BIGENITORIALITÀ NELLE SEPARAZIONI
Questo documento è stato presentato dall’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), dal 1992 la società scientifica di riferimento nazionale per gli psicologi che lavorano nelle Università e negli Enti di ricerca, e dalla CPA (Conferenza della Psicologia Accademica), Conferenza che riunisce gli Atenei e/o i Dipartimenti presso i quali docenti di materie psicologiche svolgono attività di didattica e ricerca.
Il documento è stato redatto da un gruppo di lavoro congiunto AIP-CPA composto da docenti universitarie e professioniste che operano nella giustizia, esperte nel campo del diritto e della giurisdizione, nonché della specifica materia trattata, ed è stato poi discusso e approvato dai Direttivi delle due Associazioni, al fine di presentarlo nell’audizione al Senato sul DDL n. 735 (noto come “proposta Pillon” dal nome del senatore primo firmatario). Il testo del documento è stato redatto da Annamaria Giannini, Daniela Pajardi, Patrizia Patrizi e Maria Cristina Verrocchio e poi approvato dal Direttivo dell’Associazione
Il superiore interesse della persona minorenne, riconosciuto a livello internazionale e recepito da tutte le normative del nostro Paese, ha costituito il criterio guida con cui è stato esaminato il DDL n. 735 recante norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità. Partendo dal presupposto che la proposta legislativa cerca di affrontare i problemi dell’attuale sistema di affido in caso di separazioni, l’analisi ha tenuto conto delle indicazioni sovra-nazionali in materia e ha evidenziato le possibili ricadute delle soluzioni normative previste sullo sviluppo della persona minorenne sotto il profilo psicologico e relazionale, fondamentale per il percorso di vita e per un’adeguata e armonica formazione della personalità.
Santo Di Nuovo Presidente della Associazione italiana di Psicologia
LA MEDIAZIONE FAMILIARE (ARTT. 1-5)
1. I presupposti perché la mediazione familiare possa costituirsi come risorsa nella gestione dei conflitti
La mediazione familiare è stata pensata come uno strumento diretto a “chiarire le relazioni all’interno di un nucleo familiare e a ripararne le fratture” (Kelly, 2004). Si basa sul presupposto che ci siano le condizioni e la volontà di ripristinare il dialogo tra i genitori che si separano. Sono fondamentali dunque, e non possono derivare solo dal punto di vista legale e giuridico, la consapevolezza da parte dei genitori dell’esistenza di determinati problemi e la disponibilità a mettersi in discussione per risolverli (Roberson, Nalbone, Hecker, & Miller, 2010).
Per risultare efficace, dunque, la mediazione familiare ha come presupposto teorico e metodologico la adesione volontaria delle parti.
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa invita gli Stati membri a “promuovere e, se del caso, sviluppare la mediazione nell'ambito di procedimenti giudiziari in casi che coinvolgono minori, in particolare istituendo una seduta informativa obbligatoria in capo al tribunale, al fine di informare sulle possibilità e i requisiti”.
Quando è presente un legame disfunzionale perdurante è possibile che gli elementi del conflitto si spostino dall’interesse della persona minorenne alla ritorsione sull’altro genitore; in questa tipologia di clima emotivo viene necessariamente a mancare l’opzione di fiducia tra i due genitori, elemento base per la costruzione di una cooperazione in direzione di uno scopo comune.
Perché si possa dare inizio a un iter di mediazione è necessario valutare, quindi, il livello di “mediabilità del conflitto” al fine di comprendere quali situazioni possano trarne vantaggio e quali, proprio a causa di un livello di conflittualità notevolmente elevato, non possono essere affrontate attraverso questa modalità.
La mediazione familiare è, inoltre, esplicitamente esclusa dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul 2011, ratificata dall’Italia nel 2014, quando vi siano denunce per maltrattamento e violenza domestica, incluso il caso della “violenza assistita”, e cioè quando la persona minorenne fa esperienza di qualsiasi forma di maltrattamento, (violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Le ripercussioni della violenza assistita sulle persone minorenni rappresentano violazione dell’art. 147 c.c. perché frutto di deliberata trascuratezza verso gli elementari bisogni di figlie e figli. La violenza assistita intrafamiliare, come dimostrano numerosi studi e ricerche nazionali e internazionali, si verifica soprattutto in nuclei familiari la cui problematicità dura da tempo e nei quali gli episodi di violenza tendono a ripetersi.
2. L’obbligatorietà della mediazione
Secondo il disegno di legge proposto, nel caso in cui ci sia presenza di figli/e d’età minore, la mediazione familiare è contemplata come obbligatoria, quale condizione di procedibilità del giudizio di separazione o divorzio.
Ma che cosa comporterebbe tale obbligo?
Preliminarmente, il carattere di obbligatorietà della mediazione appare non in linea con l’art. 48 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che recita: “Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione".
È necessario, dunque, effettuare una corretta analisi dei contesti familiari poiché, nei casi in cui vi sia una realtà di violenza (Rossi et al., 2015), è previsto che si eviti il contatto tra il soggetto che ha subito abusi e il suo perpetratore al fine di scoraggiare lo scatenarsi di reazioni violente che possano mettere in pericolo uno o più componenti della famiglia (Feresin et al., 2018).
Che i genitori debbano essere messi a conoscenza in modo obbligatorio della mediazione è un’indicazione molto diversa, sul piano teorico e metodologico, dal rendere obbligatoria la mediazione stessa.
In estrema sintesi, non riconoscendo dei criteri di eleggibilità per le procedure di mediazione e rendendola obbligatoria si generano possibili rischi e conseguenze quali:
- obbligare a un trattamento persone contrarie o reticenti,
- condurre una mediazione che verrebbe effettuata sulla base di motivazioni estrinseche,
- ricevere una adesione soltanto formale alla mediazione con sviluppo di piani di inautenticità e resistenze,
- venire meno alla tutela di donne e minori vittime di violenza attraverso l’esposizione forzata ai contatti diretti con l’autore di violenza.
Infine, la mediazione, in mancanza di piani di formazione adeguata delle figure preposte, potrebbe essere affidata ad operatori con generiche competenze, soprattutto non specializzati a riconoscere e supportare vittime di violenza, e quindi privi degli strumenti per assolvere il loro compito in modo efficace.
I “TEMPI PARITETICI O EQUIPOLLENTI” DI FREQUENTAZIONE DEL FIGLIO/A MINORENNE CON I GENITORI (ART. 11)
1. Il miglior interesse della persona minorenne e i tempi di frequentazione
Dal punto di vista psicologico, una modalità di frequentazione con i genitori che sia tutelante per la singola persona minore d’età è una evidente forma di rispetto nei confronti suoi, della sua individualità e delle sue esigenze evolutive. La tutela delle persone minorenni nelle separazioni è stata il centro di una svolta culturale e scientifica già dagli anni ’70, promossa fortemente anche dalla psicologia, che ha portato la persona d’età minore a essere il centro dell’attenzione delle decisioni degli adulti nelle situazioni di conflittualità coniugale e di tutela dei legami. Il criterio ispirato dalla teoria di Goldstein, A. Freud e Solnit del “Best Interest of the Child” (BIOC) (1973,1975,1986) ha influenzato in modo determinante dapprima il sistema giuridico e giudiziario statunitense, poi quello di molti altri Paesi, nonché le pronunce degli organismi sovranazionali.
Anche in Italia, il giudice deve prendere ogni decisione secondo il criterio dell’interesse della persona minorenne. In questo, oltre alla propria valutazione del caso, deve tenere conto anche dell’ascolto di bambine, bambini, e adolescenti, prassi obbligatoria richiesta dalla normativa nazionale ed europea per bambini/e dopo i 12 anni – o anche “di età inferiore se capace di discernimento”: Convenzione dei diritti dell’infanzia di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n.176 (art.12); Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge del 20 marzo 2003 n. 77 (art.6).
2. Effetti psicologici sulle persone minorenni della genitorialità condivisa (Shared parenting) e del collocamento pari-tempo
È opportuno premettere che la letteratura internazionale sui tempi di frequentazione delle persone d’età minore con i genitori separati si è occupata soprattutto della cosiddetta shared parenting, una tipologia di divisione del tempo di convivenza che prevede un range di 35-65% con ciascun genitore e che risulta essere quella non solo più studiata, ma anche più diffusa nelle diverse legislazioni. Questa è la tipologia di divisione del tempo che la letteratura evidenzia come tutelante delle persone minorenni e delle relazioni con i genitori rispetto a forme diffuse che prevedano dei tempi più ridotti, o solo visite da parte di un genitore nella casa del genitore con cui il figlio/a vive, o custodia esclusiva a un genitore. Le situazioni analizzate sono di separazioni conflittuali e non, ma non riguardano i casi in cui siano intervenute condizioni di violenza e abuso, in cui legislazione e letteratura prevedono obbligatoriamente formule di tutela e di frequentazione protetta.
La letteratura scientifica ha pertanto prevalentemente evidenziato l’importanza della shared parenting, quindi di una condivisione di quantità di tempo variabili di figlie e figli con i genitori. Si tratta di un range che prevede anche la modalità del 50% di frequentazione, in genere denominato come “50-50 shared parenting” o “tempo paritetico”: una modalità adottata in alcuni Paesi (in particolare, Svezia, Francia, Belgio, Olanda, Australia) e, comunque, in misura minoritaria. La letteratura scientifica specifica centrata sul tempo obbligatoriamente paritetico è molto limitata. Si sottolinea che nei Paesi dove questo strumento è stato introdotto, il medesimo non viene imposto, ma si tratta di una scelta dei genitori. La decisione sulle quote di tempo da suddividere fra i due genitori, per ottenere una buona probabilità di successo, dipende da specifici fattori: età e genere dei figli, condizioni e disponibilità logistica e temporale dei due genitori, possibilità di supporto nella cura, ecc.
In casi specifici una migliore distribuzione del tempo può permettere a figli/e di avere un genitore più disponibile sul piano di tempo e attenzioni da dedicare a lei/lui, e questo avrebbe ricadute positive per entrambi i genitori; una migliore divisione dei tempi riduce il livello di stress dato dalla mancanza di tempo soprattutto tra le madri (van der Heijden, Poortman e van der Lippe, 2016) e alleviare lo stress può migliorare la qualità della genitorialità (Bartfeld, 2011).
La letteratura evidenzia che la frequentazione pari-tempo con i genitori porta a un miglioramento delle relazioni con i genitori, sorelle e fratelli e con i nonni, ma influisce sulla qualità delle relazioni con la rete sociale esterna alla famiglia (compagni/e, vicinato) (Zartler e Grillenberger, 2017) e comporta un forte impegno da parte dei genitori per tutelare le relazioni amicali dei figli (Prazen et al. 2011), a causa dei frequenti cambiamenti nonché della logistica complessa che tale soluzione più comportare. Questo elemento è da tenere in attenta considerazione per una tutela dell’interesse globale della persona minorenne, in particolare in adolescenza, fase della vita in cui le frequentazioni con i coetanei e le relazioni esterne alla famiglia costituiscono una tappa fondamentale fisiologica per lo sviluppo.
Harris-Short (2010) riporta come in letteratura siano state riscontrate in bambine e bambini alcune preoccupazioni specifiche nelle situazioni di frequentazione pari-tempo: la mancanza di una base unica da chiamare “casa”; problemi creati da programmi frenetici; l’inflessibilità dell’organizzazione; la difficile logistica di vivere tra due case; il sentirsi divisi a metà tra i genitori. Quest’ultimo vissuto e una maggiore esposizione al conflitto tra i genitori sono stati rilevati da McIntosh et al. (2011) come potenziali stressors per i bambini.
Alcuni Paesi hanno condotto ricerche per valutare successo o fallimento di questa modalità di frequentazione. McIntosh e Chisholm (2008) hanno rilevato che bambine e bambini mostravano ancora alti livelli di disagio emotivo un anno dopo la separazione con un collocamento al 50% in un contesto conflittuale. In Australia è emerso come nell’arco di quattro anni il 44% di bambine/i abbia voluto cambiare e avere una residenza di prevalenza, in genere chiedendo di trascorrere più tempo con la madre (McIntosh, 2009). Anche un recente studio condotto nei Paesi Bassi (Poortman e van Gaalen, 2017) evidenzia come un regime di frequentazione paritetico non venga mantenuto nel tempo, a causa di circostanze pratiche e dei bisogni dei bambini/e.
3. Il collocamento pari-tempo tra scelta e imposizione
Diversi contributi (Emery et al. 2005; Fehlberg et al. 2011; Fabricius e Luecken 2007; Harris-Short, 2010; Neale et al.1998; Rhoades, 2008; Viry, 2014) evidenziano alcuni parametri fondamentali perché questo tipo di collocamento possa funzionare:
- che sia una scelta dei genitori
- che ci sia un basso livello di conflittualità tra i soggetti
- che la relazione tra i genitori consenta un clima collaborativo
- che la vicinanza logistica consenta una gestione flessibile, in modo da adattarla alle esigenze di figlie e figli.
Una rassegna sulle diverse posizioni è presente in Nielsen, 2013 e Blomqvist e Heimer, 2016. L’efficacia dell’affido condiviso – che non si può mettere in discussione e che è confermata da numerosi studi - dipende però da numerose variabili in gioco nelle diverse contingenze e fattispecie giuridiche e psico-sociali.
Un’imposizione di legge uguale per tutte le situazioni di separazione non risponde, sul piano psicologico oltre che giuridico, alle premesse perché lo shared parenting possa risultare efficace: l’indicazione che debba essere previsto il collocamento pari-tempo “indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori” (art.11 della proposta di legge) non trova supporto nella letteratura psicologica, che nel valutare gli esiti fa riferimento a scelte ponderate caso per caso.
Il collocamento pari-tempo può essere una soluzione a misura di bambine e bambini, ma deve essere valutato se rispetta gli interessi e i bisogni di quel caso specifico, e non essere imposto per legge, soprattutto quando i criteri fanno riferimento a condizioni dei genitori e non a bisogni di figlie e figli. A questo proposito il DDL prevede che le uniche possibilità che il giudice ha per escludere il pari-tempo, o il minimo dei 12 giorni, limite che corrisponde al 40% e di cui non è chiara la ratio, non essendoci alcun riferimento in letteratura o in altre esperienze internazionali, riguardi comunque solo condizioni dei genitori e non contempli, e neanche citi, specifici bisogni e necessità dei figli/e.
I criteri indicati sono, infatti: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita delle persone d’età minore. È del tutto omesso ogni riferimento a necessità e bisogni dei figli/e, tra cui principalmente: l’età; la relazione intercorrente con l’uno o con l’altro genitore; la situazione logistica rispetto alla scuola; la possibilità di mantenere le relazioni tra pari; particolari condizioni di salute fisica e psichica delle persone minorenni.
Parimenti non vengono prese in considerazione le specifiche esigenze di frequentazione quando uno o entrambi i genitori hanno costituito una nuova famiglia che può anche includere figli di precedenti unioni o nati dalla nuova coppia. Ciò costituisce spesso un elemento cruciale di confusione, a volte di nuovo conflitto, sia tra ex coniugi sia tra ciascuno di essi e i figli. Ne consegue che è di fatto richiesto ai figli delle precedenti unioni uno sforzo adattativo per costruire relazioni con i componenti del nuovo nucleo familiare, e che il tempo di questa frequentazione deve essere adeguatamente accompagnato e graduato, per non mettere a rischio proprio la relazione - che s’intende tutelare - dei figli con ciascun genitore.
Una imposizione di legge per tutti i casi, che non analizzi e prenda in considerazione le reali e specifiche esigenze delle persone di età minore, le diverse fasi evolutive, che riconducono a bisogni diversi, anche in riferimento all’emotività e ai processi di attaccamento e identificazione, alle qualità delle relazioni genitori-figli, alle problematiche logistiche della vita di bambine e bambini (scuola, rapporti con i pari) stabilisce delle regole uguali per tutti, pertanto non corrispondenti al criterio del superiore interesse di bambine, bambini, adolescenti, che va valutato rispetto alla specificità della situazione.
4. Per una soluzione a misura di figlie e figli
L’importanza dei “diritti ed esigenze specifiche di bambine e bambini in diverse fasce di età” è sottolineata dalla Risoluzione 2079 conformemente alle Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di bambino/a (Art. 5.10).
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa va in una direzione opposta a quella del DDL, in quanto indica una personalizzazione del tempo con ciascun genitore in ragione delle esigenze di ciascuno. Raccomanda, infatti, agli Stati membri di: “introdurre nelle loro leggi il principio della residenza condivisa in seguito a una separazione, limitando eventuali eccezioni ai casi di abuso o negligenza sule persone minorenni, o di violenza domestica, con un periodo di tempo in cui il bambino/a vive con ciascun genitore adattato secondo i bisogni e gli interessi di bambine e bambini” (Art. 5.5).
In conclusione, si auspica un aumento degli spazi di frequentazione della persona minorenne con entrambi i genitori che siano definiti in modo personalizzato e adattato ai bisogni di bambine e bambini e non degli adulti e non ricorrendo a soluzioni imposte e omologate per tutte le figlie e i figli e le situazioni.
In questa direzione di incentivazione e personalizzazione, peraltro da tempo avviata in molti Tribunali italiani, può essere un’utile risorsa, specie in casi complessi, la collaborazione di giudici e avvocati con psicologi, psichiatri e neuropsichiatri infantili, quali consulenti del giudice o operatori dei servizi sociali.
LE MISURE PER CONTRASTARE LA COSIDDETTA ALIENAZIONE PARENTALE (ARTT. 17 e 18)
1. Applicazione di provvedimenti quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesta comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi (Art. 17).
In fase di separazione dei genitori o dopo di essa, un figlio/a minore può manifestare rifiuto a incontrare un genitore. Il rifiuto del contatto si riferisce al comportamento di un figlio/a che evita di trascorrere del tempo con un genitore.
Molte possono essere le ragioni: a) normali processi evolutivi (per es. ansia di separazione in bambine/i molto piccoli); b) un certo stile genitoriale caratterizzato da rigidità, rabbia o mancanza di sensibilità nei confronti del bambino/a; c) aver subito direttamente o aver assistito a maltrattamenti in famiglia; d) preoccupazione per un genitore percepito emotivamente fragile (per es. paura di lasciare da solo a casa questo genitore); e) ricostituzione di un nuovo nucleo familiare da parte di un genitore (per es. comportamenti di un genitore che modificano la disponibilità alle visite) (Johnston, 1993; Johnston & Roseby, 1997; Wallerstein & Kelly, 1980); f) comportamenti attuati da un genitore che espongono direttamente figlie e figli d’età minore al conflitto, portandoli a prendere le sue parti e a sviluppare un legame di lealtà insostenibile (Baker & Darnall, 2006).
Esempi di questi comportamenti sono: esternare commenti che esagerano le caratteristiche negative dell’altro genitore mentre raramente si parla di quelle positive, o che sottendono la pericolosità dell’altro genitore, confidare cose da adulti che il figlio/a non deve sapere (difficoltà coniugali e questioni legali ecc.) tali da indurlo a un atteggiamento protettivo verso lui/lei e a un atteggiamento di rabbia verso l’altro genitore, chiedere al figlio/a di spiare o raccogliere segretamente informazioni sull’altro genitore per poi riferirle o chiedere di tenere segrete all’altro genitore cose che in realtà avrebbe dovuto sapere (progetti, spostamenti etc.), esprimere fastidio quando il bambino/a chiede o parla dell’altro genitore, diventare turbato, freddo o distaccato quando il figlio/a si mostra affettuoso verso l’altro genitore, creare situazioni in cui il figlio/a si sente obbligato a mostrare appoggio nei confronti di un genitore o creare i presupposti affinché il figlio/a si arrabbi con l’altro genitore, incoraggiare il figlio/a a fidarsi delle opinioni di un genitore e ad approvarle indipendentemente da tutto (Baker & Ben Ami, 2011; Harman et al., 2018).
Nella letteratura più recente “alienazione genitoriale” è il termine utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore mette in atto comportamenti, come quelli appena descritti, che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (Baker, 2014; Malagoli Togliatti & Verrocchio, 2017). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi esibiscono specifici segni rivelatori e possono essere considerati figli alienati.
Nel dibattito scientifico internazionale, i critici non negano l’esistenza dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale, ma credono che magistrati e psicologi possano trattare questo tipo di “scenario” senza attribuire al bambino una malattia mentale come sosteneva la teoria della P.A.S. (Parental Alienation Syndrome) dello psichiatra Richard Gardner (Gulotta et al., 2015; Malagoli Togliatti & Franci, 2005). L’introduzione della P.A.S. all’interno di una specifica categoria diagnostica è stata definita come la medicalizzazione di un processo essenzialmente giuridico che nulla ha a che vedere con le sindromi psichiatriche infantili (Carrey, 2011). Esistono anche autori che negano l’esistenza sia della P.A.S. sia dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale e che assumono posizioni basate su concettualizzazioni estremistiche ma non su dati di ricerca: nello specifico, affermano che l’alienazione genitoriale non esiste in quanto tutti i figli/le figlie che non vogliono incontrare più il proprio padre sono figli/figlie che hanno subìto abusi (si veda ad esempio Bruch, 2001; Faller, 1998; Meier, 2009; Walker et al., 2004).
Nella letteratura internazionale, molti autori effettuano una distinzione tra estranged children e alienated children (Bernet et al., 2016; Drozd & Olesen, 2004; Garber, 2011). Il termine estraniazione (estrangement) si riferisce al rifiuto di un bambino/a nei confronti di un genitore giustificato “in quanto conseguenza di una storia di violenza familiare, abuso e trascuratezza da parte del genitore rifiutato” (Johnston, 2005; Kelly & Johnston, 2001), mentre il termine alienazione (alienation) si riferisce al rifiuto ingiustificato di un bambino/a nei confronti di un genitore e a “sentimenti e credenze irragionevolmente negative, che sono significativamente sproporzionati all’esperienza attuale del bambino/a con quel genitore” (Johnston, 2005).
È di estrema importanza differenziare il bambino/a alienato da altri bambini e bambine che, invece, per una molteplicità di ragioni possono mostrare condotte di evitamento e di resistenza alla frequentazione con un genitore (Baker, Burkhard & Albertson-Kelly, 2012; Beebe & Sailor, 2017; Bernet, Gregory, Reay & Rohner, 2018; Bernet, Wamboldt, & Narrow, 2016; Drozd & Olesen, 2004; Fidler, Bala & Saini, 2012; Garber, 2009; Geffner, Conradi, Geis & Aranda, 2009; Kelly & Johnston, 2001; Jaffe, Ashbourne, & Mamo, 2010; Jaffe, Johnston, Crooks & Bala, 2008; Jaffe, Crooks & Bala, 2009; Lee & Olesen, 2001; Scharp & Dorrance Hall, 2017; Stoltz, & Ney, 2002).
Una valutazione tecnica delle dinamiche relazionali presenti nel nucleo familiare disgregato, delle motivazioni che sottendono il mancato mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo di un figlio, una figlia minorenne con un genitore e della condizione psichica del figlio/a, costituisce la premessa indispensabile per orientare qualsiasi provvedimento da applicare nell’esclusivo interesse della persona minorenne.
2. L’inversione del collocamento o il collocamento in comunità del/della figlio/a (Art. 18)
Invertire la residenza abituale della persona minorenne oppure limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure disporre il collocamento provvisorio presso apposita struttura specializzata sono interventi che richiedono un’attenta valutazione tecnica in quanto, se attuati inadeguatamente e senza una prognosi delle possibili conseguenze, potrebbero risultare lesivi dell’interesse della persona minorenne. Nel testo del DDL, la decisione con provvedimento urgente di invertire la residenza a favore del genitore alienato ovvero disporre l’affidamento a una struttura (casa famiglia) può essere assunta dal magistrato «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori», cioè senza evidenza né prove. Non è menzionato in proposito, il necessario ascolto del/della minore o di altri soggetti in grado di confermare lo stato di malessere o addirittura di pericolo per le persone minorenni.
La letteratura specialistica indica di invertire la residenza abituale del persona d’età minore, di limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure di disporre il collocamento provvisorio presso una struttura specializzata soltanto nei casi in cui si è accertata la presenza di un condizionamento messo in atto da un genitore sul proprio figlio/a e a cui consegue il rifiuto dell’altro genitore (alienazione genitoriale).
La ragione che sottende tali interventi risiede nel considerare tale condizionamento una forma di abuso (ovvero maltrattamento) psicologico. Secondo l’American Professional Society on the Abuse of Children (APSAC; Binggeli et al., 2001), il maltrattamento psicologico è definibile in termini di comportamenti genitoriali che portano bambine e bambini a sentirsi non amati e che vengono classificati in cinque categorie: rifiutare, terrorizzare, isolare, sfruttare/corrompere e negare responsività emotiva. Come sottolineato da Baker (2014), i comportamenti messi in atto nel processo di alienazione corrispondono chiaramente alle cinque categorie di maltrattamento psicologico incluse nella definizione dell’APSAC.
Esistono due filoni di ricerca che hanno contribuito a sostenere l’associazione tra alienazione genitoriale e maltrattamento psicologico. Il primo è costituito da ricerche che documentano gli effetti negativi sul benessere emotivo di bambine e bambini derivanti dal loro coinvolgimento nel conflitto genitoriale (Amato & Afifi, 2006; Fabricius & Leucken 2007; Krishnakumar et al., 2003; Pruett et al., 2003; Schick, 2002). Il secondo filone è costituito da studi recenti che hanno specificamente analizzato l’associazione tra alienazione genitoriale e abuso emotivo (Baker & Verrocchio, 2013). I comportamenti genitoriali che inducono nei figli/e un conflitto di lealtà possono essere considerati una specifica forma di maltrattamento psicologico in quanto favoriscono in bambine e bambini sentimenti di inutilità e imperfezione (Baker, 2014), nonché comportamenti distorti su di sé e sul mondo che possono stabilizzarsi nel tempo (Baker & Ben-Ami, 2011). Il dato è risultato stabile anche dopo aver controllato l’effetto per variabili di rilievo quali lo status coniugale dei genitori e la qualità della loro relazione (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Si verifica non soltanto una disaffezione nei confronti di un genitore ma anche un’alienazione dal proprio Sé e tale distorsione, nel percorso di sviluppo, può spiegare le associazioni individuate in numerosi studi empirici tra la percezione di comportamenti attuati da un genitore che ha esposto direttamente figlie e figli al conflitto nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e un funzionamento psicologico compromesso in età adulta (Baker & Ben Ami, 2011; Bernet et al., 2015). La letteratura ha dimostrato, inoltre, che l’abuso psicologico risulta correlato, a lungo termine, ad esiti peggiori di salute fisica e mentale rispetto ad altre forme di maltrattamento (Burns et al., 2010; Iwaniec, 1997; Weiss et al., 2013).
I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano, senza dubbio, la necessità di individuare interventi efficaci in grado di aiutare questi figli e figlie affinché diventino adulti psicologicamente sani. I risultati di alcune rassegne (Saini et al., 2016; Templer et al., 2017; Verrocchio & Marchetti, 2017) hanno evidenziato che nel panorama internazionale vengono proposte forme di intervento per l’alienazione genitoriale che variano sia in funzione della gravità e della persistenza della dinamica relazionale disfunzionale sia del componente del nucleo familiare al quale si rivolgono.
Dalla letteratura emerge la necessità di: a) effettuare un’adeguata valutazione clinico-diagnostica per comprendere le dinamiche relazionali, i fattori che hanno contribuito al rifiuto e alla disaffezione del figlio/a nei confronti del genitore, la condizione psicologica e psicopatologica di tutti i componenti del nucleo familiare, nonché gli eventuali fattori di protezione; b) fornire un supporto professionale che miri a ripristinare la relazione drammaticamente interrotta tra un figlio/a e un genitore a seguito di separazioni altamente conflittuali; c) attuare un intervento coatto, su disposizione del giudice, che preveda un cambiamento di affidamento o il collocamento in una struttura specializzata nei casi di alienazione grave, ossia i casi in cui una figlia/o rifiuta con astio e disprezzo di incontrare un genitore in quanto condizionato dall’altro genitore. L’assunto di base è che risulta necessario allontanare il bambino/a da un ambiente nocivo sul piano relazionale, per interrompere l’abuso psicologico considerate le conseguenze negative e patologiche che questo ha sulla strutturazione del Sé.
Occorre precisare, tuttavia, che gli studi sull’efficacia del cambiamento di collocamento o dell’inserimento in una struttura specializzata e dei programmi statunitensi di riunificazione (Dunne & Hendrick, 1994; Rand et al., 2005; Reay, 2015; Sullivan et al., 2010; Warshak, 2010) sono ancora esigui e presentano alcune limitazioni metodologiche.
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[1] Le voci citate sono riferite alle diverse posizioni citate nel testo, e offrono una panoramica della variegata tipologia di ricerche e relativi risultati, spesso controversi, sui complessi problemi trattati nella relazione.
Questo documento è stato presentato dall’AIP (Associazione Italiana di Psicologia), dal 1992 la società scientifica di riferimento nazionale per gli psicologi che lavorano nelle Università e negli Enti di ricerca, e dalla CPA (Conferenza della Psicologia Accademica), Conferenza che riunisce gli Atenei e/o i Dipartimenti presso i quali docenti di materie psicologiche svolgono attività di didattica e ricerca.
Il documento è stato redatto da un gruppo di lavoro congiunto AIP-CPA composto da docenti universitarie e professioniste che operano nella giustizia, esperte nel campo del diritto e della giurisdizione, nonché della specifica materia trattata, ed è stato poi discusso e approvato dai Direttivi delle due Associazioni, al fine di presentarlo nell’audizione al Senato sul DDL n. 735 (noto come “proposta Pillon” dal nome del senatore primo firmatario).
Il superiore interesse della persona minorenne, riconosciuto a livello internazionale e recepito da tutte le normative del nostro Paese, ha costituito il criterio guida con cui è stato esaminato il DDL n. 735 recante norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità. Partendo dal presupposto che la proposta legislativa cerca di affrontare i problemi dell’attuale sistema di affido in caso di separazioni, l’analisi ha tenuto conto delle indicazioni sovra-nazionali in materia e ha evidenziato le possibili ricadute delle soluzioni normative previste sullo sviluppo della persona minorenne sotto il profilo psicologico e relazionale, fondamentale per il percorso di vita e per un’adeguata e armonica formazione della personalità.
LA MEDIAZIONE FAMILIARE (ARTT. 1-5)
1. I presupposti perché la mediazione familiare possa costituirsi come risorsa nella gestione dei conflitti
La mediazione familiare è stata pensata come uno strumento diretto a “chiarire le relazioni all’interno di un nucleo familiare e a ripararne le fratture” (Kelly, 2004). Si basa sul presupposto che ci siano le condizioni e la volontà di ripristinare il dialogo tra i genitori che si separano. Sono fondamentali dunque, e non possono derivare solo dal punto di vista legale e giuridico, la consapevolezza da parte dei genitori dell’esistenza di determinati problemi e la disponibilità a mettersi in discussione per risolverli (Roberson, Nalbone, Hecker, & Miller, 2010).
Per risultare efficace, dunque, la mediazione familiare ha come presupposto teorico e metodologico la adesione volontaria delle parti.
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa invita gli Stati membri a “promuovere e, se del caso, sviluppare la mediazione nell'ambito di procedimenti giudiziari in casi che coinvolgono minori, in particolare istituendo una seduta informativa obbligatoria in capo al tribunale, al fine di informare sulle possibilità e i requisiti”.
Quando è presente un legame disfunzionale perdurante è possibile che gli elementi del conflitto si spostino dall’interesse della persona minorenne alla ritorsione sull’altro genitore; in questa tipologia di clima emotivo viene necessariamente a mancare l’opzione di fiducia tra i due genitori, elemento base per la costruzione di una cooperazione in direzione di uno scopo comune.
Perché si possa dare inizio a un iter di mediazione è necessario valutare, quindi, il livello di “mediabilità del conflitto” al fine di comprendere quali situazioni possano trarne vantaggio e quali, proprio a causa di un livello di conflittualità notevolmente elevato, non possono essere affrontate attraverso questa modalità.
La mediazione familiare è, inoltre, esplicitamente esclusa dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul 2011, ratificata dall’Italia nel 2014, quando vi siano denunce per maltrattamento e violenza domestica, incluso il caso della “violenza assistita”, e cioè quando la persona minorenne fa esperienza di qualsiasi forma di maltrattamento, (violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Le ripercussioni della violenza assistita sulle persone minorenni rappresentano violazione dell’art. 147 c.c. perché frutto di deliberata trascuratezza verso gli elementari bisogni di figlie e figli. La violenza assistita intrafamiliare, come dimostrano numerosi studi e ricerche nazionali e internazionali, si verifica soprattutto in nuclei familiari la cui problematicità dura da tempo e nei quali gli episodi di violenza tendono a ripetersi.
2. L’obbligatorietà della mediazione
Secondo il disegno di legge proposto, nel caso in cui ci sia presenza di figli/e d’età minore, la mediazione familiare è contemplata come obbligatoria, quale condizione di procedibilità del giudizio di separazione o divorzio.
Ma che cosa comporterebbe tale obbligo?
Preliminarmente, il carattere di obbligatorietà della mediazione appare non in linea con l’art. 48 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che recita: “Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione".
È necessario, dunque, effettuare una corretta analisi dei contesti familiari poiché, nei casi in cui vi sia una realtà di violenza (Rossi et al., 2015), è previsto che si eviti il contatto tra il soggetto che ha subito abusi e il suo perpetratore al fine di scoraggiare lo scatenarsi di reazioni violente che possano mettere in pericolo uno o più componenti della famiglia (Feresin et al., 2018).
Che i genitori debbano essere messi a conoscenza in modo obbligatorio della mediazione è un’indicazione molto diversa, sul piano teorico e metodologico, dal rendere obbligatoria la mediazione stessa.
In estrema sintesi, non riconoscendo dei criteri di eleggibilità per le procedure di mediazione e rendendola obbligatoria si generano possibili rischi e conseguenze quali:
- obbligare a un trattamento persone contrarie o reticenti,
- condurre una mediazione che verrebbe effettuata sulla base di motivazioni estrinseche,
- ricevere una adesione soltanto formale alla mediazione con sviluppo di piani di inautenticità e resistenze,
- venire meno alla tutela di donne e minori vittime di violenza attraverso l’esposizione forzata ai contatti diretti con l’autore di violenza.
Infine, la mediazione, in mancanza di piani di formazione adeguata delle figure preposte, potrebbe essere affidata ad operatori con generiche competenze, soprattutto non specializzati a riconoscere e supportare vittime di violenza, e quindi privi degli strumenti per assolvere il loro compito in modo efficace.
I “TEMPI PARITETICI O EQUIPOLLENTI” DI FREQUENTAZIONE DEL FIGLIO/A MINORENNE CON I GENITORI (ART. 11)
1. Il miglior interesse della persona minorenne e i tempi di frequentazione
Dal punto di vista psicologico, una modalità di frequentazione con i genitori che sia tutelante per la singola persona minore d’età è una evidente forma di rispetto nei confronti suoi, della sua individualità e delle sue esigenze evolutive. La tutela delle persone minorenni nelle separazioni è stata il centro di una svolta culturale e scientifica già dagli anni ’70, promossa fortemente anche dalla psicologia, che ha portato la persona d’età minore a essere il centro dell’attenzione delle decisioni degli adulti nelle situazioni di conflittualità coniugale e di tutela dei legami. Il criterio ispirato dalla teoria di Goldstein, A. Freud e Solnit del “Best Interest of the Child” (BIOC) (1973,1975,1986) ha influenzato in modo determinante dapprima il sistema giuridico e giudiziario statunitense, poi quello di molti altri Paesi, nonché le pronunce degli organismi sovranazionali.
Anche in Italia, il giudice deve prendere ogni decisione secondo il criterio dell’interesse della persona minorenne. In questo, oltre alla propria valutazione del caso, deve tenere conto anche dell’ascolto di bambine, bambini, e adolescenti, prassi obbligatoria richiesta dalla normativa nazionale ed europea per bambini/e dopo i 12 anni – o anche “di età inferiore se capace di discernimento”: Convenzione dei diritti dell’infanzia di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n.176 (art.12); Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge del 20 marzo 2003 n. 77 (art.6).
2. Effetti psicologici sulle persone minorenni della genitorialità condivisa (Shared parenting) e del collocamento pari-tempo
È opportuno premettere che la letteratura internazionale sui tempi di frequentazione delle persone d’età minore con i genitori separati si è occupata soprattutto della cosiddetta shared parenting, una tipologia di divisione del tempo di convivenza che prevede un range di 35-65% con ciascun genitore e che risulta essere quella non solo più studiata, ma anche più diffusa nelle diverse legislazioni. Questa è la tipologia di divisione del tempo che la letteratura evidenzia come tutelante delle persone minorenni e delle relazioni con i genitori rispetto a forme diffuse che prevedano dei tempi più ridotti, o solo visite da parte di un genitore nella casa del genitore con cui il figlio/a vive, o custodia esclusiva a un genitore. Le situazioni analizzate sono di separazioni conflittuali e non, ma non riguardano i casi in cui siano intervenute condizioni di violenza e abuso, in cui legislazione e letteratura prevedono obbligatoriamente formule di tutela e di frequentazione protetta.
La letteratura scientifica ha pertanto prevalentemente evidenziato l’importanza della shared parenting, quindi di una condivisione di quantità di tempo variabili di figlie e figli con i genitori. Si tratta di un range che prevede anche la modalità del 50% di frequentazione, in genere denominato come “50-50 shared parenting” o “tempo paritetico”: una modalità adottata in alcuni Paesi (in particolare, Svezia, Francia, Belgio, Olanda, Australia) e, comunque, in misura minoritaria. La letteratura scientifica specifica centrata sul tempo obbligatoriamente paritetico è molto limitata. Si sottolinea che nei Paesi dove questo strumento è stato introdotto, il medesimo non viene imposto, ma si tratta di una scelta dei genitori. La decisione sulle quote di tempo da suddividere fra i due genitori, per ottenere una buona probabilità di successo, dipende da specifici fattori: età e genere dei figli, condizioni e disponibilità logistica e temporale dei due genitori, possibilità di supporto nella cura, ecc.
In casi specifici una migliore distribuzione del tempo può permettere a figli/e di avere un genitore più disponibile sul piano di tempo e attenzioni da dedicare a lei/lui, e questo avrebbe ricadute positive per entrambi i genitori; una migliore divisione dei tempi riduce il livello di stress dato dalla mancanza di tempo soprattutto tra le madri (van der Heijden, Poortman e van der Lippe, 2016) e alleviare lo stress può migliorare la qualità della genitorialità (Bartfeld, 2011).
La letteratura evidenzia che la frequentazione pari-tempo con i genitori porta a un miglioramento delle relazioni con i genitori, sorelle e fratelli e con i nonni, ma influisce sulla qualità delle relazioni con la rete sociale esterna alla famiglia (compagni/e, vicinato) (Zartler e Grillenberger, 2017) e comporta un forte impegno da parte dei genitori per tutelare le relazioni amicali dei figli (Prazen et al. 2011), a causa dei frequenti cambiamenti nonché della logistica complessa che tale soluzione più comportare. Questo elemento è da tenere in attenta considerazione per una tutela dell’interesse globale della persona minorenne, in particolare in adolescenza, fase della vita in cui le frequentazioni con i coetanei e le relazioni esterne alla famiglia costituiscono una tappa fondamentale fisiologica per lo sviluppo.
Harris-Short (2010) riporta come in letteratura siano state riscontrate in bambine e bambini alcune preoccupazioni specifiche nelle situazioni di frequentazione pari-tempo: la mancanza di una base unica da chiamare “casa”; problemi creati da programmi frenetici; l’inflessibilità dell’organizzazione; la difficile logistica di vivere tra due case; il sentirsi divisi a metà tra i genitori. Quest’ultimo vissuto e una maggiore esposizione al conflitto tra i genitori sono stati rilevati da McIntosh et al. (2011) come potenziali stressors per i bambini.
Alcuni Paesi hanno condotto ricerche per valutare successo o fallimento di questa modalità di frequentazione. McIntosh e Chisholm (2008) hanno rilevato che bambine e bambini mostravano ancora alti livelli di disagio emotivo un anno dopo la separazione con un collocamento al 50% in un contesto conflittuale. In Australia è emerso come nell’arco di quattro anni il 44% di bambine/i abbia voluto cambiare e avere una residenza di prevalenza, in genere chiedendo di trascorrere più tempo con la madre (McIntosh, 2009). Anche un recente studio condotto nei Paesi Bassi (Poortman e van Gaalen, 2017) evidenzia come un regime di frequentazione paritetico non venga mantenuto nel tempo, a causa di circostanze pratiche e dei bisogni dei bambini/e.
3. Il collocamento pari-tempo tra scelta e imposizione
Diversi contributi (Emery et al. 2005; Fehlberg et al. 2011; Fabricius e Luecken 2007; Harris-Short, 2010; Neale et al.1998; Rhoades, 2008; Viry, 2014) evidenziano alcuni parametri fondamentali perché questo tipo di collocamento possa funzionare:
- che sia una scelta dei genitori
- che ci sia un basso livello di conflittualità tra i soggetti
- che la relazione tra i genitori consenta un clima collaborativo
- che la vicinanza logistica consenta una gestione flessibile, in modo da adattarla alle esigenze di figlie e figli.
Una rassegna sulle diverse posizioni è presente in Nielsen, 2013 e Blomqvist e Heimer, 2016. L’efficacia dell’affido condiviso – che non si può mettere in discussione e che è confermata da numerosi studi - dipende però da numerose variabili in gioco nelle diverse contingenze e fattispecie giuridiche e psico-sociali.
Un’imposizione di legge uguale per tutte le situazioni di separazione non risponde, sul piano psicologico oltre che giuridico, alle premesse perché lo shared parenting possa risultare efficace: l’indicazione che debba essere previsto il collocamento pari-tempo “indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori” (art.11 della proposta di legge) non trova supporto nella letteratura psicologica, che nel valutare gli esiti fa riferimento a scelte ponderate caso per caso.
Il collocamento pari-tempo può essere una soluzione a misura di bambine e bambini, ma deve essere valutato se rispetta gli interessi e i bisogni di quel caso specifico, e non essere imposto per legge, soprattutto quando i criteri fanno riferimento a condizioni dei genitori e non a bisogni di figlie e figli. A questo proposito il DDL prevede che le uniche possibilità che il giudice ha per escludere il pari-tempo, o il minimo dei 12 giorni, limite che corrisponde al 40% e di cui non è chiara la ratio, non essendoci alcun riferimento in letteratura o in altre esperienze internazionali, riguardi comunque solo condizioni dei genitori e non contempli, e neanche citi, specifici bisogni e necessità dei figli/e.
I criteri indicati sono, infatti: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita delle persone d’età minore. È del tutto omesso ogni riferimento a necessità e bisogni dei figli/e, tra cui principalmente: l’età; la relazione intercorrente con l’uno o con l’altro genitore; la situazione logistica rispetto alla scuola; la possibilità di mantenere le relazioni tra pari; particolari condizioni di salute fisica e psichica delle persone minorenni.
Parimenti non vengono prese in considerazione le specifiche esigenze di frequentazione quando uno o entrambi i genitori hanno costituito una nuova famiglia che può anche includere figli di precedenti unioni o nati dalla nuova coppia. Ciò costituisce spesso un elemento cruciale di confusione, a volte di nuovo conflitto, sia tra ex coniugi sia tra ciascuno di essi e i figli. Ne consegue che è di fatto richiesto ai figli delle precedenti unioni uno sforzo adattativo per costruire relazioni con i componenti del nuovo nucleo familiare, e che il tempo di questa frequentazione deve essere adeguatamente accompagnato e graduato, per non mettere a rischio proprio la relazione - che s’intende tutelare - dei figli con ciascun genitore.
Una imposizione di legge per tutti i casi, che non analizzi e prenda in considerazione le reali e specifiche esigenze delle persone di età minore, le diverse fasi evolutive, che riconducono a bisogni diversi, anche in riferimento all’emotività e ai processi di attaccamento e identificazione, alle qualità delle relazioni genitori-figli, alle problematiche logistiche della vita di bambine e bambini (scuola, rapporti con i pari) stabilisce delle regole uguali per tutti, pertanto non corrispondenti al criterio del superiore interesse di bambine, bambini, adolescenti, che va valutato rispetto alla specificità della situazione.
4. Per una soluzione a misura di figlie e figli
L’importanza dei “diritti ed esigenze specifiche di bambine e bambini in diverse fasce di età” è sottolineata dalla Risoluzione 2079 conformemente alle Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di bambino/a (Art. 5.10).
La Risoluzione 2079 del 2015 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa va in una direzione opposta a quella del DDL, in quanto indica una personalizzazione del tempo con ciascun genitore in ragione delle esigenze di ciascuno. Raccomanda, infatti, agli Stati membri di: “introdurre nelle loro leggi il principio della residenza condivisa in seguito a una separazione, limitando eventuali eccezioni ai casi di abuso o negligenza sule persone minorenni, o di violenza domestica, con un periodo di tempo in cui il bambino/a vive con ciascun genitore adattato secondo i bisogni e gli interessi di bambine e bambini” (Art. 5.5).
In conclusione, si auspica un aumento degli spazi di frequentazione della persona minorenne con entrambi i genitori che siano definiti in modo personalizzato e adattato ai bisogni di bambine e bambini e non degli adulti e non ricorrendo a soluzioni imposte e omologate per tutte le figlie e i figli e le situazioni.
In questa direzione di incentivazione e personalizzazione, peraltro da tempo avviata in molti Tribunali italiani, può essere un’utile risorsa, specie in casi complessi, la collaborazione di giudici e avvocati con psicologi, psichiatri e neuropsichiatri infantili, quali consulenti del giudice o operatori dei servizi sociali.
LE MISURE PER CONTRASTARE LA COSIDDETTA ALIENAZIONE PARENTALE (ARTT. 17 e 18)
1. Applicazione di provvedimenti quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesta comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi (Art. 17).
In fase di separazione dei genitori o dopo di essa, un figlio/a minore può manifestare rifiuto a incontrare un genitore. Il rifiuto del contatto si riferisce al comportamento di un figlio/a che evita di trascorrere del tempo con un genitore.
Molte possono essere le ragioni: a) normali processi evolutivi (per es. ansia di separazione in bambine/i molto piccoli); b) un certo stile genitoriale caratterizzato da rigidità, rabbia o mancanza di sensibilità nei confronti del bambino/a; c) aver subito direttamente o aver assistito a maltrattamenti in famiglia; d) preoccupazione per un genitore percepito emotivamente fragile (per es. paura di lasciare da solo a casa questo genitore); e) ricostituzione di un nuovo nucleo familiare da parte di un genitore (per es. comportamenti di un genitore che modificano la disponibilità alle visite) (Johnston, 1993; Johnston & Roseby, 1997; Wallerstein & Kelly, 1980); f) comportamenti attuati da un genitore che espongono direttamente figlie e figli d’età minore al conflitto, portandoli a prendere le sue parti e a sviluppare un legame di lealtà insostenibile (Baker & Darnall, 2006).
Esempi di questi comportamenti sono: esternare commenti che esagerano le caratteristiche negative dell’altro genitore mentre raramente si parla di quelle positive, o che sottendono la pericolosità dell’altro genitore, confidare cose da adulti che il figlio/a non deve sapere (difficoltà coniugali e questioni legali ecc.) tali da indurlo a un atteggiamento protettivo verso lui/lei e a un atteggiamento di rabbia verso l’altro genitore, chiedere al figlio/a di spiare o raccogliere segretamente informazioni sull’altro genitore per poi riferirle o chiedere di tenere segrete all’altro genitore cose che in realtà avrebbe dovuto sapere (progetti, spostamenti etc.), esprimere fastidio quando il bambino/a chiede o parla dell’altro genitore, diventare turbato, freddo o distaccato quando il figlio/a si mostra affettuoso verso l’altro genitore, creare situazioni in cui il figlio/a si sente obbligato a mostrare appoggio nei confronti di un genitore o creare i presupposti affinché il figlio/a si arrabbi con l’altro genitore, incoraggiare il figlio/a a fidarsi delle opinioni di un genitore e ad approvarle indipendentemente da tutto (Baker & Ben Ami, 2011; Harman et al., 2018).
Nella letteratura più recente “alienazione genitoriale” è il termine utilizzato per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore mette in atto comportamenti, come quelli appena descritti, che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (Baker, 2014; Malagoli Togliatti & Verrocchio, 2017). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi esibiscono specifici segni rivelatori e possono essere considerati figli alienati.
Nel dibattito scientifico internazionale, i critici non negano l’esistenza dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale, ma credono che magistrati e psicologi possano trattare questo tipo di “scenario” senza attribuire al bambino una malattia mentale come sosteneva la teoria della P.A.S. (Parental Alienation Syndrome) dello psichiatra Richard Gardner (Gulotta et al., 2015; Malagoli Togliatti & Franci, 2005). L’introduzione della P.A.S. all’interno di una specifica categoria diagnostica è stata definita come la medicalizzazione di un processo essenzialmente giuridico che nulla ha a che vedere con le sindromi psichiatriche infantili (Carrey, 2011). Esistono anche autori che negano l’esistenza sia della P.A.S. sia dell’alienazione genitoriale come fenomeno relazionale e che assumono posizioni basate su concettualizzazioni estremistiche ma non su dati di ricerca: nello specifico, affermano che l’alienazione genitoriale non esiste in quanto tutti i figli/le figlie che non vogliono incontrare più il proprio padre sono figli/figlie che hanno subìto abusi (si veda ad esempio Bruch, 2001; Faller, 1998; Meier, 2009; Walker et al., 2004).
Nella letteratura internazionale, molti autori effettuano una distinzione tra estranged children e alienated children (Bernet et al., 2016; Drozd & Olesen, 2004; Garber, 2011). Il termine estraniazione (estrangement) si riferisce al rifiuto di un bambino/a nei confronti di un genitore giustificato “in quanto conseguenza di una storia di violenza familiare, abuso e trascuratezza da parte del genitore rifiutato” (Johnston, 2005; Kelly & Johnston, 2001), mentre il termine alienazione (alienation) si riferisce al rifiuto ingiustificato di un bambino/a nei confronti di un genitore e a “sentimenti e credenze irragionevolmente negative, che sono significativamente sproporzionati all’esperienza attuale del bambino/a con quel genitore” (Johnston, 2005).
È di estrema importanza differenziare il bambino/a alienato da altri bambini e bambine che, invece, per una molteplicità di ragioni possono mostrare condotte di evitamento e di resistenza alla frequentazione con un genitore (Baker, Burkhard & Albertson-Kelly, 2012; Beebe & Sailor, 2017; Bernet, Gregory, Reay & Rohner, 2018; Bernet, Wamboldt, & Narrow, 2016; Drozd & Olesen, 2004; Fidler, Bala & Saini, 2012; Garber, 2009; Geffner, Conradi, Geis & Aranda, 2009; Kelly & Johnston, 2001; Jaffe, Ashbourne, & Mamo, 2010; Jaffe, Johnston, Crooks & Bala, 2008; Jaffe, Crooks & Bala, 2009; Lee & Olesen, 2001; Scharp & Dorrance Hall, 2017; Stoltz, & Ney, 2002).
Una valutazione tecnica delle dinamiche relazionali presenti nel nucleo familiare disgregato, delle motivazioni che sottendono il mancato mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo di un figlio, una figlia minorenne con un genitore e della condizione psichica del figlio/a, costituisce la premessa indispensabile per orientare qualsiasi provvedimento da applicare nell’esclusivo interesse della persona minorenne.
2. L’inversione del collocamento o il collocamento in comunità del/della figlio/a (Art. 18)
Invertire la residenza abituale della persona minorenne oppure limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure disporre il collocamento provvisorio presso apposita struttura specializzata sono interventi che richiedono un’attenta valutazione tecnica in quanto, se attuati inadeguatamente e senza una prognosi delle possibili conseguenze, potrebbero risultare lesivi dell’interesse della persona minorenne. Nel testo del DDL, la decisione con provvedimento urgente di invertire la residenza a favore del genitore alienato ovvero disporre l’affidamento a una struttura (casa famiglia) può essere assunta dal magistrato «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori», cioè senza evidenza né prove. Non è menzionato in proposito, il necessario ascolto del/della minore o di altri soggetti in grado di confermare lo stato di malessere o addirittura di pericolo per le persone minorenni.
La letteratura specialistica indica di invertire la residenza abituale del persona d’età minore, di limitare i tempi di permanenza con un genitore oppure di disporre il collocamento provvisorio presso una struttura specializzata soltanto nei casi in cui si è accertata la presenza di un condizionamento messo in atto da un genitore sul proprio figlio/a e a cui consegue il rifiuto dell’altro genitore (alienazione genitoriale).
La ragione che sottende tali interventi risiede nel considerare tale condizionamento una forma di abuso (ovvero maltrattamento) psicologico. Secondo l’American Professional Society on the Abuse of Children (APSAC; Binggeli et al., 2001), il maltrattamento psicologico è definibile in termini di comportamenti genitoriali che portano bambine e bambini a sentirsi non amati e che vengono classificati in cinque categorie: rifiutare, terrorizzare, isolare, sfruttare/corrompere e negare responsività emotiva. Come sottolineato da Baker (2014), i comportamenti messi in atto nel processo di alienazione corrispondono chiaramente alle cinque categorie di maltrattamento psicologico incluse nella definizione dell’APSAC.
Esistono due filoni di ricerca che hanno contribuito a sostenere l’associazione tra alienazione genitoriale e maltrattamento psicologico. Il primo è costituito da ricerche che documentano gli effetti negativi sul benessere emotivo di bambine e bambini derivanti dal loro coinvolgimento nel conflitto genitoriale (Amato & Afifi, 2006; Fabricius & Leucken 2007; Krishnakumar et al., 2003; Pruett et al., 2003; Schick, 2002). Il secondo filone è costituito da studi recenti che hanno specificamente analizzato l’associazione tra alienazione genitoriale e abuso emotivo (Baker & Verrocchio, 2013). I comportamenti genitoriali che inducono nei figli/e un conflitto di lealtà possono essere considerati una specifica forma di maltrattamento psicologico in quanto favoriscono in bambine e bambini sentimenti di inutilità e imperfezione (Baker, 2014), nonché comportamenti distorti su di sé e sul mondo che possono stabilizzarsi nel tempo (Baker & Ben-Ami, 2011). Il dato è risultato stabile anche dopo aver controllato l’effetto per variabili di rilievo quali lo status coniugale dei genitori e la qualità della loro relazione (Baker, 2010; Baker & Brassard, 2013; Baker & Eichler, 2014; Verrocchio & Baker, 2015). Si verifica non soltanto una disaffezione nei confronti di un genitore ma anche un’alienazione dal proprio Sé e tale distorsione, nel percorso di sviluppo, può spiegare le associazioni individuate in numerosi studi empirici tra la percezione di comportamenti attuati da un genitore che ha esposto direttamente figlie e figli al conflitto nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e un funzionamento psicologico compromesso in età adulta (Baker & Ben Ami, 2011; Bernet et al., 2015). La letteratura ha dimostrato, inoltre, che l’abuso psicologico risulta correlato, a lungo termine, ad esiti peggiori di salute fisica e mentale rispetto ad altre forme di maltrattamento (Burns et al., 2010; Iwaniec, 1997; Weiss et al., 2013).
I dati empirici sulle conseguenze derivanti dall’alienazione genitoriale sono ormai robusti e sostanziano, senza dubbio, la necessità di individuare interventi efficaci in grado di aiutare questi figli e figlie affinché diventino adulti psicologicamente sani. I risultati di alcune rassegne (Saini et al., 2016; Templer et al., 2017; Verrocchio & Marchetti, 2017) hanno evidenziato che nel panorama internazionale vengono proposte forme di intervento per l’alienazione genitoriale che variano sia in funzione della gravità e della persistenza della dinamica relazionale disfunzionale sia del componente del nucleo familiare al quale si rivolgono.
Dalla letteratura emerge la necessità di: a) effettuare un’adeguata valutazione clinico-diagnostica per comprendere le dinamiche relazionali, i fattori che hanno contribuito al rifiuto e alla disaffezione del figlio/a nei confronti del genitore, la condizione psicologica e psicopatologica di tutti i componenti del nucleo familiare, nonché gli eventuali fattori di protezione; b) fornire un supporto professionale che miri a ripristinare la relazione drammaticamente interrotta tra un figlio/a e un genitore a seguito di separazioni altamente conflittuali; c) attuare un intervento coatto, su disposizione del giudice, che preveda un cambiamento di affidamento o il collocamento in una struttura specializzata nei casi di alienazione grave, ossia i casi in cui una figlia/o rifiuta con astio e disprezzo di incontrare un genitore in quanto condizionato dall’altro genitore. L’assunto di base è che risulta necessario allontanare il bambino/a da un ambiente nocivo sul piano relazionale, per interrompere l’abuso psicologico considerate le conseguenze negative e patologiche che questo ha sulla strutturazione del Sé.
Occorre precisare, tuttavia, che gli studi sull’efficacia del cambiamento di collocamento o dell’inserimento in una struttura specializzata e dei programmi statunitensi di riunificazione (Dunne & Hendrick, 1994; Rand et al., 2005; Reay, 2015; Sullivan et al., 2010; Warshak, 2010) sono ancora esigui e presentano alcune limitazioni metodologiche.
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[1] Le voci citate sono riferite alle diverse posizioni citate nel testo, e offrono una panoramica della variegata tipologia di ricerche e relativi risultati, spesso controversi, sui complessi problemi trattati nella relazione.