelle di normazione, è dato, ormai, di comune riconoscimento – al punto che non metterebbe quasi conto evidenziarlo [non poche volte ne ha, tra gli altri, discorso A. RUGGERI, ad esempio, nei suoi Comparazione giuridica e certezza del diritto costituzionale, in www.diritticomparati.it (28 luglio 2015); Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie e La garanzia dei diritti costituzionali tra certezze e incertezze del diritto, entrambi in www.giurcost.org, rispettivamente, 18 dicembre 2019, part. 719 ss., e 26 marzo 2020, spec. 172 ss.] – ed anche la materia che oggi ci occupa non fa invero eccezione.
Lasciando per il momento da parte il versante, per così dire, processuale della comparazione – con riferimento, cioè, a quelle tecniche decisorie (adottate non solo in Gran Bretagna e Canada ma, pure, in Germania) cui il nostro Tribunale costituzionale dimostra di aver guardato nella conduzione del proprio processo costituzionale – per soffermarci adesso sul solo profilo sostanziale, non vi è dubbio che molteplici potrebbero essere le soluzioni astrattamente prospettabili al legislatore italiano. Nella perdurante assenza della maturazione di un sufficiente grado di consensus europeo sul punto, assai esemplificativi potrebbero così rivelarsi i modelli di disciplina assunti da taluni paesi a noi più vicini come Belgio, Olanda e Svizzera (ad oggi ancora alla ribalta delle cronache nostrane, nondimeno, più per il cospicuo flusso di turismo c.d. eutanasico che li interessa che non quale fruttuoso esempio di buona normazione cui eventualmente ispirarsi).
A prescindere dall’oggettiva esiguità dei modelli comparati di disciplina attualmente disponibili quindi per il Parlamento – e volendo momentaneamente accantonare il merito delle misure in concreto importabili nel nostro paese – è pur vero che, nel metodo, quel paventato rischio rappresentato da normative che per attendere ad una singola, drammatica ed eccezionale, vicenda hanno finito radicalmente per mutare lo stesso approccio medico-culturale di un’intera nazione alla sofferenza ed alla dignità della vita dei soggetti più vulnerabili non dovrebbe mai essere perso di vista nemmeno dal nostro legislatore.
Non meno vero, tuttavia, è che tale pericolo neppure troppo dovrebbe essere però enfatizzato, se non si voglia del tutto sopprimere sul nascere qualsivoglia tentativo – per quanto laborioso e difficile possa in concreto rivelarsi – di riforma della materia in commento.
Dott.ssa Lucia Busatta
Le soluzioni in campo sono molte e fra loro assai differenti: ci sono ordinamenti che hanno valorizzato la dimensione di autonomia individuale del paziente, riducendo quindi molto il ruolo del medico (Oregon e California, ad esempio). Ci sono altri Stati il perno è costituito dalla procedura da seguire (Paesi Bassi, Belgio).
La strada da fare, per molti Paesi, è ancora tanta, come dimostrano le recenti sentenze in Austria e in Germania, mentre altri sono recentemente giunti all’approvazione di testi legislativi, che ora saranno passeranno alla prova dei fatti (v. Spagna e Portogallo).
A mio avviso, anche sulla scorta di ciò che l’esperienza pandemica ci sta insegnando, va salvaguardata la centralità del sistema sanitario nazionale, al fine di garantire a tutti in maniera eguale sul territorio nazionale tale possibilità di compiere questa scelta, con tutte le tutele dovute. In questo senso, la struttura pubblicistica e articolata del nostro Sistema sanitario è insostituibile per svolgere questo necessario ruolo di garanzia.
L’esperienza che, sopra a tutte, a mio avviso il legislatore dovrebbe seguire è, però, interna ed è quella del dialogo e del «paziente lavoro di confronto e di ricerca di soluzioni concrete» che ha portato, infine, all’approvazione della legge n. 219 del 2017 (le parole citate sono di Donata Lenzi, relatrice della legge alla Camera): un testo attento, equilibrato e inclusivo, capace cioè di abbracciare i diversi orientamenti valoriali individuali e di salvaguardare il ruolo della professione medica. Su questa strada dovrebbe, a mio parere, muoversi con celerità un legislatore consapevole e volenteroso di dar seguito alla leale collaborazione istituzionale invocata dalla Corte stessa.
Prof. Carlo Casonato
Il panorama di diritto comparato sul fine-vita è molto ampio e variegato. In termini generali, tuttavia, colgo una crescente tendenza all’ampliamento del ruolo riconosciuto alla volontà della persona; ampliamento che dal consenso informato sta transitando verso una più comprensiva tutela dell’autodeterminazione individuale. Mi spiego.
Le origini storiche del consenso informato possono essere ricercate nel diritto al rifiuto, il quale si riferisce non tanto ad un principio complessivo di autodeterminazione della persona, quanto, più semplicemente, al diritto di non essere sottoposti a trattamenti medici contro la propria volontà (right to refuse). Tale diritto trova negli Stati Uniti dei primi del ’900 i suoi primi riconoscimenti (sent. Mohr v. Williams, 104 N.W. 12, Minn. 1905, della Corte Suprema del Minnesota). Il principio dell’informed consent, così, si riferisce al diritto del paziente di autorizzare i medici a procedere con un intervento che altrimenti avrebbe costituito un reato contro l’integrità fisica del malato. Si trattava, quindi, dell’autorizzazione a intervenire con procedure invasive sul corpo del malato; autorizzazione che escludeva il carattere altrimenti illecito delle stesse. In questo modo, si vennero a fissare le coordinate di un principio che si riferiva strettamente alla tutela della dimensione fisica, corporale della persona (“bodily integrity” e “immunity from physical interference”, nelle parole della Corte).
Con il passare degli anni e con i progressi della medicina e della sensibilità sociale e giuridica, i limiti di questa impostazione, tutta e solo fisica, sono divenuti troppo stretti. Sono quindi ormai moltissimi i casi, da DJ Fabo e Davide Trentini a Gloria Taylor (Canada), da Daniel James (Regno Unito) a Vincent Lambert e Chantal Sébire (Francia), da Ramón Sampedro e María José Carrasco (Spagna) a Timothy Quill, Harold Glucksberg, Robert Baxter e Brittany Mainard (USA), in cui non si chiede una tutela della dimensione corporale, ma il rispetto di una ben più ampia autodeterminazione e di un complessivo orizzonte di valori: di una precisa e consapevole idea di sé e delle proprie prospettive esistenziali. Tali considerazioni portano a ridefinire la natura del consenso che, anziché avere come oggetto la mera dimensione fisica e come fine la sua integrità, si espande verso un più ampio concetto di autodeterminazione individuale, giungendo ad avere per oggetto l’identità personale (la struttura, in senso lato morale, della persona) e per obiettivo il suo rispetto e la sua promozione.
Tale tendenza mi pare ormai largamente affermata a livello comparato, anche se sono diversi, in ogni Stato, il grado di avanzamento, le forme e le modalità con cui si presenta. Così, solo per fare qualche esempio, il Regno Unito mantiene il reato di assistenza al suicidio, ma ne limita la perseguibilità concreta grazie alla prosecutorial discretion e alle direttive impartite dal Director of Public Prosecutions, mentre la Spagna adotterà a breve una legge che apre decisamente tanto all’assistenza al suicidio quanto all’eutanasia. Il Canada ha ormai da anni una normativa sull’aiuto al morire (Medical Assistance in Dying, 2016) e si accinge ora ad espanderne i termini di applicazione, mentre la Germania ha visto una sentenza del secondo senato del Bundesverfassungsgericht (26 febbraio 2020) che radica all’interno dei concetti costituzionali di libertà e dignità un amplissimo diritto all’autodeterminazione nel morire. “L’art. 1 del Grundgesetz” secondo le parole dei giudici tedeschi “garantisce la libertà dell’uomo, per come egli stesso si concepisce nella propria individualità […]. Elemento determinante è la volontà del suo titolare, che si sottrae a qualsiasi apprezzamento svolto alla stregua di valori generalmente accettati, di precetti religiosi, di modelli socialmente acquisiti sulla vita e sulla morte […]. La decisione del singolo, di porre fine alla propria vita sulla base della propria concezione della qualità della vita e del senso della propria esistenza, è nel momento finale un atto frutto di un’autonoma determinazione che lo Stato e la società devono rispettare”. E ancora: “[i]l diritto di uccidersi non può essere negato sostenendo che il suicida si privi della propria dignità, poiché egli contemporaneamente rinuncia al presupposto della sua autodeterminazione e con ciò alla sua soggettività [..] È vero che la vita è la base fondamentale della dignità umana. […] Da ciò, tuttavia, non si può dedurre che il suicidio compiuto sulla base di una volontà libera sia un atto contrario alla dignità umana […] La libera ed autonoma disposizione della propria vita è, al contrario, diretta espressione dell’idea – insita nella dignità – del libero sviluppo della personalità. Essa è, per quanto l’ultima, un’espressione di dignità. […] La dignità dell’uomo è, dunque, non un limite all’autodeterminazione della persona, ma piuttosto il suo fondamento”.
Con queste parole, la giustizia costituzionale comparata del fine-vita si è arricchita di una posizione robusta e coerente che, riecheggiando alcuni profili di una risalente pronuncia colombiana (C-239/1997), mi pare costringa ogni Stato di derivazione liberale ad un franco confronto con la sua logica stringente.
Prof. Giacomo D’Amico
La comparazione giuridica con altri ordinamenti costituisce senza dubbio uno degli argomenti che fa più presa sui giudici chiamati a risolvere questioni eticamente controverse. Al contempo, però, essa si rivela estremamente problematica, dovendosi “tarare” le argomentazioni “importate” sulla base delle peculiarità degli ordinamenti presi in considerazione. Pur con queste avvertenze, non v’è dubbio che la circolazione delle argomentazioni delle Corti (genericamente intese) costituisce un fattore formidabile di quella tendenza alla formazione di un diritto comune europeo in materia di tutela dei diritti (G. Silvestri, Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Quad. cost., 1/2006, 7 ss.), se non di un diritto globale o, quantomeno, di un linguaggio comune globale.
Nella specifica tematica di cui si discute in questa sede, non può non balzare agli occhi l’esplicito richiamo, compiuto dalla Corte nell’ord. n. 207 del 2018, alla decisione della Corte Suprema del Canada del 6 febbraio 2015. In particolare, è significativo che il nostro Giudice delle leggi abbia tratto ispirazione da questa pronunzia per la scelta della tecnica decisoria da adottare. Nel caso Carter contro Canada (nel quale veniva in rilievo una normativa analoga a quella dell’art. 580 c.p.), infatti, «i supremi giudici canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l’efficacia della decisione stessa, proprio per dare l’opportunità al parlamento di elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza della decisione». In senso analogo si era espressa poco meno di un anno prima la Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri.
Ma, tornando alla vicenda canadese, di particolare importanza è il fatto che a quella pronunzia della Corte Suprema ha fatto seguito l’adozione della legge 16 luglio 2017 sulla c.d. aide médicale à mourir che ha novellato il Code criminel prevedendo una procedura medicalizzata molto simile a quella delineata dalla nostra Corte. In sintesi, si prevede che la persona debba essere affetta da problemi di salute grave e incurabili tali da causargli sofferenze fisiche o psicologiche persistenti e insopportabili, che la sua richiesta di aiuto medico a morire sia stata formulata per iscritto, in modo chiaro e dopo che l’interessato sia stato informato della possibilità di avvalersi di cure palliative. Si prevede, altresì, la possibilità che la richiesta di aiuto medico a morire sia formulata da persona incapace di esprimere la propria volontà.
Guardando, invece, al vecchio continente, particolarmente interessante è la vicenda del decreto dell’Assemblea della Repubblica portoghese, che regula as condições em que a morte medicamente assistida não è punível e altera o Código Penal. Questo decreto, approvato con un’ampia maggioranza il 29 gennaio 2021, è stato però impugnato in via preventiva dal Presidente della Repubblica portoghese (in data 18 febbraio 2021) sull’assunto del carattere indefinito delle condizioni di non punibilità individuate dal legislatore.
In particolare, le censure del Presidente portoghese si sono appuntate sui concetti di «situação de sofrimento intolerável» e di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico», dovendosi, al contempo, escludere che l’insufficiente definizione legislativa possa essere corretta in sede di attuazione della stessa.
Il Tribunale costituzionale, con l’acórdão n. 123 del 15 marzo 2021, ha ritenuto che il primo concetto («situação de sofrimento intolerável») sia comunque determinabile nei casi concreti, ma che la nozione di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico» non delimiti con sufficiente rigore le situazioni che possono giustificare la depenalizzazione della morte medicalmente assistita. Pertanto, con una decisione assunta a maggioranza (sette favorevoli e cinque contrari, peraltro con sei opinioni concorrenti e quattro dissenzienti), il Tribunale costituzionale ha ritenuto incostituzionale la norma in questione e, di conseguenza, il decreto, dopo il veto del Capo dello Stato, è ritornato all’esame dell’Assemblea della Repubblica.
Il decreto in parola aveva novellato alcuni articoli del Código Penal prevedendo una serie di condizioni per l’avvio del procedimento di morte medicalmente assistita (la volontà doveva essere attuale e reiterata, seria, libera e chiara). La richiesta doveva essere presentata a un medico scelto dall’interessato ma doveva essere sottoposta a un medico specialista e a uno psichiatra. Di particolare interesse era la previsione del parere favorevole della Comissão de Verificação e Avaliação, composta da due giuristi, da un medico, da un infermiere e da uno specialista di bioetica. Tutti i soggetti e organi coinvolti avrebbero dovuto esprimere parere favorevole, perché altrimenti il procedimento si sarebbe arrestato.
La normativa portoghese prevedeva, inoltre, il diritto all’obiezione di coscienza a favore dei medici e sanitari coinvolti nel procedimento.
La decisione del Tribunal constitucional – che richiama le due decisioni della Corte costituzionale sul caso Cappato, oltre a un’intervista de Il Fatto Quotidiano a G. Zagrebelsky – non sembra però preclusiva di un nuovo intervento legislativo. I giudici costituzionali si sono infatti preoccupati di precisare che non è preclusa al legislatore la possibilità di disciplinare l’anticipazione della morte tramite assistenza medica; devono, però, essere rispettati alcuni limiti, come la volontarietà della collaborazione dei terzi chiamati a intervenire e la piena autodeterminazione della persona interessata (punto 33: «No entanto, na conformação de tal regulação, o legislador tem de observar limites, designadamente os que decorrem dos deveres de proteção dos direitos fundamentais que estão em causa na antecipação da morte medicamente assistida a pedido da própria pessoa. Para além da salvaguarda da voluntariedade da colaboração dos terceiros, maxime a possibilidade de os mesmos invocarem objeção de consciência, impõe-se a proteção da autonomia e da vida da própria pessoa que pretende antecipar a sua morte. Esta encontra-se numa posição vulnerável, razão acrescida por que deve ser defendida contra atuações precipitadas ou determinadas por pressões sociais, familiares ou outras. Está em causa a adoção de uma decisão cuja concretização se traduz num resultado definitivo e irreversível, pelo que a mesma só deve ser atendida desde que existam garantias suficientes de se tratar de uma genuína expressão da autodeterminação esclarecida de quem a toma. Ora, é no quadro da definição de tais garantias que assume relevância a importância objetiva do bem vida»).
Di particolare interesse è proprio l’ultima affermazione del passo sopra riportato in cui il Tribunale costituzionale precisa che, (solo) alla luce della definizione di queste garanzie, il bene vita assume una rilevanza oggettiva.
Un’altra iniziativa interessante in tema di legalizzazione dell’eutanasia si registra, di recente, in Spagna, con l’approvazione della legge organica n. 3 del 24 marzo 2021, che ha disciplinato l’eutanasia modificando l’art. 143 del Codice penale. Questa legge prevede che l’eutanasia possa essere richiesta dalle persone con infermità grave e incurabile o con infermità grave, cronica e invalidante, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche. È previsto che la richiesta debba essere scritta, assunta in piena coscienza dall’interessato e confermata più volte nel corso del procedimento. La verifica della sussistenza delle condizioni è rimessa a una commissione di garanzia interna al Sistema sanitario nazionale (Comisión de Garantía y Evaluación). Anche nei confronti di questa legge sono già preannunciati ricorsi al Tribunale costituzionale (soprattutto da parte del Partito popolare e di Vox).
Come si vede da questa rapida panoramica, alcuni punti fermi sembrano ormai acquisiti: la necessaria procedimentalizzazione dell’iter con il pieno coinvolgimento di specialisti, non solo dell’ambito medico di pertinenza in base alla malattia di cui è affetta la persona interessata, ma anche di bioeticisti e di giuristi; in secondo luogo, il carattere reiterato della richiesta che deve essere più volte confermata e la conseguente revocabilità della stessa in qualsiasi momento; infine, l’individuazione di un organo terzo e dotato al proprio interno delle competenze necessarie per la verifica della sussistenza delle condizioni richieste.
Anche con queste indicazioni – oltre che con quelle della nostra Corte costituzionale – il legislatore italiano si dovrà confrontare se non vorrà incorrere in un’altra esperienza fallimentare come quella che tuttora connota la normativa in materia di procreazione medicalmente assistita. Dunque, quanto mai opportuno è l’auspicio di un intervento da parte di un «legislatore pensante» (secondo quell’espressione che dà il titolo a questa rubrica). Utili mi sembrano sul punto le conclusioni formulate da Cass. R. Sunstein ormai più di venti anni fa: «It is not the Supreme Court but these other arenas – state legislatures, prosecutor’s office, hospitals, and private homes – that should decide whether, when, and how to legitimate a “right to die”» [The Right to Die, 106 Yale Law Journal (1997), 1163].
Questa frase non reca una semplice devoluzione di ogni “responsabilità” al legislatore, anzi tutt’altro!
In essa sono racchiuse tutte le istanze che in questi casi devono essere tenute in considerazione e da queste è difficile prescindere.