Contenzioso climatico italiano e sistema delle fonti, dopo l’ordinanza della Cass. civ. SS.UU. n. 13085/2024, pubblicata il 21 luglio 2025
Sommario: 1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”- 2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite - 3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ. - 4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico - 5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”.
1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”
La decisione assunta dalla Corte di cassazione civile a Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 13085/2024, è stata salutata come storica tappa di riconoscimento, anche in Italia, della praticabilità del contenzioso climatico, nella specifica modalità dell’azione di responsabilità extracontrattuale per danni da cambiamento climatico[1].
Come immediatamente constatato da questa Testata, il Supremo consesso, da un lato, ha ammesso la potenziale giustiziabilità delle pretese di tutela climatica fondate sulla lesione dei diritti fondamentali, nella necessaria distinzione tra questione del fondamento costituzionale del potere giurisdizionale di decisione e questione di merito sull’accoglimento o meno del petitum[2], dall’altro, ha pure aperto all’esperibilità di misure coercitive giudiziali di mitigazione climatica, attraverso il ricorso all’art. 2058 Cod. civ.[3].
Oltre a questi passaggi, tuttavia, la pronuncia italiana contiene novità significative su altri fronti, meno eclatanti del tema dell’accesso al giudice, e, forse per questo, rimasti ancora all’ombra dei fari dottrinali, ancorché ineludibili per non commettere errori, di fatto e di diritto, nella discussione giuridica del complesso fenomeno climatico.
Ci si riferisce, nello specifico, ai seguenti quattro temi.
- quello della certezza scientifica della matrice antropogenica del cambiamento climatico;
- quello della sua natura di minaccia esistenziale per i diritti umani;
- quello dell’attendibilità dell’utilizzo della c.d. “scienza di attribuzione” (attribution science), ai fini della ricostruzione dei nessi causali e dell’imputazione delle singole responsabilità antropogeniche;
- quello della priorità temporale (e dell’urgenza) della mitigazione climatica rispetto al solo adattamento alle conseguenze del riscaldamento globale, in funzione della tutela intertemporale dei diritti alla vita e alla salute.
Si tratta di aspetti a lungo trascurati dai formanti giuridici, tendenzialmente propensi, soprattutto in Italia, a sussumere i fenomeni climatici, con i loro effetti giuridici, dentro le categorie del diritto ambientale tradizionale, le quali, però, al cambiamento climatico non si riferiscono affatto[4]. La falsa analogia fra ambiente e clima[5] ha prodotto errori cognitivi, inducendo a osservare il problema climatico come variabile dipendente dalle categorie e fattispecie del diritto ambientale domestico, ragionando di riflesso per singoli eventi e singoli impatti, singole azioni umane (eventualmente fra loro cumulabili) e singoli spazi delimitabili, ma ignorando del tutto che i fenomeni climatici consistono in processi intertemporali di trasformazione irreversibile dei contesti di vita.
In altre parole, mentre la tutela ambientale si traduce in protezione da specifici e circoscritti impatti, quella climatica consiste nel preservare la qualità della vita dal tempo termodinamico del sistema terrestre, destabilizzato dall’azione umana. Nella tutela climatica, dunque, il bene della vita messo in gioco è il tempo[6], come finalmente riconosciuto dalla Corte Europea dei Diritti Umani con la storica sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, del 9 aprile 2024[7].
Tali errori, poi, sono stati a lungo replicati nella forma della fallacia logica dell’evidenza soppressa, ovvero in ragionamenti e giudizi, frutto di conoscenze e comprensioni parziali, imprecise, soprattutto incomplete e lacunose dei fatti[8], nonostante, tra l’altro, i periodici Report dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell’ONU), quasi mai letti dai giuristi, ancorché messi a disposizione della società civile precipuamente per scongiurare, in particolare attraverso i Summary for policymakers, errori cognitivi di decisori e operatori delle scienze non naturali[9].
Così, dunque, sono andate le cose nel mondo del diritto per lunghi anni, consumando una perdita irreparabile di tempo, sul fronte della tutela dei diritti, icasticamente definita “tragedia degli errori”[10].
Oggi, in enorme ritardo, da questa “tragedia” sembra che si stia uscendo.
I citati quattro passaggi, evocati nell’ordinanza in commento, lo testimoniano.
Prima di tutto, dichiarare la “certezza” della matrice antropogenica del cambiamento climatico implica la presa d’atto della sua ineluttabilità come legge di natura (constatazione che è alla base dello stesso concetto di emergenza climatica quale situazione di pericolo condizionata dalle traiettorie temporali di inerzia del sistema climatico[11]), inducendo a sottrarre il facere giuridico al criterio della sola “precauzione” (come noto utilizzabile in casi di incertezza scientifica su fatti e rischi e pertanto bilanciabile con qualsiasi altra priorità temporale umana), per proiettarlo, al contrario, verso la prevenzione, ovvero per l’adozione prioritaria e non negoziabile di misure di interruzione o riduzione del fattore produttivo del problema: la pericolosa interferenza antropogenica (come, del resto, richiederebbe l’obbligazione impressa dall’art. 2 dell’UNFCCC del 1992 e su cui si tornerà, discutendo dell’art. 2058 Cod. civ.).
In secondo luogo, qualificare tale situazione come minaccia per i diritti umani porta a inquadrarla in termini di pericolo, quindi di fatto ingiusto permanente, da interrompere proprio nell’applicazione degli artt. 2043 Cod. civ, come ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza italiana[12].
Nel contempo, coniugare la “certezza” eziologica dell’antropogenesi pericolosa con le acquisizioni di quel ramo della scienza climatica (la c.d. “attribution science”), che si occupa di identificare e quantificare il contributo di singoli agenti umani sullo stato di pericolo, vuol dire ammettere che il fenomeno non è affatto indistinto e impossibile da ricostruire nelle imputazioni giuridiche di responsabilità, smontando alla radice le storture del c.d. teoria del “Black Box” (altrimenti nota col brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”), costantemente evocata da Stati e imprese citate in giudizio, perché fondata sul postulato che i fenomeni climatici sarebbero informi e indistinguibili nei loro processi e conseguenze, dunque impossibili appunto da “attribuire” a specifiche responsabilità e conseguenti protezioni[13].
Infine, ribadire la gerarchia fra mitigazione e adattamento, con l’urgenza della prima rispetto alla seconda per la tutela effettiva dei diritti umani, comporta la loro non equiparazione per leggi di natura (dato che solo la mitigazione incide sull’inerzia termofisica del sistema[14]), con la conseguente assenza di discrezionalità nelle preferenze e scelte di risposta alla minaccia climatica[15], nel senso che non si può discrezionalmente decidere di anteporre l’adattamento alla mitigazione né ancor meno preferire il primo, ignorando la seconda, come purtroppo, al contrario, sta succedendo in Italia[16].
Il chiarimento dell’ordinanza in commento, sulla responsabilità per le emissioni prodotte all’estero, si spiega in questa prospettiva, lì dove la Cassazione precisa che le emissioni climalteranti, pur «estendendo i loro effetti all’intera atmosfera terreste, nell’ambito della quale si determina l’incremento della temperatura globale che produce il cambiamento climatico», ledono diritti umani localizzabili, quale «effetto ultimo della sequenza causale innescata dal cambiamento climatico», sicché «l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono».
Invero, questo sbocco della Supremo Collegio era stato in qualche modo anticipato da una precedente pronuncia a Sezioni Unite civili, la n. 5668/2023, in tema sempre di emissioni ma con riguardo alla sola atmosfera e al solo processo di inquinamento. Anche in tale giudizio, infatti, la Corte non solo aveva rigettato la plausibilità del postulato “ad impossibilia nemo tenetur” (puntualmente evocato dall’amministrazione convenuta in ragione della natura diffusa e dispersiva della contaminazione atmosferica), ma soprattutto aveva qualificato l’inquinamento, in quanto certo nella sua matrice antropogenica, come situazione di pericolo per i diritti, arrivando persino a qualificare nociva l’attività emissiva antropogenica in sé, anche ove conforme a norme o atti, allorquando fomentata da comportamenti materiali negligenti nella prevenzione e trincerati dietro pretestuose impossibilità di azioni e controlli delle conseguenze[17].
Oggi, lo stesso sbocco appare ancor più valido e convincente alla luce di quella giurisprudenza internazionale in materia climatica, che, negli ultimi due anni, la “tragedia degli errori” ha definitivamente demolito, distinguendo altrettanto definitivamente i caratteri peculiari della protezione climatica. Ci si riferisce, in ordine cronologico, alle decisioni del Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (Advisory Opinion ITLOS n. 31/2024), della Corte Europea dei Diritti Umani (casi “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, e “Duarte Agostinho et al.” ric. n. 39371/20, entrambi del 9 aprile 2024), della Corte Interamericana dei Diritti Umani (Opinione consultiva n. 35/25) e, per ultimo, della Corte Internazionale di Giustizia (Advisory Opinion ICJ case 187 del 23 luglio 2025).
Da questa cornice internazionale, quindi, si dovrebbe partire per contestualizzare correttamente tutte le conclusioni fornite dall’ordinanza in commento. Sembrerebbe suggerirlo, ancora una volta, sempre la Corte di cassazione, questa volta per bocca del suo ufficio del Massimario, la cui scheda, redatta con riguardo al caso CEDU “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024[18], rileva la correttezza di collocare il «dovere di protezione dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e sulla salute … nelle fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale».
2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite
L’omissione delle «fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale» segna, invece, il cammino di alcuni dei primi commenti all’ordinanza in oggetto.
Proviamo a scandagliarli.
In primo luogo, il richiamo alla responsabilità extracontrattuale come “base” del contenzioso climatico ha indotto una parte della dottrina a lasciare in ombra le fonti internazionali in materia climatica, che se queste consistessero in una sorta di lex specialis estranea al problema del danno ingiusto alla persona[19]. In effetti, fino all’Accordo di Parigi del 2015, l’interpretazione prevalente sui risvolti giuridici del cambiamento climatico risultava orientata in tal senso, con l’effetto di estromettere, dai discorsi giuridici sul cambiamento climatico, gli obblighi in materia di diritti umani e neminem laedere, giudicandoli inapplicabili e alimentando, per l’effetto, il costrutto dell’assenza di norme anche solo “astrattamente idonee” a tutelare situazioni soggettive compromesse dal fenomeno climatico, conoscibili e applicabili dai giudici. La Corte Internazionale di Giustizia, con la citata Opinione consultiva del luglio scorso, ha confutato siffatta ricostruzione (per es., nei §§ 145, 373 e 404), rilevando non solo l’interdipendenza fattuale tra diritti umani e cambiamento climatico (cfr. §§ 377-384), ma prioritariamente l’indivisibilità dei diritti umani in sé (indivisibilità formalizzata anche dai due Patti ONU del 1966), la cui unitaria tutela, corrispondendo a un diritto internazionale consuetudinario collegato all’obbligo statale, anch’esso a fondamento consuetudinario, del No Harm e dunque del non recare danno ingiusto al pari del neminem laedere, non può essere esclusa al cospetto di fenomeni antropogenici di alterazione del sistema ambientale planetario (§§ 389-393).
Dopo questa ricostruzione del diritto internazionale consuetudinario, al quale l’Italia si adatta automaticamente in forza dell’art. 10, primo comma, Cost., l’eccezione dell’assenza di una norma “astrattamente idonea” alla tutela climatica è divenuta inammissibile: il che non può non incidere sul fondamento costituzionale del potere giurisdizionale, corroborando senza eccezioni l’accertamento compiuto dall’ordinanza in commento.
Ne consegue altresì che risarcire il danno da cambiamento climatico non equivale affatto a “creazione” giurisprudenziale di norme altrimenti inesistenti, bensì al suo esatto opposto: applicazione del neminem laedere nel rispetto del diritto internazionale consuetudinario su indivisibilità dei diritti umani e No Harm.
Dentro questa cornice, la puntualizzazione dell’ordinanza in commento, secondo cui una «comune azione risarcitoria, ancorché fondata sull’allegazione dell’omesso o illegittimo esercizio della potestà legislativa, non dà luogo a un difetto assoluto di giurisdizione, neppure in relazione alla natura politica dello atto legislativo, ove sia stata dedotta la sola lesività della disciplina che ne è derivata», suona ancora più chiara.
Il neminem laedere, in effetti, non richiede esercizio del potere legislativo, ma rispetto della legalità in tutte le sue espressioni[20]; ed esige condotte materiali adeguate al pericolo. Detto altrimenti, mitigare emissioni non vuol dire creare norme; significa eliminare o ridurre il pericolo; il che esige condotte materiali di neminem laedere (e di No Harm); “dovere primario” di protezione (Primary Duty), aveva già anticipato la Corte Europea dei Diritti Umani, nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 2024, come tale vincolante dall’esterno la discrezionalità politica degli Stati e dei loro organi (cfr. §§ 544-550 della decisione europea), esattamente come il dovere materiale di mitigazione contro l’inquinamento, evocato dalle Sezioni Unite n. 5668/2023.
Che poi la mitigazione sia contenuta in una legge o meno, appare accidente formale, non certo presupposto costitutivo della condotta non lesiva.
Per questo, è ampiamente condivisa la considerazione che la tutela dalla minaccia del cambiamento climatico antropogenico sia questione di responsabilità inevitabilmente extracontrattuale fattuale (ossia da fatto illecito di condotta inadeguata e non da omissione legislativa), lesiva di diritti assoluti di sopravvivenza[21].
Alcuni commentatori hanno reputato possibile sottrarsi a siffatta conclusione, adducendo la non vincolatività, per gli operatori giuridici e decisori italiani, del diritto internazionale nelle interpretazioni fornite dai suoi giudici e la prevalenza sul diritto interno, nella materia climatica, “solamente” del diritto europeo[22]. Stando a tale ordito, gli ultimi interpreti del diritto internazionale resterebbero gli agenti domestici dello Stato, per cui nulla impedirebbe loro di procedere per vie diverse da quelle segnate dalle giurisdizioni internazionali (ITLOS, Corte Internazionale, Corte EDU), fatta salva l’applicazione “solamente” del diritto europeo (come se questo fosse estraneo al – e separato dal – diritto internazionale). L’argomento, ancorché avallato da una risalente giurisprudenza minoritaria[23], risulta del tutto fuori luogo sul lato del sistema delle fonti, proprio alla luce degli interventi interpretativi internazionali, che si vorrebbero eludere.
Se la Corte dell’Aja accerta e dichiara l’esistenza di un diritto internazionale consuetudinario nella materia climatica, ad esso l’Italia, con i suoi giudici, è tenuta ad adeguarsi automaticamente, in ragione – come banalmente ricordato – del primo comma dell’art. 10 Cost., a meno che siffatto adattamento osti alla miglior tutela dei diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione italiana (si v., in proposito, la nota sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014); ipotesi certamente estranea al campo della minaccia climatica.
Inoltre, se l’Italia non si limita a ratificare trattati internazionali che predicano l’indivisibilità dei diritti umani, ma riconosce loro piena attuazione interna con l’apposito ordine di esecuzione, i suoi giudici non possono certo sottrarsi alla considerazione di quelle fonti, ai fini della ricerca della norma “astrattamente idonea” a tutelare situazioni soggettive contro il cambiamento climatico. Diversamente opinando, si arriverebbe alla violazione dei principi di “buona fede” e “pacta sun servanda”, imposti dalla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei trattati del 1969, alla quale ovviamente l’Italia aderisce e ha dato esecuzione[24].
Infine, il rispetto del diritto internazionale consuetudinario e pattizio, con la connessa presa in considerazione delle sue interpretazioni giudiziali a tutela dei diritti, è richiesto pure dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, sicché l’evocazione “solamente” del diritto europeo in materia climatica, invece di suffragare la tesi dell’esclusione dei formanti internazionalistici, la smentirebbe sonoramente. In merito, i precedenti unionali sono innumerevoli. In questa sede, nondimeno, può esserne sufficiente un solo accenno, tra l’altro riferito agli effetti diffusi e transfrontalieri delle condotte dello Stato in materia ambientale. Nella causa C-188/23 del 21 gennaio 2025, i giudici di Lussemburgo hanno ricordato che l’obbligo di conformazione alle fonti del diritto internazionale, alle quali la UE aderisce, vincola le fonti derivate europee e, di riflesso, i giudici nazionali, con esiti disapplicativi delle norme e interpretazioni interne contrastanti.
Ora, poiché la UE aderisce a tutti i trattati internazionali in materia climatica, l’interpretazione di essi fornita dalla Corte Internazionale di Giustizia per la tutela dei diritti umani, vincolando la UE per la migliore tutela, obbliga a cascata gli Stati membri e i loro giudici.
Il che, sia detto per inciso, consente pure di perseguire tutele ambientali più rigorose di quelle europee, alla luce dell’art. 193 TFUE.
In definitiva, chi si arresta al diritto europeo, scopre di doversi comunque aprire al diritto internazionale climatico e alle sue interpretazioni, sia per adattamento italiano alle fonti internazionali, consuetudinarie e pattizie (artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.), sia per primato stesso delle fonti europee che quel diritto chiedono di rispettare (da ultimo, causa C-118/23).
A conclusione non dissimile si giunge passando alle decisioni climatiche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anch’esse reputate destituite, dalla medesima dottrina[25], di forza vincolante per il giudice italiano.
Invero, basterebbe evocare l’art. 6 TUE e l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, per confutare la pretesa destituzione[26], tant’è che la citata scheda dell’ufficio Massimario della Cassazione sembra presupporlo.
Cionondimeno, reputare finanche costituzionalmente ammissibile l’assenza di vincolo, stigmatizzerebbe l’operazione ermeneutica come oltremodo contraddittoria (perché renderebbe del tutto inutile l’adesione italiana al sistema CEDU) e illegittima in re ipsa, traducendosi in una non ammessa disapplicazione giudiziale della CEDU (in tal senso si v. il caso “Walęsa c. Polonia” ric. n. 50849/21 del 23 novembre 2023[27]).
Probabilmente, come correttamente fatto presente da altra dottrina[28], coloro che contestano il vincolo giudiziale nazionale alla CEDU, cadono in una doppia confusione:
- quella fra sistema di norme e sistema di ordinamenti,
- quella tra disapplicazione delle norme interne, per conflitto col diritto UE, e prevalenza della CEDU sulle norme interne nella tutela dei diritti, per interposizione ex art. 117, primo comma, Cost.
La CEDU non è un ordinamento giuridico con proprie fonti, come invece lo è l’UE; ma è pur sempre un sistema di norme per la tutela dei diritti umani.
Questo sistema di norme di tutela dei diritti è gerarchicamente sovraordinato alle norme di diritto interno, ma subordinato alla Costituzione.
Nel contempo, in ragione dei citati artt. 6 TUE e 53 della Carta fondamentale europea, esso interagisce anche con quello UE, che tuttavia è un ordinamento giuridico con le sue fonti.
Da questo intreccio discende che il giudice italiano, di fronte alla CEDU,
- non può disapplicare le norme interne in contrasto con la CEDU, non essendo la CEDU un ordinamento giudico di fonti,
- deve però conformare l’interpretazione di quelle norme interne all’interpretazione dei diritti, fornita dalla Corte EDU, essendo – la CEDU – un sistema di norme di tutela sovraordinato a quello solo domestico (ex art. 117, primo comma, Cost.),
- verificando che la tutela offerta dalla CEDU non produca violazioni della Costituzione, essendo la CEDU interposta ma non equiparata né sovrapposta alla Costituzione,
- e verificando altresì che la tutela CEDU non determini violazione del diritto UE,
- altrimenti procedendo alla questione di legittimità costituzionale, in caso di reputate violazioni (in capo a quelle interpretazioni CEDU) o della Costituzione o del diritto UE o di entrambe.
Come si vede, in nessun modo, il giudice domestico può affrancarsi dall’interpretazione della Corte EDU né tantomeno procedere a disapplicazione della CEDU o a sue interpretazioni esclusivamente domestiche; se nutre dubbi (ma di natura costituzionale, non certo di ermeneutica alternativa al descritto sistema delle fonti), il giudice può – deve – rivolgersi alla Corte costituzionale.
Per l’ordinanza qui in commento, quanto rappresentato conduce inesorabilmente a un unico esito:
- la decisione delle Sezioni Unite in materia climatica deve essere letta in combinato disposto con le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 aprile 2024 (i citati casi “Verein KlimaSeniorinnen” e “Duarte Agostinho et al.”), verificandone la concorrente conformità tanto con la Costituzione quanto con il diritto UE.
La giurisprudenza maggioritaria italiana conferma l’ordito[29], e ancor di più, ovviamente, quella costituzionale, ormai salda su quattro pilastri, indisponibili per i giudici comuni:
- sussiste «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», sicché l’interpretazione di entrambi deve tendere solo ed esclusivamente a «massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» per la tutela dei diritti (così la sentenza n. 145/2022);
- di conseguenza la conformazione alla CEDU tende «ad assumere un valore generale e di principio» (sentenze. n. 236/2011 e n. 49/ 2015);
- per cui «le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato che ad esse viene attribuito all’esito dell’attività interpretativa operata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 7/2024);
- a maggior ragione se tali interpretazioni sono state assunte nella modalità dell’art. 43 CEDU (come avvenuto per le decisioni climatiche del 9 aprile 2024), perché inquadrabili in termini di “novum” normativo analogo allo “ius superveniens” (ordinanza n. 150/2012).
3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ.
Non risulta seriamente contestabile la presa d’atto di quanto fin qui analizzato.
L’ordinanza in commento, per essere correttamente applicata secundum constitutionis, deve essere “integrata” dalle interpretazioni
- sia della Corte Internazionale di Giustizia, per la collocazione delle conclusioni italiane nella cornice del diritto internazionale consuetudinario e pattizio del No Harm e del neminem laedere in nome dell’indivisibilità dei diritti,
- sia della Corte di Strasburgo, a maggior ragione per la natura di queste ultime come “novum” normativo, reso ai sensi dell’art. 43 CEDU, e in nome del rafforzamento dei diritti.
Qualsiasi ipotesi di arroccamento domestico sarebbe solo peggiorativa dei livelli di tutela rispetto alla minaccia del cambiamento climatico, riconosciuta certa proprio dall’ordinanza in commento.
Non a caso, altra dottrina lo ha fatto ben chiaramente presente, da subito[30].
Tutto questo non induce a ritenere che la causa petendi del contenzioso climatico si fondi sul diritto internazionale, consuetudinario e pattizio, in sostituzione di quello domestico, oppure si radichi nella sola CEDU.
Ancorché prospettive del genere non vengano più reputate inammissibili da parte della dottrina, persino in presenza di enunciati internazionalistici formulati sotto forma di principio[31], c’è da prendere atto che, al cospetto della minaccia del cambiamento climatico antropogenico, vige piuttosto – grazie a quanto emerso dalla richiamata giurisprudenza degli ultimi due anni – un intreccio di fonti normative, tutte convergenti sulla rimozione del pericolo (non per nulla, tutte riconducibili allo scopo finale del diritto climatico, scandito dal già citato art. 2 dell’UNFCCC).
Anche a questo proposito, si può prendere spunto dalla già citata scheda dell’ufficio del Massimario della Cassazione, dato che in essa si chiarisce che il dovere di protezione, dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e la salute, si radica in un «quadro normativo», composto da una serie di principi, tra cui gli artt. 2, 3, 9, 41 e 117 Cost., e da una serie di condotte contenute in diversi accordi internazionali, che «costituiscono una vera e propria fonte di obbligazione, avente ad oggetto la tutela del clima e la riduzione delle immissioni atmosferiche di anidride carbonica, al fine di contenere l’aumento della temperatura media globale entro il tetto massimo di 2°C, come previsto, in particolare, dall’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015», che «si affiancano» alle fonti del diritto europeo e su cui «la Corte costituzionale, con le sentenze n. 124/2010 e 85/2012, aveva già chiarito l’inquadramento delle fonti internazionali del diritto climatico all’interno del nostro ordinamento».
A ben vedere, siffatto «quadro normativo» rispecchia una precisa disposizione del Codice civile italiano, sorprendentemente rimasta sempre sotto traccia nel dibattito sul contenzioso climatico: l’art. 1173 Cod. civ.
Conviene partire dalla sua lettera. Nel sistema giuridico italiano, le obbligazioni «derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».
Si è parlato, in proposito, di «trittico» delle derivazioni (contratto, fatto illecito, altro), purché dentro un’unica «conformità» all’«ordinamento giuridico»[32].
Bene, l’ordinamento giuridico italiano, come poc’anzi sintetizzato, non solo è tridimensionale nelle sue fonti e norme di «conformità» (Stato-UE-CEDU), ma inserito pure (in forza degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.) nell’ordinamento internazionale con i suoi obblighi consuetudinari e pattizi.
Il dato rende ineluttabile il radicamento delle obbligazioni civilistiche italiane, indipendentemente dalle sue atipiche modalità di manifestazione («ogni altro atto o fatto idoneo»), nella tridimensionalità europea (per di più, tale tridimensionalità, proiettata sui diritti fondamentali) e nella contestuale conformità a tutte le fonti che includono l’ordinamento italiano[33].
Si tratta di una complessità sistemica, non comune ad altri ordinamenti giuridici nazionali, come dimostrato da studi comparatistici recenti[34], carica di interessanti ripercussioni.
In pratica, l’obbligazione climatica, derivando da fonti internazionali pattizie (Convenzioni, Protocolli, Accordi, COP) e consuetudinarie (tutela dei diritti umani e No Harm), in ragione di fatti (climatici) di minaccia (l’emergenza antropogenica), opera come costrutto di responsabilità a contenuto materiale integrato da più norme (internazionali, europee, nazionali), accomunate dallo scopo di tutela (la rimozione del pericolo per il neminem laedere), da interpretare e applicare in «conformità» con l’ordinamento giuridico nella sua integrale complessità di fonti e norme che lo compongono nei modi indicati dalla Costituzione[35].
È appena il caso di far presente che questa conclusione risulta coerente anche con l’art. 23 Cost., poiché ovviamente la “legge”, in base alla quale si impongono prestazioni personali o patrimoniali, non è solo quella formale italiana, bensì quella materiale, abilitata dagli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.
Si scopre così che l’obbligazione climatica non è una “creazione” degli interpreti, bensì un dato di sistema, derivato dall’art. 1173 Cod. civ. senza alcun attrito con la Costituzione.
Diventa interessante constatare che la Corte EDU, nel caso climatico “Duarte Agostinho et al.” del 9 aprile 2024, si era già fatta carico di indurre gli interpreti nazionali a tale approccio integrato. Infatti, nel verificare l’esperibilità dell’accesso al giudice in Portogallo per la giustiziabilità dell’obbligazione climatica, la Corte di Strasburgo ha rimarcato la necessità che qualsiasi giudice nazionale accerti previamente l’esistenza o meno, nel proprio sistema domestico, di fonti o norme nazionali, aperte al diritto internazionale nell’applicazione degli istituti della responsabilità extracontrattuale e, di riflesso, abilitate alla configurazione integrata dell’obbligazione climatica e delle condotte materiali di mitigazione: esattamente quello che, in Italia, è fattibile, grazie all’art. 1173 Cod. civ.
4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico
Il descritto intreccio di norme trapela dall’ordinanza in commento, significativamente in quel passaggio in cui si spiega, da parte delle Sezioni Unite, che il compito affidato al giudice civile consiste soltanto nel verificare se le fonti internazionali e costituzionali invocate (o altre norme, eventualmente individuate, in ossequio al principio jura novit curia), risultino idonee a imporre un «dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 Cod. civ.».
In pratica, anche il facere ex art. 2058 deriva (e dipende) dall’intreccio normativo dell’art. 1173 Cod. civ.
Questo facere potrebbe riguardare sia il soggetto privato che quello pubblico. Così almeno sembrerebbe corretto dedurre, dato che la Cassazione non ne restringe il campo applicativo ai soli privati, essendo consapevole che, nel petitum della causa civile da cui è scaturita la questione di giurisdizione, è inserita la richiesta esplicita di attivazione di “policies” di abbattimento delle emissioni da parte anche dei poteri pubblici.
Su questo facere, i primi commentatori dell’ordinanza si sono posti due ordini di domande[36].
- in che cosa consisterebbe materialmente questo facere?
- il suo contenuto è manifestazione di discrezionalità politica, tale da richiedere l’atto legislativo?
Si tratta di due interrogativi, alla luce di quanto in precedenza analizzato, mal posti. Il primo, infatti, sembra replicare ancora una volta la “tragedia degli errori” nella (omessa) conoscenza del funzionamento fisico del sistema climatico, recuperando dalla finestra la trappola della teoria del “Black Box”, mandata via dalla porta dalle citate sentenze internazionali del 2024-2025. Il secondo risulta, invece, ignorare le implicazioni costituzionali degli artt. 28, 32 e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, di cui, non da oggi, si sono occupate sia la Corte costituzionale che la stessa Corte di cassazione[37].
Partiamo dal primo profilo.
Tutto ruota intorno alla formulazione letterale dell’art. 2058 Cod. civ., in base alla quale la reintegrazione in forma specifica imporrebbe un obbligo di ripristino dello status quo ante l’evento dannoso. Questo significherebbe
- rimozione del fatto lesivo e delle cause che lo hanno prodotto,
- tenendo conto, però, dell’eventuale eccessiva onerosità per il debitore,
- e dell’effettività concreta della rimozione della causa.
In forza di tali constatazioni, ci si è chiesti: nel cambiamento climatico antropogenico, si può effettivamente rimuovere il fatto lesivo con le sue cause? E come? E quanto oneroso sarebbe? E, poi, esso risulterebbe concretamente produttivo del “ripristino”?
Uno dei commentatori[38], senza fornire alcun riscontro di conoscenza e comprensione del sistema climatico, sostiene che il “ripristino” sarebbe impossibile, se non attraverso il facere di tutti gli emettitori e non invece di un singolo agente. Di qui, discenderebbe l’inconsistenza dell’evocazione dell’art. 2058 Cod. civ. Si tornerebbe, insomma, alla teoria del “Black Box” o, meglio, al postulato “ad impossibilia nemo tenetur”.
Siffatto ordito logico prova troppo. Se davvero un singolo emettitore, impresa o Stato che sia, non può incidere effettivamente sul “ripristino”, allora perché mai ci si è dati accordi internazionali, a partire dall’UNFCCC del 1992, per promuoverlo nella modalità della mitigazione? Oltre trent’anni di fonti climatiche sarebbero state concordate e scritte, fra Stati o da parlamenti o piani industriali, nella consapevolezza dell’inutilità e inefficacia? Per esempio, l’art. 4, n. 2 lett. a), dell’UNFCCC, che imponeva questo “ripristino” in dieci anni a carico dei paesi sviluppati, consisterebbe in una disposizione “impossibile”? A questo punto, persino i Giudici della Suprema Corte sarebbero inciampati in una rappresentazione surreale dei problemi climatici?
Evidentemente, per sottrarsi al circolo vizioso,, bisognerebbe chiedersi in che cosa consista la realtà del “ripristino” nel contesto del cambiamento climatico antropogenico, prima di maturare siffatti dubbi e, per comprenderlo, è necessario accertare se e che cosa dicano, in proposito, le fonti del diritto climatico.
In primo luogo, esse fanno rinvio, sin dalle definizioni normative dell’art. 1 dell’UNFCCC, alle leggi fisiche di funzionamento del sistema climatico[39] e questo comporta che, senza conoscere tali leggi fisiche, a partire dalle traiettorie di inerzia che condizionano la qualità intertemporale di ambiente e salute, la risposta alla domanda sull’effettivo “ripristino” rimane appesa a un filo.
Ma non solo. Tutte le fonti del diritto climatico si fondano, come già ricordato, sull’art. 2 dell’UNFCCC, il quale indica l’obiettivo ultimo e finale dell’intero complesso normativo di lotta al cambiamento climatico antropogenico: eliminare qualsiasi pericolosa interferenza umana sul sistema climatico.
“Ripristinare”, pertanto, non vuol dire “tornare” a uno status quo ante genericamente inteso, quanto piuttosto “eliminare” l’interferenza umana “pericolosa” sul sistema climatico, che prima non si verificava. E qual era questo passato senza interferenza umana “pericolosa”? Era quello pre-fossile, quando non esistevano le emissioni antropogeniche di gas serra (dunque fossili) che “si sono aggiunte”, come precisa l’art. 1 dell’UNFCCC, a quelle prodotte dai cicli solo naturali delle sfere del sistema climatico.
Ecco chiarito che il “ripristino” è sinonimo di eliminazione della “pericolosa” interferenza fossile sul sistema climatico da parte di qualsiasi emettitore fossile: invece di “aggiungere” nuove emissioni di gas serra, bisogna “toglierle” dalle proprie attività antropogeniche.
Come questo possa avvenire in modo effettivo, è stato spiegato con grande chiarezza dalla Corte Europea dei Diritti Umani, nella sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” (nei paragrafi dal 444 al 550 della decisione, attraverso il calcolo del c.d. “Carbon Budget Residuo” insieme ad altri calcoli equivalenti e complementari, capaci di incidere sulle traiettorie di inerzia del sistema climatico), per poi essere ripreso dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani (con il criterio pro natura, ovvero attraverso la conoscenza e il rispetto dei cicli naturali del carbonio e delle traiettorie di inerzia[40]) e dalla Corte Internazionale di Giustizia (a partire dai paragrafi 224-243, con il riferimento al c.d. Global Stocktake, richiesto dall’art. 14 dell’Accordo di Parigi, al non sforamento della soglia di temperatura di 1,5°C nel calcolo storico delle emissioni, all’obbligo di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte del pericolo[41]). Non è questa la sede per spiegare nel dettaglio queste modalità. È sufficiente precisare che si tratta comunque di un calcolo quantitativo; un’operazione contabile di mitigazione climatica, funzionale a escludere, in modo definitivo e irreversibile, il concorso del singolo agente emissivo alla propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico, tenendo conto del suo trascorso storico di emissioni fossili pregresse. Solo grazie a questo calcolo, in sostanza, un agente emettitore potrà comprovatamente sostenere di aver “ripristinato”, per il proprio agire, un’interferenza sul sistema climatico non più “pericolosa”, per il presente e il futuro tenendo conto del passato.
Sembra una conclusione complicata e quasi inverosimile, ma l’epistemologia giuridica che la sostiene è identica a quella che fonda disposizioni ben note al sistema giuridico in tema di concorso (commissivo od omissivo) di cause, come l’art. 2055 Cod. civ. e gli artt. 40 e 41 Cod. pen.
Il che dimostra, ancora una volta, l’inevitabilità di leggere l’ordinanza in commento in combinato con la giurisprudenza internazionale sulla mitigazione climatica. D’altra parte, che tale calcolo sia compatibile con il facere dell’art. 2058 Cod. civ., appare implicitamente ammesso dall’ordinanza in commento, lì dove essa evoca l’importanza della “scienza di attribuzione” (attribution science), dalla quale sono maturati i metodi di calcolo realizzabili per il facere di “ripristino”.
A questo punto, diventa semplice affrontare anche il secondo profilo. Si può seriamente sostenere che effettuare un calcolo di “ripristino” dell’interferenza umana non “pericolosa” sia ontologicamente un atto politico e addirittura necessariamente legislativo? Oppure si tratta di un doveroso atto di prevenzione, visto che esso, al di là della forma, opera in un contesto che le stesse Sezioni Unite ammettono di “certezza” dell’antropogenesi del pericolo?
Qui si ritorna al tema del neminem laedere, che, dopo l’apertura tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 641/1987, ben può operare anche come “prevenzione” di futuri danni e quindi come obbligo “attivo” di evitare il peggio, sia per l’autonomia privata che per la discrezionalità pubblica, non a caso qualificata “attiva” dalla Corte di cassazione in numerose decisioni di condanna della Pubblica Amministrazione al facere ex art. 2058 Cod. civ.[42].
Com’è noto e pacifico, la discrezionalità attiva può anche riflettere un indirizzo politico, ma non per questo essa si manifesta di per sé quale “atto politico”, visto che il suo contenuto «si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini» (Corte cass. civ. SS.UU. n. 5992/2025).
Quali siano questi “confini” normativi di calcolo trova risposta in quella giurisprudenza internazionale, più volte rimarcata in questa sede, ma omessa la quale nulla diventa esaustivamente comprensibile dell’ordinanza in commento.
Insomma, calcolare la propria mitigazione climatica in funzione della eliminazione della propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico e per il “ripristino” di un’interferenza non più “pericolosa”, costituisce limite esterno invalicabile di qualsiasi potere privato e pubblico: potere-dovere di neminem laedere nella minaccia del cambiamento climatico; nulla di più.
Di conseguenza, quanto constatato sul contenuto del facere di condanna ex art. 2058 Cod. civ. dissolve le nebbie sull’ultimo fronte delle ricadute dell’ordinanza in commento: la responsabilità dello Stato in materia climatica, la cui discrezionalità attiva è pienamente riconducibile allo schema costituzionale degli artt. 28, 32 e 113 Cost. e dunque giustiziabile in nome della tutela dei diritti.
5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”
Questa responsabilità statale è indubbiamente di natura extracontrattuale, trovando fondamento, come si è visto, in un intreccio di norme che abilitano, attraverso la Costituzione e l’art. 1173 Cod. civ., al rispetto del neminem laedere (e No Harm), imponendo necessarie operazioni di calcolo, funzionali all’eliminazione del pericolo e per ciò stesso limitative della discrezionalità politica.
Il paragrafo 550 della sentenza europea “Verein KlimaSeniorinnen” fonda questo limite esterno sui diritti umani, protetti dall’art. 8 CEDU, attraverso gli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ.
Sembra quindi corretto, e costituzionalmente conforme all’art. 28 Cost., evocare l’insorgenza, nel sistema normativo italiano, di una responsabilità civile dello Stato in materia climatica, derivante dall’obbligo vincolante di non violare l’art. 8 CEDU.
Anche su questo versante, gli enigmi che i primi commentatori hanno voluto intravedere nella lettura dell’ordinanza in commento, per i riferimenti, in essa presenti, alla nota vicenda processuale “Giudizio Universale”, inerente appunto alla responsabilità climatica statale extracontrattuale, si dissolvono nella lettura della giurisprudenza climatica internazionale del biennio 2024-2025.
È stato già da altri correttamente concluso con riguardo alla CEDU[43], sottolineando che l’ipotetica adesione delle Sezioni Unite in commento «alla sentenza Giudizio Universale appare inverosimile, posto che quest’ultima risulta a sua volta inconciliabile con quanto stabilito dalla Corte EDU». E lo stesso può dirsi a seguito della decisione della Corte Internazionale di Giustizia, con i suoi richiami all’obbligo statale di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte della “pericolosa” interferenza umana.
Parafrasando la celebre metafora normativa di Vezio Crisafulli, si potrebbe chiudere, parlando di una responsabilità civile extracontrattuale di facere a “rime obbligate”[44] sia per le imprese che per lo Stato: “rime” dettate dall’intreccio di fonti e norme, ammesse tanto dalla Costituzione quanto dall’art. 1173 Cod. civ., per la miglior tutela dei diritti presidiati dall’art. 8 CEDU e nel miglioramento del diritto climatico UE, come consentito dall’art. 193 TFUE[45].
[1] L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., ord. 21 luglio 2025, n. 20381, Greenpeace et al. c. Eni et al.: navigare nel mare (forse un poco meno?) incerto del contenzioso climatico all’italiana, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 29 luglio 2025.
[2] Sulla ricostruzione del dibattito intorno al costrutto del “difetto assoluto di giurisdizione”, si v. ora C. Giudice, L'assoluto difetto di giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2025.
[3] Redazione, Una svolta nella giustiziabilità climatica? Le Sezioni Unite e il caso Greenpeace vs ENI, in www.giustiziainsieme.it, 24 luglio 2024
[4] Si v., per esempio, M. Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Napoli, ESI, 2022, e V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico, in DPCE Online, SP2, 2023, 669-682.
[5] Sulla erroneità di questa analogia insistono soprattutto gli studi di Michele Carducci, alla luce della c.d. “equazione di Lenton et al.”, che spiega l’unicità problematica dell’emergenza climatica: cfr. M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Digesto delle discipline pubblicistiche, VIII Aggiornamento, Torino, Utet, 2021, 51-74, e Ordinamenti giuridici e sistema climatico di fronte all’autoconservazione, in Ars Interpretandi, 2, 2022, 13-28.
[6] M. Carducci, Il tempo del pianeta come bene della vita nell’emergenza climatica, in www.diritticomparati.it, 6 settembre 2022, nonché, a seguito della prima decisione costituzionale europea che ha preso atto del fattore tempo come bene della vita (il Bundesverfassungsgericht), M. Carducci, Libertà “climaticamente” condizionate e governo del tempo nella sentenza del BVerfG del 24 marzo 2021, in www.LaCostituzione.info, 3 maggio 2021.
[7] Cfr. A. Di Martino, The Problem of Temporal Synchronization in Climate Change Theoretical and Comparative Interplays in the Light of Litigation, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 62-98.
[8] Sugli errori sul fatto nella dogmatica giuridica, si v. molto efficacemente E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[9] Cfr. P. Marijn Poortvliet et al., Communicating Climate Change Risk: A Content Analysis of IPCC’s Summary for Policymakers, in Sustainability 12(12), 2020, 4861.
[10] J. Spier, S. Wiegers, Climate Change: A Tragedy of Errors and Looking Away, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 169-206.
[11] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 8 ottobre 2024.
[12] Cfr., tra i tanti riferimenti, Corte Cass., ord n. 5022/2021; Cass. civ. SS.UU. nn. 4908/2006, 6218/2006, 23735/2006, 17461/2006, 12133/1990 e 5626/1988; Cass. civ. sez. III. nn. 9893/2000 e 15853/2015; Corte cost. n. 5/2018.
[13] L’approccio risale alle considerazioni, in seguito strumentalizzate, di M. Bunge, A General Black Box Theory, in Philosophy of Science, 30(4), 1963, 346-358.
[14] Cfr. M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, 23-36.
[15] Questa fondamentale distinzione sembra sfuggire alla proposta ricostruttiva di P. Femia, Responsabilità civile e Climate Change Litigation, in Enciclopedia del Diritto, I Tematici VII-2024, Milano, Giuffrè, 2025, 847-879.
[16] Cfr. M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU, in www.diritticomparati.it, 21 marzo 2023, e L. Cardelli, La doppia inadeguatezza della mitigazione climatica italiana nei dati ISPRA e i suoi effetti di costo e di danno, in www.giustiziainsieme.it, 29 maggio 2025.
[17] In merito, si v. il commento di V. Vaira, Il danno alla salute da inquinamento atmosferico e l’omessa adozione di provvedimenti da parte della p.a. per la tutela dell’ambiente, in Corti Supreme e Salute, 3, 2023, 578-598; nonché, per un quadro di comparazione, M. Carducci, Le affinità emissive. La giurisprudenza comparata destinata a incidere sul contenzioso climatico italiano, in www.diritticomparati.it, 11 luglio 2024.
[18] Cfr. Corte suprema di cassazione, Report Corte EDU Verein Klimaseniorinnen Schweiz, 9 aprile 2024.
[19] È questo l’elemento che contraddistingue la lettura proposta da G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza della Sezioni unite (Cass. sez. un. 21 luglio 2025 n. 20381) in tema di contenzioso climatico, in Judicium. Il giudizio civile in Italia e in Europa, 29 luglio 2025.
[20] Cfr. Cass. civ. sez. III, n. 5120/2011, e n. 5984/2023.
[21] Cfr. L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, Torino, Giappichelli, 2024, e A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[22] Si tratta sempre della posizione di G. Scarselli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme, 26 novembre 2024.
[23] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale come fonte di obbligazioni nei rapporti di diritto civile, in Rivista di Diritto Internazionale, 2, 2025, 327-373 e ivi nt. 100 e 105.
[24] Cfr. M. Carducci, La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, 127-144, e G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[25] Sempre G. Scarselli, op. cit.
[26] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025. Ma cfr. anche S. Vezzani, M.C. Carta (ed.), International and European Union Law in the Face of Cliamte Change, Torino, Giappichelli, 2024.
[27] Cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in www.SIDIBlog, 8 marzo 2024.
[28] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[29] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit. e ivi note 123 e 124.
[30] Cfr. M. Buffoni, Giustizia per il clima, ai rigori della Cassazione passa la linea ambientalista. Ma la partita non è finita, in EconomiaCircolare.com, 7 agosto 2025; D. Castagno, La Corte di cassazione traccia la rotta: anche in Italia c’è un giudice per il clima, in https://climatedisplacements.wordpress.com/, 31 luglio 2025; P. De Stefani, Cambiamenti climatici: la CIG e la Cassazione italiana segnano una svolta nella giustizia climatica, in Annuario Italiano dei Diritti Umani, 28 luglio 2025; F. Garelli, La storica ordinanza della Corte Suprema italiana nel caso ENI: le implicazioni per la causa “Giudizio Universale” e per il contenzioso climatico in Italia, in Politica del Diritto, 3, 2025; A. Molfetta, «Eppur [qualcosa] si muove». Considerazioni a prima lettura intorno all’ordinanza sul regolamento di giurisdizione nella vertenza climatica Greenpeace e al. v. Eni e al., in Corti Supreme e Salute, 3, 2025, 1-12; R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, in www.LaCostituzione.info, 4 agosto 2025,
[31] Ancora G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[32] Cfr. M. Torsello, Commento Articoli 1173–1174 c.c., in M. Franzoni, R. Rolli e G. De Marzo (cur.), Codice civile commentato con dottrina e giurisprudenza, tomo I, Torino, Giappichelli, 2018, 1569.
[33] In proposito, C. Castronovo, F. Realmonte, Le ragioni del diritto: teoria giuridica ed esperienze applicative nel diritto dalla prospettiva delle obbligazioni, in Jus, 1-2, 1996, 87 ss., giustamente concludono che, nel sistema italiano, tutte le obbligazioni nascono da una fonte legale (domestica e non), purché collegata a un fatto – contratto, fatto illecito o ogni altro atto o fatto in tal senso qualificato dalla fonte legale – al quale riconnettere l’effetto giuridico obbligatorio.
[34] Cfr. M. Carducci, V. Mazzuoli, Teoria tridimensional das Integrações supranacionais. Uma análise comparativa dos sistemas e modelos de integração da Europa e América Latina, Rio de Janeiro, Forense, 2014.
[35] In ragione di questa complessa articolazione dell’ordinamento italiano, A. Ruggeri si interroga da tempo sull’opportunità di discutere di “sistema di norme”, piuttosto che di “sistema di fonti”, nell’osservazione della dinamica giuridica dei diritti (cfr., per es., A. Ruggeri, Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in www.diritticomparati.it, 22 novembre 2012).
[36] Sul ricorso all’art. 2058 Cod. civ., si v. L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., cit., e G. Scarselli, Per una corretta lettura, cit.
[37] Cfr. Corte cost. sent. n. 205/2022 nonché sentt. nn. 307/1990, 64/1992, 132/1992, 258/1994, 118/1996, 27/1998, 226/2000, 443/2000, 342/2006, 107/2012, 268/2017, 118/2000, 35/2023 e 129/2023
[38] È questa la conclusione di Scarselli, con riferimento all’eventuale condanna dell’impresa fossile, convenuta nel processo a quo dell’ordinanza in commento, rispetto all’intero sistema industriale.
[39] Cfr., in merio, M. Carducci, Cambiamento climatico, cit.
[40] Cfr. M. Carducci, Prima la natura. La svolta epistemologica nell’Opinione Consultiva n. 32/25 della Corte Interamericana dei Diritti Umani, in www.diritticomparati.it, 9 settembre 2025.
[41] Cfr. S. Humpherys, 1,5 at ICJ, in www.ejiltalk.org, 25 agosto 2025.
[42] Cfr. Corte cass. SS.UU. n. 21993/2020, n. 23436/2022, 27175/2022, secondo cui alla P.A. è riconosciuta una discrezionalità attiva di eliminazione del danno o del pericolo di danno, attinente cioè alla scelta delle misure più idonee, non anche la discrezionalità nel non agire, perché quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale alla salute, soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo.
[43] R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, cit.
[44] Sulla metafora crisafulliana, cfr. D. Tega, La traiettoria delle rime obbligate, in Sistema Penale, 2, 2021, 5-31.
[45] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite, cit.
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