di Raffaello Belli
Sommario: 1. L’“accomodamento ragionevole” - 1.1. L’“accomodamento” - 1.1.1 Società vivibile per tutti - 1.2. L’“accomodamento ragionevole" e l’assistenza personale - 1.3. L’onere sproporzionato o eccessivo - 1.3.1. L’onere sproporzionato o eccessivo nella Convenzione - 1.3.2. La legge n. 67 del 2006 - 2. Le “risorse disponibili” - 2.1. Una sfida concreta - 3. La “vita indipendente” - 4. Il “progetto di vita individuale” - 4.1. Non prendersi in giro - 5. Alcune altre questioni - 5.1. Il Garante - 5.2. Il “modello sociale della disabilità” - 5.3. Revisioni delle prestazioni - 5.4. La “presa in carico” - 6. Conclusioni.
4. Il “progetto di vita individuale”
Nella Legge n. 227 qui in esame, per “consentire” ai disabili di non essere discriminati e vivere le libertà, di fatto viene accantonata la “vita indipendente” e ben altro spazio viene dato al “progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”.
Rispetto alla normativa preesistente, in quella riguardante il “progetto di vita individuale” di passi in avanti c’è che viene stabilito di “prevedere che sia garantita comunque l'attuazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato, al variare del contesto territoriale e di vita della persona con disabilità, mediante le risorse umane e strumentali di rispettiva competenza degli enti locali e delle regioni ai sensi della normativa vigente”[77]. Ovvero, se un disabile cambia zona di residenza, non deve più ricominciare tutto daccapo con i “servizi sociali” come accade attualmente e accadrà fino a quando non ci saranno i decreti attuativi di questa legge.
E non è per niente negativo neppure il fatto che nella Legge n. 227 sia prevista la partecipazione alla determinazione del “progetto di vita” anche da parte dei disabili gravissimi[78]. Però sarebbe davvero inammissibile se ai gravissimi non venisse consentita nemmeno la partecipazione alla determinazione del proprio “progetto di vita”. E il fatto che si sia ritenuto necessario introdurre una norma per garantire tale partecipazione è indicativo dei rischi che corre chi è costretto a rivolgersi ai servizi sociali.
Si rileva poi che in questa Legge n. 227 per un disabile viene stabilito che è indispensabile fare il “progetto individuale”, mentre la “vita indipendente” è solo una possibilità subordinata. Cioè, il “progetto individuale” va fatto in ogni caso, poi si vedrà se in tale progetto rientra o meno la “vita indipendente”. Viceversa, fra l’altro, la Convenzione dell'Onu sui disabili e la Costituzione italiana tutelano rispettivamente, in maniera esplicita o implicita, la “vita indipendente” e non prevedono il “progetto di vita”.
Per di più “progetto individuale” non vuole affatto dire “progetto autodeterminato”: nella Legge n. 227 qui in esame viene infatti stabilito chiaramente che questo progetto deve sì tener conto delle specifiche esigenze del singolo disabile, ma viene fatto dai servizi sociali con la partecipazione del disabile.
In vari punti di questa Legge risulta chiaro che il “progetto di vita” non è fatto dalla persona disabile stessa. Fra l’altro viene stabilito di “prevedere [...] assicuri […] con la partecipazione della persona con disabilità [...] l'elaborazione di un progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”[79]. E l’immediatamente successivo punto 5) stabilisce di "prevedere che il progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato sia diretto a realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte". Cioè la persona con disabilità è parte terza rispetto all’estensore del progetto.
In relazione al “partecipato” riportato qui sopra, per esigenze di lunghezza non è qui possibile esaminare ogni dettaglio di quanto stabilito sulla capacità legale dall’art. 12 della Convenzione dell'Onu sui disabili cit. E, tanto meno, è possibile esaminare in dettaglio il “Commento Generale”, relativo a tale articolo, scritto dal Comitato dell’Onu cit.
Poiché l’essere titolari dei diritti fondamentali si risolve in una scatola vuota se per il soggetto non è possibile decidere liberamente tutto quanto riguarda il loro concreto esercizio, dell’art. 12 cit. vanno comunque accennate almeno alcune parole, da tener ben presenti anche per altre questioni che verranno esaminate più avanti in questo scritto. In base a tale art. 12 della Convenzione, lo Stato deve fornire il “sostegno” al disabile per quanto riguarda l’esercizio delle decisioni riguardanti la propria vita, e quindi il disabile non “partecipa” (come stabilisce la Legge n. 227), ma rimane il soggetto che prende tali decisioni, ovvero è il soggetto da sostenere. Si badi poi bene che, sempre secondo l’art. 12 cit., gli Stati devono fornire ai disabili “il sostegno […] di cui dovessero necessitare”. Cioè a dire che, secondo questa disposizione, ovvero a seguito della parola “dovessero”, il fatto che i disabili abbiano necessità di essere aiutati per le decisioni riguardanti la propria vita è solo un’eventualità.
E pure da parte del Comitato cit. si ribadisce che deve trattarsi di “sostegno”[80] e viene stabilito che è talmente essenziale che il disabile sia il protagonista di tutto ciò che lo riguarda che tale “sostegno” deve essere fornito pienamente anche se richiede un onere sproporzionato[81].
Viceversa, con quel “partecipato”, la Legge n. 227 stabilisce che nessun disabile fa da sé il proprio “progetto di vita”. Inoltre tale “sostegno” deve essere scevro da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita[82]. Viceversa, secondo la Legge n. 227, il disabile “partecipa” alla formazione del “progetto” insieme a più persone (quindi in posizione numericamente molto minoritaria), che sono quelle che poi prenderanno la decisione finale sul finanziamento del “progetto”, quindi il disabile “partecipa”, se non altro, soggetto a “influenze”.
Infine, ma non meno importante, l’operato di quelle persone (senza qui approfondire se si tratta di equipe o altro), così come è imposto di fatto dalla Legge n. 227, ma attenendosi a quanto stabilito dall’art. 12 della Convenzione cit., deve essere sottoposto “a periodica revisione da parte di un’autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario”. Invece questo non è previsto dalla Legge italiana.
Ben diversa è la situazione per chi non viene costretto a vivere da disabile. Infatti la singola persona normodotata, qualora decida di fare un “progetto di vita”, lo fa da sé o con i propri conviventi o familiari o con chi vuole lei, con la piena titolarità della propria autodeterminazione e della propria privacy. Ed è proprio anche per evitare ogni discriminazione che, secondo il Comitato dell’Onu cit., la persona disabile deve essere sempre il centro decisionale di ogni aspetto riguardante la propria assistenza personale tanto da poter decidere in ogni caso “liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione”[83].
Viceversa, con la Legge in esame, per quanto riguarda i disabili gravi, la titolarità del “progetto di vita” viene spostata ai servizi sociali, il che è una gravissima discriminazione. Infatti il disabile può solo partecipare alla stesura del progetto, quindi viene meno anche la sua piena autodeterminazione, pure in spregio della “vita indipendente”. In tal modo non c’è neppure la privacy per i disabili, la quale, non va dimenticato, è un diritto fondamentale e inviolabile. E l’inviolabilità di questo diritto deriva in larga misura dal fatto che, senza privacy, in concreto c’è meno, e talvolta nessuna, libertà di esercitare i propri diritti fondamentali, che quindi, in concreto, diventano violabili. In definitiva, già sotto questi primi profili, il “progetto di vita”, come viene imposto da questa Legge, in concreto per i disabili significa un livello di autodeterminazione molto inferiore a quello garantito alle persone normodotate e questa è una grave discriminazione.
Si osservi poi che questa Legge dispone di "dare attuazione al progetto medesimo, stabilendo ipotesi in cui lo stesso, in tutto o in parte, possa essere autogestito"[84]. E ancora "ferma restando la facoltà di autogestione del progetto da parte della persona con disabilità"[85]. Cioè a dire che nella Legge n. 227 cit., con le parole “ipotesi” e “facoltà", l’autogestione della propria vita da parte della persona disabile in pratica è un’eccezione alla regola. E questo mentre invece essa è la regola secondo i primi tre articoli della Costituzione italiana e secondo la Convenzione dell'Onu sui disabili, per cui pure questi autogestiscono la propria vita salvo eccezioni. Inoltre, nel punto 9) di cui qui sopra, con la parola “ipotesi”, l’autogestione sembra essere un possibile riconoscimento al disabile da parte dei servizi sociali, mentre nel punto 11) di cui qui sopra, con la parola “facoltà", l’autogestione, pur essendo da un punto di vista formale una libera scelta, e quindi un diritto, del disabile, in pratica si propone come un’eccezione alla regola, per chi riesce ad essere consapevole e a farsi valere.
Per di più moltissime persone normodotate vivono pienamente la loro vita senza l’onere di dover fare preventivamente un “progetto di vita”. E magari vogliono e hanno il diritto di vivere alla giornata, cioè senza tale progetto. E non c’è nessun motivo valido per sostenere che una vita vissuta “alla giornata” sia meno valida di quella con “progetto”. Tanto più che molte persone, appartenenti al popolo sovrano, sostengono che, con le turbolenze del modo contemporaneo, vivere “alla giornata” sia l’unico modo per preservare la propria salute mentale.
Ciononostante il disabile grave, se vuole avere l’assistenza e gli altri strumenti necessari per non morire prima dell’inevitabile, viene costretto di fatto a fare un “progetto di vita”. Anche questa è una grave discriminazione.
Pure ad una persona normodotata, che fa un “progetto di vita”, capita, o può capitare, nella vita di doverlo cambiare più volte. Però questo cambiamento lo fa in proprio, senza alcuna burocrazia. Viceversa il disabile grave, se deve cambiare qualcosa nella propria vita, con la conseguente necessità di supporti almeno un po’ differenti, viene costretto sia a chiedere tale cambiamento ai cd. servizi sociali e sia a farlo in accordo con loro, iI che è un’altra grave duplice discriminazione.
Ovvero la Repubblica ha il dovere giuridico di agevolare chi ha grave disabilità. Per chi ha queste gravi difficoltà fisiche, sensoriali ecc., rispetto a chi è normodotato, è materialmente senz’altro più complicato dover fare un “progetto di vita”. Per cui, costringere un disabile a farlo, vuol dire ribaltare i compiti della Repubblica: non semplificare la vita ai disabili, ma complicarla. E poi, con talune gravi difficoltà, la vita è comunque molto più complicata in sé. Per cui costringere un disabile grave, per ogni cambiamento della propria vita, a dover ottenere l’’approvazione dei servizi sociali, è un’ulteriore grave discriminazione.
E ancora: per poter fare un “progetto di vita” è necessario prima conoscere come si può vivere, com’è il mondo, quali sono le proprie possibilità ecc. Tant’è che, pure chi è normodotato, se decide di fare un “progetto di vita”, prima conosce un po’ sia se stesso che la situazione esterna e poi, semmai, fa il progetto. In tutti i processi educativi e di orientamento scolastico prima si mettono a disposizione gli strumenti conoscitivi e poi si fanno i progetti. Anche in amore prima ci si conosce liberamente e poi si fanno progetti. E non mi paiono condivisibili quei costumi in cui c’è prima il matrimonio e poi la conoscenza. Inoltre nell’art. 2 Cost. l’inviolabilità dei diritti (cioè l’opposto del progetto partecipato) è anche “nelle formazioni sociali”. E nel co. 2 dell’art. 3 Cost. c’è il precetto della rimozione degli ostacoli che limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.
Il punto centrale è poi che un disabile grave può conoscere il mondo, le proprie possibilità, la vita reale, “soltanto se” la Repubblica gli dà gli strumenti (accessibilità, ausili, assistenza personale ecc.) per inserirsi nella vita e capire cosa può e vuole fare. La conoscenza del mondo dove si deve vivere è un principio generale perfino del mondo animale anche non umano. Nessun genitore diligente, anche non umano, nega al proprio figlio gli strumenti per conoscere un po’ del mondo prima di costruirsi una propria vita. E, quando c’è un figlio con una grave disabilità, per i genitori da soli può essere impossibile fornire tutti tali strumenti.
In questa Legge n. 227 cit. però, se un disabile grave non presenta un progetto, non gli vengono dati dalla collettività gli strumenti per conoscere se stesso e il mondo: quindi il “progetto individuale”, anche sotto questo punti di vista, è una prigione. E, a tal fine, non è affatto decisivo, come stabilito dalla Legge n. 227 cit., che il disabile venga informato su quali strumenti possono essergli messi a disposizione con il “progetto individuale”. Ad esempio, un contadino, che si trova a dover lavorare un terreno sconosciuto, può seriamente scegliere quantità e qualità dei semi, fra quelli a disposizione, solo dopo aver camminato sul nuovo terreno per rendersi conto della sua vastità nonché delle sue qualità e posizione.
Infine, ma significativo: abbiamo già visto che, per l’eventuale “progetto di vita” della persona normodotata, non viene imposta alcuna partecipazione o valutazione da parte di persone esterne. Viceversa, per il “progetto di vita” della persona disabile viene perfino imposta la valutazione da parte di un’“equipe multidisciplinare”, ovvero da un gruppo di persone esterne per niente scelte dal disabile e non indipendenti.
Abbiamo già esaminato che i supporti forniti dalla collettività servono a chi ha gravi disabilità innanzitutto per il concreto esercizio dei diritti inviolabili. Ebbene rientra nella definizione stessa di tali diritti l’insindacabilità del loro concreto esercizio (ovviamente fatti salvi i limiti posti dalla Costituzione e dal codice penale). E, solo fra molto altro, ad esempio, è sicuramente illegittimo sottoporre alla valutazione dell’“equipe multidisciplinare” la necessità per un disabile grave di più assistenza personale al fine di non limitarsi a votare un partito politico costituito, ma di voler partecipare attivamente, anche o soltanto, a delle attività pubbliche per la difesa della Costituzione.
Da un altro punto di vista si rileva che il disabile, pur non avendo commesso niente nemmeno lontanamente rilevante dal punto di vista penale, viene costretto a mettere a nudo tutta la propria vita davanti a persone non scelte da lui e, se vuole viverle, deve far venire fuori davanti a loro le proprie necessità e aspirazioni (atto estremamente difficile e umiliante) e poi, alla fine, sono quelle persone a decidere quali e quanti supporti (molto spesso soprattutto quanto denaro per l’assistenza personale) dare a quel disabile. E quindi, in definitiva, quasi sempre è quell’“equipe multidisciplinare” (in base alle direttive ricevute) a decidere, se non altro di fatto, quali diritti fondamentali, e in quale misura, verranno consentiti di vivere in concreto a quel disabile.
È necessario far chiarezza sul fatto che, per qualunque essere umano, anche normodotato, è difficile e umiliante dover esprimere tutte le proprie esigenze di vita ad alcune persone, tanto più non di propria scelta. Inoltre, almeno fino a quando la Repubblica non metterà a loro disposizione gli strumenti per vivere pienamente nel concreto almeno i diritti fondamentali, è probabile che una gran parte delle persone disabili riesca ad avere meno relazioni sociali di molte persone normodotate. Ed è quindi verosimile che, comprensibilmente, queste persone disabili gravi abbiano più difficoltà di molte persone normodotate ad esprimere ad altri tutte le proprie private, se non privatissime, esigenze di vita. Ed è un gravissimo errore ritenere che il supporto psicologico da parte dell’equipe sia idoneo a superare queste difficoltà sia perché è naturale e umano (e nient’affatto patologico) avere difficoltà ad aprirsi ad un’equipe di estranei (e sarebbe patologico il contrario). E sia perché nessun supporto psicologico può sostituire la forza e la ricchezza che vengono dal vivere in concreto una vita sociale.
E, invece di agevolare doverosamente queste persone disabili dando loro di necessari supporti senza procedure umilianti, al fine di far sì che riescano a vivere pienamente tutta la loro personalità, la Repubblica pone a loro carico un ulteriore balzello inesistente per chi è normodotato: mettersi a nudo davanti ad un’equipe multidisciplinare. Il risultato finale del “progetto di vita” è mettere molti disabili gravi nell’impossibilità di vivere in concreto pienamente i diritti personalissimi e i diritti fondamentali più in generale. E questa impossibilità può essere tanto maggiore quanto più rilevante è la disabilità. Ovvero l’opposto della non discriminazione.
Riepilogando, in sintesi c’è dunque una questione di enorme proporzioni giuridiche e pratiche che la scienza giuridica risulta incapace di risolvere alla radice: una persona normodotata esercita in concreto liberamente i propri diritti fondamentali “a meno che” la Repubblica, o altri, intervengano (legittimamente o con arbitrio) per limitare o impedire ciò. Viceversa i disabili esercitano in concreto i propri diritti fondamentali “soltanto se” la Repubblica o altri intervengono fornendo loro i necessari supporti. Il che pone i disabili in una situazione di inferiorità di non poco conto. Il legislatore ha tentato di rimediare con la legge n. 67 sulla non discriminazione cit.: è un primissimo passo in una strada ancora molto lunga, ma non risolve per niente il problema alla radice.
Tornando all’“equipe multidisciplinare” e connessi, si badi poi bene: anni fa in un atto della Regione Toscana fu possibile far inserire la norma per cui il piano individualizzato deve avere il consenso dell’interessato. Si tratta di una norma che, a se stante, ha un valore pratico molto relativo perché in concreto i servizi sociali hanno vari agevoli strumenti per ottenere il consenso dell’interessato. Però, almeno il principio giuridico di un minimo di civiltà, è stato creato. Ebbene questo principio giuridico minimale è assente nella Legge n. 227 qui in esame.
È vero che in questa Legge, a proposito del “progetto di vita”, c’è scritto "e all'attuazione dello stesso con modalità tali da garantire la soddisfazione della persona interessata"[86]. Però, innanzitutto sono parole scritte al termine di una frase inammissibilmente lunga e complessa, al punto da renderne difficile un’interpretazione univoca.
Ma soprattutto, fra quelle parole, non c’è il “consenso” ma c’è la “soddisfazione”. Ebbene, il “consenso”, da parte di chi lo dà, presuppone necessariamente un ruolo decisionale attivo e, di regola, determinante circa l’esecuzione dell’evento. E, di conseguenza, di regola, il “consenso” c’è prima dell’esecuzione dell’evento. Viceversa la “soddisfazione” non presuppone necessariamente un ruolo decisionale preventivo, da parte di chi la esprime, circa l’esecuzione dell’evento. E c’è prevalentemente durante o dopo l’esecuzione del medesimo. Dunque un conto è il doveroso “consenso” sull’esistenza, il contenuto e l’attuazione del “progetto di vita”, ben altro conto può essere la mera “soddisfazione” su come viene attuato.
A differenza di quanto disposto da alcune Regioni italiane e in conformità a quanto stabilito nella Convenzione dell'Onu sui disabili, nella Legge n. 227 i disabili con difficoltà psichiche o mentali non vengono esclusi dalla “vita indipendente”. E questo è importante. Però poi in sostanza dietro al “progetto di vita”, che ingloba la“vita indipendente”, c’è l’inammissibile pregiudizio che tutti i disabili di fatto non hanno la piena capacità di agire, al punto che la Repubblica si deve occupare sempre anche dei loro diritti fondamentali e perfino dei loro diritti personalissimi. Esattamente l’inverso di quanto stabilito, se non altro, nei primi tre articoli della Costituzione italiana e nella Convenzione dell'Onu sui disabili.
Da quest’ultima, fra l’altro, consegue che l’eventuale non piena capacità di agire non può neppure essere legittimamente stabilita, oltretutto in maniera generalizzata e di fatto, dai servizi sociali (i quali, di conseguenza, in concreto impediscono al disabile anche di evitare il “progetto di vita” e/o di farlo in privato), ma, solo qualora davvero necessario, va accertata preliminarmente dalla magistratura con le procedure e le garanzie del caso.
In definitiva dunque, per tornare alla disposizione riportata anche più sopra secondo cui “nell'ambito del progetto di vita individuale” possono “essere individuati [...] che supportino la vita indipendente”, subordinare la “vita indipendente” dei disabili al “progetto di vita” vuol dire incatenarla nel suo opposto e quindi distruggerla.
E, si badi bene, su questo pianeta ci sono molte valide esperienze[87] a dimostrazione del fatto che, pure con disabilità gravi, è possibile autodeterminare pienamente la propria vita senza intrusioni esterne. E quindi non si può legittimamente neppure dire che è un’impresa troppo difficile, e tanto meno impossibile.
Conseguentemente è da ritenere che in questa Legge n. 227 non ci sono nemmeno lontanamente indicazioni sufficienti per garantire il diritto alla “vita indipendente” dei disabili.
4.1. Non prendersi in giro
È poi evidente che, come per le persone normodotate, pure (e spesso anche di più per via degli ostacoli naturali e sociali incontrati) per la singola persona con gravi disabilità può essere particolarmente necessario chiarirsi un po’ le idee su come muoversi per il proprio futuro, e in tal senso il “progetto di vita” potrebbe, ma non è affatto detto, essere utile. Però:
- questo non è vero per tutti i disabili, quindi è una discriminazione obbligare tutti a farlo;
- fatte salve, e forse e solo in alcuni casi, le persone che hanno necessità dell’amministratore di sostegno o del tutore, e comunque con le dovute cautele e garanzie del caso, per il resto deve essere il singolo disabile a stabilire se ha necessità di, e/o desidera, un “progetto di vita”;
- la titolarità del proprio futuro appartiene sempre al singolo soggetto (disabile), quindi il “progetto di vita” lo fa da sé in ogni caso, e, casomai, se il loro intervento è davvero necessario, sono i servizi sociali a partecipare alla stesura del progetto, e non l’inverso, come stabilito dalla Legge n. 227;
- secondo molte e validissime realtà, esistenti soprattutto in Nord Europa e in Nord America[88], le persone (qualora siano necessarie) più idonee ad aiutare chi ha gravi disabilità ad iniziare a capire come vivere in maniera indipendente sono i cd. “consiglieri alla pari” (cioè altre persone con gravi disabilità, che hanno già intrapreso questo percorso e hanno raggiunto una certa consapevolezza) durante incontri prevalentemente “uno a uno” e con le opportune cautele, ma questi importantissimi sostegni non sono previsti nella Legge n. 227 ed è fondamentale che ne venga tenuto adeguatamente conto nei decreti attuativi;
- poiché ci sono coinvolti diritti anche personalissimi e comunque inviolabili, qualora sia necessario e/o voluto dall’interessato un “progetto di vita”, e sia richiesto un aiuto per stenderlo, dev’essere il disabile, in qualità di titolale del progetto, a scegliere in piena libertà da chi farsi aiutare, senza alcun condizionamento (anche qui fatte forse salve alcune delle persone che hanno necessità dell’amministratore di sostegno o del tutore, e comunque con le opportune cautele e garanzie del caso) che spinga a coinvolgere i servizi sociali nella stesura del progetto.
È stato inoltre già esaminato più sopra il fatto che le persone normodotate non vengono condizionate, o limitate, quando esercitano molte delle proprie libertà inviolabili anche perché l’esercizio di queste libertà è spesso, ma non sempre, possibile senza l’impiego diretto di risorse pubbliche. Così l’ergastolano normodotato si gira nel letto e va in bagno quante volte vuole (però il wc e il letto sono stati pagati con risorse pubbliche anche per l’ergastolano normodotato) e la mamma normodotata tiene in braccio il proprio bambino quanto vuole (però difficilmente quel bambino sarebbe nato senza l’aiuto di altre persone, che molto spesso vengono retribuite con risorse pubbliche).
Viceversa, per consentire ai disabili gravi di esercitare in concreto le libertà fondamentali, a prima vista risulta che possono essere direttamente necessarie sempre molte più risorse che per le persone normodotate. Allora, e non solo per questo, la Repubblica (attraverso il Parlamento, i Consigli regionali ecc.) pone dei limiti alle risorse da destinare ai disabili, e controlla anche come tale denaro viene speso[89]. E questo, purché fatto in maniera rispettosa (è illegittimo trattare il bisogno di vivere di chi ha grosse difficoltà fisiche-psichiche-mentali-sensoriali con lo stesso “fiscalismo” che sarebbe, o dovrebbe essere, attuato per la smania di profitto delle imprese), non sarebbe del tutto privo di giustificazione perché si tratta pur sempre di risorse pubbliche, perché, come a tutte le altre persone, anche a chi è disabile può capitare di sbagliare e perché “con quattro occhi si” potrebbe vedere (ma non sempre accade) “meglio che con due”.
Solo che tali limiti e controlli pongono oggettivamente i disabili in condizione di inferiorità rispetto a chi è normodotato perché, come è stato visto più sopra, per i disabili si tratta di esercitare libertà inviolabili e personalissime e per via di altre difficoltà concrete nel rendicontare. Per cui sono doverose molta cautela e mille attenzioni al fine di effettuare questi controlli soltanto nella misura strettamente indispensabile, e senza inidonee rigidità, come peraltro già stabilito in linea di principio dal “Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”[90]. Questione invece non prevista nella Legge qui in esame, ma che il Governo non può legittimamente trascurare nei decreti legislativi attuativi.
Il punto chiave, per non intromettersi indebitamente nella vita della persona disabile e nei suoi diritti inviolabili e perseguire l’impiego ottimale delle risorse pubbliche, è valutare seriamente e rispettosamente le linee fondamentali di ciò che la persona non può fare da sé e fornire i supporti necessari a compensare le capacità mancanti. Poi, come tutte le altre persone, anche chi ha determinate difficoltà (fisiche, psichiche, mentali, sensoriali) decide da sé della propria vita e l’autogestisce. Non c’è altra via per non discriminare i disabili. Qui sotto lo si esamina, a fini esemplificativi, in riferimento specifico all’assistenza personale. Si presti però attenzione al fatto che il ragionamento è applicabile anche a tutti gli altri supporti necessari a chi ha gravi disabilità.
Per stabilire di quanta assistenza personale ha necessità un disabile grave, senza creare discriminazioni, vanno presi in considerazione soltanto due fattori. Il primo fattore è sindacabile dalla Repubblica, sebbene evitando intromissioni indebite. Il secondo fattore lo è molto meno, solo nelle linee generali e soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge.
Il primo fattore consiste nel difficilissimo dovere della Repubblica di accertare nel merito le effettive incapacità del soggetto disabile. Questo al fine di evitare errori di valutazione, senza in alcun modo prescindere dall’indispensabile e decisivo dialogo vero con il soggetto interessato e con la piena consapevolezza che, durante tale accertamento, solo in alcuni momenti si è oggettivamente lontani dalla linea di confine oltre la quale vengono violati i diritti fondamentali del soggetto.
Il secondo fattore consiste nel definire la quantità e qualità di assistenza personale eventualmente necessaria al soggetto. E qui, per ottemperare a quanto stabilito dalla Costituzione, la Repubblica può porre dei limiti, alle necessità espresse dal soggetto, soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge. Questo perché, come abbiamo esaminato in sintesi in precedenza, la possibilità per il soggetto di esercitare in concreto i propri diritti inviolabili dipende sempre, parzialmente o totalmente, dalla quantità e/o dalla qualità dell’assistenza personale che ha a disposizione.
Per esemplificare in estrema sintesi supponiamo che in un soggetto venga accertata una minima o nulla capacità di utilizzare gli arti inferiori, una parziale capacità di utilizzare gli arti superiori e l’autosufficienza durante il riposo notturno. Se questo soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 22 ore al giorno di assistenza personale, è molto probabile che qualcosa non sia corretto perché, avendo sempre solo due ore di riposo a notte, non si vive a lungo, e quindi, soltanto per l’indispensabile, la Repubblica è tenuta ad ulteriori accertamenti. Se invece quel soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 14 ore al giorno di assistenza personale perché ha poca forza fisica e poca velocità per la sua aspirazione di essere scassinatore di sportelli bancomat, è evidente la legittimità giuridica del rifiuto da parte della Repubblica di fornire l’assistenza personale necessaria a tale scopo. E ancora, se quel soggetto con quelle difficoltà soltanto fisiche, manifesta alla Repubblica la necessità di risorse sufficienti per avere 5 ore al giorno di traduttori dal linguaggio dei segni per sordi, è possibile che qualcosa non torni dal momento che lui non ha manifestato alcuna sordità, e quindi da parte della Repubblica ulteriori accertamenti possono essere legittimi, purché riservati e invasivi solo per l’indispensabile.
Ma, sempre ad esempio, prendiamo invece due soggetti con difficoltà solo fisiche analoghe e riconducibili a quelle indicate all’inizio del paragrafo precedente. Supponiamo che il primo manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 7 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere aiutato per le mere attività vitali, ritiene di esercitare autonomamente i propri diritti fondamentali all’interno della propria abitazione (leggendo libri, navigando su internet ecc.). Mentre supponiamo che il secondo soggetto manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 14 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere anche lui aiutato per le mere attività vitali, ha necessità di assistenza personale per esercitare i propri diritti fondamentali all’esterno della propria abitazione (passeggiando nei parchi, frequentando biblioteche, partecipando a iniziative culturali, a rassegne cinematografiche, a dibattiti ecc.).
Ebbene, per l’assistenza personale a queste due differenti persone con analoghe difficoltà fisiche, la Repubblica non può sindacare sul fatto che sono necessari esborsi finanziari molto diversi fra loro perché si tratta di due modi, insindacabilmente diversi, di gestire i propri diritti inviolabili. E, per quando è dato di conoscere al momento attuale su questo pianeta, senza tale insindacabilità è impossibile conciliare l’inviolabilità dei diritti fondamentali e la non discriminazione dei disabili gravi, che sarebbero due temi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
Sul tema fondamentale dell’assistenza personale un tentativo di affrontare correttamente la disabilità è stato fatto con una “Proposta di legge regionale”[91].
5. Alcune altre questioni
5.1. Il Garante
Nella Legge n. 227 c’è l’istituzione di un “Garante nazionale delle disabilità”[92]. Fra varie cose da osservare ci si limita al fatto che non è previsto che il Garante possa e debba intraprendere le azioni giudiziarie eventualmente necessarie a tutela del/i disabile/i. Inoltre, se, come stabilito anche dalla Legge in esame e che vedremo qui sotto, ci si attiene alla definizione di disabilità accolto nella Convenzione dell’Onu sui disabili, un nome più corretto potrebbe essere “Garante nazionale per il superamento della disabilità” perché da detta definizione emerge che la disabilità è un costrutto sociale.
5.2. Il “modello sociale della disabilità”
Nella Legge n. 227 qui in esame è stabilita l’“adozione di una definizione di “disabilità” coerente con l'art. 1, secondo paragrafo, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”[93]. Cioè in questa Legge n. 227 viene recepito il cd. “modello sociale della disabilità”. A riprova di ciò c’è anche il fatto che nell’art. 1 co. 1 di questa legge del 2021 non è previsto che essa sia attuativa dell’art. 32 Cost., cioè quello sulla tutela della salute.
Il punto è molto importante e rappresenta una rivoluzione culturale e giuridica in materia. Questo perché, in base al cd. “modello sociale della disabilità”, per chi ha determinate difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali (che a chiunque può capitare di avere nella vita), l’impossibilità di vivere pienamente dipende non da tali incapacità, ma da come la società si comporta verso chi ha tali difficoltà. Quindi, in definitiva, la società non solo ha il compito di non lasciare a se stessi i disabili, ma è direttamente responsabile del fatto che queste persone siano costrette a vivere incontrando molte più difficoltà delle altre. Il che alza di parecchio il livello della responsabilità della società, e quindi anche della Repubblica.
In altre parole, un conto è dire ad una persona, ad esempio: “Lei non può più muovere le gambe perché ha avuto la sfortuna di un tuffo eccezionalmente andato male e io società, attraverso la Repubblica, La devo aiutare il più possibile per via di questo evento straordinario che può capitare nella vita”. Ben altro conto è dire alla stessa persona: “Lei non può più muovere le gambe per una delle tante cause che a chiunque (e purtroppo a non pochi) possono capitare nella vita, però ora non può vivere pienamente e liberamente la Sua vita perché io società, attraverso la Repubblica, mi sono organizzata non in maniera semplice e onesta a misura di tutti (quindi anche accessibilità, oggetti per la vita quotidiana semplici da usare, pochi inganni, poca burocrazia, ausili tecnici, assistenza personale ecc.), ma a misura soltanto di una parte della popolazione”.
E, di conseguenza, a seguito del “modello sociale della disabilità”, non si tratta più soltanto del dovere della società alla solidarietà, e quindi a fornire accessibilità, assistenza ecc. Viceversa la società deve essere organizzata in modo da essere vivibile e accogliente per tutte le persone. Se così non è, allora il deficit è nella società, e non nelle persone a cui è capitato un evento che può accadere a tutti. Ovvero, sempre ad esempio, se in una zona dove piove regolarmente, ma non tutti i mesi, viene costruita una casa senza tetto, in caso di pioggia il deficit non è nella pioggia, ma nella testa di chi ha progettato e/o voluto quella casa.
5.3. Revisioni delle prestazioni
Nella Legge n. 227 qui in esame è prevista la “separazione dei percorsi valutativi previsti per le persone anziane da quelli previsti per gli adulti e da quelli previsti per i minori”[94]. Questo punto può essere estremamente pericoloso perché spesso c’è la prassi di riconoscere meno servizi ai disabili anziani rispetto a chi è più giovane[95]. In primo luogo ad un’identica incapacità non si può far fronte con prestazioni inferiori qualora il soggetto sia diventato anziano. Questo, se non altro, perché l’età in cui si “diventa” anziani[96] è stabilito in maniera convenzionale e quindi artificiale, per cui risulta inammissibile, ad esempio, che una persona che acquisisce una certa incapacità (ad esempio paraplegia da incidente) a 66 anni di età riceva dalla società un supporto inferiore rispetto a chi è così “fortunato” da acquisire la stessa incapacità a 64 anni di età[97].
Inoltre, un disabile grave in pensione da attività lavorativa, spesso può avere più necessità di prima di assistenza personale e/o di ausili e/o di accessibilità perché è alto il rischio che, senza un’attività lavorativa, si trovi chiuso in casa e quindi muoia in tempi brevi, per cui erogare meno prestazioni agli anziani significa omettere il dovuto ossequio al diritto di vivere. Oltre al fatto che tante patologie legate alla senilità si prevengono e si curano proprio con l’autodeterminazione e con la socialità. Dunque il fatto che nella Legge n. 227 sia previsto un percorso valutativo diverso per gli anziani suscita numerose riserve e perplessità in relazione ai principi sia di eguaglianza[98] che di solidarietà[99].
In questa stessa Legge n. 227 viene stabilito di accertare e valutare la disabilità[100] in base all’ICF, al’ICD e a quanto stabilito dalla Convenzione dell’Onu cit.[101] con la “previsione di un efficace e trasparente sistema di controlli”[102].
Queste “novità”, e, non da meno, le modalità in cui vengono applicate ed effettuate, vanno seguite con attenzione per via del fatto che possono essere pericolose perché tante rilevanti conquiste, tuttora esistenti in Italia nel campo di disabilità, sono state ottenute dopo anni di importanti lotte in un periodo storico molto più aperto, democratico e pluralista di quello attuale.
Salvo precisare che per i disabili meno giovani, almeno in teoria, questi pericoli dovrebbero essere inferiori perché, viene stabilito “fermi restando i casi di esonero già stabiliti dalla normativa vigente”[103]. E questi minori pericoli per i disabili meno giovani dovrebbero esserci pure considerando che viene stabilito “facendo salvi le prestazioni, i servizi, le agevolazioni e i trasferimenti monetari già erogati ai sensi della normativa vigente in materia di invalidità civile, di cecità civile, di sordità civile e di sordocecità e della legge 5 febbraio 1992, n. 104”[104]. Ovvero l’esistente (assegni, indennità ecc.) dovrebbe rimanere. Tuttavia c’è da preoccuparsi molto per il futuro di chi oggi è più giovane o bambino e sarà costretto a vivere senza o con pochissimi diritti, nonché per l’urgente necessità di migliorare di parecchio le possibilità che pure i disabili meno giovani hanno di esercitare in concreto i loro diritti inviolabili.
In altre parole viola, se non altro il co. 2 art. 3 Cost., il fatto che, come in tanti altri campi, anche per quanto riguarda la disabilità, al giorno d’oggi ci si debba preoccupare non di andare avanti, ma di porre un argine alla perdita di quanto già conquistato.
5.4. La “presa in carico”
Infine c’è da rilevare che nella Legge in esame c’è la “presa in carico”[105] del disabile da parte dei servizi sociali: una bruttissima e offensiva espressione in tema di disabilità in uso da alcuni anni nella legislazione italiana.
Innanzitutto chi ha certe difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali non è un peso per la società, se non altro perché chiunque ha delle incapacità e a chiunque, come abbiamo visto poco sopra, nel corso della vita può capitare di avere altre incapacità. Questo vuol dire essere tutti animali “umani”. E, poiché tutti nel corso della vita abbiamo delle incapacità permanenti o temporanee, tanto che senza incapacità vi sarebbe pochissima, o nessuna, vita umana, ritenere queste incapacità un carico significa disprezzare la vita. Oltre a contrastare con la Costituzione italiana e a capovolgere la Convenzione dell'Onu sui disabili cit.
Eppoi la diversità è una ricchezza, uno stimolo a cambiare e a crescere, a non morire di noia. Si pensi a come sarebbe statica e noiosa una società in cui fossimo tutti uguali. E si pensi al fatto che, verosimilmente, senza diversità non ci sarebbe crescita.
Inoltre, almeno a parere di chi scrive, i carichi per la società sono ben altri, quali, ad esempio, i colossali profitti delle multinazionali, le spese per le armi, le risorse assorbite dalle mafie, i vitalizi che tutti i parlamentari e i consiglieri regionali si guardano bene dal togliersi, tutta la restante enorme evasione fiscale e altri ancora.
Infine, ma non meno importante, abbiamo già esaminato che pure i disabili, al pari di tutte le altre persone, hanno lo stesso diritto inviolabile di autodeterminare pienamente la propria vita, di viverla interamente e di contribuire come tutti alla crescita collettiva. E hanno diritto di essere aiutati in tal senso quando questo è più difficile. E vedere una persona con talune gravi difficoltà, che riesce a vivere pienamente le gioie e le libertà della vita, è un fatto bellissimo, semmai da festeggiare, e non un carico.
È dunque fondamentale e doveroso da parte della Repubblica, e quindi anche del Governo, nell’emanare i decreti legislativi attuativi, far conoscere e imporre il fatto che i disabili non sono esseri passivi, ma sono esseri vivi.
Da ultimo, se si pensa, seriamente, in concreto e consapevolmente alle mille difficoltà che un disabile grave deve affrontare nella vita reale per non soccombere prima dell’inevitabile, oltre alle fondamentali e irrinunciabili questioni di autodeterminazione, libertà e privacy viste più sopra, è davvero irrealistico ritenere che i servizi sociali possano acquisire tutte le conoscenze tecniche, le competenze e i poteri necessari per occuparsi in maniera dignitosa e nella sua globalità della vita vera dei disabili gravi. E quindi, anche sotto questo profilo subordinato, la “presa in carico” è fuori luogo.
6. Conclusioni
In sintesi in questa Legge delega manca il dovuto rispetto per la dignità delle persone costrette a vivere da disabili. E non viene tenuto nella dovuta considerazione che pure ai disabili deve essere comunque assicurata la concreta possibilità di esercitare pienamente i diritti fondamentali.
In questa Legge viene menzionato spesso l’“accomodamento ragionevole”: per evitare disastri è di fondamentale importanza che venga applicato in maniera costituzionalmente corretta, come si cerca di esaminare in questo lavoro. Soltanto nella misura in cui ciò accadrà, questo aspetto della Legge può rappresentare un significativo passo avanti in tema di disabilità in Italia.
Nella Convenzione dell’Onu cit. viene stabilito che al superamento della disabilità dev’essere destinato il “massimo” delle “risorse disponibili”. Viceversa nella Legge qui esaminata viene stabilito che la disabilità va affrontata nell’ambito delle “risorse disponibili” e viene omessa la parola “massimo”, il che, in astratto e in pratica, significa lasciare più spazio ai tagli di risorse in tema di disabilità.
Nella Legge qui esaminata viene finalmente riconosciuta a livello nazionale la necessità di garantire il diritto alla vita indipendente, però poi la Legge viene decisamente sviluppata in senso contrario.
In particolare fa rabbrividire che di fatto tutti i disabili vengono considerati privi della piena capacità di intendere e di volere, omettendo che una notevole maggioranza di loro ha pienamente tale capacità. In tal modo vengono sovvertiti i principi fondanti sia della Costituzione italiana che della Convenzione dell’Onu sui disabili. Come pure è spaventoso che chi ha determinate incapacità venga considerato un “carico” per la collettività.
Un ringraziamento particolare a Beniamino Deidda per il consueto rigore con cui ha puntualizzato alcune questioni fondamentali sviluppate in questo scritto.
[77] Ibidem, lett. c) punto 7).
[78] Ibidem, punto 6).
[79] Ibidem, lett. c) punto 4).
[80] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality on equality cit., punto 48: “The fact that support to exercise capacity may impose a disproportionate or undue burden does not limit the requirement to provide it.” In italiano: Il fatto che il sostegno alla capacità di esercizio possa imporre un onere sproporzionato o eccessivo non limita l'obbligo di fornirlo.
[81] Idem.
[82] Convenzione cit., art. 12 cpv. 4°: “Such safeguards shall ensure that measures relating to the exercise of legal capacity respect the rights, will and preferences of the person, are free of conflict of interest and undue influence”. In italiano: Tali garanzie assicurano che le misure relative all'esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, siano prive di conflitto di interessi e di influenza indebita.
[83] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16: “(d) (iv) Self-management of service delivery. Persons with disabilities who require personal assistance can freely choose their degree of personal control over service delivery according to their life circumstances and preferences. Even if the responsibilities of “the employer” are contracted out, the person with disability always remains at the centre of the decisions concerning the assistance, the one to whom any inquiries must be directed and whose individual preferences must be respected. The control of personal assistance can be exercised through supported decision-making.” In italiano: Autogestione dell'erogazione del servizio. Le persone con disabilità che necessitano di assistenza personale possono scegliere liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione dei servizi in base alle proprie circostanze e preferenze di vita. Anche se le responsabilità del “datore di lavoro” sono appaltate, la persona con disabilità resta sempre il centro delle decisioni in merito all'assistenza, colui al quale devono essere rivolte le indagini e le cui preferenze individuali devono essere rispettate. Il controllo dell'assistenza personale può essere esercitato attraverso un processo decisionale supportato.
[84] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[85] Ibidem, punto 11).
[86] Ibidem, punto 6).
[87] Fra moltissime: STIL a Stoccolma https://www.stil.se/, ULOBA vicino a Oslo https://www.uloba.no/ e CIL di Berkeley in California https://www.centerforindependentliving.org/.
[88] Idem.
[89] Legge n. 227 cit. art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[90] Decreto Direttoriale n. 669 del 28.12.2018.
[91] In http://www.avitoscana.org/index.php/vita-indipendente/toscana/documentazione-toscana/252-proposta-di-legge-regionale-su-assegno-per-l-assistenza-personale-per-la-vita-indipendente-e-autodeterminata-di-persone-con-handicap-grave-quarta-versione.
[92] Legge n. 227 cit., art. 1 co. 5 lett. f).
[93] Ibidem, art. 2 co. 2 lett. a) punto 1).
[94] Ibidem, punto 3).
[95] Il punto è stato sollevato da più parti al convegno Exploring cit.
[96] In genere 65 anni.
[97] Adolf Ratzka al convegno Exploring cit.
[98] Art. 3 co. Cost. e molti trattati, accordi, carte internazionali e sovranazionali, che vietano la discriminazione in base all’età.
[99] Se non altro art. 2 Cost.
[100] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. b): “con riguardo all'accertamento della disabilità e alla revisione dei suoi processi valutativi di base”.
[101] Ibidem, punto 1): “previsione che, in conformità alle indicazioni dell'ICF e tenuto conto dell'ICD, la valutazione di base accerti, ai sensi dell'art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato in coerenza con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, la condizione di disabilità e le necessità di sostegno, di sostegno intensivo o di restrizione della partecipazione della persona ai fini dei correlati benefici o istituti”.
[102] Ibidem, punto 5).
[103] Idem.
[104] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. h) punto 1).
[105] Ibidem, lett. c) punto 2).