Recensione di Salvatore Natoli a Maria Martello, Una giustizia alta e altra
Se ti ricordi…che tuo fratello
ha qualcosa contro di te,
lascia il tuo dono davanti all’altare,
va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello
e poi torna ad offrire il tuo dono
(Mt. 5, 23)
Neppure Dio può perdonare, se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato, se, in breve, lo spirito della pace non faccia aggio sul demone della lite. E dico dia/bolus proprio perché è colui che divide e fomenta la divisione. Ora, nel passo evangelico a farsi mediatore è Gesù indicando come ai fini della riconciliazione non basta una soluzione meramente rituale - al posto dell’altare potremmo metterci il tribunale - bensì relazionale. Tale via può essere percorsa solo se si animati da un vero spirito di conversione. Nessuna riconciliazione è, infatti, possibile se i soggetti in causa non si assumono la responsabilità dei loro atti. Ma, nel versetto appena citato c’è un particolare che merita d’essere messo in evidenza; il testo dice: se tuo fratello ha qualcosa contro te…. Domanda? Cosa ho fatto perché dovrebbe avercela con me? E, allora: dipende da me, gli ho apportato, pur non volendolo, danno; o magari è lui a nutrire astio contro di me per pregiudizio. Di certo vi è stata una lacerazione; ma da cosa è stata causata? Non c’è altro modo per capirlo che chiarirsi. In questo punto il tratto più rilevante del versetto è, sì, l’intimazione alla riconciliazione, ma senza aspettare chi debba fare la prima mossa senza tergiversare: appunto va prima a riconciliarti. È un criterio deciso che, certo, comporta l’assunzione di responsabilità dei propri atti - evitando lo scarica barile delle pratiche rituali - ma in questo caso vuol dire qualcosa di più: esige spontaneità, una piena volontà di pace quella che non calcola, ma anticipa.
La Martello riprende, a suo modo, questo schema cristico assumendo a figura esemplare di mediatore, Francesco d’Assisi, tra tutti quello che più si è modellato su Cristo. Nota, infatti, che nell’episodio del lupo di Gubbio San Francesco ha svolto “una vera azione di mediazione, ben scandita nelle sue parti:
*la scelta di una figura terza tra due parti in conflitto;
*l’ascolto separato delle due parti
*il riconoscimento dei ruoli vittima-persecutore;
*la responsabilizzazione del persecutore;
*la scoperta della vera motivazione;
*l’accordo separato
*il patto.[1]
E conclude sottolineando che “l’unica umanissima via” per risolvere i conflitti e cercarne le profonde reali ragioni”[2].
Perché vi sia riconciliazione è necessario accertare i torti, esibire le reciproche ragioni, ma soprattutto avere una vera intenzione di riconciliazione. Ciò vuol dire mettere in conto – come dice Manzoni - che ragione e torto non si possono mai dividere con un taglio netto. Questo è, certo, vero, ma è anche vero che non può essere un modo facile di scansarsi: d’intuito è, infatti inaccettabile il noto verso della canzone “chi avuto avuto avuto/chi ha dato ha dato ha dato/ scurdammoci u passato…Se la cosa fosse così semplice non sarebbe necessaria alcuna mediazione. D’altra parte, se è vero che ragione e torto non si possono divedere con un taglio netto non bisogna trascurare che nella realtà la partizione è di raro simmetrica: in breve le vittime esistono. Se il parlarsi è, dunque, preliminare al riconciliarsi la cosa nei fatti non è facile perché gli uomini sono naturalmente mossi dalle passioni e in particolare in stato di conflitto non è affatto spontaneo reprimere l’astio; anzi ognuno tende a far valere le proprie ragioni e - specie se colpevole - tende d’istinto a dissimulare la colpa o a ridimensionarla o a renderne in qualche modo l’altro corresponsabile. Capita in tutte le liti, immaginarsi nei delitti, nelle vite estinte, danni irrisarcibili. Peraltro nel conflitto le posizioni tendono ad irrigidirsi e per questo a spegnere l’odio, a sciogliere il risentimento, a vincere il pregiudizio sono necessarie figure di mediazione che abbiano un effetto fluidificante cosa che può avvenire solo se i mediatori hanno la sensibilità e lo stile di fare assumere all’uno il punto di vista dell’altro. Cosa tutt’altro che semplice e non a caso la Martello parla di miracolo. Ora la mediazione può fare, certo miracoli, ma – scrive - “richiede un impegno costante e una formazione continua proprio perché non è l’attesa passiva di un intervento dall’alto, ma la costruzione graduale di una nuova mentalità, di un nuovo atteggiamento, prima di fronte a se stessi e poi di fronte agli altri, a tutti gli altri, nel mondo”. [3]
Se si vuole pervenire ad una riconciliazione bisogna, dunque, predisporre un terreno adeguato e a questo non basta la semplice procedura dei tribunali; sono necessarie figure capaci di mettere in relazione le parti sia prima del processo che durante il processo e ancor più a sentenza emessa. Un accordo preliminare può evitare di andare a processo; infatti - nota la Martello – “nel profondo di ogni litigante si annida sempre la speranza che ci sia un modo per far sparire i conflitti e che si eviti di far diventare contenziosi da delegare ad avvocati e giudici”[4]. Bene fino a che si tratta di liti, più difficile se di delitti; in questo caso l’azione mediatrice può agire lungo la durata del processo evitando il radicalizzarsi dello scontro, che il legittimo risentimento lo amplifichi. Questo lungi dal negare l’effettività del fatto, evidenzia la complessità delle situazioni che presiedono alla genesi degli atti umani. E non tanto per giustificarli, ma, caso mai, per rendere al colpevole più comprensibile la sanzione – nel caso gli fosse comminata - e come tale accettabile; nella vittima faciliterebbe la remissione del risentimento con beneficio di ambedue le parti. Su questo ha ragione la Martello quando sostiene che per pervenire a questo non sono sufficienti le semplici procedure, ma bisogna toccare le sensibilità, portare alla luce il non detto, fare emergere gli aspetti umani della vicenda.
Messa in questi termini, la mediazione gioca un ruolo particolarmente importante a sentenza emessa e dovrebbe indirizzare le politiche carcerarie: tocca, infatti, al mediatore accompagnare i soggetti in un cammino di trasformazione. Cosa più che mai impegnativa perché significa condurre gli individui a formulare un giudizio il più possibile obbiettivo su sé stessi: passo decisivo per permettere loro, a pena inflitta, di non subirla passivamente. Nessuna pena è un bene in sé – quand’anche giusta – ma trae senso se fa maturare nel soggetto un sentimento di emendazione. Se non induce a questo altro non sarebbe che un mascherato spirito di vendetta o una velata voglia di crudeltà. Nel diritto questo è da tempo acquisito, ma lo è meno nel fatto almeno se si guarda alle disfunzioni presenti nell’amministrazione della giustizia. Oggi – rileva la Martello – “assistiamo a procedimenti giudiziari – specie civili – inammissibilmente lunghi, e non sempre a causa del rispetto dei principi di garanzia, mentre – su un altro piano – le carceri scoppiano per sovraffollamento; inoltre le finalità di rieducazione e riabilitazione sono contraddette dai dati sull’incidenza della recidiva”[5]. Ora, le disfunzioni si possono pur sempre eliminare – è una questione d’organizzazione - ma importante è che muti la logica della giustizia, che passi da una concezione retributiva a quella riparativa: passiva la prima, attiva la seconda perché rende i soggetti titolari del loro cambiamento. Per la verità, questa è una mutazione già ampiamente in atto nel delitto penale.
Nietzsche è notoriamente un pensatore pericoloso, ma ha l’occhio lungo quando scrive che il sentimento dell’obbligazione personale... ha avuto origine nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui per la prima volta si contrappose persona a persona…Fissare i prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha occupato il primissimo pensiero degli uomini in misura tale da costituire, in un certo senso un pensiero”.[6] E’ vero: col tempo questo modo di pensare è divenuto un’abitudine. Ora, che il sentimento dell’obbligazione abbia quest’origine è tutto da discutere, ma di sicuro l’adozione di una logica unicamente risarcitoria finisce di fatto a ribadire la contrapposizione senza sanare il conflitto, né indurre il colpevole al cambiamento. Ci si limita a comminare la pena, il cui limite si mostra con particolare chiarezza innanzi a danni irrisarcibili – ad esempio, un omicidio - che nessuna pena può mai sanare. Come si può parlare di retribuzione a fronte dell’irrisarcibile? Né, d’altra parte si può dire che la pena come tale migliori l’individuo. Molte possono essere le definizioni di pena e delle sue funzioni, ma di sicuro non è essa che suscita il sentimento di colpa anzi come già notava Nietzsche “tra delinquenti e galeotti l’autentico rimorso è qualcosa di estremamente raro… e su ciò convengono tutti gli osservatori (evidentemente si riferisce a quelli della sua epoca) coscienziosi, che in molti casi esprimono un giudizio del genere molto malvolentieri e contro i loro più intimi desideri. Calcolando in grande la pena rende duri, freddi”[7]…e non è da sottovalutare che il delinquente proprio dalle procedure giudiziarie ed esecutive stesse “è impedito dall’avvertire come riprovevole in sé il suo atto, la natura della sua azione; poiché vede commettere e poi approvare, commettere con buona coscienza, esattamente le stesse cose al servizio della giustizia: spionaggi, raggiri, corruzione…”[8] Queste cose – e l’abbiamo visto - capitano anche oggi. In tutto ciò, le pene di certo non apportano alcun beneficio alla società.
Ora, se una logica risarcitoria a favore della vittima – per quel che si può - può ritenersi legittima e doverosa, non è di per sé sufficiente al recupero del colpevole alla società. Proprio in questo punto il lavoro del mediatore diviene decisivo perché proprio a partire dall’incontro con la vittima il colpevole può cogliere in vivo il danno inflitto, immedesimarsi con essa e muovere sulla via del ravvedimento. Peraltro non bisogna dimenticare che il colpevole può essere, a suo modo, anche vittima e che non ha altro modo di riparare se non impegnarsi a beneficio di tutti. Infatti, ogni colpa è di dritto o di rovescio sociale e, a ben considerare, questo non è che un modo laico di intendere il peccato originale.
In questo quadro, la mediazione tende a qualcosa di più che alla conciliazione: non si limita a sanare la lite - in base e reciproche convenienze - ma tende a individuare le ragioni scatenanti il conflitto – individuali sociali-; mira alla pacificazione che vuol dire accettazione dell’altro ed insieme dei propri limiti il cui disconoscimento o ignoranza è matrice di ogni prevaricazione. Certo, il conflitto non si risolve in questo, ma può, al contrario, rivelarsi fecondo perché mai potremmo guadagnare la misura di noi stessi se non mettendoci in gioco e nel reciproco confronto. Viviamo nei conflitti e di conflitti che ci istruiscono su di noi – cosa possiamo – e insieme ci consentono di esplorare la realtà di noi più grande. Ora, se la tentazione dell’oltre è motivo di sviluppo, non lo è la voglia incondizionata di affermazione: questa trasforma il conflitto in reciproca prevaricazione e finisce per evocare e legittimare la sanzione. Per evitare questo bisogna apprendere a governare i conflitti ed è in questo che opera il mediatore. Posta la cosa in questi termini, l’ambito del mediatore non si limita allo spazio del diritto e del processo, ma si estende a tutta la vita sociale; dovrebbe, perciò, avere una funzione determinante nei processi di formazione perché nella vita i conflitti sono direttamente proporzionali ai problemi. Questo si ricava con chiarezza dal sottotitolo del saggio della Martello: “la mediazione nella nostra vita e nei tribunali”. In effetti si tratta di produrre una mutazione di mentalità, si tratta – scrive la Martello – “di una metodologia sia per trovare le soluzioni sia per sanare il vero conflitto relazionale rafforzando la dignità di ciascuno confliggente…Questa impostazione facilita l’esercizio dello spirito critico, il coraggio della verità, la consapevolezza degli accadimenti della vita, la valorizzazione della propria dignità di esseri umani”[9] Non si tratta solo di un intervento meramente tecnico, ma – scrive la Martello - di un passo filosofico “idoneo a dare diritto di parola alle urgenze più radicali e dense di significato che sono alla base di ogni azione e anche di ogni situazione di conflitto”.[10]
Questo saggio - come si vede - non solo offre un contributo importante per gli operatori del diritto – e della mediazione sociale in generale - ma è buona guida per tutti, per meglio leggere e affrontare i conflitti che attraversano la società contemporanea.
[1] M. MARTELLO, Una giustizia altra e alta. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali, Paoline Editoriale Libri 2022, pp. 48-49
[2] Cfr., ibid. p. 50
[3] Id.
[4] Ibid., p. 57
[5] Ibid., p. 27
[6] F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Rizzoli, Milano 1997, pp. 109-110,
[7] ibid.,p.122
[8] ibid., p. 123 ( corsivo nostro )
[9] M. MARTELLO, ibid., p. 129
[10] Ivi