ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica. - 2. La discrezionalità interpretativa del giudice. – 3.Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo. – 4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books). - 5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative. - 6. Nomofilachia e responsabilità.
1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica.
È innegabile il maggiore spazio che oggi l’interprete ha rispetto alle norme scritte, se confrontato con quello che gli era riconosciuto a metà del secolo scorso, quando fu elaborata la Costituzione repubblicana. Sono tanti i fattori che hanno determinato l’ampliamento dello spazio interpretativo. Qui mi limito ad indicarne due, tra quelli di maggiore incisività.
Innanzitutto, le profonde innovazioni nel sistema delle fonti normative, radicato non più sulla primazia gerarchica della legge, ma sulla Costituzione, con gli effetti che questa è idonea a determinare non solo come legge gerarchicamente superiore, ma anche come fonte di principi e di valori caratterizzanti l’intero ordinamento interno. Sulla legge si sono, in epoca successiva, sovrapposte anche le fonti (primarie e secondarie) dell’Unione europea e, altresì, quelle derivanti da convenzioni internazionali (rilevanti a norma dell’art.117 Cost.), tra cui la CEDU. Si è in presenza – si è detto – di uno Stato di diritto, costituzionale ed europeo[1].
Spesso queste fonti sovranazionali, non diversamente dalla Costituzione, contengono principi giuridici, e non delineano fattispecie: i primi, qualunque sia la definizione che se ne dia, prevedono vincoli molto meno rigidi per l’interprete, rispetto alle seconde. Oggi il testo scritto della legge deve essere interpretato alla luce di tutte le fonti sovraordinate, tra le quali, inoltre, non sempre sussiste un rapporto gerarchico preciso (si parla, infatti, di fonti normative multilivello, formanti un sistema non piramidale). Di questo primo fattore innovativo si tratterà nei diversi temi della seconda sessione, e quindi mi limito ad un mero richiamo.
Occorre soffermarsi un poco di più sul secondo fattore, che è di natura culturale. Esso consiste in una diversa concezione dell’attività interpretativa, la quale si è andata progressivamente imponendo tra gli studiosi, tanto da costituire oggi una acquisizione quasi pacifica e tale da non potere essere ignorata anche dagli operatori pratici. Mi riferisco alla distinzione, introdotta a livello concettuale, tra la disposizione (l’enunciato linguistico contenuto in un atto normativo) e la norma (il significato dell’enunciato, desunto dalla sua interpretazione)[2]. Consegue che la norma giuridica non è l’oggetto della interpretazione, preesistente alla stessa, ma ne è il risultato. La pronunzia giudiziale accerta l’esistenza della disposizione rilevante per la decisione del caso concreto, ma è “creativa” della norma applicata, e cioè della regola giuridica posta a base della decisione.
Rimane ferma, a mio avviso, la necessità di una correlazione tra l’enunciato e la norma che il giudice ne trae, e cioè tra il significante e il significato, onde la “creatività” ha un ambito che, pur potendo avere una estensione di volta in volta variabile, è sempre limitato; altrimenti saremmo fuori della interpretazione, che consiste nella attribuzione di un significato ad un testo.
2. La discrezionalità interpretativa del giudice.
In ordine a questo ambito, senza entrare negli ampi e complessi studi sulla interpretazione giuridica, trovo rispondente alla mia esperienza giudiziaria la metafora della “cornice”[3] entro cui possono essere collocati i possibili significati di un testo normativo, e quindi le diverse norme da esso alternativamente desumibili[4]. Non sempre la “cornice” ha contorni precisi, per l’indeterminatezza semantica del linguaggio, spesso aggravata dalla cattiva qualità riscontrabile nella legislazione. Questi sono i “casi difficili”, nei quali lo spazio del giudizio interpretativo è ancora più ampio.
Nell’ambito della “cornice” dei significati possibili del testo[5], la scelta dell’interprete avviene attraverso l’impiego degli argomenti interpretativi[6]. È questo l’ambito tipico della “creatività” dell’interprete (sia egli o meno un giudice), che però non è mai illimitata perché deve partire dalla lettera del testo (è significativo che le sentenze delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo premettano sempre al ragionamento argomentativo il testo delle disposizioni coinvolte), deve impiegare argomenti interpretativi consentiti dalla scienza del diritto, deve pervenire ad un risultato compatibile con il testo (e cioè rientrante nella “cornice”[7]) o che ne spieghi il superamento sulla base di argomenti a ciò ritenuti razionalmente e ragionevolmente idonei[8].
Il superamento della “cornice” posta dalla lettera della disposizione può avvenire per l’operatività di una interpretazione conforme (alla Costituzione, al diritto dell’U.E., a una convenzione internazionale). Quando il significato che si ritenga conforme a queste fonti sovraordinate – in modo diretto o indiretto (attraverso la rilevanza dell’art.117 Cost.) – non rispetta il tenore letterale della disposizione legislativa è, però, opportuno che il giudice adotti una linea di self-restraint, preferendo la rimessione (a seconda dei casi) alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la soluzione di una questione su cui queste Corti non si sono ancora pronunziate.
Una individuazione più precisa di quale sia la “cornice” posta dalla lettera della disposizione, conseguente soprattutto alla elasticità insita nel linguaggio, può derivare dalle caratteristiche particolari del caso concreto da giudicare, che possono indurre ad attribuire alle parole significati nuovi rispetto alle precedenti prassi interpretative. Nell’attività di interpretazione si realizza, cioè, il c.d. circolo ermeneutico tra fatto e diritto, nel senso che il primo può incidere non solo sulla individuazione della disposizione da applicare ad esso (sussunzione), ma anche sulla interpretazione della stessa, nei limiti in cui se ne può desumere una norma idonea alla soluzione del caso, secondo il corretto uso degli argomenti interpretativi sopra menzionati[9].
Mi sembra, allora, utile sostituire il termine piuttosto equivoco di “creatività”[10] con quello, usato spesso in dottrina[11], di “discrezionalità” (della interpretazione) giudiziaria, che, a differenza del primo, reca in sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre il termine precedente fa pensare alla arbitrarietà, e quindi al mancato rispetto della divisione dei poteri[12].
La discrezionalità nella interpretazione della legge sta a esprimere il potere conferito al giudice di scegliere tra due o più norme desumibili dal testo normativo, tutte conformi alla legge. Essa deriva dal fatto che gli argomenti interpretativi, di regola, non conducono a un unico risultato, ma lasciano spazi più o meno ampi di incertezza. Significative sono le decisioni delle sezioni unite della Cassazione, quando risolvono un contrasto emerso tra diverse sentenze delle sezioni semplici della Corte. Spesso i contrastanti orientamenti in precedenza affermati sulla questione decisa dalle sezioni unite si appoggiano su corretti argomenti interpretativi, onde non possono essere considerati errati. In questa eventualità la decisione delle sezioni unite è il frutto di scelte di valore consentite dagli spazi lasciati dagli enunciati normativi[13]. In tal senso converge l’esperienza che ho fatto nei collegi delle sezioni unite con lo studio teorico delle sentenze dello stesso collegio che, successivamente al mio pensionamento, ho avuto occasione di fare in un corso universitario che, per alcuni anni, ho dedicato alla analisi dell’argomentazione adottata dalle decisioni (civili e penali) di quel collegio risolutivi di contrasti[14].
All’esercizio della discrezionalità si addice che di esso il giudicante renda conto attraverso la motivazione del giudizio interpretativo, la quale può essere considerata anche come lo strumento per controllare la fedeltà del giudice alla legge.
3. Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo.
I due fattori qui considerati nel loro effetto ampliativo dello spazio dell’interprete, e in particolare di quell’interprete dotato di autorità quale è il giudice, rendono incompleta la previsione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge (art.101, cpv.).
Da un lato, la legge obbliga il giudice solo in quanto essa sia conforme alla Costituzione. E, soprattutto, la soggezione viene meno nel caso di contrasto della legge con il diritto dell’Unione europea, che non solo legittima, ma obbliga il giudicante a non applicare la legge nazionale.
D’altro lato, il concetto attuale di interpretazione giuridica al quale si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi non appare pienamente conforme alla ideologia del Costituente. Dai lavori preparatori[15] si desume che, nella discussione del testo dell’art.101, cpv., Cost., furono proposte formule alternative a quella dei giudici “soggetti alla legge”, come “dipendono” (dalla legge) - così il progetto approvato dalla Commissione dei 75 (art.94, comma 2) - ovvero “sono vincolati” o “obbediscono” (alla legge). Il testo vigente fu approvato a seguito di un intervento dell’on. Ruini, il quale si espresse per la cancellazione, dal citato art.94, comma 2, del progetto, delle parole: (legge che i giudici) “interpretano ed applicano secondo coscienza”, prospettando il pericolo che tale previsione potesse rendere ammissibile il “cosiddetto diritto libero”. Nella discussione sembra di percepire ancora un’eco della nota posizione di Cesare Beccaria, secondo cui “l’interpretazione delle leggi è un male”[16].
Lo spazio oggi riconosciuto all’interprete-giudice, avente effetti vincolanti almeno per le parti del processo, costituisce un vero e proprio “potere” (interpretativo). Una recente voce enciclopedica è dedicata ai “poteri interpretativi” e alla loro “tensione con la legalità”: I giudici controllano il rispetto della legge, ma in una certa misura sono i giudici stessi a fissare il significato della legge[17]. La “misura” indica i limiti essenziali del potere interpretativo, che sono limiti non solo giuridici (come, per esempio, il divieto di analogia in materia penale), ma anche deontologici.
Questi ultimi sono affidati al senso di responsabilità del giudicante, il quale va sempre correlato alla sfera di autonomia riconosciutagli: maggiore spazio esistente per l’interpretazione dei testi normativi, maggiore responsabilità deontologica del giudice. La scienza giuridica sta iniziando una ricerca diretta a concretizzare e precisare i doveri deontologici che devono accompagnarsi a questo potere interpretativo[18]. L’auspicio è che questa ricerca continui, anche con il contributo attivo di coloro che sono titolari di questo potere.
Ci si può, allora, interrogare sul significato attuale della disposizione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge. Direi che essa mantiene il suo fondamentale rilievo, espresso anche dall’essere contenuta nel primo articolo del titolo sulla magistratura e dall’essere connessa con il precedente comma che instaura un collegamento (qualunque ne sia il preciso significato) dell’amministrazione della giustizia con il popolo, i cui rappresentanti hanno approvato la legge a cui i giudici sono soggetti[19]. Ma sono innegabili le innovazioni segnalate che hanno modificato tale significato, il quale oggi deve comprendere sia le diverse fonti sovraordinate alla legge, sia i poteri interpretativi consentiti dal diritto.
Per esprimere siffatte innovazioni si è, in sede dottrinale, usata l’espressione di soggezione del giudice al “diritto”[20]. Quest’ultima espressione, nella sua letterale ampiezza, può essere criticata perché il diritto comprende anche le fonti secondarie, di cui il giudice comune ha il compito di giudicare la legittimità e alle quali egli, perciò, non è soggetto; essa, comunque, non è idonea a esprimere il valore della fedeltà alla legge e la legalità della giurisdizione che è nell’essenza di questa attività. Ma, pur con questi limiti, l’espressione di soggezione del giudice al “diritto” è, probabilmente, atta a fare percepire l’incompletezza della previsione costituzionale e le innovazioni verificatesi nelle fonti del diritto.
La formulazione del tema assegnatoci, riferendosi alla interpretazione non soltanto delle “norme scritte” (che preferirei indicare come “disposizioni” scritte) ma anche del “diritto effettivo”, mi sembra che recepisca questo passaggio dalla legge (fonte prioritaria all’epoca del Costituente) al diritto, come comprensivo del più ricco e complesso sistema delle fonti nonché dei poteri interpretativi delle fonti stesse.
4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books).
L’importanza e gli effetti delle fonti normative sovraordinate alla legge e sopravvenute alla Costituzione si possono percepire con immediatezza se si riflette sulla qualificazione che, nella formulazione del nostro tema, viene aggiunta al diritto: il suo essere “effettivo”, e cioè applicato: non rileva il diritto che è soltanto scritto (in the books), ma quello che riceve effettiva applicazione (in action). Quindi, per usare i termini del tema successivo del nostro incontro, rileva il “diritto vivente”, e non quello vigente.
È questo un punto fermo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e del diritto dell’Unione europea: art.6 TUE). La nozione di legge recepita dalla CEDU implica che essa abbia determinate “qualità”, tra le quali la prevedibilità della sua applicazione. Un testo di legge che consente letture giurisprudenziali contraddittorie non è “legge” ai fini della Convenzione fino a che una giurisprudenza stabilizzata non venga in luce[21].
La ragionevole prevedibilità della applicazione della regola giuridica rileva ai fini del rispetto non solo dell’art.7 (principio di legalità in materia penale), ma anche dell’art.6 della CEDU (equità del processo), e quindi concerne ogni materia. Secondo la Corte di Strasburgo, la stabilità della giurisprudenza e il rilievo riconosciuto ai precedenti sono componenti di ogni giudizio interpretativo, il cui esito deve tendere a evitare una “sorpresa” per l’individuo.
Siffatto risultato è di non facile conseguimento in un sistema ordinamentale che, come quello italiano, è caratterizzato da un potere giudiziario diffuso, per l’assoluta indipendenza del potere interpretativo di ogni giudice e per la normale assenza di vincolatività dei precedenti. Assumono allora un rilievo essenziale le istituzioni alle quali è assegnata, nei rispettivi ambiti interpretativi, una funzione unificante e uniformatrice: la Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, anche la Corte Edu (una volta ratificato dall’Italia il protocollo n.16), la Corte di cassazione.
Con riferimento a quest’ultima istituzione (delle altre si parlerà nella seconda sessione), richiamo l’attenzione sulla sentenza della Corte Edu 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10), peraltro espressiva di un orientamento già affermato. È stata ritenuta sussistente la violazione del processo equo in un caso in cui la Corte suprema del Portogallo, nel decidere un’azione di responsabilità civile contro lo Stato per un errore giudiziario, ha adottato una soluzione negativa diametralmente opposta a una giurisprudenza interna costante. La Corte europea ha osservato che sono connaturali a ogni sistema giudiziario i contrasti giurisprudenziali nell’ambito dei giudici di merito, ma che il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolvere tali contrasti. Se orientamenti divergenti si sviluppano e coesistono all’interno della più alta autorità giudiziaria dello Stato, ciò viola il principio della sicurezza giuridica e riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, i quali – principio e fiducia – rientrano tra le componenti fondamentali dello Stato di diritto. La Corte ha, quindi, censurato l’assenza, all’interno della Corte suprema, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’uniformità delle decisioni[22].
5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative.
L’uniformità della interpretazione-applicazione del diritto, attraverso la funzione unificante della Cassazione, è stato l’obiettivo perseguito, sia pure con ripensamenti e con misure per alcuni aspetti contraddittorie, da ben cinque interventi legislativi di modifica del giudizio civile di legittimità intervenuti in questo secolo, a partire dal d. lgs. n.40/2006, che ha introdotto nel linguaggio legislativo la “funzione nomofilattica” della Corte. A questo intervento sono, poi, succeduti: la l. n.69/2009, la l. n.134/2012, la l. n.197/2016, il d. lgs. n.149/2022[23].
Mi limito a indicare alcune delle innovazioni principali nella attuale disciplina di questo giudizio:
a) il vincolo delle sezioni semplici della Corte ai principi di diritto enunciati dalle sezioni unite, in modo da dare stabilità a questi principi, imponendo un particolare procedimento per il loro mutamento (art.374, terzo comma, c.p.c.);
b) l’ampliamento dei casi in cui il Procuratore generale presso la Corte può chiedere l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (ma irrilevante per le parti del processo) e la possibilità che questo principio di diritto sia pronunciato di ufficio anche nel caso di ricorso della parte dichiarato inammissibile (art.363 c.p.c.);
c) la riduzione, tra i motivi del ricorso per cassazione, dell’ambito del vizio di motivazione e l’esclusione assoluta di tale vizio nei casi di doppia conforme sui medesimi fatti (art.360 c.p.c.);
d) l’udienza pubblica limitata alle sole decisioni di una “questione di diritto di particolare rilevanza” (art.375, primo comma, c.p.c.) e la decisione degli altri ricorsi in camera di consiglio; nel primo caso la decisione è emanata con sentenza, nel secondo caso essa assume la forma della ordinanza;
e) il rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per la risoluzione di “una questione esclusivamente di diritto”, quando – tra gli altri requisiti – essa “è suscettibile di porsi in numerosi giudizi” (art. 363-bis c.p.c.).
Chiaro è il senso di queste innovazioni. Il legislatore di questo secolo ha scelto di privilegiare la funzione della Cassazione civile di risolvere questioni giuridiche rispetto alla diversa funzione di controllo della logicità delle motivazioni dei giudici di merito sull’accertamento dei fatti. Il sindacato sulla motivazione in fatto è stato sempre lo strumento utilizzato dai ricorrenti per indurre la Corte a compiere sostanzialmente un riesame dei fatti di causa, stante la non chiara individuazione, sia nella teoria che nella prassi, dei limiti di quel sindacato. Esso, ora, non solo risulta limitato nel suo ambito oggettivo (art.360 c.p.c.), ma ha assunto un rilievo nettamente minore nel ruolo della Corte in conseguenza del maggiore spazio previsto per la soluzione delle questioni giuridiche e per la formulazione dei principi di diritto.
Nell’ambito delle questioni giuridiche, poi, mi sembra essenziale l’innovazione recentissima della differenza di procedura imposta dal citato art.375: l’udienza pubblica è riservata alla soluzione delle questioni di diritto “di particolare rilevanza” (oltre ai ricorsi che chiedono la revocazione per contrarietà alla CEDU e ai rinvii pregiudiziali dei giudici di merito). Si è in tal modo introdotta una vera e propria selezione dei ricorsi (sia pure soltanto a fini procedurali), che è stata condivisibilmente ritenuta la caratteristica di una Corte suprema[24]. Di “particolare rilevanza” vanno evidentemente considerati i ricorsi che prospettano questioni giuridiche suscettibili di porsi in numerosi giudizi (di cassazione o di merito), nei quali può esplicarsi la funzione nomofilattica della Cassazione[25]. La stessa finalità ha il menzionato rinvio pregiudiziale (art.363-bis c.p.c.). La funzione di nomofilachia assume, pertanto, secondo la disciplina codicistica, una importanza chiaramente prioritaria.
Molte delle ambiguità che Michele Taruffo individuava nella normativa sulla Cassazione civile[26] mi sembra che oggi siano superate dagli interventi legislativi di questo secolo. La funzione essenziale che la Corte deve assolvere è quella di garanzia oggettiva di legalità (ius constitutionis). La garanzia soggettiva della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost. (ius litigatoris) rimane ferma e immutata, ma essa, secondo la previsione costituzionale, è limitata alle violazioni di legge, nell’ambito delle quali una posizione nettamente secondaria assumono le questioni di controllo sugli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, che hanno una rilevanza limitata al caso concreto.
Rispetto al processo penale l’orientamento del legislatore di questo secolo è meno netto e univoco di quello del legislatore civile, ma non discordante. La l. n.46/2006 ha ampliato l’ambito del vizio di motivazione[27], ma anche nel giudizio penale di cassazione sono state introdotte innovazioni dirette a rafforzare la funzione nomofilattica della Corte[28]: il vincolo della sezione semplice al principio di diritto delle sezioni unite e la possibilità per la Corte di enunciare il principio di diritto anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta (art.618, commi 1-bis e 1-ter, c.p.p.), e quindi non vi è più l’interesse del ricorrente. Inoltre, in alcune ipotesi di ricorso per cassazione è stata esclusa la deducibilità del vizio di motivazione[29]. Recentemente, infine, è stata modificata la disciplina procedurale del giudizio penale, poiché l’art.611 c.p.p. ha previsto come regola ordinaria la decisione dei ricorsi in camera di consiglio, mentre si procede alla trattazione in udienza pubblica su richiesta delle parti ovvero anche di ufficio, nel caso di “rilevanza delle questioni” da decidere. La procedura pubblica, pertanto, è finalizzata non solo all’esercizio della nomofilachia (come nei giudizi civili), ma anche alla tutela del contraddittorio.
Questa parziale diversità accentua l’importanza e la potenziale incidenza operativa della innovazione relativa alla procedura dei giudizi civili. Qui la selezione dei ricorsi da trattare in udienza pubblica è determinata esclusivamente dalla importanza generale della questione da decidere.
Un’innovazione comune ai due giudizi concerne l’esecuzione delle decisioni della Corte dei diritti dell’uomo che hanno accertato la violazione della relativa Convenzione da parte di pronunzie interne. Essa, con discipline diverse nei presupposti (più limitati nella materia civile), è stata attribuita alla Corte di cassazione (art. 391-quater c.p.c. e art.628-bis c.p.p.), considerato che “la delicatezza del nuovo istituto, destinato ad incidere sulla tenuta processuale del giudicato nell’ordinamento interno, richiederà sin dai suoi esordi una costante uniformità interpretativa”[30]. Anche in questi istituti innovativi si ribadisce la funzione uniformatrice che è propria della Cassazione.
6. Nomofilachia e responsabilità.
La nomofilachia della Corte è oggi esercitata in modo che non può considerarsi soddisfacente. In un corso della Scuola superiore della magistratura dedicato al giudizio civile di cassazione[31] si è autorevolmente affermato che “sia in campo sostanziale, sia in campo processuale – dappertutto si annidano contrasti”[32]. Per la Cassazione penale si è condivisibilmente affermato che la funzione nomofilattica è da essa assolta “solo quando decide a sezioni unite, mentre le sezioni semplici finiscono per svolgere prevalentemente funzioni di giudice dello ius litigatoris, pronunciando un numero sterminato di decisioni, con il rischio conseguente ed effettivo di un aumento esponenziale dei contrasti giurisprudenziali”[33]. Ma, soprattutto, sono inaccettabili i tempi lunghi del giudizio civile di cassazione, non giustificati dalla sua struttura semplice, ma determinati esclusivamente dall’enorme numero dei ricorsi e dall’arretrato conseguentemente formatosi.
Su questo aspetto occorre rilevare che la durata media del giudizio penale di cassazione è sensibilmente inferiore a quella di un anno ritenuta ragionevole dal legislatore. La Cassazione penale, quindi, è riuscita a fare fronte al numero enorme di ricorsi, a differenza della Cassazione civile. Non è questa la sede per individuare e analizzare le cause di questa differenza. Qui, però, può e deve prospettarsi qualche rimedio idoneo a incidere positivamente sui tempi dei giudizi civili, in guisa da concretizzare quel “traguardo” che è nel titolo di questa prima sessione.
Penso a due interventi, uno interno alla Corte, di natura organizzativa, e l’altro esterno alla stessa, perché richiede una modifica legislativa.
La menzionata selezione dei ricorsi, imposta a fini procedurali dal d. lgs. n.149/2022, deve essere utilizzata per perseguire organizzativamente un duplice risultato: da un lato, un esercizio più meditato e stabile della nomofilachia; dall’altro, una netta distinzione dell’impegno motivazionale e un minore aggravio complessivo dello stesso.
La decisione della questione di diritto di particolare rilevanza deve essere preceduta da un lavoro preparatorio che coinvolga tutti i magistrati della sezione, e non solo i componenti del singolo collegio decidente. La nuova competenza del rinvio pregiudiziale può costituire l’occasione di partecipazione alla nomofilachia anche dei giudici di merito e della dottrina, stante la preventiva conoscenza pubblica della ordinanza di rinvio.
Sugli altri ricorsi, da decidersi con ordinanza, l’impegno motivazionale (che occupa tanta parte del lavoro dei giudici) va ridotto al minimo, perché le questioni da risolvere attengono o alla logicità della motivazione in fatto (il cui controllo, come si è detto, non costituisce la funzione prioritaria del giudice di legittimità) o consistono in questioni giuridiche che, se non sono state considerate di particolare rilevanza, possono essere risolte in modo sintetico, non richiedendo la loro motivazione quelle caratteristiche di persuasività che devono contrassegnare le decisioni con rilievo nomofilattico.
Mi sembra che il legislatore abbia ora imposto quella diversità di impegno motivazionale che avevo prospettato all’inizio della mia Presidenza della Corte con il provvedimento sulla “motivazione semplificata”[34], che i collegi decidenti erano “invitati” ad adottare quando decidevano “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia” (come sono tutti quelli che censurano la motivazione in fatto) ovvero che “sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla corte e condivisi dal collegio”. Il mero invito ai magistrati della Cassazione civile, che era prospettato in quel provvedimento interno, è ora un dovere professionale, stante la diversità di motivazione richiesta dal sistema (raffronto tra l’art.132 e l’art.134 c.p.c.) tra le sentenze, emanate in esito alle udienze pubbliche, e le ordinanze conclusive dei procedimenti in camera di consiglio.
Non si può, però, non riconoscere che qualunque intervento organizzativo è reso difficile e complesso dall’enorme numero di ricorsi che la Cassazione è tenuta a decidere in modo comunque motivato e che finisce con l’ostacolare anche un’attenta selezione interna dei ricorsi. È questa la ragione per la quale i numerosi interventi legislativi di questo secolo diretti ad introdurre filtri interni nei giudizi civili non hanno raggiunto risultati positivi, avendo anzi in alcuni casi prodotto ulteriori complicazioni e difficoltà per la Corte. Ritenuta inopportuna una modifica della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost., prospetto una innovazione nella legislazione forense che, sull’esempio di ordinamenti stranieri (Germania e Francia), disponga la separazione categoriale tra gli avvocati legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare nel solo giudizio di legittimità, il quale richiede una preparazione e una esperienza particolari. La proposta fu formulata da Giorgio Santacroce, Primo presidente della Cassazione che mi seguì immediatamente e purtroppo è prematuramente scomparso[35]. La riserva al secondo gruppo della abilitazione a proporre ricorso per cassazione creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei perciò a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità e a limitarne prevedibilmente il numero, con l’effetto ulteriore di migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti[36].
Quest’ultima considerazione giustificherebbe l’estensione della innovazione anche alla materia penale, ove oggi non si ha, come si è detto, una durata patologica dei giudizi di legittimità, ma è sempre elevatissimo il numero dei ricorsi presentati annualmente, con la già menzionata difficoltà anche della Corte penale di assolvere in modo idoneo e celere alla funzione di nomofilachia. La necessità di elevare la qualità media dei ricorsi penali si desume dal fatto che circa due terzi dei ricorsi proposti sono dichiarati inammissibili[37].
L’indubbia esistenza di queste difficoltà non deve, però, fare venire meno nei magistrati tutti della Corte di legittimità la consapevolezza della importanza enormemente accresciuta, in un’epoca di diritto giurisprudenziale, della nomofilachia e, correlativamente, della maggiore responsabilità della intera istituzione e dei magistrati che la impersonano. Questa responsabilità etica e deontologica non rimane a un livello teorico e astratto, ma può essere resa concreta e visibile dal fatto che le interpretazioni del giudice di legittimità sono assoggettate alle valutazioni di altre Corti. Così dicasi per:
- la Corte costituzionale, che può essere investita del controllo di costituzionalità sul principio di diritto dettato per il giudizio di rinvio, e che, nella materia penale, può sindacare il rispetto, anche da parte degli orientamenti della Cassazione, del divieto di analogia (come è sostanzialmente avvenuto nella sentenza costituzionale n.98/2021[38]);
- la Corte di giustizia dell’Unione europea, che può affermare la responsabilità civile dello Stato causata dalla emanazione di pronunzie della Cassazione, come è avvenuto nella nota vicenda della società Traghetti del Mediterraneo[39];
- la Corte europea dei diritti dell’uomo, che può dichiarare la violazione della CEDU commessa anche da sentenze della Cassazione civile e penale. Queste pronunzie contribuiscono all’esaurimento delle vie di ricorso interno, che è condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte Edu (art.35 della CEDU), onde l’accoglimento di quest’ultimo ricorso implica, di norma, che la accertata violazione della CEDU non sia stata impedita ovvero sia stata commessa dal giudice nazionale di ultima istanza.
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
[1] Così M. Cartabia, nella Relazione introduttiva del convegno su “Il giudice e lo Stato di diritto”, organizzato a Roma il 20 ottobre 2023 dalla Accademia dei Lincei e dalla Scuola superiore della magistratura.
[2] V., di recente, F. Modugno e A. Longo, Disposizione e norma. Realtà e razionalità di una storica tassonomia, Editoriale Scientifica, 2021. V. anche F. Caringella, L’interpretazione del diritto, Dike giuridica, 2021, di cui è significativo il sottotitolo: Il viaggio dalla disposizione alla norma.
[3] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, 2011, p.59-61. Lo stesso concetto è espresso da H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, 2021, p.449, con il termine “schema”, comprendente i più significati possibili dell’atto da interpretare (ma senza la previa distinzione tra disposizione e norma).
[4] Anche chi, in posizione minoritaria, critica la menzionata distinzione tra disposizione e norma ritiene “innegabile che gli enunciati normativi si prestino alla pluralità delle interpretazioni” e che “sia fallace l’dea dell’unico significato del testo” (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir.. Annali. vol. IX, p.438).
[5] La “cornice” è normalmente definibile: Corte cost. 5 giugno 2023, n.110, ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione di legge regionale per essere “l’enunciato normativo affetto da radicale oscurità”, per “contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art.3 Cost.”.
[6] V., ex plurimis, D. Canale e G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale2, Giappichelli, 2020, p.62 ss.
[7] Si prescinde dall’ipotesi in cui gli argomenti interpretativi conducano all’accertamento di una lacuna, da colmare mediante l’analogia legis o iuris.
[8] Condivido, quindi, la concezione metodologica della interpretazione (N. Irti, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020, p.119). Lo stesso Autore (I cancelli delle parole, in Un diritto incalcolabile, Giappichelli, 2016, p.83) ricorda una frase di Francesco Carnelutti: “L’interpretazione testuale traccia i confini entro i quali liberamente si muove la interpretazione logica” e, oggi deve aggiungersi, sistematica, con riferimento alle fonti sovraordinate alla legge.
[9] L’espressione “circolo ermeneutico” ha grosso rilievo nel ragionamento giuridico proposto dalla teoria ermeneutica del diritto (F. Viola e G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Laterza, 1999). Senza prendere posizione su questa teoria dell’interpretazione, l’espressione viene qui recepita soltanto per esprimere la possibilità che l’attribuzione del significato alla disposizione normativa dipenda dalle caratteristiche del fatto da giudicare. Questo passaggio, nella soluzione del caso, dalla individuazione della disposizione da applicare agli aspetti particolari del fatto concreto e viceversa (con la conseguente scelta di quali ne sono le caratteristiche rilevanti per la decisione), è una ricerca che non incide sulla funzione nomofilattica della Cassazione, la quale presuppone che sia stato definitivamente accertato il fatto da giudicare. La nomofilachia attiene alla giustificazione della premessa maggiore del sillogismo giudiziario, non essendo in contestazione la premessa minore dello stesso (che, però, è opportuno che sia tenuta presente per la precisa e corretta comprensione del principio di diritto affermato dalla Cassazione).
[10] In dottrina si è soliti distinguere diversi significati del termine “creatività della interpretazione”: v., di recente, G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, 2021, p.341 ss.. V. anche M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, Giappichelli, 2015, cap. IV.
[11] A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffré, 1995; Id., La natura della discrezionalità giudiziaria e il suo significato per l’amministrazione della giustizia, in Politica del diritto, 2003, p.3; H. L. A. Hart, Il concetto di diritto2, Einaudi, 2002, p.166-173, 347 ss. (Poscritto); H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., p.447, 453; P. Rescigno, La discrezionalità del giudice, in P. Rescigno e S. Patti, La genesi della sentenza, Il Mulino, 2016, p.81. Non uniforme è, però, il significato che questi autori danno al termine “discrezionalità”, anche se in tutti è presente il concetto di limiti esistenti nella attività giudiziaria. Nell’art.132 c.p. il “potere discrezionale del giudice” è riferito alla applicazione della pena “nei limiti fissati dalla legge”.
[12] Per l’incompatibilità tra la dottrina della separazione dei poteri e il giusrealismo radicale (teoria per cui tutto il diritto è prodotto dai giudici) v. M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealistica dell’interpretazione, negli Atti del XIX Convegno annuale della Associazione italiana dei costituzionalisti svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, Cedam, 2008, p.29. La compatibilità, secondo lo stesso Autore, può, invece, essere ravvisata rispetto alla teoria del giusrealismo moderato, che, come ho detto, ritengo preferibile rispetto al tradizionale formalismo interpretativo, secondo cui le disposizioni avrebbero ognuna un solo significato.
[13] A. Barak, La discrezionalità del giudice, cit., dopo avere affermato che “la discrezionalità esiste in tutti i sistemi giuridici e fa sorgere problemi comuni” (p.5), distingue tra “soluzione legittima e soluzione appropriata” (p.6), che è quella derivante dalla dall’esercizio della scelta discrezionale (che egli limita ai “casi difficili”) tra più soluzioni legittime. Secondo L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol.2, Laterza, 2009, p.75, l’attività della giurisdizione è “inevitabilmente discrezionale e contrassegnata assai spesso da giudizi di valore”.
[14] Di diversi contrasti giurisprudenziali risolti dalle sezioni unite, analizzati nella loro origine e negli argomenti adottati dalle sezioni unite per risolverli, ho trattato nella relazione: Tra la lettera e lo spirito della legge: tensioni giurisprudenziali, in Iustitia, 2018, fasc. 1, p.37 e fasc. 2, p.223.
[15] La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Oscar Studio Mondadori, 1976, p.324.
[16] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. V (parole iniziali). L’affermazione di Beccaria sembra riferirsi in generale alla interpretazione delle leggi (v. il cap. IV), al di là della materia penale che è l’oggetto dello scritto.
[17] G. Pino, Poteri interpretativi e principio di legalità, in Enc. dir.. I tematici, vol. V - Potere e Costituzione, Giuffrè, 2023, p.983. L’autore parla, in proposito, di “paradosso della legalità”.
[18] Per la materia penale possono citarsi gli scritti di M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n.4/2018, p.79, spec. Il § 18, p.101 (Sei regole deontologiche di ermeneutica penale); V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, p.2222; F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p.1249. Per una più ampia linea di ricerca v. M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, cit., cap. V: Oltre l’interpretazione. Configurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale, rimedi e questioni di legittimazione (del giudice).
[19] “Nello Stato costituzionale di diritto la legge conserva ancora una sua ‘sfera’ e non è riducibile a mero svolgimento della Costituzione, sicché la salvaguardia dei suoi tratti caratteristici continua a essere un requisito essenziale del mantenimento dell’ordine dei poteri e della certezza del diritto” (M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Giuffré, 2023, p.109).
[20] D. Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al “diritto”. Contributo allo studio dell’art.101, comma 2, della Costituzione italiana, Jovene, 2008,
[21] Così, V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa3, Il Mulino, 2022, p.149. Al volume si rinvia anche per le numerose citazioni giurisprudenziali. Questo orientamento, riferito all’art.7 della CEDU, è stato applicato dalla Corte europea nella nota e discussa sentenza 14 aprile 2015 Contrada, in cui la giurisprudenza stabilizzata sulla ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa si è ritenuto che fosse stata raggiunta solo con la sentenza delle Sezioni unite penali Demitry del 1994.
[22] Il meccanismo introdotto nel c.p.c. portoghese dal décret-loi n. 303/2007 del 24.8.2007, ma non applicabile ratione temporis ai processi già pendenti e quindi al caso di specie, consiste nella possibilità concessa alle parti del processo (civile) di impugnare davanti alla assemblea plenaria delle sezioni civili della Corte suprema una sentenza resa da questa Corte “in contraddizione” con un’altra sua sentenza pronunziata sulla medesima questione di diritto e in applicazione della stessa legislazione (art.763 c.p.c.).
[23] Di fronte alla recente affermazione che la funzione di nomofilachia della Corte di cassazione fu “bocciata” dalla Assemblea costituente (G. Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, in Giustizia Insieme, 23 ottobre 2023, § 5) va ricordata la contraria opinione di un costituzionalista (A. Pizzorusso, Corte di cassazione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. IX, 1988), secondo cui la Costituzione ha recepito “il «sistema della cassazione» quale è stato delineato attraverso una tradizione di studi che ha il suo massimo prodotto nella famosa opera di Piero Calamandrei” (§ 1.1) e la Cassazione è un “organo dotato di rilievo costituzionale soprattutto per il fatto di esercitare la funzione di nomofilachia”. (§ 1.2). Per una analisi dei lavori della Costituente debbo rinviare al mio intervento “La Corte di cassazione nella Costituzione”, in Cass. pen., 2008, p.4444.
[24] A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione2, Giappichelli, 2011, p.19 e 62.
[25] Nello stesso senso A. Giusti, La nuova udienza pubblica, in La Cassazione civile riformata, a cura di P. Curzio, Cacucci, 2023, p.104.
[26] M. Taruffo, Il vertice ambiguo, Il Mulino, 1991, Introduzione, p.7-26.
[27] Per l’affermazione che la legge del 2006 ha confermato il ruolo nomofilattico della Cassazione v. A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffré Francis Lefebvre, 2021, p.295 (e, amplius, il cap.2, § 4).
[28] L n.103/2017, d. lgs. n.11/2018, d.lgs. n.150/2022.
[29] Ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere pronunziata in grado di appello (art.428, comma 3-bis, c.p.p.); ricorso contro la sentenza di appello pronunziata per reati di competenza del giudice di pace (art.606, comma 2-bis, c.p.p.); ricorso del p.m. contro la sentenza di proscioglimento del giudice di appello che conferma quella di primo grado (art.608, comma 1-bis, c.p.p.).
[30] Così la relazione illustrativa all’art.3, comma 28, lettera o) del d. lgs. n.149/2022, che ha introdotto l’art. 391-quater c.p.c., in Gazz. Uff., 19/10/2022, suppl. straord. n.5, p.45.
[31] Quaderno n.20 della SSM, Il giudizio civile di cassazione, 2022.
[32] L’affermazione è del Pres. Angelo Spirito (che si presenta come il “magistrato che da più tempo opera nelle aule della Corte di cassazione”), in Quaderno cit., p.40. Sono questi contrasti che rendono criticabile la nomofilachia come oggi è esercitata, non il pericolo di soppressione della libertà interpretativa dei giudici di merito (come sostiene Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, cit., § 10), i quali sono sempre liberi di seguire una tesi diversa da quella della Cassazione purché la motivino. Mentre non è in sintonia con il principio costituzionale di uguaglianza e con la previsione (confermata dal Costituente) della Cassazione unica l’esaltazione dei contrasti giurisprudenziali implicita nella affermazione di Scarselli secondo cui “un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi”.
[33] G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, n.4/2018, p.138.
[34] Provvedimento del 22 marzo 2011, con correlata relazione, in Foro it., 2011, V, c.183.
[35] È quanto riferisce A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p.142, il quale recepì il suggerimento di Santacroce in una proposta del CSM diretta al Ministro della giustizia attraverso una delibera del 2 luglio 2013, la quale avrebbe conseguito la maggioranza se non vi fosse stata l’assenza per impegni sopravvenuti del Pres. Santacroce.
[36] In Germania “non vi sono più di 40 avvocati abilitati a patrocinare dinanzi alla Corte federale di giustizia” nel settore civile (K. Tolksdorf, L’accesso alla Corte suprema tedesca, in Giurisdizioni di legittimità e regole di accesso. Esperienze europee a confronto, a cui di G. Alpa e V. Carbone, Il Mulino, 2011, p.46); in Francia il detto numero si aggira, notoriamente, attorno al centinaio. Questo aspetto dell’ordinamento francese è stato ritenuto dalla Corte Edu conforme al giusto processo e viene valutato molto utile per il funzionamento della Corte di cassazione francese (D. Le Prado, Alcune caratteristiche del sistema di cassazione alla francese, in Giurisdizioni di legittimità, cit., p.163). Giudizio ancora più positivo viene dato all’analogo aspetto dell’ordinamento forense della Germania (K. Tolksdorf, Op. loc. cit.).
[37] Nel 2022 è stato dichiarato inammissibile il 70,6 % dei ricorsi decisi (P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, presentata il 26 gennaio 2023, Gangemi, p.150).
[38] Nell’annotare la sentenza n.98/2021 F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, p.1218, rileva che essa, pur essendo una pronunzia di inammissibilità, costituisce “un forte richiamo per i giudici comuni” al rispetto del divieto di analogia delle norme incriminatrici.
[39] La sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 10 giugno 2010 (causa C-173-03) ha affermato la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati alla società Traghetti del Mediterraneo per la violazione del diritto comunitario imputabile alla Corte di cassazione.
di Tommaso Manzon
Salmo: 122:6-9,
«6 Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
7 Ci sia pace all'interno delle tue mura e tranquillità nei tuoi palazzi!
8 Per amore dei miei fratelli e dei miei amici, io dirò: «La pace sia dentro di te!»
9 Per amore della casa del SIGNORE, del nostro Dio, io cercherò il tuo bene».
La terra di Israele è il centro del mondo. Questo ovviamente non è vero da un punto di vista fisico-geografico, ma lo è senza ombra di dubbio da un punto di vista spirituale, laddove quest’aggettivo va inteso nel senso più ampio possibile. Non, quindi, spirituale come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la sfera del religioso, bensì spirituale come quando si parla dello “spirito” di un popolo e quindi spirituale come di ciò che determina l’intero carattere di una vita e di una cultura.
Che Israele sia da un punto di vista spirituale il centro del mondo lo possiamo intuire dall’importanza di questo lembo di terra, a prima vista dimenticabile, che però è diventato per molti versi il perno della storia mondiale. Non tanto perché tutto ciò che è importante accada e sia accaduto in Israele (è evidente che non sia così), né perché non siano stati dati importanti contributi alla storia dell’umanità all’infuori del popolo di Israele (ancora una volta, è evidente che non sia così).
Il punto è che per Israele passa tanto di ciò che accade ed è accaduto: se non tutto, comunque è passato abbastanza – abbastanza energie, abbastanza idee, abbasta traiettorie – da influenzare in modo decisivo il corso della storia globale. Quale nazione di questa terra non è stata in qualche misura plasmata da quanto ha avuto origine nella Terra della Rivelazione? E anche quelle che sono state toccate solo marginalmente dal fiume impetuoso che è uscito da Sion, possono forse dire di non essere state bagnate da queste correnti?
A tal proposito, bisogna notare come tipica di Israele sia la sproporzione dei destini che vi vengono concepiti rispetto alle loro circostanze di partenza: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Maria, Gesù, Maometto, sono tutti nomi le cui origini sembrano essere del tutto insufficienti per spiegare l’immenso potere che essi hanno esercitato e tutt’ora esercitano sulle sorti dell’umanità. Mi si obbietterà, correttamente, che in realtà alcune di queste figure non sono nate in Israele: ma dove Abramo e Mosè trovano il proprio destino, se non nella Terra Promessa (che il secondo mai calpestò vita natural durante)? Da dove il cosiddetto Profeta dell’Islam compì il suo viaggio in cielo fino a trovarsi al cospetto di Dio? Perché il patriarca Giuseppe, prima di morire e di essere seppellito in Egitto, volle sincerarsi con i suoi figli che avrebbero avuto cura di traslare le sue ossa in Israele il giorno in cui i discendenti di Giacobbe avrebbero intrapreso il loro ritorno in patria? Né Abramo, né Mosé, né Maometto possono essere tali, essere loro stessi, senza il riferimento vivo che li unisce ad Israele. Come loro quindi si può essere stati concepiti, biologicamente, fuori da Israele, ed eppure esservi legati in senso spirituale: Israele come un destino, come la Promessa che agisce come simbolo e strada per il Promissore.
In quest’ottica, quanti di noi sono stati concepiti in Israele senza che nemmeno ce ne rendessimo conto? Per quanti di noi le nostre aspirazioni, i nostri istinti, le nostre speranze puntano in direzione della terra che è la madre dei patriarchi, dei profeti e dei saggi?
Se Israele però è destino e madre, essa è anche ricettacolo dei nostri problemi. Come da Israele sono usciti, escono e usciranno dei destini che in essa ritornano o che perlomeno a essa tendono, così da questi destini tornano in Israele cose che da Israele non sono uscite ma che si intrecciano con lei e la sua influenza e che inevitabilmente, rientrando in lei, la contaminano. Questo va ad aggiungersi alla lotta tumultuosa che comunque ha sempre, a più riprese, avvolto il centro spirituale del mondo. Il centro è legato alla circonferenza dai raggi: ciò che accade nel centro passa nella circonferenza e viceversa.
E quindi, noi che assistiamo a quanto accade oggi in Israele, secondo una nuova-vecchia storia, sia che lo facciamo da spettatori apatici che da tifosi, è bene che prendiamo coscienza insieme (se non lo abbiamo già fatto) di come, in qualche modo, questa storia si intreccia con la nostra. Ciò che nasce in Israele non rimane mai in Israele, se è vero, come è vero, che una visione del divino coltivata da pochi pastori medio-orientali ha finito per cambiare per sempre il volto del mondo.
Ma ciò che nasce in Israele e da lì se ne esce poi alla fine torna in Israele (primi fra tutti gli stessi ebrei) con un carico composto dal bagaglio che nel frattempo è stato raccolto. E questo bagaglio è anche un bagaglio di relazioni, di storie, di incontri. Quindi in Israele c’è tutta la storia della diaspora e del ritorno del popolo ebraico, ma anche la storia della nascita e della diffusione dell’Islam, nonché ovviamente quella di Gesù e dei suoi discepoli, e noi siamo parte di queste storie, che segnano e sconvolgono la Terra che è madre e fine di innumerevoli destini, la Terra che è inscindibile (ci piaccia o no) dalla nostra identità più profonda.
Possiamo quindi solo sperare (e operare di conseguenza) per la pace della Terra a cui siamo in questo modo legati, confidando che il 2024 sia un anno prospero di buone notizie per i popoli che ci vivono, un anno di pace e di riconciliazione nel luogo della Promessa in cui Dio si è degnato di nascere, vivere, morire e risuscitare.
(Immagine: Frederic Edwin Church, Jerusalem from the Mount of Olives, olio e grafite su cartoncino, 1868, Smithsonian Design Museum Collection, Washington, D.C.)
di Claudio Castelli
Sommario: 1. Introduzione - 2. L'attuale quadro normativo - 3. Gli elementi insostenibili dell’ultradecennalità - 4. I fattori positivi - 5. I limiti e riverberi negativi dell’attuale ultradecennalitá e qualche proposta.
1. Introduzione
Periodicamente viene rimessa in discussione, senza peraltro approdare a soluzioni alternative salvo l’abolizione tout court, l’ultradecennalità nella permanenza nelle funzioni. Ora l’occasione sembra fornita dalla (saggia, ma peraltro sinora teorica) intenzione ministeriale di sospendere la vigenza dell’ultradecennalità sino al 2026 per facilitare il raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Pausa che appare opportuna anche per consentire una adeguata riflessione (e concrete proposte) sull’istituto, ma che segnala come l’ultradecennalità odierna crei ostacoli all’efficienza organizzativa del sistema.
2. L’attuale quadro normativo
È l’art.19 del D. Leg. 5 aprile 2006 n.160 che prevede una permanenza massima nella stessa posizione tabellare o nel medesimo gruppo di lavoro nell’ambito delle stesse funzioni per un periodo stabilito dal Consiglio superiore della magistratura entro il massimo di 10 anni. In caso il magistrato abbia presentato domanda di trasferimento ad altra funzione, anche all’interno del proprio ufficio, almeno sei mesi prima della scadenza del periodo massimo di permanenza, può rimanere nella stessa posizione sino alla decisione del CSM e comunque non oltre sei mesi dalla scadenza del termine.
Mentre il Regolamento in materia di permanenza dell’incarico in data 13 marzo 2008 e le Circolari consiliari sulla formazione delle tabelle (artt. 146 -152 della Circolare vigente) a loro volta disciplinano l’applicazione della normativa e prevedono il percorso per l’assegnazione del magistrato ultradecennale attraverso la partecipazione ad un concorso interno, un’assegnazione provvisoria in caso di esito negativo e successivamente la partecipazione ad un nuovo concorso e l’assegnazione di ufficio, in caso di nuovo esito negativo.
L’art. 156 co. 1 della Circolare sulle tabelle poi dispone che nell’ipotesi di permanenza nelle precedenti funzioni per un periodo eccedente i nove anni e sei mesi, il magistrato non può essere nuovamente destinato al posto di origine prima di cinque anni.
3. Gli elementi insostenibili dell’ultradecennalità
Vi sono almeno due elementi che fanno ritenere l’attuale normativa insostenibile e iniqua. Da un lato la sua applicazione solo alle funzioni che rientrano nei progetti tabellari e organizzativi di Tribunali e Procure, escludendo le funzioni specializzate. Nessuna ultradecennalità quindi per magistrati del lavoro e di sorveglianza, con una evidente disparità di trattamento e irrazionalità. Se vi sono ragioni a monte dell’ultradecennalità finalizzate ad evitare possibili incrostazioni di potere e stimolare un costante rinnovamento, queste esistono anche per funzioni molto specializzate. Nè la differenza con funzioni altamente specialistiche (quali le materie della famiglia, fallimentare, societaria) è tale da suggerire una così elevata differenza di trattamento.
Il secondo punto molto negativo è la mobilità drogata che l’ultradecennalità inevitabilmente provoca. Ultradecennalità vuol dire che il 10 % dell’ufficio é costretto a cambiare funzioni ogni anno. Se a questo si sommano i trasferimenti ordinari (quindi tra uffici diversi) ed i pensionamenti giungiamo al 15 - 20 % annuo, una quota che nessuna amministrazione può sopportare. Perché il trasferimento significa ruoli lasciati ad altri, perdita di know how, rallentamento dei tempi. I pochi studi svoltisi sul tema evidenziano come il passaggio di testimone da un giudice all’altro come titolare di un processo porti ad un aumento dei tempi del 50%.
L’ultradecennalità si scontra ulteriormente con le esigenze del nostro sistema giudiziario di una sempre più accentuata specializzazione. Costringere magistrati che hanno affinato competenze e celerità nella trattazione di una materia a trasferirsi non solo è un’evidente perdita di know how, ma rallenta inevitabilmente i tempi dato che ogni nuovo arrivato ha bisogno di tempo per capire il nuovo settore, ufficio e ruolo e inevitabilmente nei primi tempi sarà più lento. Certo si potrebbero adottare percorsi che potrebbero attenuare di molto queste difficoltà, quali percorsi professionali agevolati per chi ha svolto ruoli specializzati e specialistici, sia all’interno dell’ufficio, che per i trasferimenti. Ciò porterebbe ad individuare grandi branche di materie (procedure concorsuali, famiglia e minori, lavoro, commerciale ed economia, ambiente) in cui l’esperienza professionale svolta dia una precedenza nei concorsi interni ed esterni per posti che si occupano di queste materie, esteso ad uffici sia giudicanti che requirenti. Ed inoltre un serio percorso di riconversione (non limitato a una settimana episodica) con periodi di affiancamento e accompagnamento.
4. I fattori positivi
L’ultradecennalità non è un’idea balzana o punitiva, ma anche il portato di esperienze negative. Le prime applicazioni, allora prive di una copertura legislativa, si sono avute nel 1996 quando il CSM delineó questo limite per due categorie di magistrati, le sezioni fallimentari e i pretori mandamentali. Le ragioni erano diverse: la particolare delicatezza e rischio ambientale (riscontrato da diverse esperienze negative) per chi gestiva procedure spesso del valore di miliardi dell’epoca con rapporti con curatori e parti, la sovraesposizione territoriale e il ruolo apicale che assumeva il pretore mandamentale. Per essere chiari vi erano all’epoca pretori mandamentali che esercitavano le loro funzioni nello stesso Comune da oltre 30 anni, diventando veri e propri ras locali, con rapporti e un ruolo del tutto anomalo per chi dovrebbe amministrare giustizia. L’estensione a tutti é stata un’iniziativa legislativa che in parte riprendeva queste esigenze di rotazione e di estensione delle opportunità ed in parte disegnava una magistratura in cui le specializzazioni erano solo le tre tradizionali (minori, sorveglianza e lavoro). Va anche detto che molti magistrati guardavano con favore ad una normativa che evitava un’occupazione stabile dei posti più ambiti da parte dei magistrati più anziani.
Ed in effetti vi sono altri due fattori che vanno valorizzati a favore della temporaneità delle funzioni. Da un lato la rotazione obbligata che impone in uffici ambiti e prestigiosi. Se non ci fosse questa disciplina, sarebbe facile prevedere che in posizioni normalmente molto richieste come le DDA per le Procure e il Tribunale delle imprese avremmo una presenza degli stessi magistrati per decenni, evitando quel moderato turn over che è benefico per l’ufficio. Dall’altro lo stimolo che dà ai singoli per cambiare posizione professionale dopo un congruo periodo di tempo e agli stessi uffici inserendo negli stessi nuove idee ed esperienze. La permanenza nella stessa funzione e nello stesso ambiente inevitabilmente fa affievolire motivazioni e capacità di cambiare modalità di lavoro, quando un cambio può essere benefico per il singolo e per la sezione e ufficio. É poi sbagliato vedere il mutamento obbligato di funzioni come punitivo per il singolo. La tesi secondo cui incrostazioni di potere ed affievolimento delle motivazioni dovrebbero essere accertate caso per caso a livello ispettivo o di valutazione di professionalità e non con soglie determinate dalla legge, non solo é molto più insidiosa e punitiva, ma manifestamente impraticabile per l’impossibilità di sperimentare serie verifiche su scala diffusa.
5. I limiti e riverberi negativi dell’attuale ultradecennalitá e qualche proposta
Non ci troviamo quindi a fronte di una normativa irrazionale, folle e punitiva, dovendosi svolgere considerazioni molto più articolate, ma gli attuali assetti del l’ultradecennalità non sono reggibili e andrebbero rapidamente modificati.
In primis, perché limitare a dieci anni la permanenza? Non a caso nel testo originario della proposta di legge il periodo di permanenza era contenuto nel range tra i 5 ed i 15 anni, demandando al Consiglio la determinazione del periodo massimo di permanenza per ogni funzione. La modifica poi approvata, che indicava il periodo massimo di permanenza tra i 5 ed i 10 anni, induceva il Consiglio ad adottare l’ultradecennalità per tutte le funzioni. Al riguardo va precisato che non vi è alcuno studio sulla permanenza massima ideale in un ufficio giudiziario, meglio ancora se mirata a singole funzioni. In realtà il termine decennale deriva dal fatto che abbiamo un sistema di misurazione decimale, oltre alla constatazione che prevedere tre o quattro mutamenti di funzione nella propria vita professionale poteva apparire congruo.
In realtà l’attuale normativa e la sua rigidità porta a deprivare lo stesso ufficio contemporaneamente di più magistrati mettendolo in ginocchio, dato che l’intervento è mirato sul singolo e non sull’ufficio e sulla sua funzionalità. Si potrebbe quindi partire dall’ufficio e non dal singolo magistrato, evitando un numero di trasferimenti superiore al 10% della sezione (o superiore ad uno all’anno qualora la sezione o dipartimento abbia meno di dieci componenti), preso come parametro di un tasso moderato e benefico di turn over, limitando i trasferimenti a seguito di ultradecennalità solo nell’ambito di questa quota (ovviamente comprensiva di altri tramutamenti e pensionamenti).
Un equilibrio che cerchi di contemperare i fattori positivi della temporaneità con le esigenze di specializzazione e di stabilità si può quindi probabilmente raggiungere con tre interventi correttivi:
riportare il limite massimo a 15 anni;
escluderne l’applicazione se la sezione o ufficio abbia già avuto un turn over complessivo annuo pari o superiore al 10 % (o ad uno in caso di sezioni o dipartimenti composti da meno di dieci magistrati);
creare percorsi professionali agevolati per funzioni specialistiche.
I primi due interventi richiedono una modifica legislativa, mentre la creazione di percorsi professionali e di un periodo di riconversione e di affiancamento potrebbe già oggi essere pensato e realizzato con una collaborazione tra C.S.M. e Scuola Superiore della Magistratura. Così pure una semplice modifica della Circolare sulle tabelle potrebbe ridurre al periodo ordinario (due anni) il tempo necessario per poter tornare alle funzioni precedentemente svolte. I cinque anni oggi previsti non hanno difatti giustificazione alcuna e suonano come inutilmente punitivi.
Per concludere l’unica speranza è che finalmente si esca dalle mere lamentazioni per giungere ad un nuovo assetto.
(Immagine: Giorgio De Chirico, L'enigma dell'ora, olio su tela, 1911, Collezione Mattioli, Milano)
di Marco Magri
Sommario: 1. I fatti all’origine del giudizio. – 2. L’ipotesi del “vuoto normativo” in tema di prova confidenziale – 3. La dubbia morfologia della “prova confidenziale” nel processo amministrativo. – 4. Focalizzazione del problema nel provvedimento monocratico in esame. – 5. Qualche precisazione conclusiva. – 6. Dove il “vuoto legislativo” esiste davvero.
1. I fatti all’origine del giudizio
La lettura di questo provvedimento istruttorio merita di essere accompagnata da una breve ricostruzione della controversia in cui è stato incidentalmente pronunciato.
Alla fine dello scorso mese di luglio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha concluso un procedimento sanzionatorio avviato nei confronti di due società del gruppo svedese Roxtec. Il procedimento era stato avviato su segnalazione della concorrente WallMax, che accusava la Roxtec di condotte illecite tenute allo scopo di conservare la posizione di leader nel proprio settore produttivo.
L’Autorità, ravvisati nel comportamento della Roxtec gli estremi dell’abuso di posizione dominante, ha ordinato la cessazione immediata del comportamento distorsivo della concorrenza ed imposto alle due società, in solido, il pagamento di una sanzione amministrativa di oltre 15 milioni di euro[1].
Nel successivo ricorso al TAR Lazio, depositato il 30 settembre 2023 e tuttora pendente[2], le società del gruppo Roxtec si sono viste respingere il 13 ottobre 2023 la domanda di sospensiva[3] ed hanno perciò proposto appello cautelare, depositando l’impugnazione al Consiglio di Stato il 27 ottobre 2023[4]. In attesa della camera di consiglio fissata al 16 novembre 2023, hanno chiesto ed ottenuto dal Presidente della sesta sezione di essere dispensate, in applicazione dell’art. 136 comma 2 c.p.a., dall’impiego delle modalità di deposito telematico di un documento: si trattava, come emerge dal decreto che ha accolto l’istanza (8 novembre 2023, n. 1348), di una sopravvenuta evoluzione stragiudiziale delle comunicazioni tra ricorrente e resistente, per via di una “risposta” che l’Autorità ha dato a Roxtec il 2 novembre 2023, dopo la costituzione nell’appello cautelare, “in relazione alla portata di un’ottemperanza ed alla richiesta di chiarimenti”. Di questo evidentemente era all’oscuro WallMax, non solo controinteressata ma anche avversaria di Roxtec in una parallela vicenda giudiziaria[5]. Donde le “particolari ragioni di riservatezza legate alle posizioni delle parti o alla natura della controversia” che secondo l’art. 136 comma 2 consentono l’esonero dal deposito digitale.
Le ricorrenti non hanno invece ottenuto che il deposito, oltre che in modalità non telematica, avvenisse anche “in forma confidenziale”, fosse cioè reso inaccessibile alle altre parti. Su questo il Presidente, con lo stesso decreto nel quale ha concesso l’esonero dal deposito telematico (n. 1348/2023), ha ricordato che i princìpi di “pubblicità” e di “contraddittorio” non permettono di ipotizzare “una documentazione conoscibile dal giudice che non sia accessibile alle parti”: chi agisce in giudizio può non depositare un documento che ritiene riservato o può depositarlo con omissis, ma non può pretendere che il giudice amministrativo ne tragga motivo di convincimento e al tempo stesso lo sottragga al confronto processuale.
Avendo la Roxtec insistito per l’accoglimento dell’istanza, due giorni dopo (10 novembre 2023) il punto di vista del Presidente è stato ribadito nel decreto che qui si annota (n. 1354), il quale conferma il rigetto servendosi di argomenti nuovi. Su questi ultimi si vorrebbe focalizzare l’attenzione.
2. L’ipotesi del “vuoto normativo” in tema di prova confidenziale.
Possiamo sorvolare sui passaggi in cui il decreto evoca la disciplina della prova confidenziale nel diritto processuale tedesco e nel regolamento di procedura dinanzi al Tribunale dell’Unione europea (art. 105). Valgano gli articoli di dottrina dai quali il provvedimento trae ispirazione[6]. Del resto, si tratta di uno sguardo oltreconfine che il Presidente lancia solo per rafforzare il suo convincimento – vero motivo della decisione – di trovarsi dinanzi ad una situazione non regolata dal diritto nazionale.
Il decreto n. 1354/2023 non è, infatti, una mera conferma del n. 1348/2023. Non è neanche un revirement, che apparirebbe piuttosto strano in un incidente istruttorio. Siamo dinanzi ad un convincimento che sostanzialmente resta il medesimo, ma che il giudice monocratico chiarisce, in sede di riesame, spostandosi da una posizione più netta (la richiesta di deposito riservato non è compatibile con i princìpi generali) ad un’altra meno categorica (la cd. prova confidenziale non è regolata dalla legge).
Astrattamente ciò che chiede Roxtec ha una sua identità concettuale – questo sembra il senso della nuova motivazione – se non ci si dovesse arrendere all’evidenza che “sul tema dell’ammissibilità della c.d. prova confidenziale (…) c’è un vuoto normativo non colmabile dal giudice”.
La prospettiva acquista quindi un orizzonte più incerto: in prima battuta l’espressione “prova confidenziale” non compariva neppure nel decreto n. 1348 e la pretesa di sottrare il documento alla WallMax era stata negata tout court al lume dei princìpi di pubblicità e contraddittorio. Ora la prova confidenziale viene presentata come una sorta di “istituto” non astrattamente incompatibile con quei princìpi, solo orfano di una legge; in sostanza come un problema di puro e semplice diritto positivo.
In questo senso si spiegano le citazioni alla dottrina tedesca e alla disciplina del processo dinanzi al Tribunale dell’Unione europea, ma anche i richiami alle norme nazionali (ad esempio l’art. 203 c.p.p. sulla segretezza delle fonti di informazione nella testimonianza in materia penale) e alla giurisprudenza amministrativa sulla rilevanza processuale del segreto. Il tema del segreto è stato, d’altronde, recentemente risollevato dalla dottrina, appunto con riferimento alla disciplina del processo amministrativo, in un volume al quale lo stesso decreto n. 1354 sembra per molti aspetti volersi richiamare[7].
3. La dubbia morfologia della “prova confidenziale” nel processo amministrativo.
Verrebbe spontaneo a questo punto raccogliere e sviluppare con i dovuti approfondimenti le tante sollecitazioni che vengono dalla lettura del decreto n. 1354/2023.
Volendo tuttavia restare nei limiti di un breve commento, due rapidissime considerazioni si possono proporre. La prima è che la soluzione accolta è pienamente condivisibile: manca una norma che autorizzi pretese come quelle avanzate delle ricorrenti e non la si può estrapolare con il ricorso all’analogia, tanto meno con l’applicazione diretta di (inesistenti) princìpi generali sulla segretezza.
La seconda considerazione proviene dall’esame della motivazione, dalla cui lettura invece qualche interrogativo sorge naturale. Soprattutto uno, perché è una, la cosa che balza all’attenzione: cos’è la “prova confidenziale”? E davvero si può parlare, in proposito, di un “vuoto normativo”?
Ammettiamo che la locuzione “prova confidenziale” esprima un concetto sufficientemente definito, in linea di primo approccio riportabile alla nozione di “segreto privato”[8]. Ammettiamo pure (con qualche imprecisione in più) che nel processo amministrativo la necessità dell’accertamento sulla validità dell’atto determini un arretramento della rilevanza del rapporto sostanziale tra ricorrente e controinteressato; tal che le garanzie di quest’ultimo, più che radicarsi nel diritto costituzionale di difesa, derivano dalla semplice opportunità che il giudice non si pronunci a contraddittorio non integro[9]. Immaginiamo allora, tagliando molti passaggi, di poter ragionare accogliendo questa ipotesi: che le prove allegate dal ricorrente nel giudizio amministrativo avente a oggetto una sanzione antitrust vadano valutate considerando che l’accertamento giudiziale a cui tendono fa stato anzitutto contro l’amministrazione, non verso il controinteressato.
Ma anche se il problema della prova confidenziale si potesse (e non è detto) così impostare, ciò che si continua a non comprendere è perché la tutela del “segreto privato” di cui è portatore il ricorrente dovrebbe reputarsi tanto elevata da connotare il processo di un fine sopraindividuale, di puro e semplice accertamento della verità. Non si baserà, questa idea, sul vecchio adagio (converrà oramai chiamarlo così) che il processo amministrativo persegua un “interesse pubblico”? Ora non mi voglio dilungare neppure su questo secondo profilo, che implicherebbe addentrarsi nell’enorme problema del rapporto tra giudice e parti nel giudizio di annullamento[10]. Mi limito a notare che ammettere anche solo per ipotesi la “prova confidenziale” come istituto processuale dai contorni definiti presuppone almeno in parte l’accoglimento della vecchia concezione oggettiva della giurisdizione amministrativa: impedire il contradditorio sulla prova nell’interesse della giustizia è un’operazione che può essere compresa solo in questa sfera[11].
Stringendo invece il ragionamento nell’ottica della giurisdizione soggettiva, è chiaro che, comunque si ricostruisca il rapporto giuridico processuale, immaginare un potere del giudice di impedire il contraddittorio sulla prova resta un’ipotesi incompatibile con la disciplina del processo amministrativo, semplicemente perché la “prova confidenziale” si pone in contrasto con il principio d’imparzialità della giurisdizione. Né cambierebbe la sostanza di questa conclusione il ragionare sul diritto del controinteressato di accedere al fascicolo processuale prendendo a riferimento le norme sul diritto di accesso cd. “difensivo” (art. 24 comma 7 legge n. 241/1990), che riguardano tutt’altra fattispecie: là si tratta del diritto di difesa di chi chiede l’ostensione del documento, non di quello di chi, al contrario, invoca la segretezza del documento.
4. Focalizzazione del problema nel provvedimento monocratico in esame
Ma potrà mai esistere, una cosiffatta “prova confidenziale”, nel sistema italiano di giustizia amministrativa? Io credo di no, ed è il decreto che si annota, a leggerlo bene, a spiegarci perché.
La parte più significativa del decreto è quella in cui il giudice ritiene inapplicabile l’art. 3 d.lgs. n. 3/2017[12], che al pari di altre disposizioni (art. 211, 840-quinquies c.p.c.) fa perno sulla logica del bilanciamento tra diritto alla difesa e riservatezza. La norma del 2017 si riferisce all’esibizione ordinata dal giudice alla parte o ad un terzo, prevedendo che il giudice possa disporre, sentito il soggetto nei cui confronti l’ordine è rivolto, specifiche misure di tutela, tra le quali l’obbligo del segreto, la possibilità di non rendere visibili le parti riservate di un documento, la conduzione di audizioni a porte chiuse, la limitazione del numero di persone autorizzate a prendere visione delle prove, il conferimento ad esperti dell’incarico di redigere sintesi delle informazioni in forma aggregata o in altra forma non riservata.
Se non che, conclude il Presidente, disposizioni di questo tipo non si riferiscono “al caso di produzione volontaria di documentazione”; consentono di imporre il segreto “alle parti che vengono a conoscenza del materiale riservato del processo”, ma non implicano la “possibilità di produzione di prove totalmente segrete o confidenziali contro un contraddittore processuale”, né “comportano sottrazione delle prove al contraddittorio o esclusione totale dello stesso come nel caso della c.d. prova confidenziale ( conosciuta dal giudice e non dall’altra parte del rapporto triadico processuale)”.
Se, quindi, nel processo amministrativo (come in qualsiasi altro processo di parti) la prova “confidenziale” non può trovare ingresso, non è perché si debba mettere in discussione la riservatezza di ciò che documenta, ma perché si tratta di una prova allegata volontariamente. Ove il giudice potesse ammetterla, riconoscendosi perciò vincolato alla sua valutazione, ma al tempo stesso sottrarla al contraddittorio, la sua imparzialità ne risulterebbe inevitabilmente compromessa. E nemmeno, a me pare, ci si troverebbe di fronte ad uno di quei casi in cui la Corte costituzionale ha considerato legittime, con riferimento al contraddittorio processuale, le limitazioni a diritti o libertà, anche fondamentali, in ossequio al “bene” o al “valore fondamentale della giustizia (…) anche esso garantito, in via primaria, dalla Costituzione”[13].
Il principio al quale si deve fare riferimento è un altro. “Salvi i casi previsti dalla legge” – recita l’art. 64 c.p.a. – “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite”. Tanto basta a negare che il giudice possa porre a fondamento della decisione un documento massimamente contestabile ed inutilizzabile per antonomasia: quello che una delle parti, durante il corso del giudizio, non ha potuto conoscere.
Insomma “Non si deve sussurrare al giudice”, come ricorda il decreto n. 1354/2023 nelle sue battute conclusive: l’affermazione è tra parentesi, ma rappresenta il nucleo della decisione. Si permetta anzi una piccola correzione. Non è solo il giudice penale (per via dell’art. 203 c.p.p.) che “si ferma sulla soglia delle c.d. informazioni confidenziali al fine di non dare ingresso a materiali spuri nel processo”. Ogni processo rifugge da “materiali spuri” e se questa è la “prova confidenziale”, tanto vale affrettarsi a concludere che essa, prima ancora che incompatibile con il giudizio amministrativo, è contraria alla logica tipica di qualunque processo (quand’anche fosse prevista dalla legge: se quel “vuoto”, cioè, fosse colmato).
5. Qualche precisazione conclusiva
Semmai, al di là del caso di specie – molto brevemente quindi – ci si potrebbe attardare su una diversa considerazione. Se il ricorrente ritiene che la circolazione in ambito processuale di un documento possa nuocere alla sua riservatezza, ma al tempo stesso stima che il mancato deposito possa impedirgli di dimostrare fatti posti a fondamento della propria pretesa, può chiedere al giudice amministrativo di cooperare al mantenimento di un certo riserbo sulle informazioni confidenziali. Riguardo a questa eventualità, una volta ribadito che mantenere il riserbo su un documento non significa sottrarlo al contradittorio con il controinteressato, non pare che dal complesso delle disposizioni formulate nell’art. 63 c.p.a. emergano ostacoli all’applicazione di quelle norme del codice di procedura civile, che il decreto n. 1354 ha (giustamente) considerato inapplicabili (avendo il ricorrente chiesto la segregazione del documento).
Malgrado l’inesistenza di norme specifiche (ma proprio per questo d’altronde), non sembra vi siano ostacoli a che il giudice prescriva su istanza di parte, come quelle presentate nel caso che ci occupa, le cautele che egli dovrebbe indicare nel caso in cui disponesse, anche d’ufficio, l’acquisizione del documento (art. 63 comma 2 e 64 comma 3 c.p.a.)[14]. Da quest’angolazione, l’impressione è che norme come l’art. 3 comma 4 d.lgs. n. 3/2017, l’art. 211 c.p.c. o l’art. 840-quinquies c.p.c. possano essere ritenute espressive di princìpi generali, applicabili, in forza dell’art. 39 c.p.a., anche al processo amministrativo. L’art. 136 comma 2 c.p.a. consente il deposito in forma non telematica; già oggi quindi l’esigenza di protezione in parola non è del tutto estranea alla disciplina del processo. Nulla perciò, a mia opinione, si opporrebbe ad ammettere, ad esempio, l’obbligo di segreto o la limitazione del numero di persone autorizzate alla visione.
Questo d’altronde corrisponde a ciò che lo stesso Consiglio di Stato ha già affermato, quando si è pronunciato sulla possibilità di acquisire dall’AGCM, “perché siano sottoposte alla cognizione del Collegio ed al contraddittorio delle parti – le dichiarazioni integrali del collaborante (leniency applicant), non potendosi ammettere una sottrazione, neppure parziale, del predetto materiale istruttorio al giudice ed alle parti del giudizio (…) resta fermo che le parti potranno utilizzare le informazioni desunte dalle dichiarazioni legate al programma di trattamento favorevole solo in quanto necessario per l’esercizio dei diritti di difesa nel presente procedimento e con l’obbligo di non divulgarle a terzi estranei” (corsivo aggiunto) [15].
Stiamo però ragionando, si ripete, su un’ipotesi che non è quella di specie. Ogni spiraglio si chiude infatti, inevitabilmente, quando la parte avanza la specifica richiesta che il documento sia utilizzato senza essere sottoposto al contraddittorio e dimostra quindi di intendere la “prova confidenziale” come figura o istituto rappresentativo di un canale privilegiato del rapporto con il giudice.
6. Dove il “vuoto legislativo” esiste davvero
Tutt’altro contesto è quello a cui fa riferimento il decreto n. 1354 nella parte in cui si sofferma sul problema dell’utilizzabilità del documento coperto da segreto di Stato, che il giudice monocratico menziona proseguendo l’argomento avviato in margine alla disciplina del segreto nell’interesse della sicurezza dell’Unione (art. 105 del Regolamento di procedura del Tribunale dell’Unione europea).
Qui, sì, un vuoto normativo inizia a prendere consistenza; ma se si conviene con le cose dette fino a questo momento, non appare argomento calzante al caso di specie, dove non si tratta di segreto condizionante il processo per ragioni di tutela della sicurezza della Repubblica, ma di un “segreto privato” (si ripete, con tutta l’ambiguità del termine) trasformato in pretesa istruttoria di segretezza “interna” e giustamente considerata immeritevole di protezione perché in contrasto con il principio di imparzialità del giudice.
Ciò chiarito, è innegabile che la menzione del problema, benché solo evocativa, non lascia del tutto insensibili. La prospettiva d’indagine che si dischiude a proposito del segreto di Stato nel processo amministrativo è stata perlopiù trascurata dalla dottrina fino a tempi recentissimi[16], in cui si è fatta luce su una questione di notevole delicatezza e di non poco momento. Il ricorrente nel processo amministrativo non ha alcun diritto di accampare la tutela extraprocessuale del segreto quale limite alla pienezza ed integrità del contraddittorio. L’amministrazione resistente invece sì: per quest’ultima le cose non stanno affatto allo stesso modo in cui l’ordinamento le disciplina nella sfera delle altre parti. L’autorità convenuta può ottenere ragione in base a documenti “confidenziali”, sottratti al contraddittorio e finanche alla cognizione del giudice. Questo almeno è ciò che si constata con una certa regolarità in giurisprudenza, nei casi di impugnazione di provvedimenti (ad esempio il diniego di cittadinanza) fondati su informazioni derivanti da attività di intelligence[17]. Sul punto tuttavia il discorso non può essere utilmente proseguito, salvo notare (a prima impressione) che tale indirizzo sia negli ultimi tempi caratterizzato da un andamento forse meno lineare[18].
[1] Il provvedimento è consultabile per esteso in AGCM, Bollettino settimanale, Anno XXXIII - n. 31, 5 ss.
[2] TAR Lazio, sez. I, RG 12837/2023.
[3] TAR Lazio, sez. I, ord. 13 ottobre 2023, n. 6894 (camera di consiglio dell’11 ottobre 2023).
[4] Sezione VI, RG n. 8523/2023.
[5] È significativo che la stampa abbia descritto tale vicenda come la “guerra delle multinazionali dei cavi” (notizia pubblicata sul quotidiano Il Giorno, Milano, 26 agosto 2023).
[6] Sulla dottrina di stampo tedesco, R. Bonatti, Appunti sulla riservatezza degli atti e dei documenti nel processo, in Diritto.it, 29 marzo 2019; in margine all’art. 105 del Reg. Proc. Tribunale U.E., criticamente, M.G. Rancan, Prove “confidenziali” quando è in gioco la sicurezza dell’Unione, in Questione giustizia online, 28 gennaio 2015.
[7] Si tratta della monografia di S. Tranquilli, Il segreto in giudizio. Contributo allo studio del rapporto tra diritto di difesa e tutela della segretezza nel processo amministrativo, Napoli, 2023.
[8] Già su questa nozione peraltro il nostro ordinamento offre spunti tutt’altro che univoci (S. Tranquilli, op. cit., 27).
[9] G. Verde, Riflessioni di un anticoncettualista sulle parti del processo dinanzi al giudice amministrativo, in Riv. dir. proc. amm., 2023, 201 ss.; gli spunti a cui si accenna sono alle pp. 205, 214.
[10] Sia permesso rinviare, sull’argomento, al recente numero 2/2023 della Rivista di diritto processuale amministrativo e qui ad es. L. Bertonazzi, Appunti sparsi sul processo amministrativo di legittimità ed i terzi, ivi, 181 ss.
[11] Alcuni spunti in G. Tropea, L’intervento volontario nel processo amministrativo di primo grado, in Riv. dir. proc. amm., 2023, in Riv. dir. proc. amm., 2023, 20, sul collegamento tra disponibilità del rapporto processuale da parte del giudice e ragione obbiettiva pro-concorrenziale (con riguardo al contenzioso sui contratti pubblici).
[12] Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell'Unione europea.
[13] Corte cost., sentenze n. 114/1968 e n. 18/1966.
[14] Sullo stretto rapporto tra la libera produzione delle prove documentali e il regime dell’esibizione nel processo civile, (e sulla posizione giuridica della parte) S. La China, Esibizione, in Enc. dir., vol. XV, 1966, 698 ss., 699, 701.
[15] Cons. Stato, VI, ord. 27 settembre 2021, n. 6503. Sul punto, S. Tranquilli, op. cit., 160 (e nota 38).
[16] Come già detto, il tema è ora riconsiderato da S. Tranquilli, op. cit.
[17] TAR Lazio, sez. V bis, 4 ottobre 2023, n. 14676, 8 giugno 2023, n. 9773, 2 maggio 2023, n. 7392, n. 15922; Cons. Stato, 5 giugno 2023, n. 5489 (sulla sufficienza della formula motivazionale del diniego di cittadinanza per «contiguità del richiedente a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica»; TAR Lazio, sez. I ter, 6 novembre 2023, 16449 e 9 ottobre 2023, n. 14875); Cons. Stato, sez. III, 11 maggio 2023, n. 4765.
[18] TAR Lazio, sez. V bis, ord. 17 novembre 2023, 17173, che ordina l’esibizione in un ricorso avverso il diniego di cittadinanza, considerato «che il Consiglio di Stato, su fattispecie analoghe a quella in esame, ha affermato che (…) nel rispetto del principio del contraddittorio e, quindi, di parità delle parti di fronte al giudice (c.d. parità delle armi), la conoscenza del documento deve essere comunque consentita in corso di giudizio al difensore dello straniero. In sostanza, in presenza di informative con classifica di "riservato", il richiamo ob relationem al contenuto delle stesse può soddisfare le condizioni di adeguatezza della motivazione, mentre l'esercizio dei diritti di difesa e la garanzia di un processo equo restano soddisfatti dall'ostensione in giudizio delle informative stesse con le cautele e garanzie previste per la tutela dei documenti classificati da riservatezza” (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 3281/2019 e 7904/2019). Il TAR ritiene pertanto «necessario, ai fini del decidere, acquisire dall’Amministrazione resistente la documentazione istruttoria sulla base della quale è stato emesso il provvedimento impugnato, con l’adozione delle cautele necessarie (stralci ed omissis) a tutela delle fonti di informazione, nonché al fine di non pregiudicare l’attività di intelligence, ogni altra misura ritenuta al tal fine opportuna, ovvero una relazione, da cui si evincano le specifiche ragioni che possano indurre a ritenere ragionevole la determinazione di non trasmettere i medesimi atti»; conforme TAR Lazio, sez. V bis, ord. 27 ottobre 2023, n. 15963; Cons. Stato, sez. III, 12 giugno 2023, n. 5759, secondo cui (con riferimento alla sottrazione del documento all’accesso di cui alla legge n. 241/1990 “L'accesso disposto dall'autorità giurisdizionale (…) nell’ottica del legislatore, rappresenta il punto di equilibrio e proporzione tra due contrapposti interessi, il diritto di difesa del soggetto interessato e il bene della sicurezza nazionale»; ragion per cui «è quella giurisdizionale – nell’ambito del giudizio di impugnazione del provvedimento di rigetto della concessione della cittadinanza italiana – l’unica sede idonea all'esame degli atti riservati, in quanto preposta dalla legge a garantire il corretto equilibrio tra i contrapposti interessi difensivi, nell'ambito del suo potere di ponderazione e prescrizione delle modalità per garantire l'accesso nel rispetto dei vincoli di legge") nell'ottica del legislatore, rappresenta il punto di equilibrio e proporzione. Per le possibili conseguenze sul merito del ricorso, TAR Lazio, sez. V bis, 14 novembre 2023, n. 16964 (sulla illegittimità dell’atto il cui iter logico non risulti comprensibile).
di Tania Linardi
Sommario: 1. Lo svolgimento del processo e le quaestiones sottoposte alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - 2. La giurisdizione della Corte dei conti e la responsabilità amministrativo-contabile: cenni - 2.1. Segue: il danno “da disservizio” - 3. La decisione delle Sezioni Unite - 4. Considerazioni conclusive.
1. Lo svolgimento del processo e le quaestiones sottoposte alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
Le Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2370[1] pubblicata il 25 gennaio 2023, affrontano la delicata tematica dei limiti del sindacato della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativo-contabile del magistrato, configurando, per la prima volta, una possibile ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale[2] per sconfinamento nella sfera del legislatore, fattispecie che, come rilevato da autorevole dottrina, la giurisprudenza ha solo enunciato in astratto, ma, almeno prima d’ora, mai riscontrato in concreto[3].
Nello specifico, infatti, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il giudice contabile “ritenendo configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato convenuto, e quindi ammissibile la tutela risarcitoria, al di là dei confini della stessa derivanti dal sistema elaborato dal diritto vivente (…), ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale (…), così superando i limiti esterni della giurisdizione spettante alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”.[4]
La vicenda in esame origina dalla domanda, presentata dalla Procura regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana, di condanna di un magistrato (all’epoca in servizio presso il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana) al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno da disservizio derivante dai reiterati ritardi nel deposito di provvedimenti giudiziari.
La Sezione giurisdizionale di I grado, con sentenza n. 420 del 2020, accoglieva la domanda, rigettando l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal magistrato convenuto, con l’argomento che le contestazioni della Procura non erano riferibili a un’ipotesi di responsabilità disciplinare o sanzionatoria, piuttosto al danno erariale cagionato dal mancato puntuale adempimento del dovere di tempestivo deposito dei provvedimenti giudiziari, che aveva arrecato “un vulnus concreto ed attuale all’efficienza ed al buon andamento del servizio giustizia (…), rendendo ingiustificata, almeno in parte, la retribuzione corrisposta al medesimo magistrato (…)”.
Con sentenza depositata il 31 dicembre 2021, la Sezione giurisdizionale d’appello accoglieva parzialmente il gravame proposto dal magistrato, rideterminando l’importo dovuto a titolo di risarcimento del danno, e confermando il rigetto dell’eccezione di difetto di giurisdizione. A tale riguardo, la sentenza ha evidenziato che la domanda di condanna formulata dalla Procura contabile afferiva al risarcimento del danno da disservizio, inteso come “danno arrecato al corretto ed efficiente esercizio della funzione giurisdizionale”, e che, in via generale, la legge 13 aprile 1998, n. 117 non escluderebbe né la configurabilità di ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile del magistrato per i danni cagionati all’amministrazione di appartenenza, né la conseguente esperibilità dell’azione risarcitoria dinanzi alla Corte dei conti.
Avverso tale pronuncia, il magistrato ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre ordini di motivi.
Con il primo motivo, ha denunziato, in relazione agli artt. 362, comma 1, e 360, comma 1, n. 1), c.p.c., la violazione degli artt. 3, 103 e 108 Cost., dell’art. 1 c.p.c., della legge 13 aprile 1988, n. 117 (artt. 2, 3, 13), delle norme sul procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati speciali (art. 2, lett. q) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, nonché l’art. 32 della legge 27 aprile 1982, n. 186), per avere la sentenza ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte dei conti “in materia di risarcimento dei danni da disservizio, consistente nel sistematico ritardo nel deposito delle sentenze (…)”. Si invoca, quindi, l’applicazione della legge n. 117 del 1988, come modificata dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18, contenente la disciplina relativa alla materia della responsabilità dei magistrati anche per i casi di “denegata giustizia”, nel cui novero rientrerebbe la fattispecie del tardivo deposito dei provvedimenti. Inoltre, il ricorrente ha dedotto che spetterebbe al Presidente del Consiglio dei ministri l’esercizio, dinanzi al giudice civile, dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato per i danni subìti dallo Stato nell’ipotesi in cui abbia dovuto risarcire il cittadino, rinvenendo tale circostanza fondamento costituzionale nell’art. 108 Cost., in particolare nell’esigenza di garantire l’indipendenza dei giudici delle magistrature speciali.
Con il secondo motivo di ricorso, in via subordinata, il magistrato ha chiesto la rimessione alla Corte costituzionale della eccezione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 103 e 108 Cost., dell’art. 1 del codice di giustizia contabile, ove interpretato nel senso di non escludere la giurisdizione contabile nella materia per cui è causa, essendo stata attribuita al giudice ordinario nel procedimento disciplinato dalla legge n. 117 del 1988.
Con il terzo motivo, in via di ulteriore subordine, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 2, comma 3-bis, e art. 13, comma 2-bis, della legge n. 117 del 1988, applicata retroattivamente dal giudice a quo pur trattandosi di disposizione avente carattere innovativo.
Così brevemente riassunti i motivi di ricorso, nel prosieguo della trattazione ci si soffermerà, prima di esaminare la decisione cui giungono le Sezioni Unite, sull’analisi delle questioni giuridiche connesse al primo motivo: la tematica della responsabilità amministrativo-contabile, la figura del “danno da disservizio” e la perimetrazione della giurisdizione del giudice contabile.
2. La giurisdizione della Corte dei conti e la responsabilità amministrativo-contabile: cenni
L’istituzione della Corte dei conti[5], come noto, risale al momento dell’adozione della legge 14 agosto 1862, n. 800[6], finalisticamente orientata a risolvere il delicato problema della approvazione del bilancio nazionale, nonché dell’unificazione della materia del controllo mediante la soppressione delle magistrature preunitarie.[7]
Successivamente, in subiecta materia si susseguirono una serie di interventi legislativi[8], tra i quali è possibile menzionare il d.lgs. 18 novembre 1923, n, 2441 e la l. 3 aprile 1933, n. 255[9], disposizioni che, in seguito, erano destinate a confluire nel Testo Unico (Regio Decreto 12 luglio 1934, n. 1214) recante le linee fondamentali della disciplina di tale organo con riferimento sia alle funzioni di controllo sia a quelle giurisdizionali.[10]
Con l’avvento della Costituzione veniva delineato, ai sensi dell’art. 28[11], il principio secondo cui i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, sul piano civile, penale e amministrativo debbono ritenersi soggetti a responsabilità diretta per i danni arrecati ai terzi “per gli atti compiuti in violazione dei diritti”.[12] Inoltre, gli artt. 100 e 103 della Carta costituzionale cristallizzavano, rispettivamente, l’attribuzione alla Corte dei conti delle funzioni di controllo e di quelle aventi natura giurisdizionale.[13]
In relazione alla funzione giurisdizionale l’art. 1, comma 1, Codice della giustizia contabile[14] delinea il perimetro della giurisdizione in relazione ai giudizi di conto, alle ipotesi di responsabilità amministrativa per danno all’erario, nonché agli altri giudizi in materia di contabilità pubblica.[15]
Più nel particolare, con l’espressione “responsabilità amministrativa per danno all’erario”, si suole designare la responsabilità in cui incorrono gli agenti pubblici che cagionano alle pubbliche amministrazioni un danno, suscettibile di quantificazione economica, derivante dall’adozione di provvedimenti o da comportamenti, contrari agli obblighi di servizio, dolosi o gravemente colposi[16], ferme restando le sopravvenienze normative che hanno interessato quest’ultimo elemento, come di qui a breve si dirà.
La disciplina in tema di responsabilità amministrativa[17] è contenuta principalmente nelle leggi 14 gennaio 1994, n. 19 e 20[18] (e relative integrazioni di cui alla legge 20 dicembre 1996, n. 639) [19], specie nella parte in cui si afferma, all’art. 1 (l. n. 20 cit.), che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave[20], ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
L'estensione soggettiva dell’ambito di applicazione di suddetta responsabilità (e, dunque, della portata applicativa dell’art. 28 Cost.) promana necessariamente dall’ampiezza della nozione di “agenti pubblici” sottoposti alla giurisdizione contabile.[21] In una prima fase, la giurisprudenza ha ricondotto all’interno di tale categoria i soggetti legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di “impiego” ovvero da quello onorario (gli amministratori).[22] Successivamente, l’interpretazione pretoria della Corte dei conti, superando il riferimento al concetto di mero “rapporto di impiego” e utilizzando, in senso estensivo, il dato normativo di cui all’art. 52, comma 1, t.u. C. conti,[23] ha progressivamente ampliato il contenuto della nozione di “agenti pubblici” sino a ricomprendervi anche i soggetti funzionalmente legati all’ente da un “rapporto di servizio”.[24] Quest’ultimo, infatti, presuppone la compartecipazione dell’agente pubblico (persona fisica o giuridica) all’organizzazione e all’attività di una pubblica amministrazione[25] ma, ai fini della sua configurabilità, non rilevano taluni fattori che, tradizionalmente, hanno invece caratterizzato la relazione tra organo amministrativo e pubblica amministrazione: la natura giuridica del soggetto agente (pubblica o privata), il titolo giuridico con cui si instaura la relazione tra l’agente e la p.a. (contrattuale o provvedimentale) e la natura giuridica delle attività esercitate dal soggetto agente.[26]
Ciò posto, occorre precisare che, durante il periodo pandemico, il legislatore ha introdotto una disciplina transitoria[27]consistente nella limitazione della responsabilità erariale degli agenti pubblici, di fatto riducendo il perimetro del sindacato spettante alla Corte dei conti in subiecta materia. Secondo questa disciplina, attualmente in vigore[28], l’elemento soggettivo della “colpa grave” poc’anzi accennato non è più idoneo a far sorgere la responsabilità erariale, dovendosi, piuttosto, accertare la sussistenza di un comportamento dell’agente connotato da dolo, ad eccezione dei danni cagionati da omissione o inerzia, espressamente esclusi da tale previsione normativa.
In via generale, la ratio della responsabilità amministrativo-contabile è rinvenibile primariamente nell’esigenza di salvaguardare la corretta gestione delle risorse pubbliche esercitata dallo Stato e dagli enti pubblici, in coerenza con il principio del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[29]
Sulla natura giuridica della responsabilità in argomento, senza pretesa di esaustività, si sono distinte talune tesi sulla natura privatistica, talaltre sulla natura pubblicistica repressivo-sanzionatoria, nonché una terza tesi mediana c.d. “eclettica”.[30]
La prima si fonda sul riconoscimento della matrice civilistica (e sulla funzione “recuperatoria”) di tale responsabilità, in ragione, tra gli altri, dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti delle azioni finalizzate a garantire il credito erariale (art. 73, cod. giust. cont., già art. 1, comma 174, l. 23 dicembre 2005, n. 266), nonché di ulteriori enunciati giurisprudenziali (sentenza c.d. Rigolio, 23 maggio 2014, su ricorso n. 20148/09) ai sensi dei quali è stata prospettata una lettura civilistica della natura della responsabilità amministrativa azionata innanzi alla Corte dei conti, escludendosi la sua assimilabilità ai giudizi penali o quelli aventi natura “sanzionatorio-punitiva”.[31] All’interno di tale orientamento si distingue la tesi che invoca la natura extracontrattuale di tale forma di responsabilità, con conseguente riconoscimento della atipicità dell’illecito de quo[32], da quella tesi che, in senso opposto, si incentra sulla natura eminentemente contrattuale,[33] sottolineando come l’illecito amministrativo-contabile rappresenti una violazione del sottostante rapporto negoziale tra l’amministrazione datrice di lavoro ed il responsabile.
La seconda opzione ermeneutica, invece, evidenzia la matrice eminentemente pubblicistica di siffatta forma di responsabilità, alla luce della prevalente funzione repressivo-sanzionatoria che la caratterizza.[34] Tra gli argomenti a sostegno di tale ricostruzione, si suole richiamare, ad esempio, la circostanza del doveroso accertamento dell’elemento psicologico della condotta dell’autore del danno erariale ai fini della graduazione della condanna, similmente a quanto accade nella materia del diritto penale.
Infine, la terza impostazione c.d. “eclettica” valorizza sia i profili compensativi-risarcitori (reintegra pecuniaria del soggetto pubblico danneggiato) sia le finalità sanzionatorie-preventive, alla luce della graduazione della condanna in proporzione della gravità della condotta e dell’intensità dell’elemento psicologico.[35]
Ad ogni modo, rispetto all’ordinaria responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., quella amministrativo-contabile si caratterizza per la presenza di taluni caratteri di peculiarità: il danno erariale[36], il diverso grado di intensità dell’elemento soggettivo, nonché, come evidenziato dalla giurisprudenza, “la particolare qualificazione del soggetto autore del danno (pubblico dipendente o soggetto legato alla P.A. da rapporto di servizio), (per) la natura del soggetto danneggiato (ente pubblico e assimilati) e (per) la causazione del danno nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni”. [37] Ciò in quanto l’illecito erariale che viene in rilievo risulta caratterizzato dalla “combinazione di elementi restitutori e di deterrenza” [38].
2.1. Segue: il danno “da disservizio”
La figura del danno da disservizio costituisce una fattispecie rientrante nell’alveo della responsabilità amministrativa. Essa ha origine giurisprudenziale[39] ed è riconducibile, in via generale, all’esercizio di un’attività della p.a. in modo inefficiente e con una qualità del servizio[40] inferiore rispetto ai normali standard di erogazione, non consentendo la soddisfazione degli interessi e delle aspettative degli utenti del servizio pubblico.[41]
Storicamente, si è assistito ad un progressivo ampliamento del perimetro di operatività della responsabilità amministrativo-contabile, sino a ricomprendere, su impulso dell’interpretazione pretoria, un’ampia varietà di figure di danno pubblico caratterizzate dalla compromissione di interessi pubblici di carattere generale connessi all’equilibrio economico e finanziario.[42]
Invero, la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nell’ambito della pronuncia che qui si annota, ha evidenziato come il danno da disservizio sia ravvisabile in quegli illeciti caratterizzati dalla “diminuzione di rendimento dell’azione amministrativa eziologicamente connessa alla lesione dell’agire amministrativo nei suoi valori fondamentali, tra cui il buon andamento e l’imparzialità: dall’inosservanza dei doveri del pubblico dipendente deriva la diminuzione di efficienza dell’apparato pubblico per la mancata o ridotta prestazione del servizio o per la cattiva qualità dello stesso. Il danno da disservizio presuppone una distorsione dell’azione pubblica rispetto al fine cui l’azione stessa deve essere indirizzata. Il danno si verifica quando il pubblico servizio è “desostanziato”, per l’utenza, delle sue intrinseche qualità. Si è di fronte a un pregiudizio sofferto dalla collettività in ragione dell’esercizio sviato della funzione amministrativa”.[43]
D’altro canto, sotto il profilo teorico è emersa la difficoltà di individuare con precisione i presupposti del danno da disservizio, in ragione del carattere ontologicamente atipico[44] ed essendo esso idoneo a ricomprendere un’ampia gamma di ipotesi di pregiudizio riferibili ai diversi settori della p.a.[45] La stessa giurisprudenza contabile ha, invero, affermato che, nell’ambito della fattispecie in esame, risulta talvolta difficile quantificare, mediante una precisa misurazione economica, la diminuzione di rendimento[46] dell’attività amministrativa derivante dalla lesione di valori quali il buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[47]
Nello specifico, secondo un orientamento il danno da disservizio si concretizzerebbe nella ingiustificata retribuzione percepita dal danneggiante (e nel conseguente danno arrecato all’amministrazione di appartenenza per l’inutilità della spesa sostenuta) nei casi di accertata grave inadempienza della prestazione, riscontrandosi in siffatte ipotesi sia un parziale inadempimento dell’obbligazione lavorativa sia la violazione dei canoni di lealtà, buona fede e diligenza.[48]
Altra parte della giurisprudenza ha evidenziato come tale voce di danno debba rinvenirsi nelle spese sostenute dalla p.a. per individuare e arginare gli effetti del disservizio, potendosi concretizzare, a titolo esemplificativo, negli oneri sostenuti per la riorganizzazione dell’ufficio oppure nei costi derivanti dalla costituzione di una commissione di inchiesta per indagare sui fatti legati al disservizio.[49]
Ancora, valorizzandosi il carattere patrimoniale[50] del danno da disservizio e la necessità che si sostanzi in un’effettiva perdita patrimoniale per la p.a., si è giunti a ritenere che esso debba essere provato nel suo ammontare e non possa ritenersi sussistente per la mera violazione degli obblighi di servizio da parte del trasgressore.[51]
Nell’ambito delle numerose fattispecie riscontrate in subiecta materia dalla giurisprudenza contabile, si segnalano, a titolo meramente esemplificativo, la vicenda legata all’anticipazione, da parte di un commissario, dei temi concorsuali in favore di taluni candidati[52]; nonché quella connessa all’indebita discriminazione dell’ordine di lavorazione delle pratiche perpetrata dal pubblico funzionario, con un comportamento delittuoso, assicurando un canale preferenziale ad alcuni imprenditori e professionisti.[53]
Dopo aver esaminato la nozione di danno, seppure limitatamente alla particolare ipotesi del “disservizio”, occorre richiamare un istituto che tradizionalmente connota la giurisdizione contabile nella materia della responsabilità amministrativa per danno all’erario, ovverosia il “potere riduttivo dell’addebito”.[54] Con tale espressione[55], si suole designare il potere del giudice contabile, nell’ambito di una sentenza di condanna, di porre a carico degli agenti pubblici “tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”.[56] Per tal ragione, non vi è sempre una necessaria coincidenza tra il danno subìto dalla p.a.[57] (accertato secondo il principio delle conseguenze dirette ed immediate del fatto dannoso ex art. 1223 c.c.) e il danno definitivamente posto a carico dell’agente pubblico, che deve essere quantificato dal giudice con “valutazione discrezionale ed equitativa” fondata sulla intensità dell’elemento soggettivo dell’agente e sulle circostanze che vengono in rilievo nel caso concreto.[58] Alla luce di tali caratteri che contraddistinguono il potere riduttivo del giudice contabile, si evidenzia, infatti, che “la sentenza della Corte dei conti è (…) determinativa e costitutiva del debito risarcitorio”.[59]
3. La decisione delle Sezioni Unite
Come accennato in premessa, le Sezioni Unite, nell’ordinanza che qui si annota, affrontano la questione relativa alla perimetrazione della responsabilità amministrativo-contabile del magistrato, soffermandosi, in particolare, sulle relative conseguenze in punto di giurisdizione.
Preliminarmente, il Collegio richiama talune importanti statuizioni effettuate dalla Corte costituzionale, chiarendo che sussiste “la conciliabilità in linea di principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio, non solo con quella civile, oltre che penale, ma anche amministrativa, nelle sue diverse forme”.[60]
Ripercorrendo la giurisprudenza di legittimità sul punto, l’ordinanza evidenzia come debba ritenersi configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato non solo nelle ipotesi di danno patrimoniale cagionato allo Stato a causa della commissione di un reato[61], ma anche, in senso più ampio[62], nelle ipotesi derivanti dalla violazione di doveri strumentali rispetto alle funzioni concretamente svolte, tra cui figura, ad esempio, il dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi extralavorativi[63].
Nel particolare, il Collegio[64] sottolinea come dall’art. 7, legge n. 117 del 1998 non possa sic et simpliciter escludersi la possibilità che si instaurino, nei confronti di un magistrato, altri giudizi dinanzi alla Corte dei conti, secondo la disciplina della responsabilità amministrativa, giacché tale legge “non esaurisce in sé ogni forma di responsabilità perché, nella sua regolazione, attiene all’ambito di quella civile”.[65]
La pronuncia prosegue evidenziando che la giurisdizione della Corte dei conti si radica nelle ipotesi di danni cagionati all’erario dal magistrato nell’esercizio di funzioni amministrative[66] sia per quelli derivanti dall’esercizio di funzioni giudiziarie (ferma restando l’insindacabilità nel merito dei provvedimenti giudiziari e il limite della indipendenza funzionale), nonché nei casi di danno all’immagine[67] arrecato alla p.a. per delitti commessi in danno ad essa, ai sensi dell’art. 51 cod. giustizia contabile.
La Suprema Corte ha, poi, effettuato una ricognizione delle diverse conseguenze che potrebbero derivare, sul piano normativo, dal ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte del giudice (ferma restando la responsabilità del magistrato per fatti costituenti reato[68], ai sensi dell’art. 13, legge n. 117 del 1988, nelle ipotesi in cui il ritardo configuri la fattispecie di rifiuto di atti d’ufficio).
L’ordinanza ha quindi osservato che tale condotta potrebbe, in primo luogo, assumere rilievo dinanzi al giudice contabile nell’ambito del giudizio di rivalsa verso il magistrato per i danni risarciti dallo Stato in caso di irragionevole durata del processo, ai sensi della legge n. 89 del 2001.
In secondo luogo, il ritardo potrebbe integrare una fattispecie di illecito disciplinare, in presenza dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, con la conseguente irrogazione della sanzione disciplinare. In tal caso, infatti, il ritardo rileverebbe nella misura in cui sia espressione della mancanza di laboriosità, alla luce di una valutazione complessiva del carico di lavoro dell’ufficio.[69] Si precisa che, ai sensi del rinvio operato dall’art. 32, legge 27 aprile 1982, n. 186, in relazione alla responsabilità disciplinare dei giudici amministrativi continua ad applicarsi la disciplina contenuta nel regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, ove si definisce l’illecito disciplinare (art. 18).[70]
Ulteriormente, il ritardo potrebbe configurare un’ipotesi di diniego di giustizia, ai sensi dell’art. 3, legge 117 del 1988, con conseguente responsabilità civile del magistrato.
Ciò chiarito in via generale, le Sezioni Unite hanno affermato che, nel caso di specie, il ritardo del magistrato deve essere correttamente qualificato in termini di illecito disciplinare, fattispecie che, come noto, è rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura; e hanno, poi, specificato che la responsabilità disciplinare del magistrato non integra una mera responsabilità verso l’ordine di appartenenza, dispiegando effetti anche nei confronti della generalità dell’ordinamento costituzionale, stante la rilevanza che assume il rispetto delle regole disciplinari da parte dei magistrati.
Invece, la Sezione giurisdizionale d’appello aveva condannato il giudice amministrativo a risarcire un danno erariale da disservizio per essere incorso in gravi e sistematiche inadempienze, impedendo il raggiungimento dei migliori standard di efficienza nell’ambito del “servizio giustizia”. In altri termini, aveva ritenuto sussistenti tutti gli elementi costitutivi del danno erariale da disservizio, idoneo a far sorgere la responsabilità amministrativo-contabile del magistrato autore della condotta antigiuridica.[71] Si riscontrava, quindi, un’ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile per un danno direttamente derivante dalla negligente attività lavorativa del magistrato che depositava con ritardo i provvedimenti di sua competenza.
Contro tali approdi ermeneutici, le Sezioni Unite hanno rilevato che l’ipotesi de qua non integra alcuna delle fattispecie normative cui la legge ricollega il sorgere della responsabilità erariale: non è stata esercitata un’azione di risarcimento del danno erariale per la condotta del magistrato derivante da reato; non è stata esercitata un’azione di rivalsa per danni risarciti dallo Stato a terzi a causa dell’irragionevole durata del processo, ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della legge n. 89 del 2001; non vi è stata alcuna condanna dello Stato al risarcimento dei danni per diniego di giustizia.
Conseguentemente, hanno affermato che “la Sezione giurisdizionale d’appello ha esteso il perimetro della responsabilità amministrativo-contabile per danno da disservizio fino a ricomprendervi un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato integrante una figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura amministrativa; e ha finito, così, con il giudicare di una domanda che fuoriesce dall’ambito della cognizione della Corte dei conti”;[72] precisando, poi, che “la responsabilità amministrativa per danno erariale da disservizio non può essere in via interpretativa estesa fino a ricomprendere le ipotesi legate al mero ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte del magistrato”.[73]
La Suprema Corte sancisce, quindi, che ai fini del riconoscimento, accanto alla responsabilità disciplinare, di una responsabilità amministrativa per danno erariale da disservizio, è necessaria la presenza di un quid pluris rispetto al mero ritardo. Invero, ciò potrebbe configurarsi in presenza di un danno aggiuntivo, di carattere patrimoniale, derivante dalla condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo o del risarcimento per diniego di giustizia; ancora, ove il ritardo si traduca in un rifiuto o in una omissione di atti d’ufficio, penalmente rilevante, o sia espressione di un mancato svolgimento della prestazione lavorativa (ipotesi del magistrato “assenteista dalla funzione”).[74]
Alla luce delle considerazioni svolte, le Sezioni Unite affermano che il mero ritardo nel deposito dei provvedimenti non costituisce un elemento idoneo, di per sé solo considerato, a far sorgere una responsabilità amministrativa per danno da disservizio, rilevando, tale condotta, soltanto in termini di illecito disciplinare secondo la valutazione dell’organo disciplinare di governo autonomo. Di talché, la Corte precisa che “ritenendo configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato convenuto, e quindi ammissibile la tutela risarcitoria, al di là dei confini della stessa derivanti dal sistema elaborato dal diritto vivente, la Sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei conti per la Regione Siciliana ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale destinata a investire il medesimo interesse tutelato con l’azione disciplinare officiosa, così superando i limiti esterni della giurisdizione spettante alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”. Per tali ragioni, nell’accogliere il primo motivo di ricorso e nel ritenere assorbiti i restanti, si dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
4. Considerazioni conclusive
Come anticipato nei precedenti paragrafi, con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha svolto importanti considerazioni, sia sul versante del diritto sostanziale, in tema di illecito erariale e danno da disservizio, sia su quello del diritto processuale, in relazione alla questione dell’eccesso di potere giurisdizionale[75], con particolare riferimento alla dibattuta ipotesi dello sconfinamento dell’attività interpretativa del giudice nella sfera riservata al legislatore[76].
Quanto al primo profilo, il Collegio si sofferma ampiamente sull’analisi delle conseguenze derivanti, in punto di qualificazione dogmatica, dal ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte di un magistrato, nonché sui requisiti necessari ai fini della eventuale configurabilità di un danno “da disservizio”. A tal proposito, la Suprema Corte non esclude, in astratto, che il giudice contabile possa contestare il danno de quo, ma si limita a rilevare che, in concreto, non appare rinvenibile nel caso di specie alcuna fattispecie definibile come tale, giacché “(…) il mero ritardo, da parte di un magistrato amministrativo, nel deposito dei provvedimenti non integra, di per sé, responsabilità amministrativa per danno da disservizio, essendo rimessa la valutazione di tale condotta all’organo disciplinare di governo autonomo, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei conti”.[77]
Si evidenzia, inoltre, che il danno da disservizio necessita di essere provato, non potendo promanare sic et simpliciter dal mero ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte del magistrato, come sembrerebbe desumersi dalla sentenza sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite.[78]
Quanto al secondo profilo, sul versante processuale le Sezioni Unite hanno, per la prima volta, sia pure in riferimento alla fonte di delimitazione dei confini della giurisdizione e non in riferimento a una norma di diritto sostanziale, riscontrato il superamento, in danno del legislatore, dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per avere il giudice contabile, nello specifico, “finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale destinata a investire il medesimo interesse tutelato con l’azione disciplinare officiosa”.
Come noto, la questione dell’individuazione, in concreto, delle fattispecie rientranti nell’alveo dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”, di cui all’art. 111, comma 8, Cost., è stata (ed è) ampiamente dibattuta, specie per ciò che concerne l’ipotesi dello “sconfinamento” dell’attività giurisdizionale nella sfera riservata al legislatore[79]. La difficoltà di trovare una precisa linea di demarcazione tra ciò che configura una mera violazione di legge e ciò che, invece, è atto a configurare una questione di giurisdizione è testimoniata, in particolare, dalla nota pronuncia n. 6 del 2018 della Corte costituzionale[80], che ha mostrato di non aderire alla tesi secondo cui il ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione di cui all’ottavo comma, art. 111, Cost., ricomprenderebbe anche il sindacato sugli errores in procedendo o in iudicandonei casi di interpretazione “abnorme” delle disposizioni di legge (c.d. interpretazione dinamico-evolutiva). Si evidenziava l’incompatibilità di siffatta tesi rispetto alla “lettera” e allo “spirito della norma costituzionale” (art. 111, comma 8, Cost.). Invero, la Corte escludeva che anche la violazione dei principi in materia di giusto processo ed affettività della tutela, contemplati nell’art. 111, comma 1, Cost., potessero integrare una questione di giurisdizione rilevante ai sensi dell’ottavo comma.
Tale approdo interpretativo non subiva rivisitazioni nemmeno in occasione del rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea disposto dalle Sezioni Unite (ord. n. 19598 del 2020)[81] in relazione alla portata applicativa della nozione di eccesso di potere giurisdizionale con particolare riferimento all’ipotesi del rifiuto di giurisdizione[82], atteso che il giudice sovranazionale, al riguardo, precisava che “il diritto dell’Unione non osta a che l’organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro non possa annullare una sentenza pronunciata in violazione di tale diritto dal supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato membro”.[83]
Alla luce di tali importanti arresti giurisprudenziali di cui, seppure brevemente, si è fatto cenno, occorre chiedersi se nell’ordinanza in commento le Sezioni Unite abbiano sostanzialmente aderito a una interpretazione dinamico-evolutiva dell’eccesso di potere giurisdizionale, secondo la quale anche un’interpretazione abnorme delle norme in materia di illecito erariale e danno da disservizio possa ritenersi idonea a configurare il vizio censurabile ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.; oppure se, diversamente, la pronuncia debba inserirsi nel solco di una più tradizionale ipotesi di superamento dei limiti esterni della giurisdizione.
Sul punto, taluni autori hanno evidenziato come la tecnica argomentativa utilizzata dalla Corte regolatrice si fondi principalmente sulla delimitazione della giurisdizione della Corte dei conti secondo i principi generali cristallizzati nell’art. 103 Cost. per ciò che attiene alle materie di contabilità pubblica[84]. Pertanto, tale approccio ermeneutico sembrerebbe discostarsi dalla metodica fondata sul vaglio della sussistenza di un’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale, di cui all’art. 111, comma 8, mediante il ricorso al concetto di “interpretazione abnorme” delle norme di riferimento.
Del resto, la tematica dell’eccesso di potere giurisdizionale, specie nella particolare ipotesi che qui viene in rilievo, si profila intimamente connessa con il problema della individuazione degli effetti dell’errore interpretativo[85] del giudice alla luce del delicato rapporto esistente tra legislazione e giurisdizione, tenuto conto della complessità e della difficoltà di distinguere il confine tra la fisiologica attività del giudice di interpretazione del diritto e quella, invece, consistente in una vera e propria “creazione” delle norme. Di talché, la portata innovativa della pronuncia in commento si rinviene principalmente nella circostanza che le Sezioni Unite siano giunte a riscontrare, in concreto, una fattispecie di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera del legislatore, superandosi quella ritrosia che, storicamente, le attribuiva un rilievo meramente “teorico”.[86]
[1] Per approfondimenti, cfr. lezione inaugurale del corso di giustizia amministrativa della Prof.ssa M.A. Sandulli, tenutasi il 6 marzo 2023 presso l’Università degli Studi di Roma Tre, “Eccesso di potere giurisdizionale a margine dell’ordinanza SS.UU. n. 2370/2023”, la cui registrazione è consultabile su youtube e in questa Rivista; nonché, da ultimo, le considerazioni espresse da G. Greco nell’ambito del convegno “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa”, Castello di Modanella (16/17 giugno 2023), sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”, il quale ha osservato come, nella specie, vi siano indizi sia per un possibile inquadramento del vizio in termini di sconfinamento della giurisdizione per invasione della sfera del legislatore sia nei termini di sconfinamento per invasione della sfera dell’amministrazione; M.A. Sandulli, Conclusioni delle “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa” svoltesi al Castello di Modanella il 16/17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”, in questa Rivista, 6 settembre 2023.
[2] La letteratura sul tema della giurisdizione è naturalmente vastissima. Si segnalano, ex multis, V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, vol. III, Milano, 1901, 633 ss.; G. Azzariti, I limiti della giurisdizione nel nuovo codice di procedura, in Foro.it., 1941, 66, 33 ss.; Id., Il ricorso per Cassazione secondo la nuova Costituzione, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Milano, 1950, 105 ss.; E. Cannada Bartoli, Giurisdizione (conflitti di), in Enc. dir. XIX, Milano, 1970, 295 ss.; F. Modugno, Eccesso di potere giurisdizionale, in Enc. Giur. Treccani, 1981, 1 e 8; V. Caianiello, Il limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Scritti in onore di Giovanni Miele, Il processo amministrativo, Milano, 1979, 63 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, in particolare 1511-1513; I.M. Marino, Corte di Cassazione e giudici “speciali”. Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Costituzione, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, vol. II, Milano, 1993, 1383 ss.;V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 287 ss., nonché 298-301; A. Berlati, “Limiti esterni” della giurisdizione amministrativa e ricorso in cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, in Arch. Civ., 1997, 241 ss.; C. Marzuoli, A. Orsi Battaglini, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione? in Dir. pubbl., 1997, 895 ss.; M. Nigro, Giustizia amministrativa, V ed. a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 2000, 161 ss., nonché 170-174; A. Proto Pisani, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa, in Foro. It., 2001, 21 ss.; M. D’Orsogna, Il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, in AA. VV., Codice della giustizia amministrativa (a cura di Morbidelli), Milano, 2005, 920 ss.; M.V. Ferroni, Il ricorso in cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, Padova, 2005; F. Gaverini, Il controllo della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato ex art. 111cost. ed il principio di effettività della tutela, tra limite interno ed esterno della giurisdizione, in Foro amm. C.d.S., 1, 2007, 82 ss.; M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del giudice amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008; Id., L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss.; A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubbl., 2013, 341 ss.; G. Verde, La corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Dir. proc. amm., 2013, 367;L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Diritto processuale amministrativo, 2014, 561 ss.; R. De Nictolis, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.sipotra.it, 2017; F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, Napoli, 2017, passim; A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, in Foro it., 2017, 983; A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 643 ss.; A. Lamorgese, Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, in Federalismi.it, n. 1, 2018; L. Ferrara, Le ragioni teoriche del mantenimento della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e quelle del suo superamento, in Dir. Pubbl., 2019, 7223 ss.; Id., La giustizia amministrativa paritaria e l’attualità del pensiero di Feliciano Benvenuti, inRiv. giur. mezz., 2, 2019, 517 ss.; AA.VV., Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, a proposito di cass. sez. un. n. 19598/2020, (a cura di) A. Carratta, Roma, 2021; L. Ferrara, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2022; E.N. Fragale, Il controllo della Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato: aggiornare o superare la teoria dello sconfinamento in danno di altri poteri?, in Dir. proc. amm., fasc. 2, 326, 2023.
[3] M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia insieme, 30 novembre 2020, in particolare nella parte in cui si precisa che: “(…) Le stesse Sezioni Unite, del resto, hanno in varie occasioni rilevato la marginalità dell’ipotesi generale dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, osservando che tale ipotesi, presupponendo che il giudice applichi una norma da lui creata in luogo della norma esistente e che quindi eserciti un'attività di produzione normativa in luogo di un attività meramente euristica, non può che avere rilevanza meramente teorica (cfr., sostanzialmente in termini, inter alia, le sentenze 26 marzo 2012 n. 4769 e 28 febbraio 2019 n. 6059). È significativo che anche la sentenza 30 luglio 2018 n. 20169, che menziona una serie di precedenti a sostegno dell’ammissibilità di tali ricorsi (sì che, a prima lettura, sembrerebbe dar conto di varie decisioni cassatorie), indica in realtà sentenze che, nelle specifiche fattispecie, li avevano dichiarati inammissibili, qualificando il vizio denunciato come mero errore interpretativo. La tradizionale e consolidata “ritrosia” della Corte di cassazione a sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale “puro” nei confronti del legislatore emerge con evidenza anche dalla sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842, che, a fronte di un’ipotesi inconfutabile di “creazione” di un “principio di diritto” ignoto all’ordinamento (la normativa transitoria introdotta dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017, a vantaggio dell’amministrazione, in materia di autorizzazioni paesaggistiche), ha brillantemente “evitato” di entrare nel merito della questione e di esprimere in qualche modo un’opinione sul punto, sia pure con un mero obiter dictum, trincerandosi dietro l’argomento che il potere conferitole dall’art. 111, comma 8, Cost. opera solo rispetto alle pronunce che, “definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un vulnus all’integrità delle attribuzioni di altri” (e, dunque, non si estenderebbe alle – mere – regulae iuris create, in astratto, dall’Adunanza Plenaria!).”
[4] Cfr. par. 27 dell’ordinanza n. 2370.2023, Cass., Sez. un.
[5] Per approfondimenti, si v. A.M. Sandulli, Manuale, cit., in particolare 13 e 14 , ove si riconduce la Corte dei conti (limitatamente all’esercizio della funzione di controllo) nell’alveo dei poteri dello Stato, intendendosi, come tali, “ oltre agli organi costituzionali (coi rispettivi apparati, - che, per definizione, si trovano in posizione di superiorem non recognoscentes-, tutti i singoli organi e i vari complessi unitari dell’organizzazione statale, che godono (e nei limiti in cui godono), nel sistema, di una particolare posizione di autonomia qualificata. Tale posizione è caratterizzata dal fatto che i vari elementi dell’organo (ove ne esistono più) o del complesso non possono esser considerati sottoposti, nel loro operato, al sindacato giuridico (nel quale non rientra il controllo delle Camere, che è un controllo politico) di altri organi (sia pure costituzionali) estranei all’organo o al complesso, salvo il sindacato garantistico della Corte costituzionale (…)”.
[6] Per i profili storici, cfr. V.E. Orlando, Principii di diritto amministrativo, Firenze, 1891, 82 ss., ove l’Autore osserva, in relazione alla Corte dei conti, che “Uno dei lati più caratteristici di questo istituto consiste nella varietà grandissima della natura di esso, per cui ne dipendono funzioni ben disparate: diversità di funzioni la quale ha le sue conseguenze di ordine sistematico e fa sì che di quell’istituto si occupino discipline diverse. Con una espressione larghissima, si può tuttavia ricondurre a un concetto unico tutte queste funzioni diverse, e dire che la Corte dei conti esercita una sorveglianza suprema sull’amministrazione finanziaria dello Stato”; C. Ghisalberti, Corte dei conti (premessa storica), in E.d.D., XX, Milano, 1962, 853 ss.; AA.VV., Studi in onore di Ferdinando Carbone, Milano, 1970; G. Correale, Corte dei conti, in Dig. (disc. pubbl.), IV, Torino, 1989, 215 ss.; A. Bennati, Manuale di contabilità di Stato, XII, Napoli, 1990, 643 ss.; G. Carbone, La Corte dei conti, in L. Violante (a cura di), Storia d’Italia, Annali, XIV, Torino, 1998, 847 ss.; F. Tigano, Corte dei conti e attività amministrativa, Torino, 2008, 29 ss.;
[7] Cfr. G. Correale, Corte dei conti, cit., 215 ss.; A. Bennati, Manuale, cit., 646; G. Carbone, La Corte dei conti, cit., 847 ss.
[8] In particolare, si v. la l. n. 3853 del 15 agosto 1867; l. n. 290 del 25 giugno 1908.
[9] Cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 1958, 347; O. Ranelletti, La Corte dei conti nella legge 3 aprile 1933 n. 25, in Riv. di dir. pubbl., I, 625 ss.
[10] Per approfondimenti sul tema, cfr. le considerazioni svolte nella pronuncia della Corte cost., 17 giugno 1970, n. 110.
[11] La disciplina costituzionale è stata recepita dall’art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. impiegati civili), a mente del quale “l’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo.”
Per approfondimenti sulla formulazione e la portata applicativa dell’art. 28 Cost., anche in chiave critica, cfr. E. Casetta, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, 9.
[12] Sul tema, cfr. R. Alessi, La responsabilità della pubblica amministrazione, nell’evoluzione legislativa più recente, in Rass. dir. pubbl., 1949, I, 234 ss.; C. Esposito, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici secondo la Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 324 ss.; G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, 1958, 343; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1967, 515; F. Merusi, Dalla responsabilità verso i cittadini alla responsabilità dei dipendenti pubblici nei confronti della p.a., in Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, a cura di D. Sorace, Padova, 1988, 257; A.M. Sandulli, Manuale, cit., 1517-1527; A. Corpaci,L’esperienza dell’Italia, in La responsabilità pubblica nell’esperienza giuridica europea, a cura di D. Sorace, Bologna, 1994, 474 ss. Sul dibattito circa l’art. 97, co. 2, e sulla distinzione posta dalla dottrina riguardo all’art. 28, si veda C. Pinelli, Art. 97, 2 comma, in AA.VV., La pubblica amministrazione, Commentario della Costituzione, artt. 97-98, Bologna 1994, 294 ss.
[13] In dottrina, sui problemi teorici sorti in relazione al riconoscimento dell’esatto ruolo della Corte dei conti a livello istituzionale, cfr. P. Gasparri, Sui limiti del sindacato di legittimità della Corte dei conti, in Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, Padova, 1957, 632; F.G. Scoca, Fondamento storico ed ordinamento generale della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa, in Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme), Atti del LI Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Milano, 2006, 43 ss.
[14] Cfr. L. Carbone, V. Tenore, Il nuovo codice della contabilità pubblica, Roma, 2023.
[16] Cfr. M.S. Giannini, Svolgimento della dottrina delle responsabilità contabili, in Studi in onore di Emilio Betti, V, Milano, 1962, 185 ss.; F. Garri, La responsabilità per danno erariale, Milano, 1965; L. Schiavello, Rischio e responsabilità patrimoniale per deviazione delle attribuzioni di ufficio, Napoli, 1967; R. Alessi, Responsabilità amministrativa, in Nss. D.I., XV, 1968, 618 ss.; Id., Responsabilità amministrativa, ivi, 622 ss.; S. Buscema, La giurisdizione contabile, Milano, 1969; F. Garri, Danno: V) Danno erariale, in Enc. giur., X, 1988; G. Correale, Corte dei Conti, cit., 215 ss.; M. Dentamaro, Il danno ingiusto nel diritto pubblico. Contributo allo studio dell’illecito nella decisione amministrativa, Milano, 1996; A. Gigli e G. Lemmo, La nascita della responsabilità amministrativa, in La responsabilità amministrativa e il suo processo a cura di F.G. Scoca, Padova, 1997, 17 ss.; ivi anche A. Police, La disciplina attuale della responsabilità amministrativa, 61 ss. e, dello stesso Autore, La natura della responsabilità amministrativa, 145 ss.; F. Staderini, Responsabilità amministrativa e contabile, in D. Disc. pubbl., XIII, 1997, 200 ss.; A. Romano Tassone, La valenza sanzionatoria e quella risarcitoria della responsabilità amministrativa, in Le responsabilità pubbliche a cura di D. Sorace, Padova, 1998, 281 ss.; ivi anche F. Staderini, La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici tra risarcimento e sanzione, 299 ss.; C. De Bellis, Danno pubblico e potere discrezionale, Bari, 1999; E.F. Schlitzer, Profili sostanziali della responsabilità amministrativo-contabile, in L’evoluzione della responsabilità amministrativa a cura di E.F. Schlitzer, Milano, 2002, 41 ss.; S. Cimini, La responsabilità amministrativa e contabile. Introduzione al tema ad un decennio dalla riforma, Milano, 2003; A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, 2005; M. Atelli, P. Briguori, P. Grasso e A. Laino, Le responsabilità per danno erariale, Milano, 2006; M. Atelli, Responsabilità amministrativa e contabile, in Dizionario di diritto amministrativo a cura di M. Clarich e G. Fonderico, Milano, 2007, 611 ss.; P. Della Venturae L. Venturini, Le responsabilità finanziarie, in I giudizi innanzi alla Corte dei Conti a cura di F. Garri, G. Dammicco, A. Lupi, P. Della Venturae L. Venturini, Milano, 2007, 153 ss.; F. Fracchia, Corte dei Conti e tutela della finanza pubblica: problemi e prospettive, in Dir. proc. amm., 2008, n. 3, 699 ss.; E.F. Schlitzer, La responsabilità amministrativo-contabile del responsabile del procedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2011, 459 ss.; A. Altieri, La responsabilità amministrativa per danno erariale, Milano, 2012; C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in Contabilità di Stato e degli enti pubblici (Autori vari), Torino, 2013, 171 ss.; Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa a cura di M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini, Torino, 2016; G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. dir., Annali X, 2017, 756-794.
[17] Per una più ampia ricostruzione storica della disciplina sostanziale e dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento sul tema della responsabilità amministrativa per danno all’erario, si v. G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. Dir., Annali X, 2017, 757 ss.
[18] “Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti”.
[19] Per approfondimenti, cfr. L. Giampaolino, Prime osservazioni sull’ultima riforma della giurisdizione della Corte dei conti: innovazioni in tema di responsabilità amministrativa, in Foro amm., 1997, 3328 ss.; S. Cimini, La responsabilità, cit., 13 ss.
[20] Cfr. nota 20.
[21] Cfr. P. Maddalena, La responsabilità amministrativa degli amministratori degli enti pubblici economici e delle s.p.a. a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. amm., 1996, I, 445 ss.
[22] Cfr. G. Greco, L’ambito della giurisdizione contabile, in Riv. trim. dir. pubbl., 1967, 914 ss.
[23] In senso critico, cfr. F.G. Scoca, op. cit., 50-52, ove si afferma: “Nella ricerca di nuovi spazi per la sua giurisdizione la Corte ha intrapreso (…) anche strade diverse, forzando le disposizioni di legge che stabiliscono i presupposti necessari per la configurazione della responsabilità amministrativa. In particolare, fornendo una interpretazione estensiva dell’art. 52 t.u. C. conti (…). In altri termini, la relazione tra autore dell’illecito e amministrazione pubblica danneggiata si è andata allargando da rigoroso, e quindi esattamente individuabile, rapporto di impiego ad un più sfumato, e tuttora non definito, rapporto di servizio (…). Dalla sua indeterminatezza, il c.d. rapporto di servizio può dimostrarsi un punto di appoggio idoneo sul quale la giurisprudenza può far leva per estendere senza limiti precisi l’area della responsabilità amministrativa (…), in teoria fino ad assoggettarvi tutti coloro che, in un modo o nell’altro, giuridicamente o di fatto, vengono in contatto con una Amministrazione pubblica e stabiliscono con essa una relazione (anche soltanto funzionale)”.
[24] In argomento, ex plurimis, S. Pilato, La responsabilità amministrativa, Padova, 1999, 47 ss.; V. Tenore, op. cit., 103 ss.; C. Vitale, La Cassazione, il rapporto di servizio e la responsabilità amministrativa di soggetti privati, in Giorn. dir. amm., 2010, n. 2, 135 ss.; G. Bottino, Rischio e responsabilità amministrativa, Napoli, 2017, in particolare pt. II, cap. I, § 6; R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, XIII ed., 2019, Molfetta (BA), 1620-1623.
[25] A titolo meramente esemplificativo, la figura dell’agente pubblico rilevante ai fini della instaurazione di un rapporto di servizio può riguardare i medici di base; laboratori privati di analisi convenzionate con il sistema sanitario nazionale; associazioni di volontariato convenzionate con la pubblica amministrazione; cooperative affidatarie di progetti socialmente utili; istituti bancari concessionari dell’attività istruttoria finalizzata alla erogazione di contributi pubblici ai privati.
[26] In tal senso, cfr. Cass., Sez. un., 3 luglio 2009, n. 15599, ove si afferma che “(…) L’esistenza di un rapporto di servizio (…) è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della pubblica Amministrazione, con inserimento nell’organizzazione della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività stessa alle esigenze generali cui è preordinata”.
In dottrina, per approfondimenti, cfr. G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. diritto, Annali X, 2017, in particolare 765 ss.
[27] D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni nella l. 11 settembre 2020, n. 120, in particolare l’art. 21. Si veda anche la proroga (sino al 30 giugno 2023) del regime di limitazione della responsabilità erariale, ai sensi dell’art. 51, comma 1, lett. h), d.l. 77/2021, convertito nella l. 108/2021; nonché l’ulteriore proroga di un anno (sino al 30 giugno 2024) di suddetto regime transitorio, ai sensi della l. 21 giugno 2023, n. 74, di conversione con modifiche del d.l. 22 aprile 2023, n. 44, recante “disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche”.
[28] Si veda la precedente nota.
[29] P. Calandra, Il buon andamento dell’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, Milano, 1987; A. Police, Principi generali dell’azione amministrativa, in M.R. Spasiano, D. Corletto, M. Gola, D.U. Galetta, A. Police, C. Cacciavillani (a cura di), La pubblica amministrazione e il suo diritto, Milano, 2012, 73 ss.; C. Chiarello, Il buon andamento dell’amministrazione. D’Assemblea Costituente all’amministrazione digitale, Napoli, 2022; M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento, in Principi e regole dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Quarta ed., Milano, 2023, 121 ss.
[30] Per approfondimenti sulle tesi relative alla natura della responsabilità amministrativo-contabile, cfr. P.L. Rebecchi, Recenti fattispecie tipizzate di responsabilità amministrativa: incremento delle tutele o trappola della tipicità?, in www.amcorteconti.it; F. Garri, voce Responsabilità amministrativa, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; F. Staderini, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici tra risarcimento e sanzione, in Riv. C. conti, 1996, f. 2, 293 ss.; A. Police, La natura della responsabilità, cit., 145 ss.; F. Pasqualucci, Introduzione, in AA.VV. (a cura di E.F. Schlitzer), L’evoluzione della responsabilità amministrativa, Milano, 2002, 3 ss.; S.M. Pisana, La responsabilità amministrativa, Torino, 2007, 23 ss.; A. Vetro, Il dolo contrattuale o civilistico: applicazione nei giudizi di responsabilità secondo la più recente giurisprudenza della Corte dei conti, in www.lexitalia.it, 2011, f. 12.
[31]Sui profili civilistico-risarcitori dell’azione di responsabilità amministrativa, cfr. C. conti, Sez. Trentino-Alto Adige, 16 novembre 2016, n. 43; id., Sez. III app., 22 giugno 2016, n. 243; id., Sez. III app., n. 68/2015; id. Sez. Veneto, n. 53/2016, n. 65/2016 e n. 117/2016; id., Sez. Campania, ordinanza 7 marzo 2016, n. 63.
[32] Cfr., sulla natura extracontrattuale dell’illecito amministrativo in esame, v. C. cost., 29 luglio 1992, n. 383; Cass. sez. un., 5 agosto 2008, n. 21130; id., 25 luglio 2007, n. 16416; id., 3 aprile 2007, n. 8359, tutte in Ced. Cassazione; id., 25 ottobre, 1999, n. 744, in Giur. it. 2000, 1053 e in Urban. e app., 2000, 159.
In dottrina, in senso critico sulla teoria contrattuale, cfr. F. Garri, G. Dammicco, A. Lupi, P. Della Ventura, L. Venturini (a cura di), I giudizi, cit., 831.
[33] Sulla tesi della natura contrattuale, in giurisprudenza, tra molte, cfr. C. cost., 15 dicembre 1949, n. 32, in www.cortecostituzionale.it; C. conti, sez. I, 7 gennaio 1960, n. 1 e n. 52; id., sez. riun., 28 maggio 1956, n. 51.
In dottrina, v. E. Vicario, La Corte dei conti in Italia, Milano, 1938, 510 ss.; V. Vitta, Contrattualità della responsabilità del funzionario verso l’amministrazione pubblica, in Riv. C. conti, 1950, I, 13 ss.; Greco, In tema di responsabilità patrimoniale degli impiegati dello Stato, in Riv. C. conti, 1958, I, 4; F. Bassi, voce Responsabilità contabile, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 1412A. Bennati, Manuale di contabilità di Stato, Napoli, 1990, 765; F. Bassi, Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 1998, 297 ss.
[34] In tal senso, v. P. Maddalena, Per una nuova configurazione della responsabilità amministrativa, in Cons. St., 1976, II, 831; Id., Responsabilità civile e amministrativa: diversità e punti di convergenza dopo le l. 19 e 20 del 1994, in Cons. St., 1994, II, 1428 ss.; F. Staderini,Responsabilità amministrativa, cit., 206; F. Merusi, Pubblico e privato nell’istituto della responsabilità amministrativa, ovvero la riforma incompiuta, in F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007.
[35] Cfr. C. cost., 20 novembre 1998, n. 371, in Riv. amm. R. It., 1998, 945, con nota di P. Maddalena, in Foro amm., 1997, n. 11-12 e in Cons. Stato, 1998, II, 1609; Id., 30 dicembre 1998, n. 453, in Giust. civ., 1999, I, 647 e in Corr. giur., 1999, 367.
La specialità di tale forma di responsabilità, caratterizzata da una funzione compensativa-risarcitoria e da una concorrente finalità preventiva a tutela del buon andamento della p.a., è evidenziata da A. Police, La natura della responsabilità, in F.G. Scoca, La responsabilità amministrativa, cit., 154 ss. e da M. Sciascia, Manuale di diritto processuale contabile, Milano, 2018.
[36] Per approfondimenti quanto alla disamina delle tesi dottrinali sul problema definitorio circa la nozione di “danno” e di “danno erariale”, si v. S.M. Pisana, La responsabilità, cit., 90 ss.; A. Police, La disciplina attuale, in F.G. Scoca, La responsabilità, cit., 90 ss.
[37] Così Cass., Sez. un., ord. n. 2370 del 2023.
In dottrina, per approfondimenti, cfr. A. Canale, D. Centrone, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, controllo, Milano, 2022, in particolare 42 e 84 ss.
[38] Corte costituzionale, sentenza n. 371 del 1998.
In dottrina, cfr. G. Bottino, Rischio e responsabilità, cit.
[39] Tra le prime decisioni adottate in subiecta materia, cfr., tra molte, Corte conti, Sez. giur. Umbria, 5 ottobre 1995, n. 152; Corte conti, Sez. giur. Umbria, 4 dicembre 1997, n. 1; Corte conti, Sez. giur. Umbria, 23 gennaio n. 1998, in Riv. Corte conti, 2/1998, 99; Corte conti, Sez. giur. Piemonte, 19 febbraio 1998, n. 83, in Riv. Corte conti, 3/1998, 155.
[40] Cfr. le considerazioni effettuate dalla Corte dei conti, Sez. terza giur. d’appello, 26 settembre 2017, n. 479, ove si afferma che il danno da disservizio è una figura di sintesi di condotte colpevolmente disfunzionali che incidono sulla qualità del servizio, oltre che sulla sua materiale esecuzione.
[41] Cfr. M. Nunziata, Il danno da disservizio, in La Corte dei conti, cit., 251.
Per approfondimenti sul tema si veda, in particolare, C. Montanari, Il danno da disservizio, in comuni d’Italia, 2000, 1703, nonché in Finanza loc., 2000, 1633; S. Pilato, Il danno erariale ed il danno da disservizio, in Nuove autonomie, 2003, 483 ss.; E. Tomassini, Il danno da disservizio, in Riv. Corte conti, 3/2005, 334 ss.; S. Monzani, Servizi pubblici e tutela risarcitoria. Il multiforme rapporto tra utente e gestore, in La responsabilità dell’Amministrazione: quale giurisdizione?, M. Andreis (a cura di), Milano, 2009, 243 ss.; D. Buzzanca, Danno da dissesto, da disservizio, da mancata utilizzazione dei beni, in Trattato dei nuovi danni, P. Cendon (a cura di), Padova, 2011, vol. 6, 181 ss.; M. Interlandi, Danno da disservizio e tutela della persona, Napoli, 2013; S. Foa’, Nuove tipologie e classificazioni del danno erariale alla luce della giurisprudenza contabile, e G. Crepaldi, Qualità delle prestazioni, disservizio e tutela del cittadino-utente, in Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa, M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini (a cura di), Torino, 2016, 25 ss. e 111 ss.; M. Nunziata, Azione amministrativa e danno da disservizio, Torino, 2018.
[42] Cfr. ord. n. 2370.2023, Cass., Sez. un.
[43] Si veda la nota precedente.
[44] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Basilicata, 22 marzo 2006, n. 83, nonché Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374.
In dottrina, al riguardo si consulti G. Crepaldi, Qualità delle prestazioni, cit., 111-112.
[45] Cfr. M. Nunziata, Il danno, cit., 253.
[46] Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 2 febbraio 2015, n. 80.
[47] Corte conti, Sez. giur. prov. Trento, n. 130/2006.
[48] Corte conti, Sez. I app., 13 marzo 2014, n. 406. Cfr. anche Corte conti, Sez. giur. d’appello per la Regione Siciliana, dep. 31.12.2021, n. 228/A/2021.
[49] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Trentino-Alto Adige, 19 maggio 2009, n. 317; nonché Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 31 luglio 2015, n. 139.
[50] Quanto alla (prevalente) giurisprudenza che annovera il disservizio tra le forme di danno patrimoniale, si veda, tra molte, Corte conti, Sez. giur. Puglia, 6 luglio 2010, n. 444; Id. Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374; Id., Sez. giur. Veneto, 14 maggio 2014, n. 107; Id., Sez. giur. Campania, 10 giugno 2016, n. 331.
In dottrina, sulla natura patrimoniale del danno erariale si veda S. Cimini, Cattiva amministrazione da attività provvedimentale illegittima, in Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa, M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini (a cura di), Torino, 2016, 73-74.
[51] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374; Id., Sez. giur. Campania, 10 giugno 2016, n. 331.
[52] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Umbria, 22 marzo 2022, n. 12.
[53] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 31 luglio 2015, n. 139.
[54] Per approfondimenti, cfr. G. Bottino, Responsabilità, cit., 790 ss.
[55] Cfr. l’art.1, comma 1-bis, l. n. 20 del 1994.
[56] Art. 83, comma 1, l. cont. St., art. 52, comma 1, t.u. C. conti, art. 19, comma 2, t.u. imp. Civ. St.
[57] Presupposto per l’esercizio, da parte del pubblico ministero, dell’azione di responsabilità.
[58] Cfr. Corte cost., 12 giugno 2007, n. 183.
[59] Sulla questione, prima di Corte cost. n. 183 del 2007, cfr. P. Maddalena, La nuova conformazione della responsabilità amministrativa alla luce della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in TAR, 1999, n. 7-8, 261 ss.; D. Gasparrini Pianesi, La responsabilità amministrativa per danno all’Erario. Profili strutturali e funzionali della responsabilità, Milano, 2004, 52 ss.;
[60] Corte costituzionale n. 385 del 1996.
[61] Cfr. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006, n. 6582.
[62] Cass., Sez. un., 27 maggio 2007, n. 12248.
[63] Cfr. Cass., Sez. un., 2 novembre 2011, n. 22688.
[64] A sostegno delle considerazioni dianzi esposte, sul piano normativo si invocano le seguenti disposizioni: l’art. 172, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui prevede che sia i magistrati sia i funzionari amministrativi sono tenuti al risarcimento del danno subìto dei danni subìti dall’erario nelle ipotesi normativamente previste, secondo quanto previsto dalla disciplina in tema di responsabilità amministrativa; l’art. 5, co. 4, legge 24 marzo 2001, n. 89, che, in tema di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, prevede che il decreto di accoglimento della domanda venga(di equa riparazione) debba essere comunicato, in particolare tra gli altri, al procuratore contabile per l’eventuale avvio del procedimento di responsabilità; nonché l’art. 13, legge n. 117 del 1998, che, nei casi di responsabilità civile per fatti costituenti reato nell’ambito dell’azione di regresso, prevede l’applicazione delle norme sulla responsabilità dei pubblici dipendenti.
[65] Cfr. ordinanza in commento, ove si richiama, quale ulteriore argomento a sostegno della tesi sostenuta dal Collegio, la clausola di salvezza del giudizio di responsabilità contabile contenuta nell’art. 2, co. 3-bis, legge n. 117 del 1988.
[66] A titolo esemplificativo, nei casi di uso non istituzionale dei beni dell’ufficio.
[67] Sul tema del danno all’immagine della p.a., si veda, tra molte, la sentenza della Corte dei conti per la Campania, 12 gennaio 2023, n. 6, la quale ha stabilito che suddetta voce di danno, pur non comportando una diminuzione patrimoniale diretta, è comunque suscettibile di valutazione patrimoniale sotto il profilo delle spese necessarie per il ripristino del danno del bene giuridico leso.
[68] Relativamente alla vicenda in esame, cfr. anche Cass. pen., Sez. VI, 16 marzo 2022, n. 8870, la quale ha affermato che il ritardo del magistrato nel deposito delle sentenze non integra, di per sé solo, il reato di rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 c.p., se non sussista una indifferibilità dell’atto omesso.
[69] Cfr., tra molte, Cass., Sez. un., 7 ottobre 2019, n. 25020.
[70] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 7 dicembre 2015, n. 5572.
[71] Nella specie, si determinava in via equitativa il risarcimento del danno nell’importo pari al 20% delle risorse finanziarie stanziate dall’Amministrazione per retribuire il magistrato nell’arco temporale considerato.
[72] Cfr. Cass., Sez. un., ord. n. 2370. 2023, par. 19.
[73] Ibidem, par. 22.
[74] Cfr. Corte dei conti, Sez. giur. Lombardia, 10 giugno 2016, n. 95; nonché Cass., Sez. un., 11 aprile 2018, n. 22083.
[75] Sul tema dell’eccesso di potere giurisdizionale, si v. la recentissima Cass., sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, sulla questione delle proroghe delle concessioni c.d. balneari. A tal proposito, cfr. la nota n. 82.
In dottrina, oltre ai riferimenti presenti nella nota n. 2, cfr. G. Cocozza, Il percorso conformativo dell’eccesso di potere giurisdizionale, Napoli, 2017; M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questioni Giustizia, 1/2021; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2023, 356 ss. Inoltre, cfr. lezione inaugurale del 6 marzo 2023 della Prof.ssa M.A. Sandulli, cit.; nonché, da ultimo, le considerazioni espresse da G. Greco nell’ambito del convegno di Modanella, cit.; M.A. Sandulli, Conclusioni delle Giornate di studio, cit.
[76] Sulla difficoltà di riscontrare, in concreto, siffatta forma di eccesso di potere giurisdizionale, più volte qualificato dalla giurisprudenza in termini di vera e propria “produzione normativa”, cfr., tra molte, Cass., Sez. un., 15 luglio 2013, n. 11091, secondo cui “la figura dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è di rilievo meramente teorico, in quanto postulando che il giudice applichi non la norma esistente, ma una norma da lui creata, può ipotizzarsi solo a condizione di potere distinguere un’attività di formale produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa, ché, come si riconosce dalle più recenti ed accreditate teorie post illuministiche, non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in opera creativa della volontà di legge nel caso concreto”. In argomento, si v. anche Cass., Sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842, ove, a fronte dell’imputazione alla Adunanza plenaria dello sconfinamento nelle attribuzioni riservate al legislatore per avere esercitato una potestas iudicandi consistente nella modulazione degli effetti della sentenza creando ex novo una norma transitoria con efficacia erga omnes, la Corte dichiara il ricorso inammissibile, stante l’assenza di qualsivoglia carattere decisorio della statuizione che si limitava ad enunciare principi di diritto e restituiva, per il resto, la decisione alla Sezione remittente.
In dottrina, per approfondimenti cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., nonché M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit., e i rilievi espressi in occasione del convegno tenutosi presso l’Università degli Studi di Roma Tre, 11 febbraio 2022, Il caso Randstad Italia s.p.a.: questione di giurisdizione o di giustizia?, in questa Rivista, 17 febbraio 2022.
[77] Cfr. par. 26 dell’ordinanza in commento.
[78] Per approfondimenti, cfr. la lezione inaugurale del 6 marzo 2023 della Prof.ssa M.A. Sandulli, cit.
[79] Si v. le note nn. 1, 2 e 76.
[80] Cfr. Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 6, in Foro it., I, 2018, 373. In giurisprudenza, sull’interpretazione della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale in seguito a tale pronuncia, cfr., tra molte, Cass. Sez. un., n. 18259/2021 e n. 7839/2020.
In dottrina, cfr. A. Travi, Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in Giustamm.it, n. 11/2017; Id., Il giudice amministrativo come risorsa?, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[81] Si v. M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit.
[82] Per approfondimenti, si v. la recentissima Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, specie al par. 16, ove si afferma che: “Si è trattato di un diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale sulla base di valutazioni che, negando in astratto la legittimazione degli enti ricorrenti a intervenire nel processo, conducono a negare anche la giustiziabilità degli interessi collettivi (legittimi) da essi rappresentati, relegandoli in sostanza al rango di interessi di fatto. La sentenza impugnata, di conseguenza, è affetta dal vizio di eccesso di potere denunciato sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione rispetto ad una materia devoluta alla cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo”.
In dottrina, cfr. in particolare F. Francario, Il sindacato della Cassazione, cit.
[83] Per approfondimenti, cfr. F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia Spa, in Federalismi.it, n. 5, 9 febbraio 2022.
[84] Cfr. le considerazioni espresse da C. Contessa nell’ambito della lezione inaugurale del 6 marzo 2023, cit.
Inoltre, si v. quanto affermato da G. Greco nel convegno di Modanella, cit., in merito alla difficoltà di qualificare siffatta ipotesi in termini di invasione della sfera del legislatore ovvero della sfera dell’amministrazione. Sul tema, cfr. M.A. Sandulli, Conclusioni delle Giornate di studio, cit.
[85] Sul tema, si v. in particolare M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in QG, 3/2019.
[86] In argomento, cfr. le considerazioni espresse da R. Vaccarella nella lezione inaugurale, cit., il quale sottolinea l’importanza della pronuncia de qua per avere la Corte di Cassazione utilizzato, per la prima volta, una locuzione “dirompente” specificando che “la Corte dei conti per la Regione Siciliana ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale”.
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