Il Significato del 25 aprile
di Antonella Dell'orfano
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
(Sandro Pertini proclama lo sciopero generale, Milano, 25 aprile 1945)
Il 25 aprile del 1945, Milano e Torino furono liberate dal nazifascismo, ed i giorni a seguire furono liberate Genova e Venezia.
Sarà così istituita la data del 25 aprile come festa nazionale, una data che pone fine alla dittatura fascista e ad una guerra lunga cinque anni e apre un periodo di riforme strutturali profonde, tra cui le più importanti sono sicuramente il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la Carta Costituzionale, il diritto al voto per le donne.
Gli anni passano, per noi come per la nostra Nazione, ma le cose che contano restano, si tramandano, e resistono, come il significato profondo del 25 Aprile.
È la memoria della Resistenza condivisa, della lotta antifascista, che fu comunista, repubblicana, cattolica, socialista, azionista e liberale, come la Costituzione.
È l’enorme contributo di sacrificio e di sangue della nostra terra per un’Italia libera.
Sono tutti i caduti nei diversi fronti del conflitto, di cui molti giovani, se non giovanissimi, i torturati e i deportati per essersi opposti alla dittatura, e quella moltitudine silenziosa che contribuì alla lotta di resistenza, che non avrà mai riconoscimenti ufficiali e benemerenze, il cui ricordo vive spesso solo nel cuore dei familiari, ossia gli operai, con l’apporto dei loro scioperi, e tutti coloro, tra cui anche tanti religiosi e religiose, che protessero, mettendo a repentaglio la propria vita, chi combatteva in vario modo per la libertà.
La fine della dittatura non arrivò, infatti, da sola, non fu un processo spontaneo che si esaurì, ci furono invece donne e uomini, ragazze e ragazzi, che sacrificarono la loro gioventù per un sogno di libertà, scegliendo di non arrendersi, di non rimanere indifferenti e di non chinare il capo davanti alle violenze nazifasciste, realizzando così la profezia di Antonio Gramsci in un discorso parlamentare del 16 maggio 1925:” Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo”.
Quella previsione divenne realtà molti anni dopo con il sacrificio di quella generazione, a cui dobbiamo la conquista delle nostre libertà.
La Nazione ha dunque il dovere non solo di ricordare degnamente la Resistenza, ma anche di renderla attuale, difendendone le fondamenta e ridando slancio a quella tensione che spinse a reagire quelli che poi divennero i nostri eroi.
Mentre la generazione della Resistenza si avvia al tramonto, e proprio in questo terribile periodo assistiamo, inermi, alla strage, tra le vittime del Covid-19, di tanti anziani, fieri e dolcissimi, che furono tra i protagonisti di quella pagina gloriosa della nostra Storia, c’è, deve esserci il senso di responsabilità di ciascuno verso la Storia, verso chi si batté e morì per i propri ideali, per rispondere a quella chiamata della propria coscienza che ricordavo prima.
Calamandrei disse: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità”.
Di anno in anno, invece, si avverte il rischio, sempre più forte, di perdere la memoria storica della Resistenza ed il suo insegnamento, e si tratta purtroppo di un rischio concreto, reale, tangibile dinanzi alla progressiva ed inevitabile assenza dei suoi protagonisti, ma anche al revisionismo di parte che tenta di renderla un’esperienza circoscritta, lontana, che non ci appartiene.
La Resistenza, però, non solo appartiene all’intera Nazione, ne è anche parte integrante, perché è cogliendo la forza generatrice di quei mesi, assorbendo appieno quei valori, che si persegue l’effettiva tutela dei diritti civili, politici e sociali.
Come non ricordare le note composte da un cantautore profetico, l'indimenticato Signor G, per un brano contenuto nell'album Dialogo tra un impegnato e un non so?.
Correva l'anno 1972 e Giorgio Gaber scriveva: "La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un'invenzione. La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione".
Se lasciamo cadere quell’eredità, se non partecipiamo, perdiamo quanto abbiamo conquistato.
Oggi è difficile ricordare cosa significasse non avere libertà, cosa volesse dire non poter partecipare a nessuna decisione del proprio Paese, non potere professare tutti liberamente una religione diversa da quella di Stato, non poter esprimere un’opinione diversa da quella del regime, lo squadrismo, le violenze, la guerra, le leggi razziali, l’eliminazione di ogni oppositore politico, il potere usurpato con un colpo di stato e mai più restituito.
Se il 25 aprile è il giorno della Liberazione è non solo perché venimmo liberati dal regime, ma anche perché siamo diventati liberi, liberi davvero: ci è stata restituita libertà di parola, di espressione, di credo religioso, libertà di stampa, di pensiero politico.
E le grandi speranze nutrite dagli eroi della Resistenza e padri costituenti, come Calamandrei, erano riposte proprio nell’attesa di tradurre in «formule giuridiche» e in un «programma legalitario di rinnovamento democratico» i valori di libertà e eguaglianza per i quali si erano impegnati tutti gli uomini liberi che avevano combattuto durante la lotta contro l’oppressione straniera e la dittatura fascista.
Sono di sconcertante attualità le parole di Calamandrei che, nella realtà dell’Italia di allora, ammoniva a non tradire le aspettative di sostanziale eguaglianza sociale scaturite dalla Resistenza, e così scriveva:” Quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi sa per quanti anni ancora, negli ospedali ... gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessari per pagare gli insegnanti, quando io penso a tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni, allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione!” (Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).
Celebrare il 25 aprile deve significare pertanto sentirci liberi, ma in maniera attiva, con l’impegno di tener vivi anche per le generazioni future i valori della Resistenza e della Carta Costituzionale che - avvisava Calamandrei - come una macchina “perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.
Mantenere saldo il ricordo della Resistenza, manifestarne orgogliosamente la memoria, significa alimentare la speranza sufficiente per continuare a conseguire e mantenere in futuro una democrazia autentica e sempre operante, perché una società plurale e democratica non può che partire da lì, ogni anno, ed ogni anno più del precedente, sentendo appieno quel senso di appartenenza, che, come cantava Giorgio Gaber, “non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé”.
Al termine della guerra, l’Italia si trovò, come purtroppo sta accadendo anche oggi, in gravissime condizioni: un paese distrutto, materialmente e moralmente, in cui occorreva ricostruire l’intera Nazione, così fragile sotto l’aspetto economico, severamente colpita da disoccupazione, debito pubblico, svalutazione della lira e inflazione.
Eppure, il secondo dopoguerra si tradusse in una “nuova età dell’oro”, come scrisse lo storico britannico Eric J.E. Hobsbawm, mettendo in evidenza che si trattò di anni di "straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità” (trad. it. Il secolo breve, 1995).
Ricordava Italo Calvino, nell’introduzione del suo romanzo I nidi di ragno: “Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, <>, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria”.
Tutti ricordiamo la battuta "ha dda passà 'a nuttata", ovvero la chiosa finale della commedia teatrale “Napoli Milionaria”, scritta e interpretata proprio nel 1945 da Eduardo De Filippo, che così raccontava:”Allora, quando la scrissi, “Napoli milionaria!” rispecchiava un sentimento che io avvertivo profondamente, e che volevo comunicare. Gli orrori della guerra non dovevano essere dimenticati: era il momento di iniziare la ricostruzione, non soltanto del paese distrutto dai bombardamenti, ma soprattutto degli uomini, della loro coscienza …”.
Era un appello accorato alla ricostruzione e alla rinascita di un’Italia autenticamente democratica, in cui si avvertiva la necessità, drammatica nel momento che seguì la Liberazione, ma validissima anche oggi, di un riscatto morale e del recupero di valori fondanti della vita, come l’amore, la famiglia, l’onestà, la solidarietà, il rispetto della legge, “valori eterni”, per richiamare le parole del regista Francesco Rosi, “che le guerre travolgono, ma non solo le guerre, quando corruzione, degrado morale, criminalità, smodata avidità di denaro e di potere, prevalgono sul diritto nel mondo a vivere secondo giustizia, e senza discriminazioni”.
E dunque, nel commosso ricordo di chi ci ha preceduto, nel doloroso presente che stiamo vivendo con l’animo rivolto alla speranza per i tempi che verranno, ritornano di nuovo alla mente le parole di G. Gaber (il primo a cantare Bella Ciao, nel 1963, alla tivù): “Che bella gente, che bella gente al tempo della liberazione. Gente che torna a voler bene, volti provati dal dolore, ma solidali e sinceri. O anche avversari ma con dentro il cuore tutta un'Italia da ricostruire. Che bella gente con l'entusiasmo di chi rinasce, che insieme cresce con le miserie e le canzonette. Coi nonni ladri di biciclette, e il pensionato e il mendicante. Che bella gente” [Che bella gente (prosa) da l’album Un’idiozia conquistata a fatica].