ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate …”
(P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, 2008, 269)
Sommario: 1. Motivazione come dialogo - 2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale - 3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia - 4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice.
1. Motivazione come dialogo
È bella, prima ancora che felice e particolarmente calzante, l’immagine della motivazione come dià-logos: che etimologicamente è “parola che si lascia attraversare da una parola altra”[2].
Perché il dialogo è un percorso: di apertura accogliente, di ascolto attento e silenzioso, di confronto libero e rispettoso, di riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni[3].
Così, anche la motivazione mette capo ad un percorso: che è il processo.
Esso è la fonte esclusiva di legittimazione del giudice: tale soltanto nel processo, che potrebbe essere anche inteso come lo spazio costitutivo di riconoscimento dell’essere giudice, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che “senza processo non vi è giurisdizione, quindi azione, giurisdizione, processo sono tre facce della stessa realtà”[4].
È infatti nel processo, e attraverso il processo, che si invera compiutamente lo “ius dicere” del giudice, che in tal modo appunto attua la “giurisdizione … mediante il giusto processo regolato dalla legge” (art. 111, primo comma Cost.).
Non si può allora non condividere l’“immagine finale” del“la regolarità del processo come unica possibile garanzia positiva della giustizia del risultato”[5]: sicché, davvero la giustificazione della legittimità di una decisione giurisdizionale risiede nell’essere pronunciata, rispettando le “regole del gioco” stabilite per la funzione giurisdizionale[6].
Ebbene, all’interno dell’attività procedimentale, organizzata nella sequenza elementare fatto – situazione giuridica – atto[7] e in esito al percorso processuale reso possibile dalla presenza e dal contributo delle parti e dei loro difensori, nei tempi scanditi dalla direzione (art. 175 c.p.c.), l’esercizio della giurisdizione si realizza, normalmente[8], in un provvedimento, appunto motivato.
2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale
Si comprende bene, e giova averlo chiaro, che la decisione della controversia non stia (se non come epilogo) nel provvedimento risolutivo del giudice (sentenza, piuttosto che ordinanza, o decreto: a seconda del rito o del procedimento adottati) e nella loro motivazione, ma nella direzione “impressa” dal giudice al percorso processuale. Volutamente ho utilizzato un participio atecnico, per meglio illustrare come la direzione del giudice debba essere rettamente intesa: non già come un astratto indirizzo autoritario, bensì piuttosto quale orientamento coerente con gli elementi introdotti dalle parti, sotto i profili di allegazione e deduzione probatoria, nel rispetto del principio dispositivo regolante il processo civile, salva la previsione di esercizio di poteri officiosi (artt. 183, 421, 437 c.p.c.).
E la direzione del giudice deve assicurare, alla fine, una sola, fondamentale garanzia: quella del rispetto del “principio del contraddittorio” tra le parti (“et audietur altera pars”), che è cardine del processo civile, per il suo diretto ancoraggio costituzionale nel diritto di difesa, “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, secondo comma Cost.) e nel quale tutti gli altri principi e tutele sostanzialmente si risolvono.
È noto il suo riferimento normativo nell’art. 101, secondo comma c.p.c., secondo cui “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”, novellato dall’art. 3, settimo comma d.lgs. 149/2022 dall’aggiunta nell’esordio: “Il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione al diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni.”[9].
La disposizione è stata opportunamente introdotta con l’art. 45, tredicesimo comma della legge n. 69/2009, per dare forza di diritto positivo ad un formante giurisprudenziale, che, per rimediare ad un purtroppo non raro cattivo costume (rectius: vizio) motivazionale, aveva individuato, nel sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101, secondo comma c.p.c., il dovere costituzionale di evitare sentenze cosiddette “a sorpresa” o della “terza via”, poiché adottate in violazione del principio della “parità delle armi”, nel fondamento normativo dell’art. 183 c.p.c., che al terzo (poi quarto) comma faceva carico al giudice di indicare alle parti “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con riferimento, peraltro, alle sole questioni di puro fatto o miste e con esclusione, quindi, di quelle di puro diritto[10].
Non per nulla la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione[11].
3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia
La motivazione di “tutti i provvedimenti giurisdizionali” non è soltanto doveroso adempimento costituzionale (art. 111, sesto comma Cost.), ma essenza stessa della Giurisdizione.
Essa non è prerogativa del giudice declinata come potere proprio, bensì servizio: che neppure gli appartiene, se non per esercitarlo, nella soggezione soltanto alla legge (art. 101, secondo comma Cost.). E che amministra “in nome del popolo” (art. 101, primo comma Cost.), cui appartiene “la sovranità”, da esercitare – qui attraverso il Giudice – “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, secondo comma Cost.): così come deve essere intesa, secondo il limpido dettato costituzionale. Al riguardo, giova riprendere una chiosa davvero preziosa, per essere sempre avvertiti che “sovranità e soggezione all’impero della legge si presentano … come fossero due facce della medesima medaglia”[12].
Ed è bene anche ribadire che “la motivazione non può essere indifferente alla diversa funzione, che, a seconda dei casi, essa è chiamata a svolgere”: “endoprocessuale”, “per dare conto essenzialmente solo alle parti ed ai loro difensori del perché della decisione”; oppure funzione anche “extraprocessuale”, “per consentire il controllo dell’opinione sull’esercizio dell’attività giurisdizionale e per contribuire alla formazione di orientamenti giurisprudenziali in grado di perpetuarsi quado si ripresentino casi simili”[13].
Si comprende allora come il legame della motivazione, e quindi della Giurisdizione, con la Democrazia sia più stretto di quanto normalmente si pensi: la motivazione è, infatti, esercizio alto e delicato di democrazia.
Perché è “rendere conto” della funzione del giudicare, rettamente intesa: non già alla stregua di apodittica affermazione di un potere gelosamente e insindacabilmente esercitato come proprio, ma quale giustificazione, criticabile in quanto esplicitata in un dialogo argomentato sostenuto da un pensiero, di un “servizio di autorità”, consegnato al Giudice dalla Costituzione, in un circuito virtuoso che parta dal Cittadino (sovrano) e, attraverso il suo Giudice naturale (art. 25, primo comma Cost.), ad esso ritorni.
Ma ciò può, e deve, avvenire soltanto se essa spieghi, in modo trasparente e comprensibile, le ragioni effettive del decidere.
È vero che la chiarezza della motivazione non è prescritta in modo esplicito dal codice di rito, ma costituisce evidentemente la condizione indispensabile perché possa assolvere il suo compito[14]. Prescrivono l’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. che la sentenza debba, in particolare, contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” e l’art. 118 disp. att. c.p.c. che: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4 del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (primo comma); “Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio e indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. … ” (secondo comma); “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici.” (terzo comma).
L’interpretazione giurisprudenziale ha, come noto a tutti, meglio chiarito ed esplicitato il significato del dettato normativo. E così, soltanto per una rapida ed esemplificativa silloge di riferimenti, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato:
“in tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, non risultando identificabili gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass. 10.11.2010, n. 22845; Cass. 20.1.2015, n. 920; Cass. 15.11.2019, n. 29721); sicché sussiste il vizio di nullità della sentenza per omessa motivazione allorché essa sia priva dell'esposizione dei motivi in diritto a fondamento della decisione (Cass. 16.7.2009, n. 16581; Cass. 10.8.2017, n. 19956)”[15];
“il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza sussiste solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale (Cass. 30.12.2015, n. 26077; Cass. 27.6.2017, n. 16014; Cass. 17.10.2018, n. 26074); in particolare, presupposto indefettibile della prospettata nullità della sentenza è l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione, in quanto rechino affermazioni del tutto antitetiche tra loro; la prospettata insanabilità non sussiste quando la motivazione sia invece coerente rispetto al dispositivo, limitandosi a ridurne o ad ampliarne il contenuto, senza tuttavia inficiarne il contenuto decisorio e se ne possa escludere qualsiasi ripensamento sopravvenuto, essendo la motivazione saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo: in tal caso, la divergenza tra dispositivo e motivazione non preclude il raggiungimento dello scopo ed esclude la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156, secondo comma c.p.c. (Cass. 10.5.2011, n. 10305); inoltre, nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza deve essere individuato, non già alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice: con la conseguenza della prevalenza della parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (Cass. 10.9.2015, n. 17910; Cass. 18.10.2017, n. 24600); sicché, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, da interpretare secondo l’unica statuizione in esso contenuta (Cass. 11.7.2007, n. 15585; Cass. 17.7.2015, n. 15088; Cass. 21.6.2016, n. 12841). E sempre che il principio dell’interpretazione del dispositivo mediante la motivazione non si estenda fino all’integrazione del contenuto precettivo del primo con la statuizione desunta dalla seconda, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo (Cass. 12.2.2020, n. 3469, p.to 1.3. in motivazione)”[16];
“è inconfigurabile, alla luce del novellato testo dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., la censura di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, co. 6 Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. s.u. 7.4.2014, n. 8053; Cass. 12.10.2017, n. 23940); ricorre violazione dell’obbligo di motivazione anche qualora essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile), realizzandosi in tal caso una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. (Cass. 25.9.2018, n. 22598)”[17].
4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice
A conclusione delle riflessioni svolte, mi piace sottolineare come la motivazione sia la cartina di tornasole di chi sia davvero il giudice, rivelandone la “postura” e la “qualità”, umana e professionale.
La “postura” è la posizione che il giudice assume abitualmente nel processo, e quindi nella motivazione dei provvedimenti.
Essa dovrebbe auspicabilmente essere quella di chi conosca la trama della controversia, per averne compreso gli elementi fattuali e le ragioni giuridiche, avendo diretto il processo in dialogo con le parti, nella chiara individuazione dei principi di diritto da applicare. E di chi sappia discernere le effettive ragioni del decidere, spiegandole con linguaggio semplice e tecnicamente appropriato, in uno stile sobrio, conciso ma esauriente al tempo stesso, che soprattutto non indulga ad inutili e fuorvianti digressioni, insidiose per le parti e per gli altri giudici, in caso di impugnazione.
Qui si aprirebbe un discorso davvero lungo, che non ho qui il tempo di affrontare, ma che mi preme comunque anche soltanto accennare, in particolare riferimento alla delicata distinzione tra le rationes decidendi (le ragioni argomentative ad effettivo sostegno del ragionamento decisorio) dai meri obiter dicta (le affermazioni volatili, assolutamente superflue; etimologicamente: “buttate là”).
Una tale distinzione rileva, infatti, per i riflessi di inammissibilità dei motivi di impugnazione della sentenza, se non esattamente individuate o riconosciute nella genuina natura, sotto due principali profili:
a) di non corretta denuncia di doppie rationes decidendi, qualora una di esse non sia stata confutata affatto o lo sia stata in modo infondato, per sopravvenuto difetto di interesse, posto che quelle relative alle altre ragioni oggetto di doglianza non potrebbero comunque condurre, per l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione[18];
b) per carenza di interesse, in relazione alla censura di un’argomentazione svolta “ad abundantiam”, siccome avente natura di mero “obiter dictum”, ininfluente sul dispositivo della decisione[19].
In altre parole, con espressione più diretta: la motivazione deve essere resa “per quel che serve”, senza nulla di meno ma neppure di più, in una consapevole e prudente auto - limitazione[20].
La qualità, “umana e professionale”, è il requisito coessenziale all’esercizio di ogni attività, che aspiri ad essere semplicemente degna della donna e dell’uomo.
E così, per chi svolga l’esercizio della giurisdizione l’essere, prima di ogni altra cosa, cittadina o cittadino consapevole, è inseparabile dalla qualità professionale, di magistrato (ossia, di impiegato dello Stato), per status giuridico e di giudice, per investitura di una delicata funzione costituzionale, quella appunto di esercizio della giurisdizione: funzione da svolgere nel rispetto di quell’armonico ordito di equilibri e di garanzie, di diritti di libertà e di valori di giustizia[21], che è Valore sommo della nostra Costituzione, in una coesistenza mite, perché richiede che ciascun valore e ciascun principio “sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere[22]”, in quanto “carattere assoluto assume solo un meta–valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori … e del loro confronto leale”[23]. Ed essa è patto di fiducia a fondamento dell’ordinamento democratico del nostro Stato di diritto, che costruisce spazio di inclusione politica e sociale[24].
E allora, accanto e prima ancora di una doverosa competenza tecnico – giuridica, nel Giudice doti essenziali mi paiono quelle di: umiltà (che è giusta considerazione di sé e degli altri attori del processo, in un ascolto orientato dal desiderio di capire davvero), equilibrio (che è senso della realtà e della misura, oltre che onestà intellettuale), equidistanza (che non è indifferenza né disinteresse, ma serenità di giudizio, libertà da pre–giudizi, ben oltre la cosiddetta “prevenzione cognitiva”)[25], attenzione alle persone che domandano giustizia e sensibilità agli effetti della decisione, sia giuridica sotto il profilo sistematico, sia di “buon senso” della ricaduta concreta della soluzione della controversia sulla vicenda sottesa alla fattispecie[26].
Tali caratteri traspaiono dalla motivazione del provvedimento, che, se ci sono, li illustra …
[1] Relazione rielaborata tenuta a Roma 17 maggio 2023 per il Corso di Tirocinio Mirato Mot. D.M. 2022.
[2] E. Bianchi, L’altro siamo noi, Torino, 2010, 14.
[3] A. Patti, Ascolto via al dialogo, Cinisello Balsamo (Milano), 2018, passim.
[4] S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 225.
[5] G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 744.
[6] A.J.D. Perez Ragone, Profili della giustizia processuale (procedural fairness): la giustificazione etica del processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, 1033, part. 1049.
[7] G. Fabbrini, op. cit., 721 ss.
[8] Laddove non si pervenga ad un esito conciliativo, ulteriormente sollecitato dalla novellazione del d.lgs. 149/2022, a norma in particolare degli artt. 183, 185, 185bis, 420 c.p.c.
[9] Il principio è ribadito nel giudizio di cassazione dall’art. 384, terzo comma c.p.c., secondo cui: Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.
[10] Cass. 7 novembre 2013, n. 25054; Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 27 novembre 2018, n. 30716: Cass. 12 settembre 2019, n. 22778; Cass. 6 febbraio 2023, n. 3543.
[11] Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 21 novembre 2016, n. 23638; Cass. 20 novembre 2020.
[12] R. Rordorf, Il giudice e la legge, in Magistratura Giustizia Società, Bari, 2020, 81.
[13] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 391.
[14] Ivi, 389.
[15] Cass. 28 ottobre 2021, n. 30526 (in motivazione, sub p.ti 3, 3.1).
[16] Cass. 9 dicembre 2021, n. 39050 (in motivazione, sub p.ti da 3 a 3.2).
[17] Cass. 16 aprile 2019, n. 10573 (in motivazione).
[18] Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3307; Cass. 15 luglio 2020, n. 15114; 11 maggio 2022, n. 14995).
[19] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 11marzo 2022, n. 7995.
[20] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 390: “Ma la sinteticità risponde soprattutto ad un più generale principio di economia dei mezzi rispetto al fine, il quale consiste nel dare conto della ragione della decisione e non nel manifestare il pensiero giuridico dell’estensore alla maniera di un saggio di dottrina. Per essere efficace la motivazione di un provvedimento deve dire tutto quel che occorre per far comprendere che cosa ha indotto il giudice a decidere in un determinato modo, ma nulla più di questo”.
[21] A. Patti, Perché la legalità? Le ragioni di una scelta, Milano, 2013, 51.
[22] In tale senso anche, in particolare: Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (in materia di garanzia del diritto alla salute e all’ambiente salubre); Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 20 (in materia di garanzia del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza), secondo le quali: “Ogni diritto costituzionalmente protetto non può espandersi illimitatamente e divenire “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, poiché la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[23] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 11.
[24] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 135.
[25] Essa si sostanzia nell’imparzialità, che è condizione essenziale per la realizzazione degli altri valori (di giustizia) del diritto, per la sua funzione di assicurare il modo di raggiungimento di un risultato, nel rispetto di tutti gli interessi in gioco: I. Trujillo, Imparzialità, Torino, 2003, 226.
[26] R. Rordorf, L’equità e la legge, in Magistratura Giustizia Società, cit., 107: “Non bisogna dimenticare che il diritto non è un esercizio mentale astratto ma si confronta continuamente con la realtà storica dei fatti ai quali è destinato ad applicarsi e con i quali è indissolubilmente intrecciato”.
Il 27 giugno 2023 presso l’Università Bocconi di Milano si è tenuto un interessante convegno sul tema “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di presidenza della giustizia tributaria e la sua agenda.” Introdotto dal “padrone di casa”, prof. Angelo Contrino, direttore del Master di diritto tributario presso detta Istituzione accademica, l’incontro è stato autorevolmente coordinato dal Presidente dell’Associazione italiana studiosi e professori di diritto tributario, prof. Maurizio Logozzo, dell’Università Cattolica di Milano. Sono intervenuti il prof. Alessio Lanzi, componente del CPGT nominato dal Senato della Repubblica, il dott. Lanfranco Maria Tenaglia, presidente di sezione della CGT di secondo grado per il Veneto, la prof. Adriana Salvati dell’Università della Campania “Vanvitelli”, il dott. Raffaele Tuccillo, giudice CGT di primo grado di Roma. La sintesi conclusiva è stata tratta dal prof. Giuseppe Zizzo dell’Università LIUC di Castellanza.
Dato il rilievo culturale dell’iniziativa, la Rivista pubblicherà gli interventi scritti dei relatori, a partire da quello del dott. Tenaglia, cui seguiranno gli altri.
Da poco più di una settimana è accessibile, all'indirizzo www.eurojusitalia.eu, una banca dati che raccoglie i casi "italiani" sottoposti all'attenzione della Corte di Giustizia e del Tribunale a partire dal 2020.
Si tratta di uno strumento di grande utilità, poiché accanto alle decisioni di Tribunale e Corte raccoglie una serie di informazioni relative ai casi ancora pendenti, provenienti da ricorsi italiani o da rinvii pregiudiziali proposti da giudici italiani, dando tra l'altro evidenza, in tale secondo caso, del provvedimento di rinvio e di quello assunto all'esito della pronuncia della Corte (il c.d. suivi nazionale).
Oltre ad essere un valido strumento per la ricerca giuridica in qualsiasi settore, l'istituzione della banca dati risponde così ad esigenze concrete emerse nella pratica dell'avvocatura e della magistratura.
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Giuseppe Tropea, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, è autore del volume “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico” (Napoli, Editoriale Scientifica, 2023). Ne illustra i contenuti nell’intervista curata da Michele Trimarchi, di seguito pubblicata.
(M.T.) Il titolo che Giuseppe Tropea ha scelto per il suo ultimo libro, “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico”, può indurre a credere che obiettivo dello studio sia di proporre una lettura in chiave biopolitica delle misure adottate per il contrasto dell’epidemia e delle conseguenti trasformazioni dell’amministrazione e del suo giudice, una lettura cioè che mette in risalto l’esistere, e il manifestarsi al massimo grado proprio in queste contingenze, di “un’implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica” (R. Esposito).
In ciò vi è del vero, ma il libro non può essere ridotto a questo. Il volume in effetti condensa riflessioni nate e formulate in larga parte durante il periodo pandemico, ma solo alcune traggono spunto dalle misure legislative e dalle prassi giurisprudenziali volte al contrasto della pandemia. L’impressione, in generale, è che la pandemia e le conseguenti modifiche dell’ordinamento siano essenzialmente un pretesto, che l’A. ha colto per varare un progetto culturale di più ampio respiro. Ed è lo stesso Tropea a confessarlo nelle conclusioni, quando scrive “il mio interesse attuale non è (sol)tanto contenutistico quanto appunto metodologico, e spero che questo approccio possa suscitare un dibattito, il che già mi renderebbe soddisfatto del lavoro fatto”.
Prima di iniziare l’intervista, può forse essere utile individuare telegraficamente quelli che mi sembrano i due pilastri fondamentali di questo più vasto programma.
Il primo è di mettere in luce che molti caratteri del diritto amministrativo contemporaneo (pandemico e non) sono espressione del modello di governamentalità neoliberale descritto da Foucault, un modello che riduce il diritto a strumento dell’economia e lo piega alle logiche del mercato. In questa prospettiva andrebbero letti il ricorso alle spinte gentili in luogo degli ordini e dei divieti, l’insistenza del legislatore e della cultura giuridica sulle dimensioni dell’efficienza e dell’efficacia dell’amministrazione, la propensione all’utilizzo della soft law, l’atteggiamento del giudice che si distacca dalla legge o invade attribuzioni altrui poiché percepisce la norma non come vincolo ma come mezzo rispetto a un fine di cui egli stesso si fa interprete, etc. Al modello neoliberale mi sembra che Tropea opponga, promuovendolo, il ritorno al primato della sovranità popolare e dei suoi valori, dunque il principio di legalità in senso forte, la separazione dei poteri, il self restraint giudiziale, la funzione reattiva e non proattiva del processo (il processo come luogo di soluzione di controversie, non di attuazione di politiche pubbliche), e la rivendicazione di un ruolo autonomo e caratterizzante della scienza giuridica rispetto alle altre scienze sociali.
Il secondo pilastro fondamentale del progetto culturale di Tropea consiste nello studiare il diritto con un approccio filosofico diverso e per molti versi alternativo a quello che negli ultimi cinquant’anni almeno è stato il più praticato, cioè l’approccio della filosofia analitica. Tropea propone come chiave interpretativa la filosofia continentale post strutturalista e in particolare il pensiero di Foucault. Quale Foucault? Sicuramente l’impietoso osservatore del neoliberalismo, alla cui analisi molto deve quella di Tropea, ma anche il teorico della biopolitica. Tropea osserva che la biopolitica di Foucault oggi è utilizzata dai filosofi sia per additare le scelte del governo che sempre di più si preoccupano della vita e della salute degli individui, comprimendo le loro libertà, sia per l’esatto contrario, cioè per segnalare l’esigenza di un governo attento al benessere e alla felicità degli individui. Anche se il punto è molto delicato, mi sembra che Tropea aderisca a questo secondo filone di pensiero, laddove prende le distanze da Agamben e si dichiara per una biopolitica affermativa.
Vorrei però esser chiaro. Tropea non solo predica il metodo giuridico, ma anche lo applica nella analisi degli istituti da cui volta per volta prendono mossa le sue osservazioni. Ecco perché, pur a fronte di un progetto culturale così ambizioso stimolante e suscettibile di dibattito sul piano delle convinzioni di fondo e del metodo del giurista, sarebbe fuorviante distogliere del tutto l’attenzione dalle questioni di merito, che l’A. affronta da par suo in questo libro.
(M.T.) 1) Ti chiederei innanzitutto di illustrarci cosa intendi per neoliberalismo e quale sia la relazione tra questo e il diritto amministrativo. Inoltre, perché ritieni di doverne fare l’obiettivo polemico di fondo delle tue riflessioni? Mi rendo conto che il tuo libro nella sua interezza costituisce una risposta a queste domande. Ma ti chiederei qui uno sforzo di sintesi proprio per far emergere le linee di fondo del lavoro.
(G.T.) Intanto ringrazio Michele Trimarchi per avermi letto con tanta cura e attenzione, come emerge dal suo preciso e già stimolante discorso introduttivo.
Ove traspare un aspetto cruciale: come nelle lezioni al College de France del 1978-79 per Foucault parlare di biopolitica è stato un pretesto, ben presto abbandonato, per effettuare una genealogia del neoliberalismo, allo stesso modo questo libro vuole essere, pur nella distanza siderale col pensatore francese, un’analisi critica su come il neoliberalismo abbia agito profondamente nel nostro diritto amministrativo sostanziale e processuale, spesso alterandone sia i tratti più tradizionalmente liberali, sia quelli più di recente relativi alle trasformazioni dello Stato sociale e di prestazione.
Contrariamente ad un’opinione diffusa nel dibattito scientifico italiano (e non solo) che vorrebbe il neoliberismo globale come un mero ritorno in auge del “guardiano notturno” e del laissez-faire ottocentesco, nel neoliberismo contemporaneo non vi è affatto un “ritiro dello Stato” dall’economia. Il neoliberismo attuale produce infatti le proprie regole giuridiche e crea le proprie istituzioni, ovvero modella quelle esistenti a proprio uso e consumo: nella logica neoliberista, pertanto, il giuridico è sin da subìto parte dei rapporti di produzione economica. Il diritto, in breve, plasma “dall’interno” l’economia e, in questo modo, “produce” il mercato come istituzione artificiale, perdendo però al contempo il proprio ruolo tradizionale di scienza autonoma, in quanto si funzionalizza allo status dell’efficacia e delle logiche del mercato, ossia alla logica del profitto e dell’efficienza.
A me pare, in questo senso, che il modello di potere per inquadrare la fase attuale, sempre restando a Foucault, sia quello del “tardo” Foucault, non già “ultra-radicale” dei primi anni ’70, ma della svolta “pragmatica”, più in linea con la nozione di governamentalità, non a caso sviluppata nei corsi al Collège de France della seconda metà degli anni ’70. Per intenderci, il Foucault che sintetizzava il passaggio dal liberalismo al neoliberalismo sottolineando che nel primo il protagonista è il soggetto considerato come partner di uno scambio, mentre nel secondo il soggetto è teorizzato come un imprenditore di sé stesso.
Il punto di fondo è dato dal fatto che è insito nel pensiero neoliberale il profilo della libertà di scelta, ricostruita attraverso modelli di comportamento di mercato foucaultianamente estesi a tutte le situazioni e a tutti i rapporti sociali. Del diritto viene a ricavarsi, così, un’immagine di ordine “non politico”: nel modello neoliberale il mercato è un’occasione di massimizzazione e la realizzazione del public good dipende dal successo delle singole transazioni massimizzanti. In tale contesto si è affermato uno «stile giuridico neoliberale» (Denozza), connotato da: intensificazione e tecnicizzazione delle regole, frammentazione dell’ordinamento, concorrenza sostituita dalla competitività.
In questo quadro frastagliato e indefinito è il neoliberalismo amministrativo come “emergenza” costante (De Carolis) che meriterebbe maggiore attenzione. A differenza del paradigma moderno della sovranità, infatti, nel dispositivo governamentale l’emergenza è la strutturazione della quotidianità nell’ottica dell’imprevisto governabile, risolvibile: tale tecnica governamentale diviene, così, un «gigantesco generatore di eccezioni».
Si ha così un’inedita centralità dell’amministrazione nell’ordinamento neoliberale, che mi sembrava meritevole di approfondimento critico.
(M.T.) 2) Come tu stesso osservi, il neoliberalismo coincide con l’economia sociale di mercato proposta dagli ordoliberali. L’economia sociale di mercato è espressamente richiamata e posta a fondamento dei Trattati dell’Unione. In quale misura la tua critica al neoliberalismo è una critica ai fondamenti stessi del diritto dell’unione europea?
(G.T.) Il tuo rilievo è molto acuto.
Come ho appena detto, l’amministrativista deve finalmente prendere consapevolezza di una sua rinnovata centralità critica.
Finora, infatti, si è ritenuto, non senza una certa ragione, che per lo studioso del diritto amministrativo, l’integrazione europea non abbia posto, almeno fino alla sua crisi recente, problemi “esistenziali”, stante la funzione “servente” e “tecnica” che a tale diritto poteva attribuirsi, laddove per il costituzionalista le cose sono state da sempre più complicate. Ho sviluppato queste tematiche di dogmatica giuridica nel paragrafo su norme tecniche e soft law.
Il punto centrale è intendersi sul senso dell’economia sociale di mercato sottesa al modello concorrenziale ordoliberale. Nei Trattati, infatti, l’aggettivo “sociale” ha significato ben diverso di quello recepito o presupposto nella nostra Costituzione. L’economia sociale di mercato non è l’economia di mercato corretta dalla garanzia costituzionale e legislativa dei diritti sociali di welfare, come spesso si sente dire in Italia, travisando completamente il senso autentico della formula, la quale indica un modello che si basa esclusivamente sulla tutela della concorrenza e che muove dal presupposto che questo funzionamento concorrenziale del mercato produca di per sé delle ricadute sociali positive. La nostra Corte costituzionale ha dapprima gerarchizzato i rapporti tra utilità sociale e concorrenza, subordinando la seconda alla prima. Poi però, sotto l’influsso egemonico dello spirito sotteso allo european competition law, ha mutato indirizzo e cominciato a immaginare che tra utilità sociale e concorrenza ci potesse essere un bilanciamento, come se fossero entrambi principi di uguale rango costituzionale e perciò bisognosi di convivere in modo paritario ed equilibrato. Anche la Relazione al Codice dei contratti pubblici, nella misura in cui richiama come esempi di “demitizzazione” della concorrenza due sentenze della Consulta, la n. 131/2020 e la n. 218/2021, andrebbe forse riconsiderata, trattandosi di sentenze non riferite direttamente all’applicazione di principi connessi con la disciplina complessiva del codice dei contratti, ma a situazioni estremamente circoscritte e particolari (terzo settore; obbligo di gara per l’80% per contratti dei concessionari): nessuna delle due esprime, quindi, una valutazione riferita al principio di concorrenza come recessivo rispetto al “risultato”.
Torna così la questione di metodo, centrale nel mio lavoro.
Da un lato si pone il discorso sull’impatto del neoliberismo sulle categorie tradizionali porta ad interrogarsi sullo statuto del diritto post-moderno, sulla sua schizofrenia o la sua eclissi, mettendo in luce come nell’epoca neoliberale il giudice sia un funzionario di un corpo amministrativo investito del compito di approssimare la realtà quanto più possibile al modello della concorrenza perfetta.
Dall’altro evidenzio il dibattito sul ruolo del diritto in Europa, che vede tra i suoi interlocutori autori come Aldo Sandulli in Italia e Armin von Bogdandy in Germania. L’idea di fondo è quella di rivitalizzare lo jus publicum europaeum (di cui Schmitt traccia la parabola e vede il tramonto nella seconda metà del XIX secolo con l’affermarsi del positivismo legalista e statocentrico) attraverso un re-embedding del mercato finanziario europeo. La scienza giuridica deve, in quest’ottica, agire da katéchon contro i mercati globali, freno contro la deriva funzionalizzante, declinando gli imperativi delle scienze dell’economia alla luce dei diritti fondamentali, dei principi costituzionali e delle conoscenze di altre materie in modo da promuovere l’integrazione sociale.
Bisogna osservare come nell’ultimo decennio vi è stato pure un altro approccio alla nuova governance europea, specie dopo la crisi economica del 2008, in base al quale, riprendendo la parte meno “irenica” del pensiero di Schmitt, si è paventato l’avvento di un nuovo stato di eccezione, connotato dalla prevalenza della tecnica, o di “liberalismo autoritario”, per menzionare la tesi di Hermann Heller. Un allontanamento, quindi, del modello dell’integrazione attraverso il diritto, e l’avvento di un nuovo modello di regolazione soft che finisce paradossalmente per rafforzare l’unilateralità della tecnologia di governo. Altri hanno evocato, in questo senso, proprio le tesi foucaultiane del pastorato e del disciplinamento (De Lucia), cui sarebbero sottoposti oggi gli esecutivi nazionali rispetto alla Commissione europea.
Mi sembra particolarmente interessante che un discorso sul metodo, quale quello condotto da Aldo Sandulli, riveli l’acuta consapevolezza della necessità di ripensare l’Unione europea a partire dal diritto, richiamando peraltro, seppure in un contesto diverso, la lezione di Schmitt.
E non mi pare un caso che Schmitt sia al centro del recente libro di Portaluri, che è stato oggetto di un altro “incontro del lunedì” della Rivista, e che come noto ha da par suo criticato in modo serrato le origini nazionalsocialiste della teoria della meritevolezza della tutela, vista come filtro per negare tutela tutte le volte che l’azione collida con «valori emergenti dal basso, che finiscono per diventare le regole ordinative della comunità interpretativa», ammettendo solo una meritevolezza in bonam partem.
(M.T.) 3) Veniamo a qualche tema che riguarda più da vicino il diritto amministrativo, ma sempre nella prospettiva generale che è propria del libro. Occupandoti del potere di ordinanza e delle sue plurime manifestazioni, quasi sempre legate all’esigenza di governare l’emergenza, osservi che, secondo l’impostazione diffusa tra gli amministrativisti, l’ordinanza costituisce l’eccezione rispetto alla totale giurisdizionalizzazione del potere che risponde al modello ideale dello stato di diritto. Per te si tratta invece di un elemento che mette in discussione lo stesso fondamento del potere amministrativo nella legge e che in fin dei conti indica la persistenza e attualità del c.d. stato amministrativo, uno stato che fa a meno del fondamento legale del potere e che si comporta come un continuo generatore di eccezioni, di risposte caso per caso a singoli problemi, risposte affidate essenzialmente alla discrezionalità amministrativa. Lo stesso tema torna nel capitolo su norme tecniche e soft law. Mi piacerebbe che tu chiarissi a questo punto quale dovrebbe essere per te il ruolo del giurista nel contesto che descrivi con lucidità e disincanto. Per un verso mi sembra che tu consideri velleitario, se non ingenuo, il continuo stracciarsi le vesti per i cedimenti della legalità. Ma al contempo rivendichi lo sguardo critico del giurista. Come convivono questi due atteggiamenti?
(G.T.) Anche in questo caso le tue osservazioni sono molto penetranti.
Foucault e Schmitt mi servono come lenti per osservare la realtà, ma questo non mi impedisce di provare a impostare un discorso prescrittivo, che capisco bene possa essere considerato di retroguardia (si pensi al modo in cui rileggo la nozione romaniana di “istituzione” cercando di allontanarla dalle derive della governance), ma tant’è, continuo a credere nei capisaldi dello Stato di diritto, e in tal senso l’approccio metodologico che mi sono sentito di confermare è quello che fa leva sul giuspositivismo temperato (di cui si è già parlato nell’incontro sul bel libro di F. Saitta).
Probabilmente sarà una lotta impari, visto che la sovranità statale, ultimo vero modello di katéchon, è sopravanzata dal modello della crisi permanente, cioè dalla catallassi dell’ingegneria neoliberale, dall’emergenza permanente e dallo Stato amministrativo.
A proposito di Stato amministrativo, menzionavi il tema del potere di ordinanza, anche alla luce del periodo pandemico.
Mi è parso che questo tema intrecci proprio quello, di cui abbiamo già parlato, della governamentalità neoliberale.
L’attenuazione dei confini fra giurisdizione amministrativa e legislazione e fra amministrazione e giurisdizione è segno della predominanza in questa fase del cd. Stato amministrativo di schmittiana memoria, che ultimamente tende ad essere vieppiù riscoperto nelle più meditate indagini sul tema dell’emergenza, anche pandemica. Lo Stato amministrativo (in senso organizzativo) è lo Stato nel quale le autorità amministrative non solo governano e amministrano, ma pongono regole di comportamento e giudicano intorno alla loro applicazione. Inoltre (in senso funzionale) è lo Stato in cui anche legislazione e giurisdizione si trasformano in amministrazione: la legge e la sentenza perdono la loro funzione tipica e divengono anch’esse misure amministrative.
Allo stesso modo, nel modello neoliberale quel che spicca è una tendenza alla amministrativizzazione della norma e della sentenza e una pervasività della norma tecnica soft.
Su quest’ultimo punto, da te richiamato nella domanda, mi interessava di nuovo il discorso di metodo (più che di merito) sotteso alla questione delle norme tecniche e della soft law.
Ove ho evidenziato un diverso modo di approcciare al tema.
Quella più mainstream è l’impostazione che vede l’ascesa di fonti diverse da quelle primarie e secondarie nell’era della globalizzazione dei mercati e della tecnicizzazione del mondo. È presente in questa lettura la presa d’atto della crisi della legalità in esso insita, e il contestuale tentativo di trovare “freni” all’anti-sovrano (Luciani), che vanno dalla legalità procedurale al controllo delle corti. Questo primo punto di vista presuppone un’idea di “norma tecnica” più legata all’uso corrente della locuzione, intesa come “normativa tecnica”, cioè come insieme di regole che qualificano deonticamente una tecnica o che attuano norme più generali, ossia ne specificano le modalità di esecuzione/applicazione.
C’è poi la definizione più filosoficamente connotata di “regola tecnica”, che si fonda sulla distinzione kantiana tra imperativo ipotetico e imperativo categorico, poi sviluppata dai filosofi analitici, che inquadra le regole tecniche, diverse da quelle categoriche, fra le regole che prescrivono un comportamento in quanto mezzo per perseguire un determinato fine, secondo lo schema: se si vuole Y, si deve X. Questo concetto di regola tecnica, a rigore, si distingue dalle regole tecniche sopra indicate, definibili invece come regole tecnonomiche e come regole tecniche d’attuazione.
La prima prospettiva, maggiormente presente fra i costituzionalisti, porta sovente ad accedere ad un’idea non tanto di crisi della legge, ma più ampiamente di crisi del diritto come sistema di veridificazione del potere, per dirla con Foucault , e sempre con quest’ultimo ad evidenziare il sistema sapere/potere insito a questi fenomeni, connotando la soft law come “resa” del sistema democratico rappresentativo a una serie di ideologie forti, su tutte quella neoliberale dell’effettività , che prevale sul modello kelseniano della validità.
La seconda appare più neutra, in quanto volta a sottolineare le origini della soft law nel diritto internazionale e in quello societario, le sue diverse manifestazioni (cd. pre-law, post-law, para-law), i suoi caratteri, e soprattutto a mostrarne la naturale connessione con la “tecnificazione” del mondo e quindi del diritto. Questa prospettiva predilige percorsi di “giustificazione” e indagini sulla “giuridificazione” del fenomeno (e di allontanamento di esso dal modello nichilista alla Irti-Severino, e prima heideggeriano) ad esempio valutando in profondità questi meccanismi come strumenti di riduzione luhmanniana della complessità, e così rileggendo fenomeni come quello delle “norme interne” (Fracchia-Occhiena). Questo secondo approccio, più diffuso fra gli amministrativisti, sembra assecondare meglio la prospettiva della filosofia analitica sopra richiamata, che non a caso vede nella regola tecnica un sistema defettibile, più trasparente e adatto, proprio in quanto confutabile, ai contesti socioculturali che viviamo, all’insegna del principio di effettività sopra richiamato.
(M.T.) 4) Controcorrente è anche il tuo approccio alla digitalizzazione. Esamini tutte le questioni oggi sul tappeto, dai limiti all’impiego degli algoritmi, al controllo giurisdizionale sulle decisioni automatizzate. Ma metti in rilievo una questione di particolare interesse, che quasi sempre sfugge agli osservatori. Ovvero che le maggiori insidie della digitalizzazione risiedono non tanto nelle decisioni automatizzate, poiché il tema è sotto gli occhi di tutti e si stanno predisponendo principi per il controllo delle stesse, ma nelle analisi predittive del comportamento dei consociati attraverso gli strumenti informatici. Queste analisi, tu dici, non si traducono immediatamente in una decisione puntuale ma condizionano in vario modo l’attività amministrativa, dall’apertura dei procedimenti allo sviluppo dell’istruttoria, fino alla vera e propria decisione. Ti chiederei di sviluppare se possibile brevemente questi spunti e di farci cogliere più da vicino quale possa essere il condizionamento dell’attività amministrativa puntuale attraverso l’impiego della tecnologia informatica a monte. Rischiamo che l’interesse pubblico primario definito dalla legge sia sostituito dall’interesse pubblico come risultante dalle analisi predittive degli elaboratori informatici?
(G.T.) Concordo.
Nell’ambito delle riforme un tema di grande rilievo è certamente quello della digitalizzazione dell’amministrazione, altra sfida al centro del PNRR per l’efficientamento amministrativo, ma al contempo potenziale risvolto neo-autoritario del neoliberalismo panottico e della sorveglianza, descritto nel famoso libro di Zuboff. Peraltro, la moltiplicazione dei dati a disposizione e la crescente complessità delle decisioni amministrative da prendere apre le porte al tema della decisione algoritmica, che impatta in modo enorme sul procedimento e l’attività amministrativa tradizionali, si pensi al tema della decisione discrezionale e al rapporto coi principi di responsabilità/imputabilità e legalità.
Come hai rilevato giustamente, sul punto la nostra giurisprudenza amministrativa è molto avanzata, sulla scorta dei principi del human in the loop, della non discriminazione algoritmica, della trasparenza vista come conoscibilità ma soprattutto comprensibilità dell’algoritmo.
E tuttavia restano aperte immani questioni, ad esempio nei procedimenti ad alto tasso di discrezionalità, in cui le incognite sono moltissime e la capacità computazionale e predittiva dei big data può essere più proficua.
Per non parlare di altri temi connessi alla questione della digitalizzazione dell’amministrazione, cioè alla regolazione e alle politiche pubbliche in materia, e quindi di nuovo al tema della sorveglianza digitale e dei grandi poteri privati, traguardati sotto il profilo inedito della regolazione soft, che sperimenta oggi nuove forme, come il nudge, talora declinato nelle innovative, per molti inquietanti, tecniche della gamification e del social scoring nelle politiche pubbliche.
Nel primo caso si tratta dell’utilizzo di elementi ludici, spesso digitali, a supporto di funzioni di regolazione pubblica, nei campi più svariati, che vanno dalle politiche ambientali a quelle del traporto pubblico, passando, appunto, per la sicurezza e il decoro urbano.
Quanto al social scoring, si pensi al seguente esempio. Siamo nel 2010, nella municipalità di Suining. I residenti che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età sono i primi a testare il sistema di credito sociale. L’esperimento misura i comportamenti individuali. Premia i virtuosi e punisce chi non rispetta le regole del vivere civile. Vi prendete cura di un familiare anziano? Cinquanta punti per voi. Vi arrestano per guida in stato di ebbrezza? Avete perso cinquanta punti. I cittadini di fascia A ottengono la priorità all’accesso a tutti i servizi sociali. Per i cittadini di fascia D, invece, ottenere licenze e autorizzazioni può richiedere tempi molto superiori alla media. Accedere ai servizi pubblici essenziali è più difficile, o più costoso. Viaggiare fuori dal Paese può divenire impossibile.
Si hanno svariate criticità: sia quella di natura etica, legata al rischio della manipolazione, sia quella connessa del «paradosso dei disincentivi», che si manifesta nel cittadino che, proprio a fronte di tale tecnica manipolatoria, finisce per avere una percezione critica del regolatore pubblico. A ben guardare, peraltro la critica assume dimensioni anche giuridiche, nella misura in cui si ritenga che l’autonoma formazione della volontà costituisca una componente essenziale della “libertà reale”, ossia della effettiva libertà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti, garantita dalla Costituzione.
Si è parlato di “psicopolitica” per descrivere un fenomeno in cui si passa dalla biopolitica, alla quale interessava il controllo regolativo della “popolazione” e in tal senso usava le statistiche demografiche, a un modello regolatorio nuovo connotato dai big data, più adeguato all’assetto neoliberale, nella misura in cui si accede così agli strati più profondi della psiche collettiva.
(M.T.) 5) Dedichi grande attenzione alle tendenze attuali del comportamentismo e soprattutto alla c.d. nudge theory in quanto ritieni che la sostituzione del modello di ordini e divieti con la spinta gentile sia un tratto caratterizzante del modello della governamentalità neoliberale. Di particolare interesse è l’analisi dell’impatto del nudge su concetti tipici del diritto amministrativo che svolgi commentando il libro di A. Zito di questi temi. Zito sostiene che bisogna guardare al potere amministrativo non solo come situazione giuridica soggettiva esercitata dalla p.a. per la produzione di un effetto giuridico ma come “fenomeno di influenza intenzionale sulle azioni altrui, per il raggiungimento di uno scopo proprio di chi esercita il potere” Mi domando se sono due definizioni mutualmente esclusive. In ogni caso, vorresti dirci quali sono a tuo avviso i pregi e i limiti di questa impostazione che utilizza il comportamentismo per la rilettura delle categorie tipiche del diritto amministrativo?
(G.T.) Il libro di Zito è tra i più originali e interessanti che siano stati scritti negli ultimi anni.
Zito è ben consapevole che la teoria del nudge non può essere semplicemente accolta attraverso mere giustapposizioni comparate o la semplice ibridazione con le competenze di economisti, psicologi e linguisti, sicché teorizza una radicale ridefinizione del potere amministrativo, enfatizzando la categoria foucaultiana di potere governamentale.
Egli ha ragione nel rilevare che la tendenza a risolvere il potere nel solo potere giuridico ha impedito l’analisi su altri tipi di potere che non possono dirsi del tutto privi di rilevanza giuridica. Effettuando tale interessante tentativo di traslazione sul piano delle categorie giuridiche familiari al giuspubblicista, osserva che il potere governamentale non si esercita attraverso la predisposizione di regole di condotta e non ricorre alla minaccia o alla costrizione; allo stesso modo, nell’ambito giuridico ci si dovrebbe discostare dalla tradizionale tecnica del command and control, connotante i più tradizionali schemi di potere normativo e disciplinare. Si rileva, quindi, che, in questo rinnovato scenario: «potere amministrativo in senso giuridico non sarà più solo quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto, ma anche quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto nella realtà materiale».
Consiglierei per cogliere questo fondamentale passaggio la lettura di un filosofo del diritto palermitano (Brigaglia), ben conosciuto e richiamato da Zito, che riflettendo su Foucault ha osservato che il potere in Foucault viene progressivamente sganciato dall’ipoteca giuridica, nella quale tutto sommato si trovava ancora nella concezione conflittualistica e ultra-radicale delle prime opere, per pervenire a un’idea di potere governamentale più pervasiva e puntiforme proprio con l’affermazione definitiva del neoliberalismo.
Corollario garantistico di tale ampliamento della nozione di potere giuridico è che sia nel caso del classico potere autoritativo che nel caso del potere volto a influenzare le condotte dei destinatari si sarà comunque in presenza di esercizio della funzione amministrativa volta alla cura dell’interesse pubblico, con la conseguenza della necessaria applicazione delle regole formali e sostanziali che ne disciplinano l’esercizio.
A me pare, tuttavia, che persistano delle questioni aperte.
Zito, nella misura in cui sposa – coerentemente – una visione non edulcorata del nudge, che ne implica la non trasparenza, taglia implicitamente fuori tutte quella ricostruzioni che, invece, ne ammettono la configurabilità sistematica a patto di preservare detta trasparenza.
D’altra parte, se il vero nudge è quello non trasparente, non si comprende poi come sia possibile (peraltro al prezzo di una forzatura normativa), ritenere che gli atti regolatori generali e pianificatori comportanti nudge debbano aprirsi alla partecipazione del cittadino, al fine di compensare il deficit di legalità sostanziale che esso porta con sé.
Per non parlare del tema della sindacabilità giurisdizionale, anch’esso ritenuto correttivo importante rispetto alle insidie del nudge, ma che tende ineluttabilmente a recedere di fronte a scelte che più che tecniche appaiono di tipo politico-amministrativo, dunque connotate da grande discrezionalità.
Lungi dal configurarsi come una “terza via” tra utilitarismo e teorie decisioniste “à la Schmitt”, il nudge sembra riproporre lo schema utilitaristico del «governo degli interessi» e il lato oscuro del diritto amministrativo “alla felicità” di cui oggi tanto si parla.
C’è quindi una evidente relazione tra utilitarismo benthamiano, nudge, e neoliberalismo. Nella Nascita della biopolitica, Foucault definisce questo metodo di governo come l’approccio utilitarista del liberalismo, «quello con cui abbiamo minore familiarità, ma senza il quale non riusciamo a comprendere correttamente il neoliberismo contemporaneo».
Il nudge finisce per essere, in tale schema, il dispositivo di questo potere, che è tanto più flessibile, fluttuante e mutevole quanto più richiede di esserlo l’insieme dei meccanismi che rendono possibili i processi di assoggettamento al potere connotato utilitaristicamente come governo degli interessi. L’influenza paternalistica si allea con la libertà individuale, creando all’interno del nudge le condizioni di questa convergenza.
Nell’epoca neoliberale, quindi, il nudge emerge come una sorta di meccanismo correttivo tra la tendenziale incompatibilità del diritto col soggetto di interesse, tra l’homo juridicus e l’homo economicus. Si configura, così, una strategia normalizzante, un potere che, come una “catena invisibile”, cerca di evitare l’azione repressiva plasmando desideri legittimi.
(M.T.) 6) Sempre in relazione al nudge non manchi di manifestare le tue preoccupazioni rispetto alla formazione autonoma della volontà degli individui che è un presupposto della loro libertà. Che il nudge risenta profondamente del paternalismo non c’è dubbio e fai bene a mio avviso nel sottolineare le aporie del c.d. paternalismo libertario. Tuttavia vorrei farti una domanda specifica: prevedere che il possesso del green pass sia necessario per svolgere determinate attività è più o meno limitativo delle libertà dell’individuo rispetto all’imposizione dell’obbligo vaccinale?
(G.T.) Capisco perfettamente il senso della tua domanda.
A mio avviso il nostro giudice amministrativo e quello costituzionale in entrambi i casi hanno correttamente legittimato l’azione del Governo, ma i fenomeni vanno distinti.
Mentre nel primo caso il leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare [...] essere stato il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità [...] non solo nazionale, nel secondo caso si è trattato di nudging, con cui si intende promuovere per l’appunto la vaccinazione.
Specie per il “Super Green pass” taluni problemi sussistevano effettivamente, come la mancanza di un chiaro limite temporale di durata di quelle misure emergenziali e varie discriminazioni che possono porsi, per cui non si è reputato un taboo prospettare un obbligo vaccinale generalizzato.
Ma a mio avviso il tema principale è stato un altro, ossia la trasparenza.
Un documento critico di A.N.M., pur smentito poi da dottrina e giurisprudenza, tocca un punto importante, nella misura in cui – senza menzionare espressamente il tema del nudge – intreccia la questione della trasparenza, differenziando l’intervento italiano da quello francese. In questo secondo caso si nota, infatti, l’assunzione di una decisione in un quadro di trasparente dibattito pubblico e con il coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali.
Il nostro Consiglio di Stato, consapevole forse di tali rilievi, nella nota sentenza sull’obbligo vaccinale anti-Covid nei confronti dei sanitari, collega il nudge alla trasparenza, ritenendo il primo veicolo di consenso informato e autodeterminazione.
Torna qui la questione sopra richiamata: se in questi casi il nudge è trasparente, di vero e proprio nudge si tratta?
(M.T.) 7) Non poteva mancare un capitolo sulla sicurezza pubblica, che è motivo ricorrente in tutte le analisi biopolitiche. Commentando un recente libro di R. Ursi, affronti pressoché tutte le questioni attuali su questa multiforme tematica. Vorrei solo fermare due osservazioni. La prima è che la crisi del welfare state ha determinato una riespansione della sicurezza pubblica: le politiche di sicurezza prendono il posto delle politiche sociali. A questo proposito vorrei chiederti se questa evoluzione segna soltanto un cambio di etichetta oppure influisce sul contenuto delle politiche. In altre parole, quale è il tipo di intervento sociale di uno Stato che a tal fine si serve delle misure di sicurezza pubblica? Il secondo aspetto che ho trovato di grande interesse è la critica alla dimensione c.d. orizzontale assunta dalla sicurezza. Prima l’ordine pubblico era considerato monopolio statale, adesso vi sono forme diffuse di esternalizzazione della sicurezza, dalle ronde alla gestione privata della vigilanza nelle carceri. Quali sono a tuo avviso i lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito?
(G.T.) La questione implicherebbe la necessità di soffermarsi su come i seguaci di Foucault (penso per tutti a Castel) abbiano approfondito il rapporto fra biopolitica e stato sociale, poco sviluppato in Foucault.
Mentre in Agamben vi è un’interpretazione più drammatica della biopolitica, che egli lega alla sovranità, nella linea foucaultiana la biopolitica è decostruzione della sovranità perché oppone alla sovranità il paradigma disciplinante dall’interno e non dall’alto. Naturalmente si considera qui anche quel filone di studi che discende da Foucault, che ha utilizzato la nozione di dispositivo biopolitico per problematizzare e meglio decodificare dinamiche derivanti dalla crisi del Welfare State nel capitalismo maturo.
Il processo di macro-trasformazione che investe il legal system, legato alla parabola Welfare State biopolitico, si sviluppa in due momenti, connessi rispettivamente, a “funzionamento” e “disfunzionamento” del Welfare State, investendo due distinte dimensioni del legal system: prima, la dimensione di produzione normativa, dando luogo al processo di giuridificazione sociale; in un secondo momento (quando il Welfare State declina) il mutamento riguarda gli apparati giurisdizionali, dando luogo al fenomeno della giudiziarizzazione del sociale, effetto, quest'ultimo, condizionato da una modificazione qualitativamente intensa della cultura giuridica del tempo, come termine di mediazione tra mutamento sociale e mutamento giuridico.
Una vera e propria amministrativizzazione dell’attività del giudice, che appunto si manifesta con particolare rilevanza e veemenza soprattutto nel campo paradigmatico della tutela della concorrenza, all’insegna della parola chiave effettività, vettore di tale eccedenza.
Mentre la biopolitica del Welfare è essenzialmente una strategia governamentale che accetta la triade libertà-proprietà-mercato, ma risponde almeno parzialmente alla sfida dell’insicurezza prodotta dal mercato, la biopolitica neoliberale governa i processi sociali attraverso l’individualizzazione. Priva cioè i singoli dei supporti del Welfare e li spinge ad adeguarsi responsabilmente alle logiche del mercato.
Sui lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito, nella tua domanda c’è già un abbozzo di risposta. Non tornerò quindi su temi noti, quali le ronde o l’esternalizzazione delle carceri.
Mi limito ad aggiungere, per collegare la risposta alla prima parte della questione, che vi è chi teorizza pure una biopolitica post-disciplinare, propria dei tempi di crisi del Welfare State.
Alla base di ciò c’è una “truffa delle etichette”: qualche anno fa quando alcune correnti dottrinali, fondandosi sul carattere (asseritamente) aperto dell’art. 2 Cost., hanno teorizzato un inedito (almeno per la nostra tradizione continentale) “diritto alla sicurezza”, con le ricadute negative che ciò ha avuto nelle discutibili applicazioni dei princìpi di sussidiarietà – verticale e orizzontale – che hanno fondato le politiche pubbliche della sicurezza negli ultimi anni, non solo in Italia.
L'esaurimento delle tecniche di controllo disciplinare operative attraverso dispositivi e istituzioni, che anticipavano e rendevano possibile l'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), non significava fine della biopolitica, ma probabilmente, evoluzione della stessa. Lo scopo specifico del modello neobiopolitico d'integrazione lato sensu sociale, appare la responsabilizzazione del soggetto, l'individualizzazione del sociale, promuovendo una forma governamentale di potere finalizzata ad irreggimentare le forme cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli; un sistema, quello neobiopolitico, basato su flessibilità, esaltazione di responsabilità individuali e facoltà cognitive, un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili a ogni contesto. Centralità in questo modello viene data alle risorse comunicative e relazionali, alle risorse "sociali" produttive di "comunità", utilizzate (paradossalmente) per la de-socializzazione della moltitudine, la singolarizzazione delle responsabilità. La giustizia riparativa, ad esempio, potrebbe rappresentare un veicolo per questa forma tardo-moderna di biopolitica.
Si pensi anche, oltre ai temi da te menzionati, al governo del territorio. Il dinamismo delle trasformazioni impone alle istituzioni di mantenere costante consapevolezza della reale destinazione dei luoghi. Talora è necessario prendere atto di svolte non previste nella funzionalizzazione di spazi. La crisi del welfare e l’abbandono delle politiche della casa popolare alimenta la spazializzazione dei conflitti. Mi riferisco alle cd. gated communities. Si tratta di aree residenziali, con accesso limitato che rende privati spazi normalmente pubblici. L’accesso è controllato da barriere fisiche, pareti o perimetri recintati e da ingressi custoditi o chiusi da cancelli. Le gated communities precludono l’accesso del pubblico alle strade, ai marciapiedi, ai parchi, agli spazi aperti, e alle aree da gioco, tutte risorse che sarebbero state aperte e accessibili a tutti i cittadini di una località.
È chiara qui la crisi delle teorie sulla «città sostenibile» quale luogo di affermazione del diritto fondamentale «alla città» ed elemento delle politiche di sviluppo sostenibile elaborate a livello internazionale ed europeo.
(M.T.) 8) Il capitolo finale è dedicato alla giustizia amministrativa. In realtà l’attenzione alla giurisdizione è una costante dell’intero libro come della tua vasta produzione scientifica. In quasi tutti i capitoli emerge l’immagine di un giudice che esorbita dalla funzione tradizionale del processo, che è quella di risolvere liti. Il protagonismo del giudice è fenomeno oggi osservato da tutti e a tutti i livelli, ma la caratteristica del tuo lavoro è di trovarne una spiegazione all’interno del modello neoliberale. La governamentalità diffusa che caratterizza questo modello fa sì che il giudice si senta e agisca anch’egli come tessitore di una trama funzionale all’esaltazione del mercato e della concorrenza. Anzi, di più: il giudice subisce nella sua azione la logica del mercato e in qualche modo mette a servizio dello stesso il suo potere precettivo. Vorresti indicarci brevemente perché intravedi tutto questo in prassi giudiziali che anch’io osservo con una certezza preoccupazione: dall’insistenza del giudice sulla clausola dell’abuso del processo, alla rivalutazione dell’interesse procedimentale nell’ambito del contenzioso sui contratti pubblici, per finire al prospective overruling?
(G.T.) Ho cercato qui, in effetti, di trovare una linea esplicativa di fenomeni che noi tutti abbiamo quotidianamente modo di osservare, anche nella rivista e in chat. E ho questa volta compiuto un’indagine di metagiurisprudenza su quella che mi sembra l’ideologia di fondo del nostro g.a.
Un’operazione che andava molto di moda negli anni ’60 (Cappelletti, Cassese), ma oggi ha perso un po' di fascino. Al contrario, In Francia si segnalano indagini sulla giurisprudenza amministrativa in chiave neoliberale, ma si tratta di analisi eminentemente storiche.
A mio avviso ci troviamo dinnanzi a un nuovo, e inedito, neoliberale “uso alternativo del diritto”.
In un senso più mainstream tale definizione può considerarsi insita nei caratteri del giudice amministrativo inteso quale giudice del grande contenzioso economico del nostro Paese, e non solo.
Mi pare però opportuno mettere in luce un secondo punto di vista, meno scontato. Il nostro giudice e la sua sentenza si collocano al centro del rimodellamento dello Stato in Stato amministrativo, che ha sinora trovato la sua acme nell’esperienza pandemica ma che, specie nel settore della concorrenza e della sua tutela, ha già manifestato importanti mutazioni di ordine istituzionale. Il fenomeno è generale: si parla (F. Ost) di un passaggio da un giudice-Giove, il giudice arbitro dello Stato liberale fedele al principio dispositivo, a un giudice-Ercole, il giudice dello Stato interventista che si occupa della gestione degli interessi minacciati nello Stato sociale; ma soprattutto si aggiunge una nuova figura: il giudice-Ermes, che illustra perfettamente il fenomeno di una nuova regolamentazione propria di una società dove le regole e i governi istituiti gerarchicamente lasciano il posto ad una moltitudine di reti e di poteri in costante interazione. In tale contesto lo Stato rinuncia alle grandi politiche di welfare e diventa riflessivo e procedurale, preferendo affidare ai partner interessati lo sviluppo di un diritto concordato, flessibile, regolabile e fluido.
Ciò è avvenuto all’insegna di alcuni vettori retorico-argomentativi della governamentalità neoliberale: la buona fede e l’abuso del diritto e del processo, la tutela della concorrenza appunto, il principio di effettività della tutela (applicato spesso per erodere il principio di autonomia procedurale degli Stati dell’UE).
La nozione di effettività e quella di giusto processo divengono vettore di politiche giurisprudenziali neoliberali, consentendo progressivi smottamenti dall’istanza nomofilattica a quella nomopoietica. Essa appare come grimaldello interpretativo capace di fare affermare la prospettiva assiologica dell’interprete, specie se declinato nel contesto valoriale proconcorrenziale europeo.
Peraltro, qui c’è una seconda “truffa delle etichette”, come si evidenzia nella questione dell’abuso del processo e della meritevolezza della tutela. Il suggestivo “mantra” della giurisdizione come “servizio pubblico”, e non più “funzione pubblica” tradizionale (tesi che già in sé sarebbe discutibile, in quanto in senso molto lato anche la difesa e l’ordine pubblico sono “servizi” rivolti al cittadino, ma di essi non si mette in dubbio il carattere di “funzione”), svela un uso fuorviante di un concetto che – solo apparentemente – si rivela in linea con i diritti costituzionalmente tutelati del cittadino, portando, al contrario, come conferma l’insistito richiamo al principio di proporzionalità nel processo, alla diversa (e temibile) prospettiva “orizzontale” del bilanciamento, fra un diritto fondamentale (diritto d’azione) e un interesse pubblico (giusto processo nella sua declinazione in termini “economico/efficientistici”) .
L’effettività della tutela resta certamente centrale per la giurisprudenza, ma alla dottrina spetta un importante compito di segnalazione e controllo, affinché i rischi della «distorsione da desiderabilità sociale» (Villata) non determinino un’alterazione eccessiva del confine, sì mobile, ma a un certo stadio invalicabile, dell’assetto costituzionale tra Giudice e Amministrazione e Giudice e Legislatore.
(M.T.) 9) L’incipit del titolo dell’epilogo del libro è eloquente: “senza respiro?”. In effetti dalla lettura complessiva del libro emerge un panorama desolante. La rappresentanza politica non conta più niente. Le funzioni dello Stato sono confuse e si sovrappongono continuamente. Tutto obbedisce a una sola logica, che è la logica del neoliberalismo. Però tu sostieni che nel libro “non c’è solo decostruzione, facile se si segue la strada della radicalizzazione biopolitica, ma c’è anche desiderio di ricostruzione”. La ricostruzione, tu dici, passa “dal recupero dei capisaldi del pensiero liberale, e da un certo formalismo e positivismo temperato che ha sempre animato il mio lavoro”. Ma, se è corretta la tua analisi biopolitica, non sono questi a propria volta dogmi che la realtà si è presa carico di smentire, e da tempo? Inoltre, la proposta di trovare la soluzione in una “rivisitazione in chiave produttiva e affermativa della biopolitica”, e in particolare nella promozione di un’etica e una politica come “immunizzazione di gruppo contro la bassezza”, non ti pare una soluzione tendenzialmente elitaria?
(G.T.) Sul positivismo temperato ho già detto.
Vorrei qui aggiungere qualcosa sulla prospettiva della biopolitica affermativa, per provare a rintuzzare il tuo rilievo sulla prospettiva elitaria che pare discendere da questa proposta.
Al contrario, a me pare elitario e desolante lo scenario di Agamben. L’approccio di questo importantissimo filosofo lascia spesso il giurista in uno stato di sgomento, dinanzi alla deriva decostruttivista cui è andato sovente incontro; ma è anche per questa ragione che il giurista deve provare a dare una risposta alla sfida lanciata dalle componenti più radicali del pensiero moderno: quare siletis juristae in munere vestro? In questi mesi qualche giurista (es. Laura Buffoni) ha provato a dare risposte alle domande di Agamben, ma esse sono state tenute in non cale dal filosofo, che tuttora parla di un’intera società complice e di un nuovo patto hobbesiano, estrema configurazione della biopolitica, in cui il non-complice è escluso dal patto sociale.
Ho pensato di scrivere questo libro anche perché mi è parso che in questi anni la biopolitica sia stata usata dal giurista più come orpello argomentativo che scendendo nelle sue implicazioni più intime (con alcune notevoli eccezioni, che non a caso sono state molto approfondite, penso ai libri di Perfetti, Zito, Portaluri, Fracchia-Occhiena).
Si è trattato di un tentativo apparentemente aporetico, se si considera lo scetticismo per la versione giuridica del potere presente in Foucault, e soprattutto i suoi sviluppi “destituenti” (la tanatopolitica) in pensatori come appunto Agamben.
Sennonché a mio avviso non è solo questo il modo in cui il potere e il diritto amministrativo possono avvalersi di quel pensiero, come dimostrano correnti filosofiche maggiormente disposte a colliquare col diritto pubblico, ad esempio l’elaborazione feconda della nozione di istituzione in Roberto Esposito.
Il filosofo napoletano ha prima rielaborato la nozione di pensiero istituente, in cui si tenta una ricomposizione tra vita e istituzione, drasticamente separate proprio dalla figura del potere. Ciò è confermato dalla speculare visione di Foucault e Arendt: se il primo critica le istituzioni perché repressive del libero corso della vita, la seconda individua nella vita biologica la forza irresistibile che dissesta le istituzioni, consegnandole alla violenza. Si conclude così nel senso di ripensare la categoria della biopolitica, superando quella divaricazione latente tra quello che ad alcuni appare potere assoluto sulla vita e ad altri una vita libera da ogni potere. Bisogna, quindi, integrare il paradigma istituente e quello biopolitico in modo produttivo per entrambi.
Più di recente egli ha ritenuto – con la felice sintesi ossimorica dell’immunità comune – che l’immunità possa non essere, come in passato, una lama che taglia la comunità svelando il lato oscuro/securitario delle varie forme del paradigma moderno di immunizzazione (sovranità, proprietà, libertà), ma che possa divenire la stessa forma della comunità.
Ecco perché si parla di biopolitica affermativa, non più sulla vita ma della vita, conciliabile finalmente con la libertà e la vita degli individui.
Nella mia citazione finale a Sloterdijk il disprezzo è riferito all’approccio cinico e rassegnato del complottista in questi terribili anni, mentre la prospettiva è quella che, pur consapevole dei tanti rischi di derive autoritarie insite nell’evoluzione tecnica e scientifica, non rinuncia a cercare modelli di integrazione – anche sul piano giuridico – tra tecnica e natura.
Sommario: 1. La vicenda - 2. L’appello avverso le ordinanze rese a definizione di istanze ex art. 116, comma 2, c.p.a. - 3. La disciplina generale dell’accesso agli atti nelle procedure a evidenza pubblica: il “triplice livello di protezione” - 4. I segreti tecnici e commerciali sottratti all’accesso - 5. Il criterio della stretta indispensabilità - 6. Conclusioni.
1. La vicenda
Il Consiglio di Stato è tornato di recente a esprimersi sui casi in cui debba essere consentito l’accesso alla documentazione prodotta da un concorrente nell’ambito di una procedura a evidenza pubblica, quando il concorrente stesso dichiari che la propria offerta o le giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia contengono segreti tecnici o commerciali.
L’occasione ci è data da un ricorso avente ad oggetto la gara per l’affidamento di alcuni servizi educativi, assistenziali e di mediazione in favore di alcuni enti locali dell’imolese: la seconda classificata ha formulato istanza di accesso all’offerta tecnica dell’aggiudicataria e la stazione appaltante ha parzialmente rigettato tale richiesta, oscurando quasi integralmente il progetto della prima graduata.
Tale rigetto è stato impugnato, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a., dinanzi al T.A.R. Bologna, che – con specifica ordinanza a ciò dedicata – ha accolto l’istanza, non ritenendo comprovata la presenza di segreti tecnici e commerciali ostativi all’esercizio del diritto di accesso.
Il provvedimento del giudice di primo grado è stato poi impugnato avanti il Consiglio di Stato, che ha integralmente confermato la pronuncia del Giudice di prime cure: entrambe le pronunce affermano alcuni importanti principi in tema di accesso agli atti nell’ambito di procedure a evidenza pubblica, su cui vale la pena indugiare.
2. L’appello avverso le ordinanze rese a definizione di istanze ex art. 116, comma 2, c.p.a.
Prima di entrare “nel vivo” della vicenda, è necessario spendere qualche parola su una questione in punto di rito: la possibilità di appellare quei provvedimenti che decidono, separatamente dal merito, le istanze proposte ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a., esattamente come è avvenuto nel caso qui di interesse.
La questione è stata di recente risolta dall’Adunanza Plenaria in senso affermativo[1].
Come noto, in base all’art. 116, comma 2, c.p.a., “in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso di cui al comma 1” – ossia quello avanzato “[c]ontro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi” – “può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale … L’istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio”.
Sul significato da attribuire a tale disposizione si sono formati tre orientamenti: in base al primo, l’ordinanza che conclude il sub-procedimento ex art. 116, co. 2, c.p.a. avrebbe natura decisoria, dato che l’istanza che lo ha originato avrebbe “i tratti di una vera e propria domanda di accesso ai documenti amministrativi”; di conseguenza, tale ordinanza dovrebbe essere autonomamente impugnabile[2]; un secondo orientamento ritiene che l’ordinanza avrebbe natura solamente istruttoria e quindi, come tutti i provvedimenti istruttori, non sarebbe appellabile[3]; un terzo orientamento reputa che la natura dell’ordinanza varierebbe di volta in volta (sarebbe decisoria e appellabile, quando è adottata applicando la normativa in materia di accesso ai documenti “senza passare al vaglio della pertinenza dei documenti in relazione al giudizio in corso”; istruttoria e non impugnabile, quando è adottata avendo riguardo alla rilevanza della documentazione ai fini della decisione)[4].
Sulla base dei criteri di interpretazione letterale, storica, sistematica e conforme a Costituzione l’Adunanza Plenaria ha concluso che l’istanza di accesso proposta nel corso di giudizio abbia sempre valenza decisoria, in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle oggetto del giudizio principale, così come avviene nel caso di ricorso proposto in via autonoma, e che pertanto debba essere appellabile dinnanzi al Giudice di secondo grado.
Senza dilungarsi troppo sulla questione, non può che condividersi l’opinione di chi, tra i primi a commentare questa pronuncia, ha affermato che la dicotomia tra natura istruttoria e decisoria, che costituisce il fondamento della pronuncia della Plenaria, altro non sia che un “espediente argomentativo” per estendere a questo genere di ordinanze la tutela del doppio grado di giudizio, benché il rimedio dell’impugnazione non sia previsto dal codice del processo[5].
Espediente che si è reso necessario perché il dettato legislativo evidentemente ha inteso concepire l’istanza di cui all’art. 21 della legge T.A.R. e poi dell’art. 116, co. 2, c.p.a. come eminentemente istruttoria.
Andando con ordine, non può fare a meno di notarsi che né la pronuncia della Plenaria né l’ordinanza di rimessione indagano sulla ratio del rimedio in discorso e sulle differenze dello stesso rispetto al ricorso “ordinario” in materia di accesso.
Vale allora la pena fare un passo indietro. Originariamente, l’istituto era concepito in questi termini: in base all’art. 21 della legge T.A.R., se era stato proposto un ricorso, l’impugnativa per lamentare il diniego all’accesso connessa a quel ricorso poteva essere proposta “con istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso” e la stessa veniva “decisa con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio”.
Prima che di tale istanza si occupasse il codice del processo amministrativo, tra il 2005 e il 2010 la sua disciplina è stata trasfusa nel comma 5 dell’art. 25 della L. n. 241/1990, con un dettato sostanzialmente analogo a quello dell’art. 21 della legge T.A.R.; indi, è subentrato l’art 116, co. 2, c.p.a., che tuttavia non ha innovato di molto la disciplina: ha meglio esplicitato che la richiesta di accesso deve essere connessa al giudizio pendente, è stata rimossa la precisazione che l’istanza va presentata al presidente ed è stato altresì eliminato il riferimento al fatto che l’ordinanza che decide sull’istanza sia “istruttoria”, disponendosi invece che l’istanza è decisa “con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio”.
Il sol fatto che sia stata eliminata la specificazione che l’ordinanza è istruttoria non pare, tuttavia, sufficiente per concludere che essa non lo sia.
Per comprendere la natura del sub-procedimento di cui al secondo comma dell’art. 116, non si deve dimenticare che tanto l’art. 21 che l’art. 116 prevedono una facoltà, non un obbligo in capo al ricorrente: in altre parole, nel momento in cui un provvedimento di diniego all’accesso venga emesso ed esso sia connesso a un ricorso già pendente, il ricorrente può scegliere se proporre un ricorso autonomo ovvero un’istanza incidentale[6].
Le conseguenze dell’una o dell’altra opzione sono di non poco conto: innanzitutto, nel caso in cui venga proposto un ricorso in via ordinaria, il Tribunale avrà l’obbligo di fissare l’udienza di discussione “d’ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate”; nel caso in cui, invece, il ricorso venisse veicolato attraverso l’istanza ex art. 116, co. 2, c.p.a., non sussisterebbe alcun obbligo in tal senso: conferma se ne può trarre dal fatto che la stessa disposizione prevede che la decisione sulla richiesta di accesso possa essere assunta con la sentenza che definisce il merito della causa e pertanto all’esito dell’udienza pubblica di discussione.
Il che conduce a un’altra conseguenza connessa alla scelta di proporre un ricorso di tal fatta in via “incidentale”: lo stesso potrebbe non essere mai deciso, e ciò accadrà tutte le volte in cui il ricorso fosse irricevibile, inammissibile ovvero improcedibile oppure ancora lo stesso dovesse andare perento o venire rinunciato. Insomma, la decisione dell’istanza ex art. 116, co. 2, c.p.a., diversamente da quella proposta in via autonoma, potrebbe essere nella disponibilità del ricorrente[7].
Eventualità che, invece, come si è detto sopra, è impossibile per il ricorso “ordinario” in materia d’accesso, dato che l’udienza di discussione deve essere fissata d’ufficio, e in tempi rapidissimi, caratteristica comune a tutti i giudizi camerali.
Insomma, il ricorrente insoddisfatto dalla risposta dell’amministrazione a una richiesta di accesso, la quale sia “connessa” a un giudizio pendente o di futura instaurazione avanti il T.A.R., ha a sua scelta due rimedi diversi: il ricorso “classico” ovvero il ricorso “incidentale”, i quali seguono due “binari” diversi. Mentre il primo procede in via autonoma, il secondo, essendo funzionale alla definizione del ricorso principale, ne segue le sorti.
Anche dal punto di vista temporale, al proponente l’istanza ex art. 116, co. 2, c.p.a. non è data alcuna garanzia di definizione accelerata o rapida: ma, del resto, ciò non costituisce un problema, atteso il fatto che il soddisfacimento della richiesta di accesso è connesso al ricorso principale.
Tale differenza di regimi – di cui non v’è cenno nella sentenza della Plenaria né nell’ordinanza di rimessione – pare di non poco conto e, al contempo, sembra sufficiente a giustificare una diversità di regimi per i due procedimenti e per l’impugnazione del provvedimento pronunciato all’esito.
Un secondo elemento che si vuole evidenziare è di carattere letterale: il comma 2 dell’art. 116 dequota “il ricorso di cui al comma 1” a “istanza” da depositarsi “presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale”: previsione che si è tradotta, nella prassi, a deposito nel medesimo giudizio cui la richiesta è collegata.
La scelta specifica di qualificare il rimedio giurisdizionale classico del ricorso avverso il diniego quale istanza pare non possa dirsi casuale: l’impugnazione del diniego veicolata attraverso lo speciale meccanismo processuale dell’art. 116, co. 2, c.p.a., anche in ragione della scelta lessicale da parte del legislatore, sembra doversi ritenere una “speciale” richiesta istruttoria al giudice, la quale, senza alcuna urgenza, ben potrà essere definita insieme alle restanti richieste istruttorie all’esito dell’udienza di trattazione del merito.
Quanto fin qui detto, peraltro molto succintamente, probabilmente non supera le perplessità che la Plenaria ha inteso risolvere con la sua sentenza, la maggiore delle quali risiede nel fatto che “l’istanza di accesso proposta nel corso di giudizio ha valenza decisoria, in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle oggetto del giudizio principale, così come avviene nel caso di ricorso proposto in via autonoma”.
È indubitabile che sia così, ma è altrettanto indiscutibile che ciò non possa costituire argomento per giungere alla conclusione dell’autonoma impugnabilità di tali provvedimenti, che per loro natura sono inidonei a passare in giudicato e che pertanto ben potrebbero essere appellati in uno con la sentenza che definirà il merito della vertenza[8]: non fosse altro per il fatto che alla loro autonoma impugnabilità ha rinunciato lo stesso ricorrente, che ha veicolato la sua richiesta con uno specifico strumento processuale che segue le sorti del giudizio principale.
Senza dilungarsi sul tema, che involge una serie di questioni non affrontate nell’ordinanza in commento (anche se implicitamente risolte in senso conforme a quello espresso dalla Plenaria nella sentenza n. 4/2023), pare doversi affermare che la disciplina dell’istanza ex art. 116, co. 2, c.p.a. meriti alcune precisazioni da parte del legislatore, che chiariscano in via definitiva se essa altro non è che una modalità alternativa per promuovere un autonomo ricorso in materia di accesso ovvero se debba essere intesa quale “speciale” istanza istruttoria.
3. La disciplina generale dell’accesso agli atti nelle procedure a evidenza pubblica: il “triplice livello di protezione”
Le due ordinanze in commento prendono le mosse da questo presupposto in punto di fatto: la seconda classificata ha proposto istanza di accesso agli atti, chiedendo, tra l’altro, il rilascio di copia dell’offerta tecnica presentata dall’aggiudicataria; la stazione appaltante ha accolto parzialmente la richiesta di accesso disponendo il diniego rispetto al contenuto integrale dell’offerta, così motivando: “Per quanto riguarda invece l’ostensione dell’offerta tecnica in forma integrale, non si ritiene che questo documento presenti caratteri di stretta indispensabilità in relazione all’esigenza di tutela manifestata dall’istante e che pertanto la compressione del diritto di riservatezza di segreti tecnici e commerciali dell’impresa prima in graduatoria non risulti pienamente giustificato. Non si consente quindi l’accesso a tale documento”. Osserva quindi il Giudice che “nella sostanza, nulla dell’offerta tecnica è stato reso disponibile, con la conseguenza che la seconda classificata non ha alcuna possibilità di comprendere con quali criteri sono stati attribuiti i punteggi alla prima”.
Per comprendere appieno le ragioni del diniego e, soprattutto, le motivazioni che hanno condotto al loro annullamento, è opportuno fare un passo indietro e ricordare, almeno per sommi capi, le specificità della disciplina concernente l’accesso degli atti di gara.
La disposizione di riferimento è l’art. 53 del codice dei contratti pubblici, il quale a sua volta rinvia, per quanto non espressamente previsto dallo stesso codice, agli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990: l’art. 53 non reca infatti una disciplina completa dell’accesso in tale materia, ma pone solo alcune limitazioni, di carattere temporale e di carattere oggettivo.
Quanto al suo ambito di applicazione, l’art. 53 concerne tutte le procedure a evidenza pubblica, nei settori ordinari sia sopra che sotto soglia, così come nei settori speciali, pure con riguardo alle concessioni. Dal punto di vista soggettivo, l’accesso è consentito nei confronti di tutti i soggetti aggiudicatori, ossia tutte le stazioni appaltanti, così come tutti i privati soggetti all’applicazione del codice dei contratti pubblici (società a partecipazione pubblica, soggetti privati che fruiscono di finanziamenti pubblici, titolari di permesso di costruire che indicono gare per l’esecuzione di opere di urbanizzazione assunte a scomputo degli oneri di urbanizzazione, enti aggiudicatori nei settori speciali).
Per quel che riguarda i soggetti legittimati all’accesso, un interesse giuridicamente rilevante sussiste, ordinariamente, in capo ai partecipanti alla gara ovvero a chi da essa è stato escluso, o ancora agli operatori economici cui è preclusa la partecipazione.
L’art. 53 detta quindi una disciplina più restrittiva di quella generale, in particolare in base a quel che è previsto all’art. 24, L. n. 241/1990: innanzitutto, dal punto di vista soggettivo, come si è appena detto, è solo il concorrente che ha partecipato alla selezione ad avere diritto all’accesso, e non quindi qualsiasi terzo che possa comunque vantare un interesse differenziato; dal punto di vista oggettivo, il codice dei contratti pubblici richiede che l’accesso vada consentito a chi possa comprovare un’esigenza di carattere processuale, laddove invece l’art. 24 della L. n. 241/1990 offre un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l’accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza preclusioni di sorta.
L’altra particolarità dell’accesso agli atti in materia di appalti è il differimento dell’ostensione: precisamente, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte, per avere accesso all’elenco dei soggetti che ne hanno presentato una (nell’ambito di una procedura aperta) ovvero che hanno fatto richiesta di invito o che hanno manifestato il loro interesse (nelle procedure ristrette e negoziate e nelle gare informali); fino all’aggiudicazione, in relazione alle offerte e a tutti gli atti del procedimento di verifica della anomalia dell’offerta.
Lo scopo di tali limitazioni è duplice: da un lato, la tutela della riservatezza dei partecipanti alle procedure di scelta; dall’altro, la salvaguardia della libera concorrenza e della trasparenza delle offerte. Difatti, l’effettività della concorrenza e la genuinità delle offerte potrebbero venire pregiudicate dalla conoscenza, prima della scadenza dei termini per la presentazione delle medesime, dei nominativi degli operatori economici partecipanti.
Altra particolarità dell’accesso agli atti di gara è che ve ne sono alcuni che sono sottratti. Tra questi, i pareri legali acquisiti dagli enti aggiudicatori, le relazioni riservate del direttore dei lavori, del direttore dell’esecuzione e dell’organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto; nonché – così come prevede l’art. 53, comma 5, lett. a), “le informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”.
È interessante comprendere ove tale limitazione si collochi rispetto al cosiddetto “triplice livello di protezione dei dati”, così come è stato ricostruito in giurisprudenza[9].
Il primo livello corrisponde alle informazioni non qualificate, ossia quelle che non costituiscono oggetto di una specifica esigenza di riservatezza: in questi casi, l’interesse che legittima l’accesso è quello di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990 e deve pertanto essere connotato dai requisiti di immediatezza, concretezza e attualità e corrispondere “ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Come ricordato dalla giurisprudenza, in tal caso “il collegamento tra l’interesse legittimante l’accesso e la situazione giuridica finale si presenta nella forma più blanda”[10], sulla base del fatto che “la tutela giurisdizionale del diritto di accesso assicura all’interessato trasparenza ed imparzialità, indipendentemente dalla lesione, in concreto, da parte della p.a., di una determinata posizione di diritto o interesse legittimo, facente capo alla sua sfera giuridica; difatti l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi è di suo un bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo”[11].
In una fascia intermedia si colloca l’esigenza di protezione connessa, ex art. 24, comma 6, lett. d), L. n. 241/1990, alla salvaguardia degli “interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari” i soggetti cui i documenti oggetto di accesso si riferiscono. In tale ipotesi, il diritto all’accesso supera quello alla segretezza, soltanto se il richiedente dimostri che l’interesse si fonda sulla necessità di “curare o difendere i propri interessi giuridici” ovvero, laddove i documenti contengano dati sensibili e giudiziari, quando l’accesso “sia strettamente indispensabile”[12].
Si ha infine il terzo livello di protezione, così come regolato dall’art. 53, comma 5, lett. a), del codice dei contratti pubblici: ai cosiddetti “segreti tecnici e commerciali” il concorrente può accedere solo ove agisca “ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto”. Di questo terzo livello ci si deve ora occupare.
4. I segreti tecnici e commerciali sottratti all’accesso
Il fondamento di tale previsione si rinviene nell’art. 21 della direttiva UE 2014/24, ove si può leggere che “l’amministrazione aggiudicatrice non rivela informazioni comunicate dagli operatori economici e da essi considerate riservate, compresi anche, ma non esclusivamente, segreti tecnici o commerciali, nonché gli aspetti riservati delle offerte”, salvo che non sia altrimenti previsto nella legislazione nazionale.
La previsione si caratterizza per essere una forte limitazione all’accesso agli atti, tesa a far fronte a un’esigenza specifica: escludere dall’ostensione tutta quella documentazione suscettibile di rivelare il know-how industriale e commerciale contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti. Così facendo, operatori economici in diretta concorrenza tra loro non possono giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale all’interno del mercato.
La documentazione in discorso può essere esclusa dall’ostensione solo se l’impresa cui le informazioni si riferiscono ha fornito motivata dichiarazione che effettivamente vi siano delle informazioni che costituiscono segreti tecnici o commerciali; in caso di mancata dichiarazione, l’accesso andrà consentito, senza quindi alcun obbligo da parte dell’amministrazione di svolgere un controllo autonomo su ciò che sarebbe idoneo a rivelare il know how dell’operatore economico[13]: la dichiarazione di segretezza è richiesta perché l’esclusione dall’accesso è posta a tutela di interessi privati, non pubblici. Il fatto che la dichiarazione debba essere “comprovata e motivata” comporta implicitamente che l’amministrazione possa consentire l’accesso quando non condivida la motivazione addotta o comunque quando le ragioni non appaiano manifestamente infondate[14].
Vi è un ulteriore precisazione da fare. Si ritiene che la tutela del segreto tecnico-commerciale non possa essere opposta per la prima volta in sede di opposizione all’istanza di accesso, dovendo tale indicazione essere oggetto di esplicita dichiarazione in sede di offerta[15]. Tale conclusione si desume, sul piano letterale, dal fatto che la lettera a) del comma 5 discorre di “informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte” e, in senso ancora più decisivo, dal fatto che la “dichiarazione” va resa “dall’offerente”. Sul piano, poi, della ragionevolezza interpretativa, si ritiene che tale indicazione non possa costituire un impedimento frapposto ex post dall’aggiudicatario, a tutela della posizione conseguita.
Ciò detto, è importante chiarire cosa si intenda per segreti tecnici e commerciali: né la direttiva europea 2014/24, né il codice dei contratti pubblici (nemmeno l’abrogato “codice appalti” del 2006) forniscono una definizione. Si dovrebbe dunque inferire che l’amministrazione goda di una discrezionalità piena nel valutare ciò che costituisce segreto tutelabile con la mancata ostensione e ciò che non lo è[16].
La giurisprudenza, nel ricostruire la ratio legis, ha fissato dei veri e propri canoni: si ritiene che debba essere esclusa dall’ostensibilità “quella parte dell’offerta o delle giustificazioni della anomalia che riguardano le specifiche e riservate capacità tecnico-industriali o in genere gestionali proprie dell’impresa in gara (il know how), vale a dire l’insieme del «saper fare» e delle competenze ed esperienze, originali e tendenzialmente riservate, maturate ed acquisite nell’esercizio professionale dell’attività industriale e commerciale e che concorre a definire e qualificare la specifica competitività dell’impresa nel mercato aperto alla concorrenza”[17].
Vi è anche una certa giurisprudenza più restrittiva, per cui l’amministrazione sarebbe vincolata a quanto dispone sul punto il codice della proprietà industriale[18]. Appartiene a questo filone anche l’ordinanza del T.A.R. Bologna in commento, ove si può leggere che, “pur nella discrezionalità concessa all’amministrazione, nel valutare la effettiva sussistenza di un segreto tecnico-commerciale, l’amministrazione non può discostarsi dalla definizione normativa contenuta nel Codice della proprietà Industriale”.
Ebbene, la disposizione di riferimento è l’art. 98, in base al quale i segreti commerciali sono tutte le informazioni aziendali, commerciali, le esperienze tecnico-industriali, che sono segrete, rilevanti dal punto di vista economico e che sono soggette, da parte del legittimo detentore, a misure di protezione ragionevolmente adeguate perché ne sia mantenuta la segretezza[19].
Su questa specifica tematica, l’ordinanza pronuncia del T.A.R. Bologna e il principio ivi espresso non paiono condivisibili, non rintracciandosi alcuna ragione che fondi l’obbligo di applicare una disciplina più restrittiva, quale è quella contenuta nell’art. 98 del codice della proprietà industriale, rispetto a una definizione di maggior ampiezza che include nel concetto di segreto tecnico-industriale il patrimonio esperienziale accumulato da un’impresa, frutto della sua originalità e che non è di dominio pubblico.
È comunque indiscusso che nella definizione di segreti tecnici o commerciali non può ricadere qualsiasi elemento di originalità dei profili tecnici e qualitativi del servizio offerto, perché è del tutto fisiologico che ogni imprenditore abbia una specifica organizzazione, idee e soluzioni differenti da proporre al committente. Ne consegue che la “qualifica di segreto tecnico o commerciale deve … essere riservata a elaborazioni e studi ulteriori, di carattere specialistico, che trovano applicazione in una serie indeterminata di appalti, e sono in grado di differenziare il valore del servizio offerto solo a condizione che i concorrenti non ne vengano mai a conoscenza”[20].
Tuttavia, come ricordano le due ordinanze qui annotate, il divieto di accesso non è assoluto: come previsto dal comma 6 dell’art. 53, proprio in relazione alle informazioni contenenti segreti tecnici e commerciali e per ciò segretate, “è consentito l’accesso al concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto”.
La norma sembra codificare l’esito del bilanciamento tra diritto alla segretezza e diritto all’accesso difensivo a favore del secondo classificato (a patto, ovviamente, che quest’ultimo abbia proposto la sua richiesta perché intenzionato a impugnare atti della procedura di affidamento per ottenerne l’annullamento o, comunque, a fini risarcitori, anche in via autonoma)[21].
In questi termini, si esprime in modo cristallino l’ordinanza del T.A.R. Bologna in commento: “Nello specifico caso in cui sia il «concorrente che ha partecipato alla gara» … a presentare l’istanza a fini difensivi, il bilanciamento tra accesso difensivo e tutela del segreto tecnico-commerciale è stato … risolto a monte dal legislatore che ha … riconosciuto la prevalenza della prima esigenza”.
Il Giudice di primo grado va oltre e trae, dal combinato disposto dei commi 5 e 6 dell’art. 53, un corollario di non poco spessore: “l’unica ragione che può essere opposta all’accesso è, ad avviso del Collegio, che l’amministrazione fornisca una esauriente motivazione sul fatto che, contrariamente a quanto affermato dall’istante, l’istanza di accesso non sia proposta dal «concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto»”.
Insomma, l’amministrazione, una volta verificata la veridicità (o la verosimiglianza?) delle finalità sottese alla richiesta d’accesso, non potrebbe opporre all’istante l’esistenza di alcun segreto tecnico e dovrebbe ostendere l’offerta per intero.
Benché la pronuncia del Consiglio di Stato sull’impugnazione avverso questa ordinanza sia di conferma piena, il Giudice di secondo grado, a una lettura attenta, afferma però qualcosa di diverso: il Collegio d’appello, infatti, dà applicazione al criterio della “stretta indispensabilità” per cui non è sufficiente affermare di aver impugnato l’aggiudicazione (o altro provvedimento inerente la gara) ovvero di essere in procinto di farlo per avere diritto all’accesso all’offerta tecnica di uno o più dei concorrenti, segreti tecnico-commerciali inclusi. È necessario infatti che si sia dimostrato che la documentazione rivelante il know-how sia “strettamente indispensabile” ai fini dell’esercizio della tutela in sede giudiziale: diversamente, alla stessa non vi è diritto all’accesso.
A comprova di ciò, si legga questo estratto dell’ordinanza del Consiglio di Stato in commento: la “mera intenzione di verificare e sondare l’eventuale opportunità di proporre ricorso giurisdizionale non legittima l’accesso, che sarebbe meramente esplorativo, a informazioni riservate, perché difetterebbe la dimostrazione della specifica e concreta indispensabilità a fini di giustizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 7 gennaio 2020, n. 64); in questo caso, la differenza di punteggio complessivo tra la prima e la seconda classificata è di 3,29 punti ed è pacifico che vi sia l’interesse a comprendere le modalità di attribuzione dei punteggi dell’offerta tecnica”.
Ben diverso da quel che afferma il T.A.R. Bologna, convinto che l’istanza di accesso possa essere rigettata solo se non sia proposta dal “«concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto»”.
5. Il criterio della stretta indispensabilità
Come si è anticipato, il provvedimento del T.A.R. Bologna e del Consiglio di Stato qui in commento sembrano affermare due concetti distanti. Per comprendere se effettivamente sono tali è bene approfondire quale significato abbia il criterio della “stretta indispensabilità”, per cui, al fine di esercitare il diritto di accesso con riguardo a informazioni contenute nell’offerta tecnica o nelle giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta che riportino eventuali segreti tecnici o commerciali, è necessario dimostrare “la concreta necessità (da riguardarsi, restrittivamente, in termini di stretta indispensabilità) di utilizzo della documentazione in uno specifico giudizio”[22], non potendo quindi ritenersi sufficiente la mera intenzione di verificare e sondare l’eventuale opportunità di proporre ricorso giurisdizionale.
Si deve partire dal principio affermato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 4 del 2021: “a) in materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; b) la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”[23].
All’interno di questa cornice (per cui, da un lato, non è sufficiente addurre generiche esigenze difensive e, dall’altro, non è possibile negare l’accesso perché all’apparenza il documento parrebbe non rilevante ai fini del giudizio) l’indispensabilità conoscitiva si dimostra essere lo “snodo strumentale indefettibile per il concreto esercizio delle prerogative di difesa, nel senso che, a fronte di dati dell'offerta tecnica presidiati da segreti industriali e commerciali, si rivela essenziale dimostrare non già un generico interesse alla tutela dei propri interessi giuridicamente rilevanti quanto, piuttosto, la «stretta indispensabilità» della ridetta documentazione per apprestare determinate difese all'interno di in uno specifico giudizio”[24].
In altre parole, la parte interessata ha l’onere “di dimostrare in modo intelligibile il collegamento necessario fra la documentazione richiesta e le proprie difese. E tanto, come evidenziato in diverse occasioni dalla giurisprudenza amministrativa, attraverso una sia pur minima indicazione delle «deduzioni difensive potenzialmente esplicabili». In questo quadro l'onere della prova del suddetto nesso di strumentalità incombe – secondo il consueto criterio di riparto – su colui che agisce, ossia sul ricorrente (in sede procedimentale, il richiedente l'accesso agli atti); in assenza di tale dimostrazione circa la «stretta indispensabilità» della richiesta documentazione, la domanda di accesso finisce per tradursi nel tentativo «meramente esplorativo» di conoscere tutta la documentazione versata agli atti di gara, come tale inammissibile”[25].
È utile allora comprendere quando tale onere venga considerato assolto.
In un recente caso deciso dal T.A.R. Veneto, in cui l’amministrazione aveva rigettato l’istanza di accesso alle parti dell’offerta tecnica oscurate, è stato affermato che il diniego “non poteva … trovare giustificazione nella genericità dell’istanza, dovuta all’impossibilità di poter ulteriormente circostanziare le proprie esigenze di difesa in un momento in cui la richiedente l’accesso non conosceva il contenuto dell’offerta dell’aggiudicatario e, quindi, non solo gli aspetti tecnici della stessa, ma nemmeno l’opposizione all’accesso già formulata in quell’occasione rispetto a specifiche parti di essa. La stazione appaltante avrebbe, pertanto, dovuto considerare che la società ricorrente, avendo partecipato alla procedura competitiva e intendendo contestare i punteggi attribuiti alla propria offerta, aveva la necessità, per poter svolgere le proprie difese, di conoscere gli elementi sui quali la commissione giudicatrice ha svolto le proprie valutazioni ritenendo di premiare l’offerta dell’aggiudicatario”[26].
Similmente, nel caso affrontato dalle due ordinanze in commento, in cui l’offerta tecnica risultava per la maggior parte oscurata, tale onere è stato considerato assolto per il sol fatto che l’istanza è stata presentata dal “concorrente che ha partecipato alla gara” e non da un qualsiasi “operatore economico concorrente nel mercato”.
Nel caso in cui, invece, l’offerta tecnica sia in parte conoscibile e venga in parte ostesa, l’onere diventa più stringente. La stretta indispensabilità, infatti, è un “concetto che, pur dovendo essere declinato «in concreto», sconta l’inevitabile carattere «relativo» del momento nel quale viene avanzata la richiesta di accesso, e della documentazione della quale il ricorrente si trova già in possesso”[27].
Detto con altre parole: “quanto più l’interessato abbia già a disposizione documentazione di gara e quanto più la sua «proiezione giudiziale» si sia fatta concreta attraverso la proposizione di un ricorso avverso gli atti della procedura, tanto più stringente dovrà essere la deduzione e la prova della indispensabilità, ma, allo stesso modo, tanto più chiaramente l’interprete potrà avere contezza di quello stretto collegamento (o nesso di strumentalità necessaria) che deve ricorrere tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa per ammettere integralmente l’accesso anche a documenti contenenti segreti tecnici e commerciali”[28].
Insomma, nel momento in cui l’amministrazione chiarisce che l’offerta tecnica della controinteressata verrà resa accessibile con parti oscurate secondo la “dichiarazione sulla riservatezza dell’offerta tecnica”, non è più sufficiente invocare la propria qualifica di concorrente, di secondo classificato ovvero di ricorrente in giudizio per ottenere pieno accesso: sarà invece necessario esplicitare le ragioni che rendono indispensabile, ai fini della propria difesa in giudizio, l’accesso integrale ovvero in termini maggiori rispetto a quelli effettivamente concessi[29]. Tale onere potrà essere assolto in modo “progressivo”, “in corrispondenza con la parimenti progressiva e parziale consegna da parte della P.a. della documentazione richiesta”.
6. Conclusioni
Appare evidente che l’onere della prova che grava sul richiedente accesso a quella parte dell’offerta tecnica o delle giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia che contengono segreti tecnico-commerciali è stato variamente risolto dalla giurisprudenza.
Sulla base di un primo orientamento, cui appartiene l’ordinanza del T.A.R. Bologna qui in commento, da reputarsi il più estensivo in materia, se a presentare l’istanza di accesso è un concorrente che ha partecipato alla gara e motiva la sua richiesta in relazione alla esigenza di difesa in giudizio dei propri interessi, l’unica ragione che potrebbe opporre l’amministrazione è che tale dichiarazione non corrisponda al vero, ossia che la richiesta “non sia proposta dal «concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto»”. Diversamente, per il sol fatto di aver partecipato alla gara e di avere l’esigenza di tutelare i propri interessi, nessun segreto tecnico può essere addotto[30].
All’estremo opposto si collocano quelle pronunce che invece esigono un quid pluris rispetto alla mera intenzione di contestare l’aggiudicazione, dovendo l’istanza di accesso contenere almeno un accenno alla strumentalità della chiesta documentazione tecnica rispetto alle esigenze difensive e una sia pur minima indicazione delle deduzioni difensive potenzialmente esplicabili: a questo “filone” si può ricondurre l’ordinanza del Consiglio di Stato qui annotata.
In una posizione intermedia si colloca invece quell’orientamento per cui non è sufficiente dimostrare la propria qualifica di concorrente alla gara che voglia difendersi in giudizio, ma è invece necessario ottemperare all’onere di provare la stretta indispensabilità della documentazione richiesta proporzionalmente a quanto già è stato osteso. Più precisamente, sia l’amministrazione che il giudice sono chiamati a valutare come, nel corso del tempo e dell’eventuale giudizio, il concorrente sia stato in grado di progressivamente specificare la necessità di avere accesso a quella parte della documentazione che è oscurata.
Ad avviso di chi scrive, quest’ultima tesi appare la più convincente, benché necessiti di una precisazione. Essa ha il pregio di non richiedere una probatio diabolica al concorrente, per il quale potrebbe essere impossibile fornire anche quella minima indicazione dei propri motivi di ricorso, se l’offerta tecnica gli è stata sostanzialmente oscurata per intero; ciò che è esigibile dall’operatore economico, invece, è esattamente – e solamente – ciò che egli può fornire: se l’aggiudicatario ha affermato che l’intera offerta contiene segreti tecnico-commerciali, ben sarà sufficiente che l’istante dichiari l’esigenza di voler contestare il punteggio attribuito dalla commissione per ottenere pieno accesso[31]. Se, invece, sono solo alcune porzioni dell’offerta a non venire ostese, allora l’onere da assolvere sarà maggiore e al richiedente si domanderà di dimostrare perché proprio quella tal parte gli è necessaria. Si potrebbe opporre che, alla vista di un paragrafo oscurato, sia impossibile assolvere tale onere: il che è condivisibile.
La tesi in discorso, pertanto, richiede effettivamente un correttivo: è necessario che la stazione appaltante conceda all’istante “accesso al contenuto essenziale delle … informazioni” oscurate, così come di recente stabilito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[32]. Se la stazione appaltante si attiene a tale prescrizione, certamente si evita il rischio di ledere il diritto dell’istante a un ricorso effettivo e, al contempo, si può esigere che egli integri – progressivamente – la propria richiesta di accesso in ordine all’indispensabilità della documentazione richiesta.
Tale conclusione si palesa in linea con il dettato del comma 6 dell’art. 53. È indubbio che la norma, nel momento in cui chiede di dimostrare che la documentazione è stata richiesta “ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto”, non impone semplicemente – come, invece, ritiene il T.A.R. Bologna nell’ordinanza in commento – di dichiarare di avere questa intenzione e di essere un concorrente della gara: è evidente, infatti, che un onere di tal contenuto sarebbe sostanzialmente privo di contenuto, essendo sempre ottemperabile[33], e pare concreto il rischio di concedere accesso anche tutti coloro che vogliano fare un uso emulativo di questo diritto, unicamente per giovarsi di specifiche conoscenze industriali o commerciali acquisite e detenute da altri concorrenti.
Sulla base di questa ricostruzione, pertanto, è auspicabile che si instauri un “dialogo” tra l’istante e l’amministrazione, laddove il primo specifica le proprie esigenze in modo progressivo, aggiungendo ulteriori dettagli relativi alla stretta indispensabilità della documentazione, man mano che la stessa viene ostesa, anche a mezzo di sintetici riferimenti al suo contenuto[34].
Resta, tuttavia, un problema, di natura strettamente processuale: il Giudice si troverà a decidere dell’ostensione (o meno) di parti dell’offerta tecnica contenenti segreti tecnico-commerciali, senza poter effettivamente verificare se esse riportino informazioni meritevoli di protezione.
Mentre, infatti, l’amministrazione è nella posizione di valutare se, ai fini della difesa e delle esigenze prospettate dal ricorrente, la parte dell’offerta di cui è stato chiesto l’oscuramento abbia una rilevanza e sia funzionale agli interessi del richiedente e, soprattutto, contenga veramente segreti tecnico-commerciali, il giudice si trova nella medesima posizione del concorrente pretermesso dall’accesso. Non a caso, nella maggioranza dei casi affrontati dalla giurisprudenza, la decisione è nel senso di concedere ostensione all’intera offerta ovvero di negarla in toto, essendo alquanto arduo, per non dire impossibile, per il giudice distinguere tra le varie porzioni della documentazione che sono oscurate, non potendone conoscere il contenuto[35].
L’unica soluzione a questo problema è la cosiddetta “istruttoria riservata”, che consente al giudice – e solo al giudice – di conoscere per intero la documentazione, anche nella parte oscurata. Tale possibilità, tuttavia, nota in giurisprudenza, anche se sperimentata di rado[36], non è stata adottata dal nuovo codice dei contratti pubblici, perdendo così un’occasione per consentire una delibazione consapevole da parte dell’organo giudicante su aspetti così delicati, quali la conoscenza dell’offerta tecnica e dei giustificativi da parte degli operatori economici.
[1] Ci si riferisce alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del 24 gennaio 2023, n. 4, commentata su questa Rivista: cfr. C. Napolitano, Sull’appellabilità dell’ordinanza pronunciata sulla richiesta di accesso documentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2023, n. 4).
[2] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2019, n. 3936; Cons. Stato, Sez. V, 21 maggio 2018, n. 3028. Tale ricostruzione – ricorda la Plenaria – “valorizza la previsione che impone la notificazione dell’istanza all’Amministrazione e ai controinteressati. Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, si applica integralmente la disciplina dell’accesso, anche per quanto attiene alla portata dell’accesso difensivo, nel senso che la documentazione può essere rilasciata «senza verificare la concreta pertinenza degli atti con l’oggetto della controversia principale … ii) sul piano processuale, l’ordinanza è autonomamente impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato ed è suscettibile di esecuzione coattiva con la proposizione del ricorso per ottemperanza”.
[3] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1878; nonché Cons. Stato, Sez. III, 21 ottobre 2015, n. 806, e Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2013, n. 3579. Come ricorda la Plenaria, “tale ricostruzione valorizza il riferimento, contenuto nell’art. 116, alla «connessione» dell’istanza con il giudizio in corso, che presuppone sempre un rapporto di «strumentalità in senso stretto» della documentazione richiesta per la definizione del giudizio principale e tiene conto dell’esigenza di evitare il «rischio di impugnazioni autonome su ordinanze istruttorie che in seguito potrebbero rivelarsi comunque superflue, qualora l’esito del giudizio di primo grado fosse favorevole a prescindere». … Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, non si applica la disciplina dell’accesso; ii) sul piano processuale, si applica il regime delle ordinanze istruttorie, con esclusione della loro appellabilità, con la possibilità della loro modifica e revoca da parte del giudice che le ha adottate (art. 177 cod. proc. civ. e art. 39 cod. proc. amm.) e con la possibilità, in caso di mancata esecuzione, di trarre argomenti di prova dal comportamento dell’amministrazione (art. 64, comma 4, cod. proc. amm.)”.
[4] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 agosto 2020, n. 5036; si v. anche Cons. Stato, Sez. III, 7 ottobre 2020, n. 5944; Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 5765; Cons. Stato, Sez. III, 25 giugno 2010, n. 4068
[5] Cfr. ancora C. Napolitano, Sull’appellabilità dell’ordinanza pronunciata sulla richiesta di accesso documentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2023, n. 4), in questa Rivista.
[6] Non fosse altro per il fatto che l’art. 116, co. 2, c.p.a. certo non consente di derogare alle regole sulla competenza del Giudice, a meno di non voler considerare il provvedimento di diniego all’accesso quale “atto presupposto” rispetto al provvedimento impugnato col ricorso “principale”: per il che – come afferma, non condivisibilmente, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III Quater, ord. 17 aprile 2023, n. 6581 – potrebbe trovare applicazione il comma 4-bis dell’art. 13 c.p.a. e quindi aversi uno spostamento della competenza avanti il medesimo giudice, ossia quello competente a conoscere del ricorso “principale”, in ossequio ai principi di economicità, satisfattività, effettività della tutela e ragionevolezza rispetto all’esigenza di congiunta trattazione manifestata dal legislatore con la disposizione testé citata.
[7] Sfugge alla disponibilità del ricorrente solo nel caso in cui il T.A.R. decida di fissare una camera di consiglio per la sola trattazione dell’istanza ex art. 116, co. 2, c.p.a.
[8] Sembra che il primo provvedimento che si è espresso per l’inammissibilità dell’appello contro l’ordinanza con cui il T.A.R. ha deciso l’impugnativa avverso il diniego di accesso ai documenti sia Cons. Stato, Sez. VI, ord. 22 gennaio 2002, n. 403, in Il Foro Amministrativo – Consiglio di Stato, I, 2002, 179, commentata da Anna Romano. Il Consiglio di Stato svolge un ragionamento ineccepibile: l’impugnativa per conseguire l’accesso agli atti non può considerarsi autonoma, ma strumentale alle esigenze difensive del giudizio in corso. Infatti, il giudizio cui è chiamato il Giudice di primo grado deve basarsi sul presupposto della acclarata esigenza dei documenti ai fini della decisione, non sulla sola riscontrata sussistenza delle condizioni di cui alla L. n. 241/1990.
[9] Così Cons. Stato, Sez. III, ord. 7 febbraio 2023, n. 1321.
[10] Così Cons. Stato n. 1321/2023 cit.
[11] Così Cons. Stato, Sez. V, 5 agosto 2020, n. 4930.
[12] Resta ovviamente ferma la previsione di cui al comma 7 dell’art. 24, per cui “in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”, l’accesso è consentito “nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.
[13] Cfr. R. De Nictolis, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1268.
[14] Sulla questione si veda L. Minervini, Accesso agli atti e procedure di affidamento ed esecuzione di contratti pubblici, Foro Amm., 5, 2019, 949 ss.
[15] Cfr. R. De Nictolis, I nuovi appalti pubblici cit., 1269.
[16] Fermo, ovviamente, quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea, con la pronuncia della Sez. IV del 17 novembre 2022, ove è stato chiarito che “l’amministrazione aggiudicatrice non può essere vincolata dalla semplice affermazione di un operatore economico secondo la quale le informazioni trasmesse sono riservate, ma deve esigere che tale operatore dimostri la natura realmente riservata delle informazioni alla cui divulgazione esso si oppone (v., in tal senso, sentenza del 7 settembre 2021, Klaipėdos regiono atliekų tvarkymo centras, C-927/19, EU:C:2021:700, punto 117)”. Sul tema si veda anche C.G.U.E., Grande Sezione, 7 settembre 2021, causa C-927/19, per cui “un’amministrazione aggiudicatrice, alla quale un operatore economico abbia presentato una richiesta di accesso alle informazioni riservate contenute nell’offerta del concorrente aggiudicatario, non è tenuta a comunicare tali elementi qualora la loro trasmissione comporti una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla tutela delle informazioni riservate e, qualora rifiuti di trasmettere tali informazioni, l’amministrazione aggiudicatrice è tenuta a effettuare un bilanciamento tra il diritto del richiedente a una buona amministrazione e il diritto del concorrente alla tutela delle sue informazioni riservate in modo che la sua decisione di rifiuto siano motivate e il diritto ad un ricorso efficace di cui beneficia un offerente escluso non venga privato di effetto utile”; cfr. A. Magliari, Diritto di accesso agli atti di gara e tutela della riservatezza, in Giornale di diritto amministrativo, 1, 2022, 79 ss.; si veda anche S. Vitali, Trasparenza amministrativa ed accesso agli atti riservati nelle procedure ad evidenza pubblica, in Urb. App., 1, 2022, 41 ss.
[17] Così Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2020, n. 64.
[18] Da ultimo, si veda T.A.R. Lazio, Roma, 26 settembre 2022, n. 12156; si veda anche Cons. Stato n. 64/2020 cit., ove si può leggere quanto segue: “nella definizione di segreti tecnici o commerciali non può ricadere qualsiasi elemento di originalità dello schema tecnico del servizio offerto, perché è del tutto fisiologico che ogni imprenditore abbia una specifica organizzazione, propri contatti commerciali, e idee differenti da applicare alle esigenze della clientela. La qualifica di segreto tecnico o commerciale deve invece essere riservata a elaborazioni e studi ulteriori, di carattere specialistico, che trovano applicazione in una serie indeterminata di appalti, e sono in grado di differenziare il valore del servizio offerto solo a condizione che i concorrenti non ne vengano mai a conoscenza (T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 24/02/2020, n. 270)”.
[19] Le informazioni tecniche oggetto di tutela possono riferirsi sia a procedimenti che prodotti, siano essi brevettabili o meno; tra le informazioni non tecniche proteggibili vi sono le liste clienti e, tra quelle amministrative, tutta la documentazione relativa alla certificazione di qualità, così come le procedure attinenti all’amministrazione interna dell’azienda; sono inoltre da ritenersi tutelabili i risultati ottenuti in via automatica attraverso processi di intelligenza artificiale. Sulla questione, si veda, ex multis, Commento all’art. 98 in L.C. Umbertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Milano, 2019, 603-605. In giurisprudenza, da ultimo, si veda T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 13 giugno 2022, n. 598. In linea con questa definizione è anche la più recente giurisprudenza eurounitaria: cfr. C.G.U.E., Sez. IV, 17 novembre 2022, causa C 54/21, per cui “l'amministrazione aggiudicatrice deve, al fine di decidere se rifiutare, a un offerente la cui offerta ammissibile sia stata respinta, l'accesso alle informazioni presentate dagli altri offerenti in merito alla loro esperienza pertinente e alle relative referenze, all'identità e alle qualifiche professionali del personale proposto per eseguire l'appalto o dei subappaltatori, nonché alla concezione del progetto la cui realizzazione è prevista nell'ambito dell'appalto e alle modalità di esecuzione di quest'ultimo, valutare se tali informazioni abbiano un valore commerciale che non si limita all'appalto pubblico di cui trattasi, informazioni la cui divulgazione può pregiudicare legittimi interessi commerciali o la concorrenza leale. L'amministrazione aggiudicatrice può, inoltre, rifiutare l'accesso a tali informazioni qualora la divulgazione di queste ultime, ancorché prive di siffatto valore commerciale, ostacoli l'applicazione della legge o sia contraria all'interesse pubblico”.
[20] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. IV, 6 maggio 2022, n. 5714, che richiama T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, n. 9363/2021, e T.A.R. Campania, Salerno, n. 270/2020.
[21] Deve tuttavia precisarsi che l’accesso difensivo non prevale ex se sulla tutela del segreto tecnico o commerciale; ad esempio, quando l’istanza di accesso è fondata su interessi quali il diritto di azione in sede civile nei confronti di soggetti privati per risarcimento danni da concorrenza sleale, per illecito extracontrattuale ovvero per sollecitare l’intervento del giudice penale: tali fattispecie sfuggono infatti alla previsione normativa per cui l’accesso difensivo e gli interessi da tutelare devono inerire la “procedura di affidamento del contratto”. Parimenti la richiesta di esibizione dovrà essere rigettata se essa si basa sull’esigenza di sollecitare poteri di autotutela dell’amministrazione, essendo ciò escluso dalla menzione, al comma 6 dell’art. 53, del fatto che l’accesso deve essere finalizzato alla “difesa in giudizio dei propri interessi”: in questi termini, cfr. R. De Nictolis, I nuovi appalti pubblici cit., 1270.
[22] Così Cons. Stato n. 1321/2013 cit.
[23] Per un primo commento si veda T. Raimo, Le potenzialità probatorie dell’accesso difensivo, in Urb. App., 6, 2021, 791 ss.
[24] Così T.A.R. Veneto, Sez. III, ord. 7 febbraio 2023, n. 1321.
[25] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 gennaio 2022, n. 369; cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2472.
[26] Così T.A.R. Veneto, Sez. III, 19 luglio 2022, n. 1174.
[27] Cfr. T.A.R. Veneto n. 1484/2022.
[28] Cfr. T.A.R. Veneto n. 1484/2022. Sulla questione si veda anche L. Minervini, Accesso agli atti cit., 949 ss.
[29] In questi termini cfr. T.A.R. Veneto, Sez. III, ord. 13 dicembre 2022, n. 1891, confermata da Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2023, n. 3379.
[30] In questi termini si esprime anche V. Mirra, Accesso agli atti di gara e segretezza industriale: una conciliazione impossibile?, in Urb. App., 2, 2020, 181.
[31] Il che, peraltro, ha l’indiretto effetto di scoraggiare richieste di oscuramento ingiustificate ed estese a parti dell’offerta che manifestamente non contengono segreti.
[32] C.G.U.E., Sez. IV, 17 novembre 2022, causa C 54/21, par. 85.
[33] A maggior ragione dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 12 del 12 luglio 2020, che “vieta” i ricorsi “al buio” e consente la proposizione del gravame una volta che si ha avuto accesso alla documentazione rilevante. Insomma, il concorrente non aggiudicatario ben può attendere il riscontro all’accesso, anche oltre i consueti 30 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, per impugnare questo provvedimento.
[34] Sulla questione si veda F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, infederalismi.it, 22 maggio 2019, in particolare a p. 23, ove l’Autore afferma che è “irragionevole pretendere di anteporre il momento della costruzione della strategia difensiva a quello della conoscenza degli elementi necessari per la sua elaborazione”. Parrebbe di potersi ritenere che il temperamento proposto dalla ricostruzione qui sostenuta sia in grado di evitare il rischio di un’inversione logica, oltre che temporale, ossia di dover enucleare i motivi di ricorso, quando essi non sono ancora immaginabili.
[35] Fa eccezione T.A.R. Veneto n. 1174/2022 cit., in cui si apprezza una delibazione da parte del giudice, paragrafo per paragrafo tra quelli oscurati, cui dare accesso.
[36] I casi noti sono pochi: Cons. St., Sez. III, ord. 20 maggio 2021 n. 3897; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, ord. 30 novembre 2010, n. 34; T.A.R. Basilicata, Sez I, ord. 4 ottobre 2013, n. 18.
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