“Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate …”
(P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, 2008, 269)
Sommario: 1. Motivazione come dialogo - 2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale - 3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia - 4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice.
1. Motivazione come dialogo
È bella, prima ancora che felice e particolarmente calzante, l’immagine della motivazione come dià-logos: che etimologicamente è “parola che si lascia attraversare da una parola altra”[2].
Perché il dialogo è un percorso: di apertura accogliente, di ascolto attento e silenzioso, di confronto libero e rispettoso, di riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni[3].
Così, anche la motivazione mette capo ad un percorso: che è il processo.
Esso è la fonte esclusiva di legittimazione del giudice: tale soltanto nel processo, che potrebbe essere anche inteso come lo spazio costitutivo di riconoscimento dell’essere giudice, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che “senza processo non vi è giurisdizione, quindi azione, giurisdizione, processo sono tre facce della stessa realtà”[4].
È infatti nel processo, e attraverso il processo, che si invera compiutamente lo “ius dicere” del giudice, che in tal modo appunto attua la “giurisdizione … mediante il giusto processo regolato dalla legge” (art. 111, primo comma Cost.).
Non si può allora non condividere l’“immagine finale” del“la regolarità del processo come unica possibile garanzia positiva della giustizia del risultato”[5]: sicché, davvero la giustificazione della legittimità di una decisione giurisdizionale risiede nell’essere pronunciata, rispettando le “regole del gioco” stabilite per la funzione giurisdizionale[6].
Ebbene, all’interno dell’attività procedimentale, organizzata nella sequenza elementare fatto – situazione giuridica – atto[7] e in esito al percorso processuale reso possibile dalla presenza e dal contributo delle parti e dei loro difensori, nei tempi scanditi dalla direzione (art. 175 c.p.c.), l’esercizio della giurisdizione si realizza, normalmente[8], in un provvedimento, appunto motivato.
2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale
Si comprende bene, e giova averlo chiaro, che la decisione della controversia non stia (se non come epilogo) nel provvedimento risolutivo del giudice (sentenza, piuttosto che ordinanza, o decreto: a seconda del rito o del procedimento adottati) e nella loro motivazione, ma nella direzione “impressa” dal giudice al percorso processuale. Volutamente ho utilizzato un participio atecnico, per meglio illustrare come la direzione del giudice debba essere rettamente intesa: non già come un astratto indirizzo autoritario, bensì piuttosto quale orientamento coerente con gli elementi introdotti dalle parti, sotto i profili di allegazione e deduzione probatoria, nel rispetto del principio dispositivo regolante il processo civile, salva la previsione di esercizio di poteri officiosi (artt. 183, 421, 437 c.p.c.).
E la direzione del giudice deve assicurare, alla fine, una sola, fondamentale garanzia: quella del rispetto del “principio del contraddittorio” tra le parti (“et audietur altera pars”), che è cardine del processo civile, per il suo diretto ancoraggio costituzionale nel diritto di difesa, “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, secondo comma Cost.) e nel quale tutti gli altri principi e tutele sostanzialmente si risolvono.
È noto il suo riferimento normativo nell’art. 101, secondo comma c.p.c., secondo cui “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”, novellato dall’art. 3, settimo comma d.lgs. 149/2022 dall’aggiunta nell’esordio: “Il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione al diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni.”[9].
La disposizione è stata opportunamente introdotta con l’art. 45, tredicesimo comma della legge n. 69/2009, per dare forza di diritto positivo ad un formante giurisprudenziale, che, per rimediare ad un purtroppo non raro cattivo costume (rectius: vizio) motivazionale, aveva individuato, nel sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101, secondo comma c.p.c., il dovere costituzionale di evitare sentenze cosiddette “a sorpresa” o della “terza via”, poiché adottate in violazione del principio della “parità delle armi”, nel fondamento normativo dell’art. 183 c.p.c., che al terzo (poi quarto) comma faceva carico al giudice di indicare alle parti “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con riferimento, peraltro, alle sole questioni di puro fatto o miste e con esclusione, quindi, di quelle di puro diritto[10].
Non per nulla la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione[11].
3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia
La motivazione di “tutti i provvedimenti giurisdizionali” non è soltanto doveroso adempimento costituzionale (art. 111, sesto comma Cost.), ma essenza stessa della Giurisdizione.
Essa non è prerogativa del giudice declinata come potere proprio, bensì servizio: che neppure gli appartiene, se non per esercitarlo, nella soggezione soltanto alla legge (art. 101, secondo comma Cost.). E che amministra “in nome del popolo” (art. 101, primo comma Cost.), cui appartiene “la sovranità”, da esercitare – qui attraverso il Giudice – “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, secondo comma Cost.): così come deve essere intesa, secondo il limpido dettato costituzionale. Al riguardo, giova riprendere una chiosa davvero preziosa, per essere sempre avvertiti che “sovranità e soggezione all’impero della legge si presentano … come fossero due facce della medesima medaglia”[12].
Ed è bene anche ribadire che “la motivazione non può essere indifferente alla diversa funzione, che, a seconda dei casi, essa è chiamata a svolgere”: “endoprocessuale”, “per dare conto essenzialmente solo alle parti ed ai loro difensori del perché della decisione”; oppure funzione anche “extraprocessuale”, “per consentire il controllo dell’opinione sull’esercizio dell’attività giurisdizionale e per contribuire alla formazione di orientamenti giurisprudenziali in grado di perpetuarsi quado si ripresentino casi simili”[13].
Si comprende allora come il legame della motivazione, e quindi della Giurisdizione, con la Democrazia sia più stretto di quanto normalmente si pensi: la motivazione è, infatti, esercizio alto e delicato di democrazia.
Perché è “rendere conto” della funzione del giudicare, rettamente intesa: non già alla stregua di apodittica affermazione di un potere gelosamente e insindacabilmente esercitato come proprio, ma quale giustificazione, criticabile in quanto esplicitata in un dialogo argomentato sostenuto da un pensiero, di un “servizio di autorità”, consegnato al Giudice dalla Costituzione, in un circuito virtuoso che parta dal Cittadino (sovrano) e, attraverso il suo Giudice naturale (art. 25, primo comma Cost.), ad esso ritorni.
Ma ciò può, e deve, avvenire soltanto se essa spieghi, in modo trasparente e comprensibile, le ragioni effettive del decidere.
È vero che la chiarezza della motivazione non è prescritta in modo esplicito dal codice di rito, ma costituisce evidentemente la condizione indispensabile perché possa assolvere il suo compito[14]. Prescrivono l’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. che la sentenza debba, in particolare, contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” e l’art. 118 disp. att. c.p.c. che: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4 del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (primo comma); “Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio e indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. … ” (secondo comma); “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici.” (terzo comma).
L’interpretazione giurisprudenziale ha, come noto a tutti, meglio chiarito ed esplicitato il significato del dettato normativo. E così, soltanto per una rapida ed esemplificativa silloge di riferimenti, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato:
“in tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, non risultando identificabili gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass. 10.11.2010, n. 22845; Cass. 20.1.2015, n. 920; Cass. 15.11.2019, n. 29721); sicché sussiste il vizio di nullità della sentenza per omessa motivazione allorché essa sia priva dell'esposizione dei motivi in diritto a fondamento della decisione (Cass. 16.7.2009, n. 16581; Cass. 10.8.2017, n. 19956)”[15];
“il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza sussiste solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale (Cass. 30.12.2015, n. 26077; Cass. 27.6.2017, n. 16014; Cass. 17.10.2018, n. 26074); in particolare, presupposto indefettibile della prospettata nullità della sentenza è l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione, in quanto rechino affermazioni del tutto antitetiche tra loro; la prospettata insanabilità non sussiste quando la motivazione sia invece coerente rispetto al dispositivo, limitandosi a ridurne o ad ampliarne il contenuto, senza tuttavia inficiarne il contenuto decisorio e se ne possa escludere qualsiasi ripensamento sopravvenuto, essendo la motivazione saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo: in tal caso, la divergenza tra dispositivo e motivazione non preclude il raggiungimento dello scopo ed esclude la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156, secondo comma c.p.c. (Cass. 10.5.2011, n. 10305); inoltre, nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza deve essere individuato, non già alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice: con la conseguenza della prevalenza della parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (Cass. 10.9.2015, n. 17910; Cass. 18.10.2017, n. 24600); sicché, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, da interpretare secondo l’unica statuizione in esso contenuta (Cass. 11.7.2007, n. 15585; Cass. 17.7.2015, n. 15088; Cass. 21.6.2016, n. 12841). E sempre che il principio dell’interpretazione del dispositivo mediante la motivazione non si estenda fino all’integrazione del contenuto precettivo del primo con la statuizione desunta dalla seconda, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo (Cass. 12.2.2020, n. 3469, p.to 1.3. in motivazione)”[16];
“è inconfigurabile, alla luce del novellato testo dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., la censura di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, co. 6 Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. s.u. 7.4.2014, n. 8053; Cass. 12.10.2017, n. 23940); ricorre violazione dell’obbligo di motivazione anche qualora essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile), realizzandosi in tal caso una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. (Cass. 25.9.2018, n. 22598)”[17].
4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice
A conclusione delle riflessioni svolte, mi piace sottolineare come la motivazione sia la cartina di tornasole di chi sia davvero il giudice, rivelandone la “postura” e la “qualità”, umana e professionale.
La “postura” è la posizione che il giudice assume abitualmente nel processo, e quindi nella motivazione dei provvedimenti.
Essa dovrebbe auspicabilmente essere quella di chi conosca la trama della controversia, per averne compreso gli elementi fattuali e le ragioni giuridiche, avendo diretto il processo in dialogo con le parti, nella chiara individuazione dei principi di diritto da applicare. E di chi sappia discernere le effettive ragioni del decidere, spiegandole con linguaggio semplice e tecnicamente appropriato, in uno stile sobrio, conciso ma esauriente al tempo stesso, che soprattutto non indulga ad inutili e fuorvianti digressioni, insidiose per le parti e per gli altri giudici, in caso di impugnazione.
Qui si aprirebbe un discorso davvero lungo, che non ho qui il tempo di affrontare, ma che mi preme comunque anche soltanto accennare, in particolare riferimento alla delicata distinzione tra le rationes decidendi (le ragioni argomentative ad effettivo sostegno del ragionamento decisorio) dai meri obiter dicta (le affermazioni volatili, assolutamente superflue; etimologicamente: “buttate là”).
Una tale distinzione rileva, infatti, per i riflessi di inammissibilità dei motivi di impugnazione della sentenza, se non esattamente individuate o riconosciute nella genuina natura, sotto due principali profili:
a) di non corretta denuncia di doppie rationes decidendi, qualora una di esse non sia stata confutata affatto o lo sia stata in modo infondato, per sopravvenuto difetto di interesse, posto che quelle relative alle altre ragioni oggetto di doglianza non potrebbero comunque condurre, per l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione[18];
b) per carenza di interesse, in relazione alla censura di un’argomentazione svolta “ad abundantiam”, siccome avente natura di mero “obiter dictum”, ininfluente sul dispositivo della decisione[19].
In altre parole, con espressione più diretta: la motivazione deve essere resa “per quel che serve”, senza nulla di meno ma neppure di più, in una consapevole e prudente auto - limitazione[20].
La qualità, “umana e professionale”, è il requisito coessenziale all’esercizio di ogni attività, che aspiri ad essere semplicemente degna della donna e dell’uomo.
E così, per chi svolga l’esercizio della giurisdizione l’essere, prima di ogni altra cosa, cittadina o cittadino consapevole, è inseparabile dalla qualità professionale, di magistrato (ossia, di impiegato dello Stato), per status giuridico e di giudice, per investitura di una delicata funzione costituzionale, quella appunto di esercizio della giurisdizione: funzione da svolgere nel rispetto di quell’armonico ordito di equilibri e di garanzie, di diritti di libertà e di valori di giustizia[21], che è Valore sommo della nostra Costituzione, in una coesistenza mite, perché richiede che ciascun valore e ciascun principio “sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere[22]”, in quanto “carattere assoluto assume solo un meta–valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori … e del loro confronto leale”[23]. Ed essa è patto di fiducia a fondamento dell’ordinamento democratico del nostro Stato di diritto, che costruisce spazio di inclusione politica e sociale[24].
E allora, accanto e prima ancora di una doverosa competenza tecnico – giuridica, nel Giudice doti essenziali mi paiono quelle di: umiltà (che è giusta considerazione di sé e degli altri attori del processo, in un ascolto orientato dal desiderio di capire davvero), equilibrio (che è senso della realtà e della misura, oltre che onestà intellettuale), equidistanza (che non è indifferenza né disinteresse, ma serenità di giudizio, libertà da pre–giudizi, ben oltre la cosiddetta “prevenzione cognitiva”)[25], attenzione alle persone che domandano giustizia e sensibilità agli effetti della decisione, sia giuridica sotto il profilo sistematico, sia di “buon senso” della ricaduta concreta della soluzione della controversia sulla vicenda sottesa alla fattispecie[26].
Tali caratteri traspaiono dalla motivazione del provvedimento, che, se ci sono, li illustra …
[1] Relazione rielaborata tenuta a Roma 17 maggio 2023 per il Corso di Tirocinio Mirato Mot. D.M. 2022.
[2] E. Bianchi, L’altro siamo noi, Torino, 2010, 14.
[3] A. Patti, Ascolto via al dialogo, Cinisello Balsamo (Milano), 2018, passim.
[4] S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 225.
[5] G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 744.
[6] A.J.D. Perez Ragone, Profili della giustizia processuale (procedural fairness): la giustificazione etica del processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, 1033, part. 1049.
[7] G. Fabbrini, op. cit., 721 ss.
[8] Laddove non si pervenga ad un esito conciliativo, ulteriormente sollecitato dalla novellazione del d.lgs. 149/2022, a norma in particolare degli artt. 183, 185, 185bis, 420 c.p.c.
[9] Il principio è ribadito nel giudizio di cassazione dall’art. 384, terzo comma c.p.c., secondo cui: Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.
[10] Cass. 7 novembre 2013, n. 25054; Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 27 novembre 2018, n. 30716: Cass. 12 settembre 2019, n. 22778; Cass. 6 febbraio 2023, n. 3543.
[11] Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 21 novembre 2016, n. 23638; Cass. 20 novembre 2020.
[12] R. Rordorf, Il giudice e la legge, in Magistratura Giustizia Società, Bari, 2020, 81.
[13] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 391.
[14] Ivi, 389.
[15] Cass. 28 ottobre 2021, n. 30526 (in motivazione, sub p.ti 3, 3.1).
[16] Cass. 9 dicembre 2021, n. 39050 (in motivazione, sub p.ti da 3 a 3.2).
[17] Cass. 16 aprile 2019, n. 10573 (in motivazione).
[18] Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3307; Cass. 15 luglio 2020, n. 15114; 11 maggio 2022, n. 14995).
[19] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 11marzo 2022, n. 7995.
[20] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 390: “Ma la sinteticità risponde soprattutto ad un più generale principio di economia dei mezzi rispetto al fine, il quale consiste nel dare conto della ragione della decisione e non nel manifestare il pensiero giuridico dell’estensore alla maniera di un saggio di dottrina. Per essere efficace la motivazione di un provvedimento deve dire tutto quel che occorre per far comprendere che cosa ha indotto il giudice a decidere in un determinato modo, ma nulla più di questo”.
[21] A. Patti, Perché la legalità? Le ragioni di una scelta, Milano, 2013, 51.
[22] In tale senso anche, in particolare: Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (in materia di garanzia del diritto alla salute e all’ambiente salubre); Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 20 (in materia di garanzia del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza), secondo le quali: “Ogni diritto costituzionalmente protetto non può espandersi illimitatamente e divenire “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, poiché la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[23] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 11.
[24] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 135.
[25] Essa si sostanzia nell’imparzialità, che è condizione essenziale per la realizzazione degli altri valori (di giustizia) del diritto, per la sua funzione di assicurare il modo di raggiungimento di un risultato, nel rispetto di tutti gli interessi in gioco: I. Trujillo, Imparzialità, Torino, 2003, 226.
[26] R. Rordorf, L’equità e la legge, in Magistratura Giustizia Società, cit., 107: “Non bisogna dimenticare che il diritto non è un esercizio mentale astratto ma si confronta continuamente con la realtà storica dei fatti ai quali è destinato ad applicarsi e con i quali è indissolubilmente intrecciato”.