ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ho partecipato ad un Exchange di gruppo, nell’ottobre 2021, presso la Procura di Monaco di Baviera.
Avevo scelto un exchange “ordinario” e non “specializzato” perché da più di tredici anni esercito le funzioni inquirenti presso la Direzione Distrettuale Antimafia (dapprima di Reggio Calabria e, dal 2015, di Milano) e, ancor prima, funzioni giudicanti, presso il Tribunale di Milano, in sezione dibattimentale specializzata in criminalità organizzata e, subito dopo, presso l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari.
Desideravo, quindi, una full immersion in materia ordinaria comparata, proprio per confrontarmi con una realtà di cui non mi occupavo da tempo.
Sapevo, inoltre, che il gruppo non sarebbe stato composto da più di tre o quattro colleghi e questo garantiva qualità dell’esperienza.
Qualche giorno prima, invece, la mia “tutor” – la collega della Procura di Monaco Elke Schulz – mi inviava una mail con la quale comunicava la decisione di accorpare il nostro gruppo ad un altro, che aveva come “tutor” la collega Petra Wagner, della Procura Generale di Monaco.
Diventammo, così, otto.
“Tutto sommato più divertente” pensai.
Il gruppo era composto in maniera eterogenea: soltanto un altro collega italiano, Luigi Boccia, della Procura di Pistoia. Gli altri partecipi provenivano da: Spagna, Austria, Estonia, Lettonia, Polonia.
Tutti pubblici ministeri, di cui una (la collega austriaca) in servizio presso il Ministero della giustizia.
L’esperienza si è rivelata incredibilmente interessante – come mai avrei immaginato – sia dal punto di vista professionale che personale.
L’Exchange si è svolto interamente in lingua inglese.
La nostra settimana – impeccabilmente organizzata dalle nostre due eccezionali tutor – si è svolta attraverso una serie di incessanti impegni quotidiani quali:
- partecipazione ad udienze (con l’ausilio di interprete per chi non parlava il tedesco);
- incontri con colleghi dei vari uffici, nell’ambito dei quali ci è stato illustrato il complesso sistema giuridico tedesco, con la presentazione di istituti (anche con slides), a cui seguiva l’interessante confronto tra tutti noi. Ciascuno illustrava dapprima la regolamentazione dell’istituto giuridico nel paese d’appartenenza e poi la concreta esperienza sul campo;
- incontri con la Polizia Giudiziaria, nell’ambito dei quali sono state affrontate tematiche relative a tecniche d’indagine e casi pratici;
- una visita ad ospedale psichiatrico giudiziario, nel cui contesto abbiamo affrontato la tematica del vizio totale o parziale di mente, sempre in ottica comparata.
Il confronto è sempre stato eccezionalmente interessante e proficuo.
A tale entusiasmante esperienza professionale si è unita un’incredibile esperienza anche dal punto di vista personale.
Le nostre fantastiche Tutor, Elke e Petra, infatti, hanno perfettamente organizzato anche le nostre serate insieme, con ottime cene in locali tipici bavaresi, gite fuori porta, come la bellissima Norimberga, con la visita al museo del famoso processo (nessun pubblico ministero può esimersi dal leggere l’inizio della requisitoria di quel PM, per ritrovare il senso profondo del nostro mestiere).
Petra ed Elke hanno persino organizzato il weekend successivo alla fine dell’Exchange, con la visita al campo di sterminio nazista di Dachau o, per chi avesse preferito un’esperienza meno impegnativa, in un bellissimo castello immediatamente fuori Monaco di Baviera.
È stato un tempo incredibilmente ricco di esperienze ed emozioni.
Il gruppo si è immediatamente e spontaneamente amalgamato.
Si è passati da serate spensierate ed allegre a momenti intensi ed emozionanti, indimenticabili, come quello vissuto presso il campo di concentramento di Dachau.
Ma vi è di più, si è creata una sincera e spontanea amicizia tra tutti noi, tanto che, rientrati in Italia, abbiamo continuato a sentirci nella chat di gruppo e, un po' tristi per il distacco, ho lanciato un’idea: organizziamo i “nostri Exchange spontanei”!
Ho proposto di rivederci, ciclicamente, in ciascuna delle città di provenienza per replicare l’incredibile e formativa esperienza che avevamo appena condiviso.
E così è stato!
Abbiamo iniziato da Madrid, ospiti della collega Eva della Cera. Sono stati quattro giorni intensi e proficui, in cui il gruppo si è ancor di più coeso.
Dopo qualche mese, abbiamo organizzato l’Exchange a Milano, dove i colleghi si sono intrattenuti per un lungo weekend.
Ho organizzato loro incontri con i vertici degli Uffici Giudiziari e le Forze dell’Ordine (con una visita ad una caserma dei Carabinieri e rappresentazioni pratiche, sia degli artificieri, che dei laboratori di analisi), oltre che partecipazione a udienze penali e civili.
Ovviamente non è mancata l’organizzazione del tempo libero, con la visita al Cenacolo vinciano e una serata al Teatro alla Scala.
Ne sono stati entusiasti.
Adesso stiamo organizzando il “nostro” Exchange a Vienna, nei prossimi mesi.
Entusiasta dell’esperienza precedente, ho chiesto ed ottenuto di partecipare ad un altro Exchange, nell’ottobre 2022, questa volta in “criminalità organizzata” e “individuale” presso la Procura di Offenburg.
Memore della atmosfera amicale che si era creata nel primo Exchange, temevo di trovarmi in una situazione completamente diversa, in un ufficio di cui non sapevo assolutamente nulla e in una realtà decisamente più piccola da quella di Monaco di Baviera.
L’esperienza, invece, pur diversa, è stata incredibilmente ricca, anche qui, sia dal punto di vista professionale che umano.
Il mio Tutor, in questo caso, era il Procuratore aggiunto Rainer Hornung – Jost.
Il primo impatto è stato di elevata professionalità, per poi scoprire, anche in questa occasione, colleghi capaci anche di straordinaria umanità.
Sono stata immediatamente presentata a tutto l’Ufficio di Procura ed immersa nella loro impeccabile organizzazione.
Ho studiato fascicoli (che il collega pazientemente mi traduceva in inglese) e partecipato ad udienze.
Ho preso parte alla riunione settimanale tra Procuratore aggiunto e sostituti ed alle varie riunioni con la Polizia Giudiziaria.
Sono stata invitata a relazionare a tutti i colleghi della Procura sul sistema giudiziario italiano e ho predisposto delle slides (ovviamente sempre in inglese).
Ho constatato enorme interesse, sia per la parte relativa all’ordinamento giudiziario italiano, che alla criminalità di stampo mafioso.
Ho visitato il carcere di Offenburg accompagnata dalla direttrice.
Ovunque ho trovato elevata professionalità e grande umanità.
Desiderio di autentico confronto nella consapevolezza dell’arricchimento reciproco.
Le pause pranzo, trascorse con il Procuratore aggiunto e gli altri colleghi, rappresentavano ulteriori momenti di conoscenza e arricchimento.
Come ho detto loro nel ringraziarli e congedarmi alla fine della settimana, sono riusciti a farmi sentire parte integrante del loro ufficio.
Non era per nulla scontato e l’ho considerato un grande onore.
La partecipazione ad un Exchange consente, a mio avviso, non soltanto lo scambio di reciproche competenze ed esperienze nell’ottica, come dicevo, di un reciproco arricchimento ma rappresenta una straordinaria occasione per la costruzione di relazioni personali preziose, sia dal punto di vista professionale, che umano.
Sulla scia degli “Exchange spontanei”, infatti, nel dicembre del 2022 sono stata invitata a Monaco di Baviera dalle colleghe Tutor Elke Schultz e Petra Wagner e, in quella occasione, è stato organizzato un interessante incontro presso la Procura di Traustein, con il Procuratore ed i sostituti.
Anche in quella occasione, lo scambio è stato eccezionalmente proficuo.
E, poiché “Exchange” genera “Exchange”, a margine dell’incontro, la collega della Procura di Traustein, Anna Rein, particolarmente appassionata di criminalità di stampo mafioso, dopo avere ascoltato il mio intervento, ha chiesto di poter effettuare un Exchange presso il mio ufficio, la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano.
La collega ha così chiesto alla EJTN l’autorizzazione a venire in Italia, con un programma di lavoro concordato con me, che è stato ritenuto meritevole di approvazione.
La collega Rein ha lavorato presso la DDA Milano nell’ultima settimana di marzo 2023, inserendosi perfettamente nella organizzazione del mio ufficio e partecipando con grande entusiasmo a tutte le attività, udienze comprese.
Si è talmente appassionata alla criminalità organizzata di stampo mafioso che, tornata presso la Procura di Traustein, ha evidentemente trasferito il suo entusiasmo al Procuratore, che mi ha invitata a tenere una relazione ai colleghi sul sistema giudiziario italiano e sulle mafie italiane.
E, poiché Exchange genera Exchange … sono convinta che non sia finita qui.
*Procura Milano, DDA.
Il 6 aprile u.s. è stata pubblicata la sentenza delle sezioni unite civili n. 9479/2023, sulla quale ci siamo già brevemente intrattenuti (Primissime considerazioni su SS. UU. 6 aprile 2023 n. 9479, in questa Rivista dal 19 aprile 2023; v. anche G. Scarselli, La tutela del consumatore secondo la CGUE e le Sezioni Unite, e lo Stato di diritto secondo la civil law, in www.judicium.it dal 12 aprile 2023).
Il 4 maggio 2023 la Corte di Giustizia (nona sezione) ha pubblicato la decisione nella causa C-200/21, instaurata a seguito di rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale Superiore di Bucarest (25 febbraio 2021) avente ad oggetto la direttiva 93/13/CEE e la conseguente tutela del consumatore in un’esecuzione forzata intrapresa in forza di un contratto di mutuo che, secondo il diritto rumeno (così come nel nostro), costituisce titolo esecutivo.
Nel corso di un’espropriazione presso terzi (avente ad oggetto conti correnti presso vari istituti bancari), l’esecutato ha opposto che due clausole del contratto di mutuo erano da considerarsi abusive: per aver previsto una commissione di apertura del fascicolo relativo alla concessione del credito e una commissione mensile per il trattamento e la gestione dello stesso credito.
L’opposizione (corrispondente alla nostra opposizione all’esecuzione) è stata tuttavia rigettata in primo grado per tardività, perché il diritto rumeno non consente la proposizione di un’opposizione all’esecuzione una volta decorsi quindici giorni dai primi atti esecutivi.
Nel giudizio di appello, il Tribunale Superiore di Bucarest (la nostra Corte d’appello) ha però sollevato la questione pregiudiziale circa il contrasto tra la direttiva 93/13/CEE e il diritto nazionale rumeno appunto laddove prevede, con clausola generale, un termine di quindici giorni entro il quale il debitore può invocare, nell’ambito di un’opposizione esecutiva, il carattere abusivo di una clausola contrattuale.
La risposta della Corte è stata la seguente:
«La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretata nel senso che:
essa osta a una disposizione di diritto nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione, investito, scaduto il termine di quindici giorni impartito da tale disposizione, di un’opposizione all’esecuzione forzata di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista, che costituisce titolo esecutivo, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di tale contratto, quando tale consumatore abbia a disposizione, peraltro, un ricorso nel merito che gli consente di chiedere al giudice investito di tale ricorso di procedere a un siffatto controllo e di ordinare la sospensione dell’esecuzione forzata fino all’esito di detto ricorso, conformemente a un’altra disposizione di tale diritto nazionale, nel caso in cui detta sospensione sia possibile solo dietro versamento di una garanzia il cui importo è tale da dissuadere il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Qualora non si possa procedere a un’interpretazione e a un’applicazione della legislazione nazionale conformi alle disposizioni di tale direttiva, il giudice nazionale investito di un’opposizione all’esecuzione forzata di un siffatto contratto ha l’obbligo di esaminare d’ufficio se le clausole di quest’ultimo presentino un carattere abusivo, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione nazionale che osti a un siffatto esame».
Proprio la diversità rispetto al caso deciso dalla SS.UU. n. 9479/2023 induce a riflettere sulla correttezza dell’articolata costruzione che la S.C., a proposito del decreto ingiuntivo non opposto, ha individuato nel nostro diritto interno per renderlo compatibile col diritto europeo. Infatti, in entrambi i casi veniva in rilievo un titolo esecutivo (decreto ingiuntivo non opposto, nel caso della SS.UU. n. 9479/2023; contratto di mutuo nel caso della sentenza europea del 4 maggio 2023) e la tutela che, rispetto ad esso, il diritto interno (rispettivamente, italiano e rumeno) poteva assicurare. In entrambi i casi, il punto di emersione della questione interpretativa era collocato all’interno del processo esecutivo, perché nel primo caso il problema era sorto in sede di opposizione agli atti proposta in sede distributiva (e qui l’opposizione ha un chiaro contenuto di merito), nel secondo caso in sede di opposizione all’esecuzione.
Il dispositivo redatto dalla Corte europea nel caso italiano non è, a ben vedere, molto diverso da quello adottato nel caso rumeno; si vuole infatti che:
«L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l'autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo».
Nell’un caso il titolo si presentava intangibile per un fenomeno preclusivo, apparentato al giudicato; nell’altro caso, l’opposizione era inammissibile perché proposta oltre il termine di quindici giorni a decorrere dalla notifica “dei primi atti del procedimento”.
In entrambi i casi, la Corte europea fa riferimento ai poteri spendibili nell’esecuzione o dal giudice che la dirige, o dal giudice dell’opposizione esecutiva. E a noi sembra naturale che la risposta dell’ordinamento debba essere collocata lì dove la questione emerge, se non altro per garantire la tempestività della tutela.
Sarebbe interessante conoscere il seguito che la giustizia rumena darà alla sentenza interpretativa del 4 maggio 2023; e ci sorprenderemmo molto se sarà una risposta esterna al processo esecutivo o alle opposizioni che da questo originano, potendo certo immaginarci che il contratto di mutuo, nel diritto rumeno, potrà essere oggetto di impugnative contrattuali totalmente svincolate dall’esecuzione forzata iniziata sulla base del titolo costituito da quello stesso contratto. Non ci immaginiamo, però, come il giudice chiamato a conoscere della legittimità di tale contratto potrebbe sospendere l’esecuzione in atto, come invece può fare, nel nostro caso, il giudice dell’opposizione tardiva a d.i.
Il dubbio che sorge, in altri termini, è che nel nostro caso la S.C. possa essere stata fuorviata dal fatto che il titolo costituito dal decreto ingiuntivo può essere sospeso sia dal giudice dell’opposizione tardiva, sia dal giudice dell’opposizione a precetto (ovviamente, per diverse ragioni) e che, dal canto suo, il giudice dell’esecuzione può sospendere il processo esecutivo ove venga proposta un’opposizione.
Ci sembra inoltre ragionevole che la tutela accordata al consumatore in applicazione della direttiva 93/13/CEE non possa essere diversa a seconda della natura del titolo che venga in considerazione: perché il caso rumeno potrebbe porsi in futuro anche nel nostro ordinamento, e in tal ipotesi la soluzione (peraltro non semplice, né lineare) indicata dalle SS.UU. non potrebbe essere duplicata.
1. Nel dibattito recentemente riapertosi sulla cd. prevenzione antimafia, intesa ai fini che qui interessano quale complesso di regole che disciplinano la apprensione dei beni appartenenti ai mafiosi, occorre ricordare un dato ineludibile ossia quello della “centralità” del sistema di prevenzione patrimoniale rispetto al fenomeno mafioso.
Introdotte per la prima volta trent’anni fa con la legge Rognoni La Torre del 1982 il ricorso alle misure patrimoniali ablatorie ha assestato un duro colpo alle consorterie criminali e ciò sulla base di un dato incontrovertibile secondo il quale sottrarre ai gruppi mafiosi patrimoni vuole dire prima di tutto privarli di potere e capacità di condizionamento dei territori .
Viene spesso ribadito da autorevoli esponenti delle istituzioni come sia essenziale che la azione di sottrazione dei beni alla mafia sia costante e sia continua.
E, quindi, il primo elemento da evidenziare è quello della centralità del sistema delle misure di prevenzione rispetto alla esigenza statuale di assicurare forme di contrasto alla espansione criminale delle mafie che ha assunto sempre più una dimensione imprenditoriale.
È noto, infatti, che i gruppi criminali hanno assunto carattere economico patrimoniale rivelando i connotati di vere e proprie multinazionali del crimine capaci di operare nel mercato legale insieme alle realtà sane nelle quali peraltro tendono a mimetizzarsi ed infiltrarsi.
Nell’ultimo rapporto della DIA per il periodo gennaio- giugno 2022 viene precisato che i gruppi camorristici del casertano – ancor più di quelli del napoletano - sono in grado di esercitare un “capillare controllo dell’economia legale tramite una partecipazione financo diretta in aziende, imprese e attività commerciali sino ad occupare intere filiere produttive” avendo una propensione ad un “modello criminale di tipo imprenditoriale” e la correlata capacità di infiltrarsi nel tessuto economico della provincia.
È quindi necessario che la centralità del sistema della prevenzione venga ribadita da tutti coloro che cooperano nello specifico settore di competenza ed in particolare da chi se ne occupa nella prima fase del procedimento di ablazione patrimoniale ossia in quella giudiziaria.
2. La magistratura incontra, tuttavia, enormi difficoltà nel suo lavoro di selezione dei beni da sequestrare e confiscare anche in ragione di una normativa che da un lato è ancora lacunosa e dall’altro, essendo fondata su presupposti diversi da quelli propri del processo penale, è soggetta a continui interventi sia del giudice della legittimità che del giudice costituzionale e ciò crea a volte un rallentamento della azione di prevenzione affidata alla magistratura .
Anche perché è ancora massicciamente presente l’idea che la intera legislazione antimafia sia una legislazione del sospetto che si nutre di pulsioni giustizialiste secondo una rappresentazione non più attuale e che non tiene conto delle profonde modifiche apportate alla interpretazione della legislazione antimafia dal sindacato di costituzionalità e dalla evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
Pur tuttavia questa visione della prevenzione rischia di mettere in crisi un intero sistema rendendolo più fragile e più esposto alle valutazioni critiche provenienti non solo dalla componente forense, in ragione della legittima tutela dei diritti di difesa che si sostengono non completamente esercitabili in detta sede, ma anche da una opinione pubblica condizionata da poche e limitate vicende rappresentative di isolati comportamenti pregiudizievoli.
Importanti sentenze della Corte Costituzionale, prima fra tutte la n. 24 del 2019, hanno “nobilitato” le misure di prevenzione ed hanno ragionato a chiare lettere sul presupposto giustificativo della confisca di prevenzione individuandolo nella “ragionevole presunzione che il bene si stato acquisito con i proventi di attività illecita”; presunzione (relativa) fondata sul riscontro della sproporzione tra bene e reddito o attività economiche del soggetto titolare dei beni - sproporzione che denota una accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono idonee a produrre (cosi la sentenza n. 33 del 2018 sulla confisca allargata).
È la Corte Costituzionale nel 2018 a scrivere che rispetto al fenomeno dell’accumulazione di ricchezza illecita da parte della criminalità organizzata, che è un fenomeno particolarmente allarmante “a fronte del possibile reimpiego delle risorse per il finanziamento di ulteriori attività illecite ovvero del loro investimento nel sistema economico legale, con effetti distorsivi del funzionamento del mercato”, e che quindi deve essere contrastato, la confisca tradizionale appare inidonea nella parte in cui occorre dimostrare un nesso di pertinenza tra i beni da confiscare ed il singolo reato per cui è pronunziata condanna.
Sono le SS.UU. della Corte di Cassazione nel 2015 (sent. 4880/2015) a chiarire che nei casi della illecita accumulazione di beni esisterebbe un vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà in capo a chi ne ha acquisito la materiale disponibilità “risultando sin troppo ovvio - scrivono - che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico”. Conseguentemente la confisca non ha una funzione punitiva quanto piuttosto la funzione di “neutralizzare quell’arricchimento di cui il soggetto non potrebbe godere se non fosse stata compiuta la attività criminosa presupposta”.
E quindi la ablazione patrimoniale ha “finalità ripristinatoria” (e non afflittiva) e quindi serve a restituire il bene - sottratto al circuito criminale - o al precedente titolare che ne fosse spogliato o in mancanza alla collettività che a questo punto lo riceve per perseguire finalità di pubblico interesse.
3. La complessità del sistema della prevenzione antimafia rivela, piuttosto, la sua effettività nella seconda fase del procedimento cd bifasico della prevenzione relativo alla gestione ed amministrazione dei beni .
Qui esistono indubbie debolezze di sistema che dovrebbero convincerci tutti della necessità:
- di rivedere la parte relativa alle amministrazioni giudiziarie lasciate alla capacità ed alla onestà intellettuale del singolo magistrato
- di ridiscutere una volta per tutte i poteri oltre che l’organico della ANBSC
- di delineare i compiti di ausilio di quest’ultimo organo che solo raramente vengono esercitati e che, invece, dovrebbero costituire un punto fondamentale nella gestione dei beni e delle aziende a partire dal sequestro.
È inutile ripetere che la destinazione dei beni a fini di riuso è difficile perché i beni restano per anni abbandonati, perché le procedure sono lunghe e perché si impiegano anni per confiscare, perché le aziende non sono amministrate correttamente e cosi via se non si comprende che il procedimento di prevenzione è procedimento giurisdizionale e quindi soggetto a tre gradi di giudizio e che il momento cruciale di ogni procedura deve essere individuato nella fase del sequestro.
È in questo momento che devono essere impiegate le energie di tutti gli operatori per avviare una costruzione che sia fondata su pilastri adeguati in modo da poter reggere nel futuro.
È intuitivo che le scelte di gestione adottate nella fase del sequestro (si pensi alle scelte gestionali che attengono alla gestione per conto di chi spetta: esecuzione di contratti preliminari di compravendita, pagamento di condoni edilizi, pagamento delle spese di manutenzione degli immobili che non sono concessi in locazione; pagamento delle rate di mutuo, revisione delle organizzazioni aziendali ) incidono e possono segnare l’utilizzo e la futura destinazione dell’intero compendio appreso.
Dovremmo cercare di trovare, allora, delle soluzioni normative che anticipino al momento del sequestro, che spostino a monte e non a valle, la presenza nella procedura di prevenzione degli organi preposti alle valutazioni finalizzate alla assegnazione del bene oltre ad individuare meccanismi di compensazione nella ipotesi di restituzione del bene nel corso della procedura: soluzioni normative che consentano di “convalidare” il lavoro svolto dalla magistratura con il decreto di sequestro dei beni inaudita altera parte in vista di una ‘assegnazione del bene anticipata’ rispetto al provvedimento di confisca così da rendere più agevole il percorso affidato in buona sostanza al giudice delegato della procedura.
Questa esigenza è particolarmente avvertita dai giudici della prevenzione e devo dire che in molti uffici giudiziari, tra i quali si annovera il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, si è cercato di porre rimedio a questa situazione con la stesura di un documento d’intesa che ha la finalità di mettere attorno ad un tavolo le istituzioni che sono deputate al vaglio delle scelte di destinazione del bene.
Il Protocollo siglato nel settembre del 2021 tra il Tribunale di SMCV, la Prefettura di Caserta e la ANBSC, oltre l’ABI e la Regione Campania, si pone l’obiettivo di prevedere meccanismi d’intervento che servano a gestire concretamente e senza perdite di valore determinate da mala gestio, sin dalla fase del sequestro, i beni immobili oggetto di ablazione, anche al fine di incrementarne, se possibile, la redditività e per agevolarne l’eventuale successiva devoluzione allo Stato o agli altri Enti previsti dalla legge, liberi da oneri e da pesi.
In quest’ottica, considerando che le aziende sequestrate normalmente subiscono un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica con effetti negativi anche sotto il profilo occupazionale, si pone l’obiettivo di recuperare, fin dal momento della esecuzione del sequestro, le competenze professionali, lavorative e di consulenza da coinvolgere nella gestione del patrimonio acquisito alla procedura, con il duplice obiettivo di salvaguardare, ove possibile, l’unità aziendale e l’occupazione, anche attraverso la creazione di una nuova imprenditorialità caratterizzata da creatività, legalità e sviluppo, e ciò anche nella prospettiva di una proposta finale in merito alla destinazione del bene confiscato.
L’iniziativa è volta, dunque, a consentire la continuità delle attività delle imprese, operanti nel territorio locale, sottoposte a sequestro, secondo i canoni della legalità, tramite una rapida assegnazione, anche temporanea, del bene sin dalla fase del sequestro avvalendosi in primis della collaborazione della Agenzia che, come si legge nel Documento, “interviene nel procedimento funzionale all’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni sottratti alla criminalità svolgendo, nella fase c.d. “giudiziaria”, attività di programmazione, consulenza e affiancamento all’Autorità Giudiziaria nell’amministrazione e custodia dei beni nonché attività di acquisizione e analisi dei dati e verifica dello stato dei beni mentre, nella fase c.d. “amministrativa”, è responsabile della gestione operativa dei beni confiscati, nonché dell’adozione di iniziative e provvedimenti necessari per la tempestiva destinazione dei beni “ e si impegna a:
- partecipare al tavolo istituito dal protocollo attraverso un proprio rappresentante che verrà individuato dal Direttore;
- condividere con i firmatari le informazioni ritenute necessarie a giungere a destinazione dei beni confiscati rispettando le procedure e le tempistiche dettate dalla normativa con l’obiettivo di restituire alla comunità i beni confiscati in condizioni ottimali per il riutilizzo e, nel caso di beni aziendali, salvaguardando i livelli occupazionali;
- fornire supporto all’amministrazione dei beni sequestrati di particolare rilevanza o complessità “
L’art. 40 del codice antimafia consente espressamente al comma 3-ter la concessione anticipata dei beni immobili per finalità sociali. La norma è di particolare rilievo: introdotta nel 2017 unitamente ad altri istituti con valenza riformatrice ed integratrice (tra i quali non va dimenticato l’istituto del cd. controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis), prevede espressamente la possibilità di concedere in comodato i beni immobili sequestrati ai soggetti di cui all’art. 48 ossia agli enti territoriali perché ne facciano uso per finalità sociale finchè non intervenga il provvedimento definitivo di confisca .
Essa mira, dunque, alla anticipazione degli effetti di maggiore valore sociale propri della ablazione patrimoniale ma richiede allo stato una valutazione empirica del giudice della prevenzione che potrebbe esporlo a rischi di gestione.
La strada intrapresa con questa norma e con i tanti Protocolli degli Uffici giudiziari più avveduti andrebbe allora proseguita con nuove interpolazioni normative ed in tempi rapidi per assicurare un funzionamento reale del sistema della prevenzione che, non dimentichiamoci, assolve ad una funzione regolatrice del tessuto sociale e disvelatrice degli interessi economici che di esso si alimentano per trarne strumenti di ricchezza e di espansione speculativa.
Non vi sono altre strade per uscire dalla retorica di una critica generalizzata e poco accorta.
*Presidente del Tribunale di S.M.C.V.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La disciplina delle sopravvenienze: un problema generale di adeguatezza? – 3. Segue: le sopravvenienze atipiche (o non codificate). – 4. Il contratto di locazione ad uso commerciale. – 5. Il contratto di locazione a uso abitativo. – 6. L’affitto di azienda. – 7. La locazione finanziaria (o leasing).
1. Premessa.
Lo stato di emergenza[1] in cui versava l’Italia, derivante dalla diffusione del Covid-19, ha imposto una revisione transeunte del contemperamento tra i diritti dei singoli e l’interesse della collettività. Accanto alla crisi sanitaria e a quella economica, si è manifestata anche una crisi giuridica, determinata dall’enorme mole di previsioni legislative prodotte durante il periodo emergenziale e dal difficile contemperamento delle stesse con il sistema normativo vigente. In particolare, la pandemia ha alimentato la discussione giuridica su numerosi istituti del diritto civile e sulla tenuta stessa del diritto delle obbligazioni e dei contratti.
Il suddetto dibattito ha ad oggetto, da un lato, l’adeguatezza del sistema rimediale delle sopravvenienze rispetto ai rapporti negoziali pregiudicati e, dall’altro, l’impatto dell’emergenza sanitaria e delle misure di contenimento adottate dal governo sui contratti in corso di esecuzione.
2. La disciplina delle sopravvenienze: un problema generale di adeguatezza?
Occorre osservare come le sopravvenienze tipiche, ossia l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e l’eccessiva onerosità, non abbiano potuto dispiegare particolare utilità rispetto alle contingenze richieste a causa del virus.
Per quanto concerne l’impossibilità sopravvenuta poiché il pagamento del canone di locazione costituisce un’obbligazione pecuniaria, in virtù del principio genus numquam perit, essa non appare suscettibile di estinzione per impossibilità sopravvenuta, non essendo l’oggetto di simile impegno obbligatorio naturalmente esposto a rischi di materiale perimento o di indisponibilità giuridica. In conseguenza di ciò, secondo la Relazione tematica della Corte di Cassazione n. 56 dell’8 luglio 2020, l’operatività che un simile strumento può dispiegare rispetto alle contingenze discendenti da una pandemia non possono che essere circoscritte, da un lato, alla disciplina dell’impossibilità parziale, in ragione del pagamento ridotto del canone e, dall’altro, alla regolamentazione di quella temporanea, connessa all'osservanza delle prescrizioni “anti-Covid”.
Per quanto riguarda l’eccessiva onerosità una parte degli interpreti sostiene l’inidoneità dell’istituto in questione per risolvere la crisi dovuta al coronavirus, perché trascurerebbe l’ipotesi in cui il contraente in difficoltà ha interesse non a sciogliersi dal vincolo contrattuale, bensì a mantenere in vita il rapporto. Il ricorso a questo rimedio è stato criticato dalla giurisprudenza, secondo la quale la prestazione, ossia la corresponsione del canone di locazione, è sempre possibile. Infatti, richiedere la riduzione del canone significherebbe invocare motivi riguardanti il reddito di impresa, che fanno parte dell’ordinario rischio dell’imprenditore, che dovrebbe rimanere a carico del conduttore.
Ancora, parte della letteratura afferma, invece, che la pandemia darebbe luogo sia a un’impossibilità sopravvenuta sia a un’eccessiva onerosità. Infatti, l’alterazione del sinallagma, dovuta alle misure di contenimento, può riguardare sia l’onerosità della prestazione di una delle parti, sia appartenere all’impossibilita totale o parziale che interessa la prestazione cui sarebbe tenuto uno dei contraenti.
3. Segue: le sopravvenienze atipiche (o non codificate).
Parte della dottrina riconduce tra le sopravvenienze atipiche anche la pandemia da Covid-19, e sostiene che, in riferimento ai contratti di locazione, potrebbe essere invocato l’istituto della presupposizione. Infatti, con il venir meno della difficoltà nel fornire la prova di un fatto implicitamente considerato dalle parti, l’applicazione della presupposizione sembrerebbe ammissibile, anche se si ritiene che l’interprete finirebbe per scegliere alternativamente tra la risoluzione per eccessiva onerosità e quella per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Secondo altra parte della dottrina, non potrebbe essere ipotizzato anche uno spazio applicativo per la presupposizione, in quanto quest’ultima, invece di mirare alla conservazione del contratto, è volta alla cancellazione del vincolo negoziale.
4. Il contratto di locazione ad uso commerciale.
Contrariamente a quanto è avvenuto in ordinamenti giuridici stranieri[2], in Italia non sono stati emanati provvedimenti legislativi specifici per risolvere il problema relativo all’impatto delle misure di contenimento sulle locazioni commerciali. Infatti, sono state introdotte alcune agevolazioni tributarie di portata generale, sotto forma di crediti d’imposta. Dunque, non è stato previsto la sospensione del canone, tanto è vero che il credito è riconosciuto solo a séguito del pagamento del corrispettivo.
La dottrina prevalente ha messo in risalto come la legislazione emergenziale[3] non autorizzi il conduttore di un immobile commerciale, la cui attività risulti sospesa dai provvedimenti governativi, a non pagare o a sospendere ovvero ridurre/rinegoziare il pagamento del canone di locazione. La legittimità della sospensione totale o parziale del canone sarebbe possibile solamente qualora venga a mancare la controprestazione del locatore. Infatti, una riduzione autonoma del corrispettivo periodico costituirebbe un’alterazione del sinallagma contrattuale, con conseguente squilibrio delle prestazioni.
La giurisprudenza ha affrontato molte domande della parte locataria di sospensione ovvero di revisione del canone locatizio. A questo proposito, peculiare importanza riveste l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma il 29 maggio 2020, che si è occupata della riduzione del canone di un esercizio commerciale a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia. L’impossibilità era considerata, da un lato, parziale, in quanto il negozio non serviva più come spazio di vendita, ma restava utilizzabile come magazzino per le merci del rivenditore, e, dall’altro, temporanea, siccome l’attività commerciale avrebbe ripreso il suo corso dopo i mesi del lockdown.
I giudici hanno dato peso alla violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto di locazione, stabilendo che tale violazione impone una riduzione del canone in ragione della pandemia.
Alcuni autori sostengono che il coronavirus sarebbe un evento di forza maggiore che incombe su entrambe le parti del contratto di locazione. Tuttavia, la giurisprudenza di merito afferma che il rispetto delle misure pandemiche costituisce solamente una causa astratta di forza maggiore, da valutare in concreto.
Parte della letteratura ipotizza l’esperibilità del diritto di recesso per gravi motivi ex art. 27, ultimo comma, della legge sull’equo canone. A tal fine, il conduttore dovrebbe dimostrare che la sua crisi finanziaria, derivante dal rispetto delle misure di contenimento, sia di una gravità tale da rendere pregiudizievole la persistenza del rapporto locativo. Tuttavia, si tratta di una misura che comporterebbe la caducazione del vincolo contrattuale e non esimerebbe il conduttore dall’obbligo di versare il canone per la parte del rapporto ormai esaurita.
Alla luce di quanto detto, sembra ragionevole ritenere che il legislatore non abbia predisposto, come è accaduto per gli altri tipi di locazione, una disciplina apposita in grado di contrastare la crisi economica derivata dal Covid-19.
5. Il contratto di locazione a uso abitativo.
La disciplina emergenziale ha provveduto, a partire dal decreto «cura Italia», a una sospensione di tutti i provvedimenti di rilascio degli immobili (a uso abitativo e non). Inoltre, il decreto, all’art. 65, comma 2-ter, ha previsto per il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione 60 milioni di euro, e ha destinato 9.5 milioni di euro al Fondo per gli inquilini morosi incolpevoli. Secondo la dottrina, si tratta di misure che si sommano alla sospensione degli sfratti, e che sostengono quella fascia di popolazione che non riesce a pagare i canoni alle condizioni di mercato, né ha i mezzi per l’acquisto di un’abitazione.
In ragione del protrarsi degli effetti economici negativi della pandemia, il legislatore dell’emergenza ha previsto ulteriori 140 milioni di euro per l’anno 2020 da destinare al Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione con l’art. 29, d.l. n. 34/2020. Nell’ottica di incentivare la revisione dell’originario canone di locazione attraverso una rinegoziazione volontaria, il legislatore ha stabilito, nelle città ad alta intensità abitativa, la possibilità per i locatori di ridurre spontaneamente il canone di locazione della prima casa. Si tratta dell’art. 9-quater, d.l. n. 137/2020 (c.d. decreto «ristori unificato»), che ha previsto la possibilità per i locatori di ricevere il 50% della revisione del canone fino a un importo massimo di 1.200 euro annui, se il contratto non è sottoposto al regime di tassazione della “cedolare secca”. Questo «rimborso» da parte dello Stato è possibile grazie all’istituzione di un fondo ad hoc di 50 milioni di euro per l’anno 2021.
Dalle suesposte considerazioni si evince che il conduttore non può, di sua spontanea iniziativa, interrompere il pagamento del canone ovvero corrispondere un importo inferiore rispetto a quello stabilito nel contratto di locazione. Vi è, però, la possibilità, per il locatore e il conduttore, di stipulare un accordo sulla revisione o sospensione del canone. Questo accordo può essere concluso per le locazioni di immobili a uso sia abitativo sia commerciale.
Una volta redatto e sottoscritto, l’accordo deve essere registrato all’Agenzia delle Entrate, la quale ha predisposto un apposito modello (c.d. «modello 69»), attraverso il quale le parti possono chiedere la registrazione dell’atto entro 60 giorni dal raggiungimento del patto stesso. L’accordo in discorso è vantaggioso per entrambi i contraenti.
La pandemia ha occasionato una vera e propria legislazione transitoria di emergenza. Per quanto concerne i provvedimenti governativi, sembra ragionevole condividere l’opinione di quella parte della dottrina che osserva come l’attenzione del legislatore si sia concentrata maggiormente sul sottotipo non abitativo, che, in effetti, risulta essere quello più colpito. In rifermento a quest’ultimo aspetto, la dottrina analizza gli effetti della disciplina emergenziale in termini di lungo periodo, considerando sia la prospettiva macroeconomica che quella microeconomica, interrogandosi sui rimedi offerti dalla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti, ovvero se sia necessario un intervento di tipo pubblicistico. Nondimeno, va evidenziato come il legislatore emergenziale abbia predisposto misure più specifiche per il sottotipo abitativo rispetto alla locazione commerciale.
7. L’affitto di azienda.
La pandemia da Covid-19 ha inevitabilmente prodotto effetti negativi anche sull’azienda e i relativi contratti di affitto. La sospensione delle attività commerciali, dovuta ai provvedimenti emergenziali, ha generato una crisi di liquidità delle aziende, che si sono trovate a dover corrispondere comunque i canoni previsti dai contratti sottoscritti, senza poter materialmente beneficiare della controprestazione cui avevano diritto, ossia del godimento dei beni affittati.
Per quanto concerne la disciplina emergenziale, occorre notare che le regole previste per la locazione commerciale possono trovare applicazione anche rispetto al contratto di affitto di azienda. In proposito, assume rilevanza la già citata decisione del Tribunale di Roma del 29 maggio 2020, che ha sottolineato come la normativa emanata per contrastare la diffusione del virus non offra all’affittuario la possibilità di sospendere il pagamento del canone di affitto. Il giudice romano ha posto l’accento sull’assenza di una precisa disciplina che consentisse la sospensione del canone. In particolare, il Tribunale, considerando la clausola di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c. e il comportamento secondo correttezza di cui all’art. 1175 c.c. quali meri obblighi di collaborazione tra le parti, ha messo in luce come essi non potrebbero incidere direttamente sulle obbligazioni principali del contratto, «a partire dai tempi e dalla misura di corresponsione del canone». Questa posizione è stata ribadita dal medesimo Tribunale con una decisione del 25 luglio 2020, che ha rigettato il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso dall’affittuario attribuendo uno sconto del canone pari al 70%. Il giudice capitolino ha sostenuto che i provvedimenti emanati per effetto della diffusione del virus costituissero ipotesi di impossibilità parziale e temporanea della prestazione dell’affittante, ai sensi degli artt. 1256 e 1464 c.c.
In senso opposto sono le pronunce del Tribunale di Torre Annunziata del 22 luglio 2021 e del 10 aprile 2022 in tema di contratto di affitto di ramo di azienda. La prima pronuncia ha ritenuto la parte conduttrice legittimata ad ottenere una riduzione in via cautelare dei canoni previsti dal contratto, mentre la seconda ha ammesso il ricorso alla buona fede esecutiva di cui all’art. 1375 c.c. e al principio di solidarietà ex art. 2 Cost.
Il caso da ultimo accennato riguardava una società alberghiera conduttrice di un ramo d’azienda, che si era rivolta all’autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia che dichiarasse non dovuto il canone per vari periodi, intercorrenti tra il 2020 e il 2022. L’affittuario ha fatto valere l’incidenza negativa dell'emergenza sanitaria sui ricavi della società e l’impossibilità di pagare ulteriori canoni senza ricorre a misure di finanziamento.
Il Tribunale ha accolto l’istanza del locatario con decreto pronunciato inaudita altera parte; tale decreto è stato revocato a séguito dell’impugnazione dell’affittante, a cui ha fatto seguito reclamo ex art. 669-terdecies del conduttore. Successivamente, l'attore ha spiegato nuovo ricorso ex art. 700 c.p.c. allo scopo di ottenere la sospensione di altri canoni inerenti all’anno 2022.
La pronuncia del 22 luglio 2021 si caratterizza per essere particolarmente attenta alle esigenze del conduttore. Tuttavia, il modus operandi delle due ordinanze considerate è diverso, in quanto, nel primo provvedimento viene privilegiata una lettura estensiva di una clausola contrattuale prevista per il caso della sopravvenuta inutilizzabilità del centro sportivo oggetto di affitto, mentre, nel secondo caso, si fa riferimento all’art. 1375 c.c. come strumento generale di riequilibrio del sinallagma.
8. La locazione finanziaria (o leasing).
A séguito dell’emergenza sanitaria, inizialmente, molti istituti di credito hanno proposto ai propri clienti le moratorie ABI, attraverso le quali è possibile posticipare, e quindi sospendere, i pagamenti delle rate di leasing fino a un anno. L’eventuale accordo tra banche e correntisti, destinato ai finanziamenti di micro, piccole e medie imprese danneggiate dall’emergenza Covid-19, è applicabile ai prestiti concessi fino al 31 gennaio 2020.
L’art. 56 del decreto «cura Italia» contempla la possibilità, per le imprese, di fruire di una sospensione fino a sei mesi di tutte le rate di leasing, mutui e finanziamenti. La norma considerata prevede anche la possibilità, per imprese e professionisti, di beneficiare del divieto di revoca, proroga e sospensione del canone del leasing.
Per accedere alla moratoria, l’imprenditore deve effettuare una comunicazione all’istituto di credito, consistente in un’autodichiarazione che evidenzi una temporanea carenza di liquidità causata dalla pandemia. Tale dichiarazione comporta anche l’ammissione automatica alla speciale forma di garanzia pubblica costituita dal Fondo di garanzia per le PMI, istituito con l’art. 2, comma 100, lett. a), l. n. 662/1996, incrementato grazie al decreto «liquidità».
L’art. 57, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha disciplinato una «garanzia della liquidità», nella parte in cui prevede che le banche, attraverso il supporto della Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., potranno erogare più agevolmente finanziamenti alle imprese colpite dalla pandemia.
Sembra opportuno segnalare il credito di imposta ex art. 28 del decreto «rilancio», che prevede un’agevolazione finanziaria anche per i canoni leasing. Tuttavia, stando all’interpretazione contenuta nella circolare n. 14/E del 2020 dell’Agenzia delle Entrate, il credito d’imposta non sarebbe applicabile ai canoni di locazione finanziaria pagati dagli utilizzatori.
Parte della dottrina sostiene che non sarebbe da escludere la soluzione del Tribunale di Roma resa con ordinanza nel 27 agosto 2020, riguardante la riduzione del canone di un contratto di locazione. Secondo tale filone di pensiero, essendo il leasing (finanziario) equiparabile alla locazione, nonostante l’avvenuta tipizzazione normativa ad opera della l. n. 124/2017, la soluzione del giudice capitolino potrebbe essere applicata anche alla locazione finanziaria. In particolare, nella stessa ottica si potrebbe prospettare, in virtù dell’obbligo di buona fede e del principio di solidarietà, la riduzione del corrispettivo periodico dovuto e la sospensione di un’eventuale garanzia fideiussoria.
Il legislatore dell’emergenza, dunque, seppure in modo scarno, ha previsto una disciplina ad hoc rispetto al contratto di locazione commerciale.
[1] Lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 è stato dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 fino al 31 luglio 2020. Con successive previsioni normative, lo stato di emergenza è stato prorogato fino al 31 marzo 2022.
[2] In Germania si prevede la sospensione dell’adempimento, se la microimpresa non sia in grado di eseguire la prestazione. Tuttavia, il debitore non può invocare il diritto di sospendere l’esecuzione, qualora la sospensione sia rischiosa per il creditore o per l’esercizio dell’attività di impresa. Nel caso di locazione di immobili ad uso abitativo, il mancato pagamento del canone, che resta dovuto, non costituisce una causa di risoluzione del contratto per inadempimento.
La Spagna ha disposto una moratoria, relativamente al pagamento del canone, per tutti i contratti stipulati con società o enti di edilizia residenziale, mentre per le locazioni abitative si è previsto una dilazione della scadenza del contratto e per i proprietari dotati di un’apprezzabile solidità economica, è stata stabilita una riduzione del 50% del canone, ovvero una dilazione del pagamento dell’importo originario, secondo un piano di rateizzazione triennale.
La Francia nulla ha disposto in tema di locazione commerciale, mentre per le locazioni abitative ha dettato uno statuto di significativo presidio per i conduttori, precludendo l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interessi di mora, oltreché l’escussione di garanzie rilasciate per il mancato pagamento dei canoni
Per quanto concerne i contratti di locazione di immobili a uso sia abitativo sia commerciale, nel Regno Unito i conduttori devono continuare a pagare il canone di locazione e rispettare il loro contratto di locazione.
[3] Si allude agli artt. 65 e 91 del decreto «cura Italia».
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’ingiustizia e la prospettiva dei diritti – 3. La sentenza della Corte di Giustizia del 22 dicembre 2022 nella causa C-61/21 – 3.1. Le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott – 3.2. Le conclusioni della CGUE – 4. Conclusione: le ricadute concrete della sentenza sulla causa C-61/21.
1. Introduzione
Sotto la spinta dei numerosi contributi scientifici che si sono dedicati ad approfondire il tema dell’inquinamento[1], la consapevolezza sulle conseguenze nocive per la salute umana e per l’ambiente e sui corrispondenti costi economici si è progressivamente diffusa ed è ormai ampiamente consolidata nell’opinione pubblica, a livello sia nazionale che globale[2]. Per comprendere fino in fondo i rischi connessi all’inquinamento, tuttavia, è necessaria un’impostazione sistemica che percepisca e valorizzi anche agli impatti dell’inquinamento sulla vita umana nel suo complesso, guardando, dunque, anche al di là della dimensione puramente sanitaria[3].
In questa prospettiva, il Principio 1 della Dichiarazione, adottata a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano[4], che afferma l’esistenza di “un diritto fondamentale alla libertà, eguaglianza e adeguate condizioni di vita, in un ambiente di qualità che permetta una vita di dignità e benessere”, ha rappresentato la base concettuale su cui fondare, negli anni, il riconoscimento dell’interdipendenza e dell’interrelazione esistente tra diritti umani e ambiente. Nel 2009[5], poi, si è riconosciuta ufficialmente la connessione esistente tra il contrasto all’inquinamento e la promozione dei diritti umani, mettendo in evidenza come il primo[6] inevitabilmente produca implicazioni dirette sul godimento dei secondi[7]. Nel 2021, inoltre, con la Risoluzione 48/13 del Human Rights Council, si è giunti all’espresso riconoscimento del diritto ad un ambiente salubre, inteso come il diritto umano ad un ambiente pulito, sano e sostenibile. È essenziale sottolineare, peraltro, che il riferimento esplicito, nel testo della Risoluzione, ad un “riconoscimento” del diritto, piuttosto che ad un’attribuzione o ad un’enunciazione, ha un effetto implicito cruciale, poiché include il diritto in questione nel novero di quelli che sono ontologicamente tali in quando connessi al concetto condiviso di dignità umana[8].
Se, dunque, la correlazione esistente tra inquinamento e godimento dei diritti umani appare, oggi giorno, chiara ed innegabile, è decisamente più complesso stabilire quali siano le conseguenze di questa correlazione sotto il profilo strettamente giuridico. Da un lato, infatti, occorre verificare se, ed eventualmente in che misura, gli effetti nocivi dell’inquinamento possano essere qualificati come violazioni dei diritti umani da sanzionare e risarcire. Dall’altro lato, poi, è necessario chiarire se, ed eventualmente in che misura, gli effetti nocivi dell’inquinamento, in quanto qualificati come violazioni dei diritti umani, possano essere imputati allo Stato o ad altri enti pubblici che abbiano mancato di adottare piani adeguati alle esigenze di contenimento dell’inquinamento o siano stati incapaci di rispettare i limiti alla dispersione di inquinanti imposti dalla normativa a tutela dell’ambiente. Conseguentemente, è necessario acclarare se ciò può far sorgere, in capo allo Stato o all’amministrazione, una responsabilità per lesione di una posizione giuridica tutelata riconducibile direttamente al cittadino, in modo tale da legittimare quest’ultimo ad avanzare, in sede giurisdizionale, una richiesta di risarcimento del danno.[9]
2. L’ingiustizia e la prospettiva dei diritti
Dal punto di vista giuridico, il progressivo consolidarsi della certezza scientifica circa i rischi concreti dell’inquinamento per la salute umana e la tutela dell’ambiente non si è tradotto nell’adozione di un approccio legislativo univoco alla questione né, tanto meno, ha chiarito l’attribuzione di eventuali responsabilità giuridiche alle amministrazioni pubbliche inerti o inadempienti.
Come emerge dall’analisi della legislazione nazionale ed internazionale, infatti, il panorama normativo è sempre stato caratterizzato da una forte frammentazione, contraddistinta dal susseguirsi di disposizioni finalizzate alla risoluzione di problematiche specifiche, e non si è mai arrivati concretamente all’introduzione di un regime sistemico di protezione dell’ambiente come risorsa naturale in sé. Inoltre, se è vero che, sin dalla Conferenza di Copenaghen del 2009, l'approccio restrittivo (fondato unicamente sull’introduzione di divieti e tradizionalmente tipico delle fonti normative internazionali destinate a contrastare e contenere l’inquinamento nelle sue varie forme) è stato progressivamente abbandonato in favore di un approccio proattivo (fondato invece sull’introduzione di obblighi gravanti sugli Stati di procedere all’adozione di piani nazionali e normative ad hoc), i diritti dei singoli e delle comunità sono rimasti comunque relegati a margine.
Nonostante l’approccio proattivo sia senza dubbio più apprezzabile rispetto a quello puramente restrittivo, peraltro, anche questa strategia non risulta particolarmente efficace se si considera che il contenuto delle misure adottate dagli Stati risulta spesso insufficiente e scarsamente contestualizzato poiché, generalmente, ampiamente in ritardo rispetto all'accelerazione del cambiamento climatico ed all’aggravarsi dell’inquinamento. Anche questa impostazione, dunque, mostra alcuni evidenti limiti ed ha urgente bisogno di un rinnovamento che garantisca, tra l’altro, il giusto riconoscimento e la tutela diretta ai diritti dei singoli e delle comunità.
A fronte di un tale quadro giuridico, la sensazione che si è gradualmente diffusa nell’opinione pubblica è stata quella di una generale malcelata insoddisfazione per l’inefficacia delle politiche pubbliche in questo particolare ambito, che a sua volta determina un senso di ingiustizia eco-sociale su un piano tanto globale quanto locale. E’ tuttavia da evidenziare, però, che, storicamente, l’esperienza umana dell’ingiustizia è un elemento essenziale del cambiamento, poiché rappresenta, in molti casi, il punto di partenza del tumultuoso percorso bottom up che porta all’affermazione dei diritti[10]. Sin dalla metà dei primi anni 2000, quindi, il progressivo innesto della prospettiva dei diritti nella discussione sul cambiamento climatico ha avuto l'effetto di vera e propria “chiamata alle armi”[11] per vari stakeholder, che si sono fatti carico di promuovere una progressiva traslazione della questione dal piano politico al piano giudiziario, utilizzando il linguaggio normativo dei diritti.
Nell'ultimo decennio, infatti, ha preso sempre più piede il fenomeno del “contenzioso climatico”[12], finalizzato a sostenere un mutamento di prospettiva: dalla mera protesta civile e politica circa l’ineffettività dell’azione legislativa ed amministrativa nazionale ed internazionale, al riconoscimento ed alla valorizzazione del piano soggettivo dei diritti umani e fondamentali[13].
Il “contenzioso climatico” è senza dubbio un fenomeno proteiforme, capace di raccogliere sotto un’unica formula situazioni tra loro molto diverse il cui elemento di comunanza, però, è rappresentato dall’obbiettivo perseguito: porre al centro del dibattito pubblico sulla questione climatica e la salubrità ambientale, non solo a livello politico ma a livello propriamente giuridico, i diritti degli individui e delle comunità, demandando al giudice il compito di verificare le ragioni della pretesa vantata in giudizio e, una volta accertato che essa configura una lesione dei diritti riconosciuti dall’ordinamento, quantificare un risarcimento.
Le ragioni in fatto e in diritto che, alla luce della norma di legge invocata, hanno l’effetto di costituire il diritto soggettivo da far valere in giudizio con la domanda proposta possono comprendere, ad esempio, le inadempienze degli Stati o delle multinazionali in merito ad obblighi climatici e di tutela ambientale derivanti da un combinato di norme nazionali e internazionali, ed in questi casi, la connessa domanda di tutela giurisdizionale rivolta al giudice nei confronti della parte convenuta generalmente comprende una richiesta di risarcimento del danno subito. Tuttavia, trattandosi di un fenomeno estremamente variegato, la causa petendi e il petitum delle azioni legali promosse possono essere anche estremamente vari.
Naturalmente, questa strategia, che è possibile riconoscere in tutti i contenziosi instaurati in Europa[14] innanzi a giudici nazionali o innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), si àncora all’essenza stessa del concetto di diritto, poiché è pacifico che i diritti richiedano all’apparato statale ed amministrativo di porre in essere comportamenti attivamente finalizzati a garantirne sia la tutela sia la concreta realizzazione[15]. È inoltre altrettanto condiviso che i diritti siano concetti in costante evoluzione, interpretabili ed adattabili, per consentire all’ordinamento di reagire adeguatamente alle nuove ingiustizie che l’inesauribile dinamismo sociale produce, contribuendo incessantemente all’inesorabile e perpetuo avanzamento della comunità[16].
Tuttavia, proprio quando la controparte resistente è la pubblica amministrazione, questa logica incontra, nell’ordinamento italiano, difficoltà di tipo squisitamente giuridico nel momento in cui sono dubbi: 1) l’individuazione della norma attributiva del diritto; 2) l’inquadramento della posizione giuridica vantata dal ricorrente nel novero dei diritti soggettivi o degli interessi legittimi; 3) la definizione chiara del nesso causale univoco tra condotta omissiva o commissiva dell’amministrazione e danno per il privato, cui ancorare la richiesta di risarcimento.
3. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 22 dicembre 2022 sulla causa C-61/21
Tra le decisioni giurisprudenziali che sono destinate ad avere un forte impatto sulle politiche ambientali future dell’Unione, sull’affermazione dei diritti individuali dei singoli e sull’affermazione del diritto al risarcimento del danno da parte del privato subito a seguito di azione od omissione della pubblica amministrazione, si inserisce senza dubbio la sentenza del 22 dicembre 2022 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE)[17] che ha deciso la causa C-61/21 avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[18], dal giudice francese della Cour administrative d'appel de Versailles.
La domanda promossa dal giudice francese alla CGUE, nello specifico, prende le mosse da una controversia avviata in sede statale tra un privato e l’amministrazione pubblica francese nell’ambito della quale il primo ha convenuto in giudizio il Ministre de la Transition écologique (ndr. Ministro della transizione ecologica, Francia) e il Premier ministre (ndr. Primo ministro, Francia) per ottenere l'annullamento di quella che viene qualificata come una decisione implicita di diniego del Prefetto del Val-d'Oise (Francia) relativamente all’adozione delle misure necessarie alla mitigazione degli effetti dell’inquinamento atmosferico[19] nella zona di sua competenza, come invece dovrebbe avvenire in ottemperanza a quanto richiesto dalla normativa europea in tema di tutela della qualità dell’aria[20].
Tale omissione, secondo la ricostruzione del ricorrente, fa sì che il livello dell’inquinamento persista inalterato e, poiché ciò ha l’effetto di esacerbare i problemi di salute di cui questi già soffre, peggiorandone la qualità della vita, lo legittima a chiedere all’amministrazione francese il risarcimento dei danni subiti. Il ricorrente fonda la propria pretesa sul contenuto della direttiva 2008/50/CE[21] del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alla qualità dell'aria ambiente[22] in Europa, facendo riferimento, in particolare, al disposto degli articoli 13, paragrafo 1[23], e 23, paragrafo 1[24] che introducono, da un lato, il concetto di valore limite e, dall’altro, l’obbligo di adottare piani per contenere l’inquinamento e garantire che i valori soglia non siano superati.
Di fronte ad una pretesa così articolata, che è già stata respinta in primo grado dal Tribunal administratif de Cergy-Pontoise (ndr. Tribunale amministrativo di Cergy-Pontoise, Francia) e per la cui risoluzione è imprescindibile una corretta interpretazione della normativa euro-unitaria, il giudice amministrativo nazionale francese di secondo grado ha quindi ritenuto di proporre un rinvio pregiudiziale direttamente alla CGUE, che è il soggetto giuridico deputato all’interpretazione delle norme europee, proponendo i seguenti quesiti: “1) Se le norme applicabili del diritto dell'Unione europea derivanti dalle disposizioni di cui all'articolo 13, paragrafo 1 e all'articolo 23, paragrafo 1 della direttiva[2008/50], debbano essere interpretate nel senso che attribuiscono ai singoli, in caso di violazione sufficientemente qualificata da parte di uno Stato membro dell'Unione europea degli obblighi che ne derivano, un diritto a ottenere dallo Stato membro in questione il risarcimento dei danni causati alla loro salute che presentano un nesso di causalità diretto e certo con il deterioramento della qualità dell'aria. 2) Ammesso che le disposizioni sopra menzionate siano effettivamente idonee a far sorgere un siffatto diritto al risarcimento dei danni alla salute, a quali condizioni sia subordinato il riconoscimento di tale diritto, per quanto riguarda in particolare il momento in cui si deve ritenere avvenuto l'inadempimento imputabile allo Stato membro di cui trattasi.”[25]
3.1. Le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott
L’Avvocato Generale (AG) presso la CGUE, Juliane Kokott, investita della causa, ha proposto alla Corte, nelle sue conclusioni, il proprio parere tecnico sulla vicenda ed ha sostenuto, con limpida chiarezza argomentativa e nella piena consapevolezza della portata potenzialmente dirompente della questione oggetto della causa C-61/21, una tesi favorevole al privato ricorrente[26].
Considerate le tre condizioni che legittimano il diritto al risarcimento del danno per violazione della normativa comunitaria da parte dell’amministrazione statale (ovvero la presenza di una disciplina direttamente applicabile in favore dei privati, la presenza di una violazione qualificata imputabile allo Stato membro e la presenza di un nesso causale diretto tra violazione qualificata e danno patito dal privato[27]), infatti, l’AG articola un ragionamento lineare e dettagliato che si sofferma, dapprima, sulla questione della diretta applicabilità della direttiva 2008/50/CE e delle altre norme europee applicabili ratione temporis e, successivamente, sulla determinazione degli elementi che connotano una violazione qualificata da parte dello Stato francese e l’attivazione del nesso causale diretto.
Sotto il profilo della diretta applicabilità delle norme europee richiamate, l’AG mette in evidenza come sia assolutamente legittimo ritenere che la violazione dei valori limite per la tutela della qualità dell'aria previsti dal diritto dell'Unione faccia sorgere, in capo al privato, un diritto al risarcimento del danno patito, dal momento che tali norme sono caratterizzate da sufficiente chiarezza.[28] E’ infatti necessario, ad opinione dell’AG, valorizzare la ratio che sta alla base delle norme sulla qualità dell’aria, concepite per tutelare in modo adeguato determinate categorie di abitanti degli Stati membri che vivono o lavorano in zone particolarmente inquinate e che, dunque, sono direttamente interessati dal superamento dei valori limite o dal rischio di superamento dello stesso[29], evitando banalizzazioni che rimandano ad un concetto di salute umana generalista, privo di un contenuto non effettivamente individuato o individuabile.
Quanto, poi, alla determinazione dell’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione, l’AG richiama gli elementi che il giudice nazionale deve valutare per formare il suo convincimento[30] e conclude, sulla base dell’analisi delle disposizioni della direttiva 2008/50/CE e delle direttive che l’hanno preceduta, che un superamento dei valori limite per la qualità dell’aria ambiente, in assenza di un adeguato piano per porvi rimedio, costituisce una violazione qualificata del diritto dell’Unione, idonea a dar luogo a risarcimento. In proposito, inoltre, l’AG specifica anche che, pur nel caso in cui le autorità amministrative competenti dei singoli Stati avessero provveduto a adottare un piano in ottemperanza alle norme comunitarie, potrebbe comunque integrarsi una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione qualora il piano in questione fosse viziato da un uso scorretto della discrezionalità finalizzato ad aggirare, sotto il profilo sostanziale, gli obblighi imposti dalla normativa. Tale evenienza potrebbe verificarsi, ad esempio, quando, nel prevedere un periodo di tolleranza del superamento dei limiti degli inquinanti nell’aria, non si vincoli l’amministrazione ad agire nel più breve tempo possibile, oppure in tutti quei casi in cui i mezzi predisposti dai piani per rimediare al superamento dei limiti abbiano carattere manifestamente inadeguato; altri casi esemplari di un esercizio scorretto della discrezionalità da parte dell’amministrazione, inoltre, potrebbero verificarsi nei casi in cui i punti di campionamento su cui si basano i piani siano palesemente mal posizionati o, ancora, laddove le tecniche di modellizzazione, su cui si basano i piani, contengano errori gravi che non permettono di comprendere l’effettiva entità del superamento dei valori limite.[31]
Da ultimo, per ciò che concerne il nesso causale diretto tra la violazione qualificata del diritto dell’Unione a tutela della qualità dell’aria ed i danni concreti alla salute dei privati, pur ricordando che anche questa valutazione spetta ai giudici nazionali che devono attenersi al livello probatorio richiesto dall’ordinamento di appartenenza, l’AG delinea tre elementi la cui contemporanea sussistenza avvalora la tesi dell’esistenza di un rilevante nesso causale diretto. Il soggetto leso, infatti, deve poter dimostrare: 1) di avere soggiornato, per un periodo di tempo apprezzabilmente lungo sotto il profilo medico-scientifico, in un ambiente in cui i valori limite sono stati violati in misura rilevante; 2) di soffrire di un danno alla salute ritenuto riconducibile, dal punto di vista medico-scientifico, all’inquinamento atmosferico di cui trattasi; 3) che, nel suo caso specifico, l’aver soggiornato per un periodo di tempo apprezzabilmente lungo in un ambiente malsano, poiché caratterizzato dall’elevata presenza di inquinanti nell’aria, ha determinato al ricorrente l’insorgere (o l’esacerbarsi) di una o più patologie riconducibili, sotto il profilo medico-scientifico, alla forma di inquinamento atmosferico presente. Inevitabilmente, segnala l’AG, “ciò richiederà perizie mediche periodiche, che dovranno certamente tenere conto anche delle basi scientifiche della fissazione dei valori limite e delle raccomandazioni, talvolta ancora più rigide, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”[32].
Da questa ricostruzione emerge con chiarezza che, tra le tre condizioni cumulative che devono sussistere perché i soggetti privati possano ottenere un risarcimento del danno causato da un’amministrazione statale che non ha rispettato (in modo omissivo o commissivo) le norme comunitarie, la più difficile da valutare è senza dubbio la terza, ovvero l’esistenza di un nesso causale diretto tra la grave violazione e lo specifico danno subito.
3.2. Le conclusioni della CGUE
A differenza delle conclusioni dell’Avvocato Generale, la sentenza della Corte, riunitasi in Grande Sezione in ragione della rilevanza della causa[33], propone una interpretazione del diritto dell’Unione sfavorevole alla pretesa del privato.
Sebbene, infatti, la Corte si allinei ai suoi precedenti nel riconoscere che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione ad esso imputabili è inerente al sistema dei Trattati[34], che questo principio si applica a qualsiasi caso di violazione del diritto dell'Unione da parte di uno Stato membro, indipendentemente dall'autorità pubblica responsabile di tale violazione[35], e che il diritto del privato al risarcimento del danno sorge non solo nei casi in cui una disposizione del diritto dell'Unione espressamente lo attribuisce, ma anche in relazione agli obblighi positivi o negativi che la medesima impone in maniera ben definita sia ai singoli sia gli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione[36], nel caso di specie la Corte ritiene che la richiesta di risarcimento del danno avanzata dal privato non abbia fondamento.
In particolare, pur riconoscendo che le norme della direttiva 2008/50/CE e delle direttive precedenti (1980/779/CEE, 1985/203/CEE, 1996/62/CE e 1999/30/CE) prevedono obblighi sufficientemente chiari e precisi nel definire il risultato che gli Stati membri devono raggiungere ed assicurare, ad avviso della Corte tali strumenti giuridici non hanno anche la funzione di attribuire un diritto ai singoli, essendo unicamente rivolti alla protezione della salute della comunità umana e dell'ambiente nel suo complesso.
Una tale ricostruzione, che fa evidentemente venir meno la prima delle tre condizioni cumulative necessarie per poter affermare la legittimità della richiesta di risarcimento del danno vantata da un soggetto privato, sostanzialmente azzera qualunque possibilità di argomentare sul merito della richiesta di risarcimento. Al massimo, chiosa la Corte, le persone fisiche o giuridiche direttamente interessate da un rischio di superamento di valori limite o di soglie di allarme potranno sfruttare la facoltà che è loro riconosciuta di rivolgersi ai giudici nazionali competenti per ottenere un provvedimento che imponga all’autorità amministrativa di adempiere all’obbligo di facere introdotto dalla direttiva europea, predisponendo così un apposito piano d'azione per la tutela della qualità dell’aria conforme a quanto richiesto dall’articolo 23, paragrafo 1, secondo comma.
4. Conclusione: le ricadute concrete della sentenza sulla causa C-61/21
La sentenza della Corte di Giustizia sulla causa C-61/21, sebbene non decida nel merito la controversia (la cui soluzione, chiusasi la parentesi del rinvio pregiudiziale, spetta comunque al giudice nazionale), avrà senza dubbio una serie di conseguenze significative sulle cause ambientali e climatiche già in corso e su quelle future, qualificandosi come un precedente favorevole alla posizione degli Stati membri resistenti con effetto vincolante non soltanto per il giudice del rinvio, ma anche per gli altri giudici nazionali investiti di questioni analoghe.
La sensazione che prevale ad una prima lettura della sentenza, tuttavia, è quella di un’occasione persa per la giurisprudenza euro-unitaria, che rinuncia a cogliere e valorizzare le esigenze di evoluzione del livello di tutela dei diritti fondamentali che caratterizza ormai, da molti anni, il panorama internazionale ed europeo.
Nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea, infatti, la questione del miglioramento della qualità dell'aria è all'ordine del giorno da decenni e, nonostante una strategia normativa disorganica, le discipline europee in materia hanno comunque avuto l’apprezzabile merito di introdurre valori limite vincolanti per numerosi inquinanti connessi ad obblighi proattivi gravanti sugli Stati membri.
Non è, perciò, al passo con i tempi ritenere verosimile quell’interpretazione della normativa a tutela della qualità dell’aria che concepisce unicamente un interesse alla salute umana di carattere collettivo, senza ammettere alcuna possibilità di individuazione concreta di soggetti potenzialmente in condizione di subire una lesione riconducibile direttamente alla mancata attuazione, a livello nazionale, della normativa comunitaria.
Per di più, è già da lungo tempo che la giurisprudenza e la dottrina[37] hanno chiarito che la tutela della salute pubblica è ben lungi dall’essere un concetto astratto, e dipende, al contrario, dalla tutela concreta della salute dei singoli individui che fanno parte della comunità. È recentissima, ad esempio, l’ennesima pronuncia della Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite, ribadisce che il diritto alla salute è un diritto fondamentale, nel senso che, “non tollerando compressioni neppure da parte dei pubblici poteri, mantiene sempre la sua natura di diritto soggettivo, non degradabile ad interesse legittimo”.[38] Ed è parimenti doveroso richiamare quella giurisprudenza costante della stessa CGUE[39] ove si afferma che la piena efficacia delle norme del diritto dell’Unione sarebbe messa a repentaglio, e la tutela dei diritti da esse riconosciuti sarebbe impossibile, se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento in tutti quei casi in cui i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro.
La gravità della situazione ambientale e l’urgenza di cambiare impostazione focalizzandosi non solo sugli obblighi e i divieti ma, propriamente, sui diritti, sono inoltre testimoniate dai dieci procedimenti d’infrazione avviati dalla Commissione Europea già decisi dalla stessa CGUE[40] (nei quali si è dimostrato che i diversi Stati membri coinvolti non rispettano le norme di qualità dell’aria ambiente e, in ben nove casi su dieci, si è accertato che la violazione della normativa comunitaria era sistematica e persistente), cui si aggiungono altri sette procedimenti d’infrazione avviati dalla Commissione Europea ed attualmente ancora pendenti[41].
A ciò che accade a livello europeo, infine, fa eco il livello nazionale, ove le norme in materia di qualità dell’aria sono oggetto di controversie anche dinanzi ai giudici nazionali[42].
Certo, è indubbio che, se la Corte riconoscesse ai privati un diritto soggettivo vantabile in giudizio, il numero delle richieste di risarcimento del danno subito per violazione da parte delle amministrazioni nazionali delle norme in materia di qualità dell’aria lieviterebbe quasi istantaneamente e, come rileva l’AG nelle sue conclusioni, “a prescindere dagli associati rischi finanziari, il contenzioso relativo a siffatte rivendicazioni potrebbe costituire un onere considerevole per i giudici degli Stati membri”[43]. Tuttavia, è sempre l’AG Kokott a mettere in chiaro che, in nessun caso, nell’ordinamento europeo retto dai principi dello Stato di diritto e fondato sui Trattati istitutivi e sulla Carta di Nizza, è ammissibile limitare il riconoscimento di diritti che possono dar luogo a richieste di risarcimento solo per prevenire un aumento del contenzioso.
Il gran numero di persone potenzialmente interessate a adire le Corti per ottenere un risarcimento, semmai, dimostra l’importanza e l’improcrastinabilità di un intervento della Corte che, attraverso la sua funzione nomofilattica, sia in grado di garantire un’adeguata tutela al diritto alla salute dei cittadini europei.
Scegliendo di escludere qualunque pretesa risarcitoria, in conclusione, la Corte si sta sostanzialmente allontanando dalla sua precedente giurisprudenza sul principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione ad esso imputabili.
Non resta che auspicare che il legislatore euro-unitario, il quale ha già avviato la procedura per rinnovare la disciplina normativa in materia entro il 2030[44], intervenga sulla questione, per un verso rielaborando la formulazione delle norme in modo da eliminare ogni dubbio circa la possibilità di enucleare dei diritti individuali e, per altro verso, alleggerendo l’onere della prova del nesso causale tra la violazione qualificata dello Stato e la lesione subita dal privato, attraverso l’introduzione, ad esempio, di una presunzione “relativa”, in base alla quale, nel caso di un soggiorno di durata sufficientemente lunga in una zona in cui è stato superato un valore limite, il danno alla salute si possa considerare imputabile a tale superamento.[45]
[1] Tra i principali studi scientifici italiani che si sono occupati, ad esempio, del tema dell’inquinamento atmosferico si ricordano il progetto VIIAS e lo studio EpiAir2, promossi dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) del Ministero della Salute, nonché l’indagine longitudinale sul Delta del Po e l’indagine longitudinale nell’area urbana e sub-urbana di Pisa promossi dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
[2] Per una ricognizione degli effetti principali dell’inquinamento sulla salute si rinvia, ex multis, a Global burden of 87 risk factors in 204 countries and territories, 1990-2019: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2019, in Lancet, 17 ottobre 2020, vol. 396, n. 10258, 1223 ss.
[3] Cfr. Human Rights Council, Resolution 7/23, Human rights and climate change, 28 marzo 2008. Per un approfondimento sulla necessaria adozione di un approccio sistemico nella tutela ambientale si veda M. Ramajoli, Il cambiamento climatico tra green deal e climate change litigation, in Rivista giuridica dell’ambiente, n. 1/2021, 56, ove l’Autrice mette in evidenza che “attualmente è in corso un processo di grande fermento volto al passaggio dall’affermazione di obiettivi generali all’individuazione di strumenti giuridici per la loro attuazione. Ciò richiede primariamente la comprensione approfondita della natura degli obiettivi climatici, secondo un approccio necessariamente interdisciplinare che utilizzi i risultati ottenuti dagli scienziati del clima. In secondo luogo, in questa fase ancora embrionale è importante distinguere le policy nella lotta al cambiamento climatico dalle misure giuridiche, mantenendo sullo sfondo gli obbiettivi macro da perseguire. […] Di diverso rispetto al passato è che all’interno dell’Unione Europea ogni singola attività economica e ogni singolo settore che ha impatto diretto o indiretto sul cambiamento climatico dovranno essere rivisti alla luce del nuovo imperativo dell’emergenza climatica.” Nello stesso senso, poi, si vedano anche D. Bevilacqua, La normativa europea sul clima e il Green New Deal. Una regolazione strategica di indirizzo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2/2022, 297 ss., M. Delsignore, La tutela o le tutele pubbliche dell'ambiente? una risposta negli scritti di Amorth, in Diritto amministrativo, n. 2/2021, 313 ss.
[4] Svoltasi a Stoccolma dal 5 al 16 giugno 1972.
[5] In particolare, ciò è avvenuto con la pubblicazione del Report of the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights on the relationship between climate change and human rights (A/HRC/10/61) elaborato dal Human Rights Council e presentato il 15 gennaio 2009.
[6] In combinazione con numerosi altri fattori, tra cui si annoverano, a titolo esemplificativo, la geografia, il livello economico-sociale, la disabilità e l’età.
[7] La connessione esistente tra inquinamento, cambiamento climatico e diritti umani è stata ribadita, di recente, anche dal Report of the Secretary-General. The impacts of climate change on the human rights of people in vulnerable situations (A/HRC/50/57), elaborato dal Human Rights Council e presentato il 6 maggio 2022.
[8] Per un approfondimento sul tema si rinvia a D. Pauciulo, Il diritto umano a un ambiente salubre nella risoluzione 76/300 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 4/2022, 118 ss., che commenta la risoluzione 76/300 (A/RES/76/300, par. 1) del 28 luglio 2022 con la quale l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel contesto della 76° sessione plenaria, si è allineata alla Risoluzione 48/13 del Human Rights Council ed ha riconosciuto il diritto ad un ambiente pulito, salubre e sostenibile quale diritto umano.
[9] Cfr. G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione nel contenzioso climatico: c’è un giudice per il clima?, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 4/2021, 1273 ss.: A. Giordano, Climate change e strumenti di tutela. Verso la public interest litigation?, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n. 6/2020, 763 ss.; E. Gabellini, Accesso alla giustizia in materia ambientale e climatica: le azioni di classe, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 4/2022, 1105 ss.
[10] Cfr. E. Pariotti, I diritti umani: concetto, teoria, evoluzione, Padova, 2018; F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Milano, 1990; F. Viola, I. Trujillo, What Human Rights are not (or not only). A negative path to Human Rights practice, New York, 2014.
[11] Cfr. M. Torre-Schaub, L. D’Ambrosio, B. Lormeteau (a cura di), Rapport final de Recherche. Les Dynamiques du Contentieux Climatique. Usages et mobilisations du droit pour la cause climatique, Mission de Recherche Droit & Justice, CNRS, CLIMALex, Institut des Sciences Juridiques & Philosophique de la Sorbonne, Parigi, 2019; M. Torre-Schaub, Justice et justiciabilité climatique: les apports de l’Accord de Paris, in Bilan et perspectives de l’Accord de Paris. Regards croisés, a cura di M. Torre-Schaub, Parigi, 2017, 107 ss.
[12] Sebbene non esista, ad oggi, una definizione universalmente accettata di “contenzioso climatico”, sono stati numerosi i tentativi definitori. Il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (United Nations Environment Programme - UNEP) ha elaborato una definizione di “contenzioso climatico” nel Report “The Status of Climate Change Litigation” del 2017: essa considera tali tutti i casi, indipendentemente dall’autorità innanzi alla quale sono discussi, che sollevano questioni di diritto o di fatto riguardanti la scienza del cambiamento climatico e gli sforzi di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico Si tratta di una definizione che si allinea alla visione proposta dalla dottrina nordamericana, secondo la quale con l’espressione “climate change litigation” si fa riferimento a “any piece of federal, state, tribal, or local administrative or judicial litigation in which the … tribunal decisions directly and expressly raise an issue of fact or law regarding the substance or policy of climate change causes and impacts.” (Cfr. D. Markell, J.B. Ruhl, An empirical assessment of climate change in the Courts: a new jurisprudence or business as usual?, in Florida Law Review, vol. 64, n. 1/2012, 15 ss.). La definizione dell’UNEP, tuttavia, esclude dal novero delle cause climatiche tutte quelle cause che, pur se destinate ad avere un impatto sulla tematica del cambiamento climatico, non vi fanno riferimento esplicito. Nel successivo Report dell’UNEP Global Climate Litigation Report: 2020 Status Review, inoltre, è stato chiarito che sono escluse dalla definizione proposta di “contenzioso climatico” tutte le cause in cui “the discussion of climate change is incidental or where a non-climate legal theory would guide the substantive outcome of the case. Thus, when climate change keywords are only used as a passing reference to the fact of climate change and those issues are not related to the laws, policies, or actions actually at issue, the case is excluded. Similarly, this report excludes cases that seek to accomplish goals arguably related to climate change adaptation or mitigation but that do not depend on the climate change dimensions of those goals. For example, lawsuits seeking to use human health regulations to limit air pollution from coal fired power plants may incidentally cause a court to compel that power plant to emit fewer greenhouse gases (GHGs). Such cases are not considered “climate change litigation” for the purposes of this study” (pag. 6). Altri autori, invece, hanno avanzato una definizione del concetto di “contenzioso climatico” che si discosta da quella proposta dall’UNEP nei suoi Report e mira a ricomprendere in questo insieme tutte le azioni legali intentate da privati, ONG e autorità locali, innanzi a tribunali nazionali o regionali e contro Stati e aziende del settore dell'energia fossile, finalizzati a contestare le politiche climatiche statali o aziendali attraverso rivendicazioni fondate sul diritto pubblico, sui diritti umani e sul diritto privato. Rispetto a quella dell’UNEP, questa seconda ricostruzione interpretativa appare maggiormente in linea con l’evoluzione che ha caratterizzato le cause dirette alla tutela dell’ambiente in senso più ampio, poiché non si limita a guardare alla questione del cambiamento climatico ma abbraccia una visione olistica improntata sul concetto di giustizia ambientale e garantisce il giusto riconoscimento al diritto dei singoli ad un ambiente salubre. (Cfr. M. Torre-Schaub, L. d’Ambrosio, B. Lormeteau (a cura di), Rapport final de recherche. Les Dynamiques du contentieux climatique, cit.)
[13] Per una ricostruzione delle tappe che hanno segnato punti fondamentali nell’evoluzione del contenzioso climatico si rinvia a M. Torre-Schaub, L. d’Ambrosio, B. Lormeteau (a cura di), Rapport final de recherche, cit.; A. Pisanò, Il diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei, Napoli, 2022; C. Higham, J. Setzer, E. Bradeen, Challenging government responses to climate change through framework litigation, Londra, 2022; S. Valguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, in Diritto processuale amministrativo, n. 2/202, 293 ss.; A. Giordano, Climate change e strumenti di tutela. Verso la public interest litigation?, op. cit.; F. de Leonardis, Verso un ampliamento della legittimazione per la tutela delle generazioni future, in Cittadinanza e diritti delle generazioni future, a cura di F. Astone, F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta, Soveria Mennelli (CZ), 2010, 51 ss.
[14] Come evidenzia Pisanò, “nei contenziosi europei, gli attivisti climatici, favoriti dal fatto di convivere in uno spazio giuridico comune, quasi sempre utilizzano le stesse fonti (scientifiche e giuridiche), sviluppano le medesime strategie argomentative, si sostengono vicendevolmente, fanno riferimento ad una medesima ideologia (quella ambientalista) e hanno già condiviso esperienze pregresse di battaglie politiche, sociali, giudiziarie. Il risultato finale è l'emergere di un contenzioso climatico transnazionale dagli esiti non scontati perché potrebbero essere anche diversi da ordinamento a ordinamento, ma che attraversa tutto lo spazio giuridico europeo, utilizzando (spesso) l'argomento dei diritti come leva per spronare i governi ad assumere pienamente le loro responsabilità dinanzi all'emergenza climatica”. Cit. da A. Pisanò, Il diritto al clima, cit., 184.
[15] G. Pino, Il costituzionalismo dei diritti, Bologna, 2017.
[16] Tra le riflessioni più recenti in tema di discrezionalità interpretativa e argomentazione proposte dalla dottrina, si segnalano, per la ricchezza degli spunti, le suggestioni avanzate da P.L. Portaluri nella sua monografia La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurispudenziale e diritto amministrativo, Napoli, 2021, ove l’Autore, discutendo del controllo di meritevolezza ex art. 100 c.p.c. (interesse ad agire), mette in evidenza il carattere “progressivo” dei “valori” la cui evoluzione è inestricabilmente connessa all’avanzamento civile della società e si riflette positivamente sulla discrezionalità interpretativa dei diritti sanciti dall’ordinamento, consentendone (anzi, richiedendone) un ampliamento commisurato.
[17] Per un primo commento alla sentenza, elaborato nei giorni immediatamente successivi alla sua pubblicazione, si rinvia a H. van Eijken, J. Krommendijk, Does the Court of Justice clear the air: a Schutznorm in state liability after all?: JP v Ministre de la Transition écologique, in Eu law live, 10 gennaio 2023.
[18] La CGUE, nel suo parere del 18 dicembre 2014, 2/13, ha definito il rinvio pregiudiziale “la chiave di volta del sistema giurisdizionale”; esso, infatti, “instaurando un dialogo da giudice a giudice proprio tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione […], permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai trattati” (punto 176). Per un approfondimento sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea si rinvia a F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020; A. Adinolfi, I fondamenti del diritto dell’UE nella giurisprudenza della Corte di giustizia: il rinvio pregiudiziale, in Diritto dell’Unione Europea, n.3/2019, 441 ss.; S. Foa, Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Ius Publicum, n. 2/2015, 1 ss.; R. Romboli, Corte di Giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, in Rivista AIC, n. 3/2014, 1 ss.
[19] L’inquinamento atmosferico è determinato dalla dispersione nell’atmosfera di sostanze non presenti in condizioni di aria pura (cioè costituita essenzialmente da concentrazioni definite di ossigeno O2, azoto N2, argon Ar, anidride carbonica CO2 e vapore acqueo H2O), che si distinguono in inquinanti primari emessi direttamente in atmosfera – monossido di carbonio (CO), anidride solforosa (SO2), biossido di azoto (NO2) e particolato – ed in inquinante secondario – l’ozono (O3) – prodotto principalmente da reazioni chimiche che coinvolgono NO2 e composti organici volatili (es. idrocarburi) in presenza di luce solare e di alte temperature. Sebbene tra le fonti di inquinamento atmosferico rientrino anche molti fenomeni naturali (come ad esempio le eruzioni vulcaniche e le tempeste di sabbia del deserto), è tuttavia indubbio che i più importanti inquinanti esterni derivino dall’utilizzo di combustibili fossili (utilizzati per la combustione di veicoli a motore, impianti termici ed impianti industriali), i quali generano particelle corpuscolate (presenti in concentrazioni più elevate nelle città e gravemente dannose per l’ambiente e per la salute umana. Le particelle corpuscolate possono essere suddivise in base al diametro aerodinamico medio: inferiore a 10 micron (PM10: particelle toraciche), a 2,5 micron (PM2,5: particelle fini o respirabili), a 0,1 micron (PM0,1: particelle ultrafini o nanoparticelle). Nel 2017, la European Respiratory Society (ERS) e la American Thoracic Society (ATS) hanno elaborato un documento che definisce ed individua i principali effetti avversi dell’inquinamento atmosferico (Cfr. G. D. Thurston, H. Kipen, I. Annesi-Maesano, J. Balmes, R. D. Brook, K. Cromar, S. De Matteis, F. Forastiere, B. Forsberg, M. W. Frampton, J. Grigg, D. Heederik, F. J. Kelly, N. Kuenzli, R. Laumbach, A. Peters, S. T. Rajagopalan, D. Rich, B. Ritz, J. M. Samet, T. Sandstrom, T. Sigsgaard, J. Sunyer, B. Brunekreef, A joint ERS/ATS policy statement: what constitutes an adverse health effect of air pollution? An analytical framework, in European Respiratory Journal, 11 gennaio 2017, vol. 49, (1):1600419.); un report altrettanto interessante sugli effetti sanitari principali dell’inquinamento atmosferico è stato pubblicato recentemente sulla prestigiosa rivista Lancet (Cfr. Global burden of 87 risk factors in 204 countries and territories, 1990-2019: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2019, in Lancet, 17 ottobre 2020, vol. 396, n. 10258, 1223 ss).
[20] Per una ricostruzione dell’evoluzione normativa caratterizzante la progressiva introduzione di obblighi di tutela della qualità dell’aria, che metta anche in evidenza l’improcrastinabilità di un intervento legislativo per l’aggiornamento della disciplina europea, specialmente alla luce delle linee guida promosse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2021, sia consentito rinviare a G. Torta, Spunti critici sull’aggiornamento della normativa europea in tema di qualità dell’aria, in giustamm.it, 2022.
[21] Direttiva 2008/50/CE (GU L 152 dell’11.6.2008, pag. 1-44) del Parlamento europeo e del Consiglio “relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa”, adottata il 21 maggio 2008 (e da ultimo modificata nel 2015). La Direttiva in questione, secondo quanto disposto dall’articolo 1, è finalizzata ad istituire misure volte a “definire e stabilire obiettivi di qualità dell’aria ambiente al fine di evitare, prevenire o ridurre gli effetti nocivi per la salute umana e per l’ambiente nel suo complesso; valutare la qualità dell’aria ambiente negli Stati membri sulla base di metodi e criteri comuni; ottenere informazioni sulla qualità dell’aria ambiente per contribuire alla lotta contro l’inquinamento dell’aria e gli effetti nocivi e per monitorare le tendenze a lungo termine e i miglioramenti ottenuti con l’applicazione delle misure nazionali e comunitarie; garantire che le informazioni sulla qualità dell’aria ambiente siano messe a disposizione del pubblico; mantenere la qualità dell’aria ambiente, laddove sia buona, e migliorarla negli altri casi; promuovere una maggiore cooperazione tra gli Stati membri nella lotta contro l’inquinamento atmosferico.”
[22] Ai sensi dell’articolo 2 della Direttiva 2008/50/CE si intende per “«aria ambiente»: l’aria esterna presente nella troposfera, ad esclusione di quella presente nei luoghi di lavoro quali definiti dalla direttiva 89/654/CEE [ndr. Direttiva 89/654/CEE del Consiglio del 30 novembre 1989, relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute per i luoghi di lavoro (GU L 393 del 30.12.1989, pag. 1), modificata dalla direttiva 2007/30/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (GU L 165 del 27.6.2007, pag. 21)], a cui si applichino le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro e a cui il pubblico non ha accesso regolare”.
[23] All’articolo 13, (rubricato "Valori limite e soglie di allarme ai fini della protezione della salute umana") paragrafo 1, si stabilisce che "gli Stati membri provvedono affinché i livelli di biossido di zolfo, PM10, piombo e monossido di carbonio presenti nell'aria ambiente non superino, nell'insieme delle loro zone e dei loro agglomerati, i valori limite stabiliti nell'allegato XI. Per quanto riguarda il biossido di azoto e il benzene, i valori limite fissati nell'allegato XI non possono essere superati a decorrere dalle date indicate nel medesimo allegato. Il rispetto di tali requisiti è valutato a norma dell'allegato III. I margini di tolleranza fissati nell'allegato XI si applicano a norma dell'articolo 22, paragrafo 3 e dell'articolo 23, paragrafo 1".
[24] All’articolo 23 (intitolato "Piani per la qualità dell'aria"), paragrafo 1, si stabilisce, inoltre, che "Se in determinate zone o agglomerati i livelli di inquinanti presenti nell'aria ambiente superano un valore limite o un valore-obiettivo qualsiasi, più qualunque margine di tolleranza eventualmente applicabile, gli Stati membri provvedono a predisporre piani per la qualità dell'aria per le zone e gli agglomerati in questione al fine di conseguire il relativo valore limite o valore-obiettivo specificato negli allegati XI e XIV. In caso di superamento di tali valori limite dopo il termine previsto per il loro raggiungimento, i piani per la qualità dell'aria stabiliscono misure appropriate affinché il periodo di superamento sia il più breve possibile. I piani per la qualità dell'aria possono inoltre includere misure specifiche volte a tutelare gruppi sensibili di popolazione, compresi i bambini. Tali piani per la qualità dell'aria contengono almeno le informazioni di cui all'allegato XV, punto A, e possono includere misure a norma dell'articolo 24. Detti piani sono comunicati alla Commissione senza indugio e al più tardi entro due anni dalla fine dell'anno in cui è stato rilevato il primo superamento. Qualora occorra predisporre o attuare piani per la qualità dell'aria relativi a diversi inquinanti, gli Stati membri, se del caso, predispongono e attuano piani integrati per la qualità dell'aria riguardanti tutti gli inquinanti interessati".
[25] Cit. da punto 33 della sentenza. Doveroso precisare, tuttavia, che, in realtà, dalla risposta del Giudice del rinvio alla richiesta di informazioni supplementari rivoltagli dalla Corte, risulta che il ricorrente, nel procedimento principale, chiede il risarcimento dei danni che gli sarebbero stati causati da superamenti dei valori limite di concentrazione in NO2 e in PM10 fissati all'allegato XI della direttiva2008/50/CE dal 2003: dunque, per la corretta definizione della questione, occorre prendere in considerazione non solo le disposizioni pertinenti della direttiva 2008/50/CE, ma anche quelle delle direttive 1980/779/CEE (articoli 3 e 7), 1985/203/CEE (articoli 3 e 7), 1996/62/CE (articoli 7 e 8) e 1999/30/CE (articolo 4, paragrafo 1 e articolo 5, paragrafo 1) nei periodi di rispettiva vigenza.
[26] Conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott, presentate il 5 maggio 2022, Causa C‑61/21, JP contro Ministre de la Transition écologique e Premier ministre. Lingua originale: tedesco.
[27] Sul punto si vedano le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame (C‑46/93 e C‑48/93, EU:C:1996:79, punto 51), del 24 marzo 2009, Danske Slagterier (C‑445/06, EU:C:2009:178, punto 20), e del 10 dicembre 2020, Euromin Holdings (Cipro) (C‑735/19, EU:C:2020:1014, punto 79).
[28] Tali norme, argomenta l’AG, stabiliscono sia un obbligo, dal contenuto specifico e direttamente applicabile, gravante sugli Stati membri, di prevenire il superamento dei valori limite per gli inquinanti atmosferici considerati, sia un obbligo, altrettanto chiaro e autonomo, di predisporre piani per la qualità dell’aria che sorgono a seguito della violazione dei valori limite (punti da 33 a 71 delle conclusioni dell’AG Kokott).
[29] Si vedano, in particolare, i punti da 95 a 102 delle conclusioni dell’AG Kokott.
[30] Annoverando tra questi “l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità, il carattere intenzionale o involontario dell’infrazione commessa o del danno causato, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto e la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione dell’Unione abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto dell’Unione.” Cit. da punto 106 delle conclusioni dell’AG Kokott che richiama, in proposito, le sentenze della CGUE del 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame (C‑46/93 e C‑48/93, EU:C:1996:79, punto 56), e del 29 luglio 2019, Hochtief Solutions Magyarországi Fióktelepe (C‑620/17, EU:C:2019:630, punto 42).
[31] Inevitabilmente, un chiaro indizio che potrebbe guidare il giudice nazionale nella sua valutazione circa la validità o meno dei piani predisposti dai singoli Stati membri può essere rappresentato dalla presenza di procedure di infrazione aperte dalla Commissione nei confronti degli Stati per mancata o scorretta implementazione della direttiva 2008/50/CE. Avendo riguardo al periodo rilevante della violazione qualificata, peraltro, l’AG fa notare come “125. Una violazione qualificata delle norme relative alla protezione della qualità dell’aria ambiente per quanto riguarda il PM10 o il biossido di azoto ai sensi degli articoli 7 e 8 della direttiva 96/62, della direttiva 1999/30 nonché degli articoli 13 e 23 della direttiva 2008/50, comprende tutti i periodi durante i quali i valori limite applicabili sono stati superati in assenza di un piano di miglioramento della qualità dell’aria ambiente conforme ai requisiti di cui all’allegato IV della direttiva 96/62 o all’allegato XV, sezione A, della direttiva 2008/50, e a condizione che un piano non presentasse altre manifeste carenze.”
[32] Punto 137 delle conclusioni dell’AG Kokott.
[33] Nel corso della causa, infatti, sono pervenute alla Corte non solo le conclusioni dell’AG Kokott, ma anche le osservazioni presentate dal privato attore in sede nazionale, dal governo francese, dal governo irlandese, dal governo italiano, dal governo polacco, dal governo dei Paesi Bassi e dalla Commissione europea.
[34] Cfr. sentenza della CGUE del 18 gennaio 2022, Thelen Technopark Berlin, C‑261/20, EU:C:2022:33, punto 42 e giurisprudenza ivi citata.
[35] Cfr. sentenza della CGUE del 19 dicembre 2019, Deutsche Umwelthilfe, C‑752/18, EU:C:2019:1114, punto 55 e giurisprudenza ivi citata.
[36] Cfr. sentenze CGUE del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos, 26/62, EU:C:1963:1, I‑5413, del 19 novembre 1991, Francovich e a., C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428, punto 31, del 20 settembre 2001, Courage e Crehan, C‑453/99, EU:C:2001:465, punto 19, e dell'11novembre 2021, Stichting Cartel Compensation e Equilib Netherlands, C‑819/19, EU:C:2021:904, punto 47.
[37] Cfr. D. Morana, La salute come diritto costituzionale, Torino, 2021; L. Lamberti (a cura di), Diritto sanitario, Milano, 2019; B. Pezzini, Il diritto alla salute a quarant’anni dall’istituzione del servizio sanitario nazionale, in Rivista di BioDiritto, n. 2/2019, 121 ss.; G. Bianco, Persona e diritto alla salute, Padova, 2018; A. Morrone, F. Minni, Il diritto alla salute nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 9/2013, 1 ss.
[38] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza del 23 febbraio 2023 n. 5668, con la quale la Corte è stata chiamata a decidere su un ricorso per regolamento di giurisdizione proposto dal TAR Lombardia. La vicenda originava da un ricorso, presentato da un soggetto privato, che aveva convenuto in giudizio, inizialmente davanti al Tribunale di Milano, il Comune di Milano e la Regione Lombardia chiedendo che fossero condannati al risarcimento dei danni da lui subiti in conseguenza del mancato rispetto, da parte dei convenuti, dei limiti fissati dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 155, a tutela della salute umana. Il giudice ordinario adito, tuttavia, aveva rilevato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo, ritenendo che la causa fosse relativa ad un mancato esercizio, da parte del Comune e della Regione, dei poteri amministrativi finalizzati alla tutela dei cittadini dall’inquinamento atmosferico e che, dunque, la vicenda fosse da inquadrarsi come un caso di omessa adozione di provvedimenti amministrativi di carattere autoritativo a tutela della salute pubblica, perciò dalla chiara natura pubblicistica. Il privato aveva correttamente riassunto la causa davanti al Tar per la Lombardia ma anche questo giudice aveva sollevato conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell’art. 11, comma 3, cod. proc. amm., ritenendo che la controversia appartenesse invece alla giurisdizione del giudice ordinario; secondo il TAR, infatti, l’individuazione del giudice competente doveva essere effettuata in ottemperanza al criterio del petitum sostanziale che, nel caso di specie, era finalizzato a far valere il diritto alla salute del privato, ovvero un diritto che, per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione non può essere affievolito o pregiudicato dall’esercizio dei poteri amministrativi. La Corte di Cassazione, riunita a Sezioni Unite, ha deciso il ricorso per regolamento di giurisdizione affermando la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, secondo quanto previsto dall’art. 313, comma 7, dello stesso decreto legislativo. Al riguardo, la Corte ha affermato che “L’eventualità che l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A. non incide sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l’effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi) ma esclusivamente sui poteri del giudice ordinario, il quale, nell’ipotesi in cui l’attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l’esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a conformità, l’attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, nell’ipotesi in cui risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l’adeguamento dell’attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose (ordinanza 23 aprile 2020, n. 8092). Allo stesso modo, è stato affermato che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia nella quale il privato, deducendo l’omessa adozione, da parte della P.A., degli opportuni provvedimenti a tutela del diritto alla salute, domandi nei confronti della stessa il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a immissioni intollerabili di odori e polveri provenienti da un’azienda agricola privata, venendo in rilievo, alla stregua del criterio del petitum sostanziale, un comportamento materiale di pura inerzia delle autorità pubbliche, suscettibile di compromettere il nucleo essenziale del diritto soggettivo inviolabile alla salute (così la recentissima sentenza 27 luglio 2022, n. 23436, in linea con la precedente ordinanza 12 novembre 2020, n. 25578).” Nel caso specifico, pertanto, la Corte non ha dubbi nell’affermare che a fondamento della domanda sta “una pretesa che si basa sulla tutela di un diritto fondamentale – quello, appunto, alla salute – che, non tollerando compressioni neppure da parte dei pubblici poteri, mantiene sempre la sua natura di diritto soggettivo, non degradabile ad interesse legittimo, con conseguente devoluzione della causa alla giurisdizione del giudice ordinario”.
[39] Cfr. sentenze CGUE del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428, punto 33); del 14 marzo 2013, Leth (C‑420/11, EU:C:2013:166, punto 40), del 24 giugno 2019, Popławski (C‑573/17, EU:C:2019:530, punto 56), e del 19 dicembre 2019, Deutsche Umwelthilfe (C‑752/18, EU:C:2019:1114, punto 54).
[40] Sentenze della CGUE del 10 maggio 2011, Commissione/Svezia (PM10) (C‑479/10, non pubblicata, EU:C:2011:287), del 15 novembre 2012, Commissione/Portogallo (PM10) (C‑34/11, EU:C:2012:712), del 19 dicembre 2012, Commissione/Italia (PM10) (C‑68/11, EU:C:2012:815), del 5 aprile 2017, Commissione/Bulgaria (PM10) (C‑488/15, EU:C:2017:267), del 22 febbraio 2018, Commissione/Polonia(PM10) (C‑336/16, EU:C:2018:94), del 24 ottobre 2019, Commissione/Francia (Superamento dei valori limite per il biossido di azoto) (C‑636/18, EU:C:2019:900), del 30 aprile 2020, Commissione/Romania (Superamento dei valori limite di PM10) (C‑638/18, non pubblicata, EU:C:2020:334), del 10 novembre2020, Commissione/Italia (Valori limite di PM10) (C‑644/18, EU:C:2020:895) del 3 febbraio 2021, Commissione/Ungheria (Valori limite di PM10) (C‑637/18, non pubblicata, EU:C:2021:92) del 4 marzo2021, Commissione/Regno Unito (Valori limite – biossido di azoto) (C‑664/18, non pubblicata,EU:C:2021:171), del 3 giugno 2021, Commissione/Germania (Valori limite di NO2) (C‑635/18, non pubblicata, EU:C:2021:437), e del 28 aprile 2022, Commissione/Francia (Valori limite di PM10)(C‑286/21,non pubblicata, EU:C:2022:319). Per un approfondimento commentato sulle sentenze che hanno sanzionato la Polonia, si rinvia a L. Busatta, Le politiche europee per la qualità dell’aria e le sfide di un concetto polisemico di salute. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, terza sezione, C-336/16, Commissione c. Polonia, sentenza del 22 febbraio 2018, in Corti supreme e salute, n. 3/2018, 501 ss.; L. Busatta, Dal mancato rispetto delle politiche europee per la qualità dell’aria ai diritti delle generazioni future: come conciliare salute, economia e ambiente? [Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, sentenza del 10 novembre 2020, Commissione v. Italia, C-644/18], in Corti supreme e salute, n. 1/2021, 21 ss. Per un approfondimento commentato sulle sentenze che hanno sanzionato l’Italia sia consentito rinviare a G. Torta, Spunti critici sull’aggiornamento della normativa europea in tema di qualità dell’aria, cit. Infine, per un approfondimento più generale sulle procedure d’infrazione, si vedano R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, III ed., Giappichelli, 2020; R. Adam, L’Italia e le procedure d’infrazione: ragioni e rimedi, in Il diritto dell’Unione europea, n. 2/2021, 371 ss.; M. Aranci, La procedura d’infrazione come strumento di tutela dei valori fondamentali dell’Unione europea. Note a margine della sentenza della Corte di giustizia nella causa Commissione/Polonia, in Eurojus.it, n. 3/2019, 49 ss.; M. Condinanzi, C. Amalfitano, La procedura di infrazione dieci anni dopo Lisbona, in Federalismi.it, n. 19/2020, 217 ss.
[41] Cause C‑573/19, Commissione/Italia (Biossido di azoto), C‑730/19, Commissione/Bulgaria (Biossido di zolfo), C‑125/20, Commissione/Spagna (Biossido di azoto), C‑70/21, Commissione/Grecia (PM10), C‑342/21, Commissione/Slovacchia (PM10), e C‑633/21, Commissione/Grecia (Biossido di azoto), eC‑220/22, Commissione/Portogallo (Biossido di azoto). E’ doveroso rimarcare, in proposito, che le procedure di infrazione (sia quelle già concluse con sentenza di condanna, sia quelle ancora aperte) si riferiscono a violazioni perpetrate dagli Stati di valori limite cristallizzati nella direttiva europea sulla qualità dell’aria che, rispetto ai valori limite indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle sue linee guida del 2008, erano decisamente più permissivi. Se si pensa che le linee guida più recenti adottate dall’OMS suggeriscono valori limite drasticamente più bassi rispetto a quelli proposti nel 2008 ci si rende immediatamente conto dell’urgenza di un intervento normativo in materia.
[42] A titolo esemplificativo valga richiamare la causa recentemente avviata da una coppia di genitori contro la Regione Piemonte per chiedere al Tribunale di Torino di riconoscere il diritto umano e fondamentale del proprio figlio minore (affetto da gravi malattie respiratorie) a respirare un’aria sana e pulita, come sancito dalla Direttiva UE n. 2008/50, recepita in Italia dal D. Lgs. n. 155/2010, quale espressione del diritto soggettivo costituzionalmente garantito alla vita, alla salute e ad un ambiente salubre, ai sensi degli Artt. 2, 9, 32 della Costituzione, 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e 2, 3, 37 e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. N.r.g. 22282/2022.
[43] Punti 97 e 98 delle conclusioni dell’AG Kokott.
[44] A fine ottobre 2022 la Commissione Europea ha pubblicato una proposta per una nuova direttiva che individua norme provvisorie in materia di qualità dell'aria che, pur non recependo in toto le indicazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo report del 2021, ne tengono conto e stabiliscono obiettivi di qualità dell’aria per il 2030. Il fine di tale proposta, peraltro, è il raggiungimento dell’obiettivo di un inquinamento atmosferico pari a zero, al più tardi, entro il 2050. Cfr. European Commission, Proposal for a directive of the European Parliament and of the Council on ambient air quality and cleaner air for Europe (recast), COM/2022/542 final, Bruxelles, 26.10.2022.
[45] L’idea di introdurre una presunzione relativa è stata proposta dall’AG Kokott nelle sue conclusioni (punto 138) e richiama la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) del 9 giugno 2005, Fadeyeva/Russia (55723/00, CE:ECHR:2005:0609JUD005572300, punti 87 e 88) che, in un caso di inquinamento atmosferico, ha dedotto una presunzione di danno da un superamento di valori limite e da altri importanti indizi.
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