Recensione di Ilaria Buonaguro
Sulle colline di Tivoli, alla fine di un sentiero sterrato, incastonata fra gli alberi di ulivo c’è una casa di pietra. Lì, dopo la “curva del regresso” che costringeva il treno a vapore ad arrancare e a tornare verso Roma e che, oggi, altro non è che un’ennesima curva in salita da vincere scalando la marcia e facendo fare qualche giro in più al motore.
Una casa che è crocevia di storie diverse, ma che parlano tutte la lingua comune della solitudine. Ed è rifugio per chi passa e per chi resta. Per chi passa - Irene, fotografa romana trentottenne cresciuta in una famiglia algida del quartiere Prati, alimentando il gusto di negare soddisfazioni alla madre e imparando a sfuggire l’amore. Per chi resta - Adelia, una donna italo-portoghese di settant’anni che in quella casa, ereditata dal nonno materno, ha dato inizio a una nuova vita. E Osias, un ragazzo congolese diciannovenne arrivato in Italia grazie ad un’organizzazione umanitaria, con un futuro tutto da costruire rincorrendo sogni e stelle studiando astrofisica, eppure col ricordo ancora vivido della morte negli occhi e nel cuore. E che condivide con Adelia quella casa, perché un giorno, nel Villaggio dove Adelia lavorava e Osias era un groviglio di silenzi in un mare di dolori taciuti, l’empatia dei loro sguardi li ha uniti più del sangue.
Nella torrida estate del 2007 il desiderio di accoglienza di Adelia, il bisogno di affetto di Osias e l’esigenza di scappare di Irene si attraggono come poli opposti di un magnete. Istinti primordiali che agiscono come forze di un determinismo perfetto, dando vita ad un incontro che Adelia, Osias e Irene sanno riconoscere e trasformare in qualcosa di nuovo e di più grande.
Le storie dei tre protagonisti, narrate alternativamente in prima o in terza persona, prendono corpo attraverso prospettive diverse, intervallate da una voce “fuori campo” che, insinuandosi tra i capitoli, segue l’incedere del romanzo e dialoga talvolta con i personaggi, talvolta con il lettore, altre volte con lo scrittore stesso, instaurando rapporti diretti che trascendono il foglio di carta.
In quel luogo isolato, lontano da Roma tanto basta per vederla accendersi di luci all’orizzonte quando cala la sera, le resistenze di Irene scemano di giorno in giorno, tra l’esuberanza di Adelia e la presenza discreta di Osias, sottofondo di fado portoghesi e profumo, avvolgente, di biscotti allo zenzero appena sfornati.
Il rito di ritrovarsi ogni sera attorno allo stesso tavolo fa il resto, creando un’intimità familiare capace di abbattere le ultime fragili barriere. Attraverso la condivisione del proprio vissuto, Adelia, Osias e Irene si spogliano finalmente del proprio dolore, scoprendosi meno soli e trovando il coraggio di affrontare le proprie incertezze e le proprie paure.
In quella calda sera di luglio le fiamme - che hanno segnato traumaticamente il trascorso dei tre protagonisti - tornano a bruciare, ma questa volta con un significato diverso. Il fuoco che divampa non è più distruzione e fine, ma metafora di catarsi e cambiamento. E la fuga a cui costringe insieme Adelia, Osias e Irene non è più solo istinto di sopravvivenza ma slancio verso un futuro finalmente libero dalle ombre troppo lunghe di un passato ingombrante.
Attraverso una scrittura intima ma ritmata, l’autrice di Icarezenzero ci ricorda l’importanza e il senso profondo degli incontri, incastri di vite che il destino ci propone continuamente, ma il cui significato e valore sta a noi saper cogliere e saper alimentare. Per poter acquisire nuove consapevolezze, per far nascere un legame, per riuscire a lasciarsi il passato alle spalle e trovare la forza di cambiare. Per scrivere, ancora, l’inizio di una nuova storia.
(Silvia Filippi, Icarezenzero, Pluriversum Edizioni, Ferrara, 2022).