ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Giuseppe Amara
Il presente contributo è inteso ad esaminare il contenuto della recente pronuncia della Consulta n. 68/19 dello scorso 29/3/19, redattore Viganò, afferente il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, dell’art. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e dell’art. 657-bis del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 12 aprile 2018. La pronuncia si ritiene di particolare interesse, cristallizzando ratio e funzioni dell’istituto della messa alla prova minorile, in un raffronto con l’omologo istituto del rito dei maggiorenni.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Istituto della messa alla prova minorile.- 3. Vicenda processuale.-- 4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale.-5. Soluzione del Giudice delle Leggi.- 6. Conclusioni.
1. Premessa
Dietro ogni fascicolo processuale si cela la storia degli autori del fatto che lo hanno generato. La storia dell’indagato e del suo disagio che lo ha condotto a trasgredire ad un precetto penale e la storia della persona offesa che, da detta trasgressione, ha subito una lesione, più o meno tangibile, della propria sfera di interessi. Ciò nondimeno, nel rito ordinario, in ossequio al principio di materialità del reato, il fatto rimane attore principale e pressoché unico protagonista del procedimento, dall’iscrizione alla definitività della pronuncia che quel fatto deve valutare. Ogni sforamento nella vita dell’autore è funzionale all’applicazione – o meno – di istituti processuali, quali possono essere le misure cautelari, piuttosto che l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, piuttosto che la concessione di benefici correlati alla pena. Di qui “l’invidia” del Pubblico Ministero ordinario che, chiamato a determinarsi sul fascicolo processuale, potrà e dovrà senz’altro farsi carico della soggettività delle vicende, ma si troverà comunque a percorrere una traccia segnata, esclusivamente, dal codice sostanziale e da quello di rito, ove le sorti processuali della vicenda, pur nella difficoltà correlate al permanere di aree di interpretazione del fatto, specie nei reati complessi, prescindono dall’analisi personalistica dell’autore. Di qui la previsione di cui all’art. 90 c.p. che esclude la rilevanza, ai fini dell’imputabilità, degli stati emotivi e passionali, piuttosto che il divieto di cui al comma 2 dell’art. 220 c.p.p. di svolgere approfondimenti di natura tecnica, evidentemente facendo ricorso alle scienze psicologiche, per stabilire l’abitualità, piuttosto che la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche se indipendenti da cause patologiche. Il rito minorile è un processo a ruoli invertite, il fatto retrocede e lascia il ruolo da protagonista all’autore. Il Tribunale è per il Minorenne ed il procedimento non può che essere incentrato sulla sua figura. Il senso dell’intervento dell’autorità giudiziaria è quello della rieducazione e della risocializzazione, nel presupposto, non sempre valido, di un’immaturità che può essere corretta, guidata, verso uno sviluppo rispettoso dei limiti imposti dalla convivenza civile. Ormai da venticinque anni, con la riforma del processo minorile che fonda la sua matrice in atti sovranazionali (Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, O.N.U., New York, 29 novembre 1985, anche note come “Regole di Pechino”, Convenzione dei diritti del fanciullo dell’ONU del 20/11/89, Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dell’infanzia di Strasburgo del 25/1/96), la finalità del legislatore è stata quella di positivizzare l’intervento pedagogico, anche con finalità correttive, funzione a cui cede il passo un “modello giurisdizionale di tipo cognitivo”[1]. In termini chiarissimi, Pazè: “Lo Stato dunque processa un giovane per definire la sua responsabilità per un reato e, anche, per stimolarlo a cambiare la sua condotta e a orientare diversamente la sua vita”[2]. Questo è un obiettivo che va di pari passo con quello, egualmente meritorio, di addivenire alla composizione del conflitto con la vittima, attraverso un processo che passa dalla mediazione, alla riparazione del danno arrecato, previo riconoscimento interiore del disvalore dell’offesa causata. Entra in gioco, in questa fase, ove possibile, il nucleo familiare del minore, secondo il metodo noto come quello della Family group conference, nel quale la famiglia allargata (comprese persone ritenute significative indicate dal minore) può elaborare il progetto della misura rieducativa e condividerlo con il minore.[3]
2. Istituto della messa alla prova minorile
Tutti gli istituti del rito minorile sono funzionali alla realizzazione del fine sopra indicato. Non fa eccezione quello della sospensione con messa alla prova, regolamentato dagli artt. 28-29 d.Pr. n. 448/88 e ripreso dall’art. 27 del d.lgs. 272/89, norma che ne disciplina, in via attuativa, i contenuti, valorizzando il ruolo dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e quello, ineludibile, dei servizi socio-assistenziale degli enti locali.
Con la messa alla prova, ammissibile per tutti i reati, l’educazione entra nel processo: oggetto del processo non è più il fatto-reato, ma la persona, si assiste alla “possibilità che davanti all’esigenza del recupero sociale del minore, la stessa realizzazione della pretesa punitiva possa arretrare”[4].
L’istituto della probation è esemplificativo del superiore interesse del minore, in un’ottica di proporzionalità e minimo intervento, quali criteri privilegiati di tutte le decisioni che riguardano la privazione della libertà, in ossequio anche alle Regole Europee per i minori autori di reato adottate dal Consiglio d’Europa nel 2008. Anche la messa alla prova, come altri strumenti peculiari del rito minorile (si pensi, ad esempio, all’irrilevanza del fatto – art. 27 d.Pr. 448/88, alla disciplina delle misure cautelari – art. 19 e ss. d.Pr. 448/88, regime dell’udienza preliminare – art. 31 d.Pr. 448/88, ai provvedimenti in materia di libertà personale art. 16 e ss. d.Pr. 448/88, all’accertamento della personalità minore di cui all’art. 9 d.Pr. 448/88), mira a realizzare l’idea di un processo penale che sia un “modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale (c.d. diversion) e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima (c.d. mediation)”[5]. Sul punto, Pricoco: “Le finalità rieducative e riparative, in sostanza, non riguardano soltanto una rielaborazione della condotta e la conseguente responsabilizzazione del minore autore di reati rispetto alla vittima ma, si ribadisce, sono dirette al cambiamento dell’atteggiamento del detto minore rispetto alla società nel suo complesso, alle ragioni della legge, alle regole della convivenza civile, cambiamento che dalla occasione del processo può derivargli”[6].
La collocazione sistematica dell’istituto e la sua piena convergenza con i principi fondanti il rito minorile trovano ulteriore conferma dai dati. Nel rimandare alle interessanti statistiche redatte dal Dipartimento per la Giustizia minorile ed comunità del Ministero della Giustizia e consultabili sulla rete[7], si vuole evidenziare come, dal 1992 al primo semestre 2019, vi sia stato un aumento pressoché costante, sia in termini di valori assoluti che in termini di variazioni percentuali, ovvero dai 788 provvedimenti ammissivi del 1992, si è passati ai 3653 del 2018 ed ai 2.382 del primo semestre 2019, con speculare aumento percentuale per ogni annualità.
Venendo ora alla pronuncia qui in esame, si segnala come la stessa, ripercorrendo la ratio dell’istituto e la sua sostanziale diversità dell’omologa previsione per gli imputati maggiorenni, si sofferma sul tema del rilievo – o meno – del presofferto, ai fini della determinazione pena, in caso di esito negativo della messa alla prova. Infatti, mentre per la sospensione per i maggiorenni l’ipotesi è espressamente disciplinata dall’art. 657 bis c.p.p. che, come noto, prevede, in caso di revoca o esito negativo della messa alla prova, una rideterminazione della pena che tenga conto del periodo corrispondente a quello di prova eseguita, indicando, quale criterio di “conversione” quello per cui tre giorni di messa alla prova corrispondono ad un giorno di reclusione o di arresto, ovvero ad euro 250 di multa o di ammenda, non vi è analoga disciplina per l’istituto della sospensione minorile.
3. Vicenda processuale
Con ordinanza del 12 aprile 2018, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 31 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e 657 bis c.p.p., “nella parte in cui non prevedono che, in caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova”[8].
La Suprema Corte aveva sollevato la questione in occasione della disamina di un ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano che, in veste di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta, formulata da un condannato, di riconoscimento in suo favore dello scomputo di pena prevista dall’art. 657 bis c.p.p. Ed in particolare: il minore, imputato in due distinti procedimenti (uno per ricettazione ed uno per violenza sessuale), era stato originariamente ammesso alla probation in entrambi i casi ma, dopo un periodo di iniziale adesione all’articolato programma predisposto ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 272/89[9], si era allontanato dai progetti, incorrendo, di conseguenza, nella declaratoria di esito negativo della messa alla prova, con sequenziale ripresa del giudizio. I due processi si concludevano con la condanna dell’imputato minorenne (7 mesi e 4 giorni, per i fatti di ricettazione e 2 anni e 6 mesi, per i fatti di violenza sessuale). Le due condanne erano unificate con provvedimento di cumulo da parte del Procuratore del Tribunale per i Minorenni di Milano, con pena da espiare determinata complessivamente in tre anni, un mese e quattro giorni di reclusione. Il difensore dell’indagato, dopo aver avuto un diniego su analoga istanza avanzata al Procuratore minorile, proponeva incidente di esecuzione, richiedendo, ai sensi dell’art. 657 bis c.p.p., un ricalcolo della pena applicata al minore, previa decurtazione del presofferto di due anni e mezzo di messa alla prova effettivamente svolta (seppur con esito negativo). Il Tribunale per i Minorenni di Milano in funzione, appunto, di giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta, ritenendo che la disposizione invocata non fosse applicabile nel caso di specie. Avverso tale ordinanza, il Difensore del condannato proponeva ricorso per cassazione, ove veniva poi sollevata la questione di legittimità costituzionale, discussa dalla Consulta.
4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale
In estrema sintesi, la Corte di Cassazione, pur traendo le mosse dalla distinzione fra l’istituto della messa alla prova nel processo ordinario, ove prevale la funzione afflittiva che si sostanzia nella necessità di svolgere lavori di pubblica utilità, da quello omologo del processo minorile, ove, di converso, prevale la finalità educativa del minore, con sequenziale inapplicabilità a quest’ultimo dell’art. 657 bis c.p.p., riteneva, comunque, che escludere il conteggio del presofferto per il minore, equivale ad una sostanziale violazione dell’art. 3 Cost., trattandosi di un regime ingiustificatamente deteriore rispetto all’assetto regolativo che caratterizza l’omologo istituto per gli imputati maggiorenni. Tali considerazioni, peraltro, muovevano anche da una valutazione del regime particolarmente afflittivo delle modalità esecutive della messa alla prova minorile (vedasi, ad esempio, inserimento comunitario all’interno di una struttura, con significative limitazioni alla libertà di movimento).
Un altro profilo di ipotizzata illegittimità costituzionale era quello relativo all’art. 31 Cost.; in particolare, il Giudice rimettente, lo argomentava richiamando la giurisprudenza della Consulta secondo cui: “il processo minorile deve essere ispirato alla prevalente esigenza educativa del minore (sentenza n. 222 del 1983), da attuarsi mediante la «specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 109 del 1997)”[10].
Ancora, un ulteriore profilo di criticità sarebbe quella derivante dalla violazione del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 comma 3 Cost., principio che: “impone l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, al fine prioritario della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato minorenne all’epoca del fatto (così, ancora, sentenza n. 222 del 1983)”[11].
Nel giudizio di costituzionalità interveniva, per il Consiglio dei Ministri, l’Avvocatura dello Stato che argomentava la propria tesi sull’inapplicabilità dell’art. 657 bis c.p.p. alla probation minorile, rappresentando che: “Tale mancata previsione sarebbe giustificata dalla preminenza dell’esigenza di recupero del minore, che non consentirebbe di attribuire natura sanzionatoria all’istituto; natura sanzionatoria che, invece, sarebbe propria della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, cui si riferisce la sentenza n. 343 del 1987 invocata dal rimettente”[12]. Interessante, inoltre, quanto precisato successivamente dall’Avvocatura che, nel chiedere il rigetto per inammissibilità del ricorso, riteneva come, un eventuale accoglimento, si sarebbe concretizzato in un’additiva non consentita alla Corte, dal momento che il giudice a quo invocherebbe l’introduzione di un sistema di computo della pena ulteriore e diverso da quello regolato per gli adulti, ovvero “un intervento additivo mirante ad introdurre nell’ordinamento giuridico una disciplina non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata”[13].
5. Soluzione del Giudice delle Leggi
Preliminarmente, la Consulta rigettava l’eccezione di inamissibilità dell’Avvocatura dello Stato ritenendo come, quanto richiesto dal Giudice remittente, non era una diretta estensione della disciplina dell’art. 657 bis c.p.p. al rito minorile bensì la: “attribuzione al giudice di un potere discrezionale, in forza del quale egli dovrebbe essere posto in grado di determinare la residua pena da espiare «tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova»: al di fuori, dunque, di ogni automatismo.”[14], attribuendo, pertanto, analoga estensione al potere interpretativo della Corte di quello utilizzato nella sentenza n. 343 del 1987 in tema di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova, per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova e relativi poteri del Tribunale di sorveglianza in punto di determinazione della residua pena detentiva da espiare.
Venendo al merito della pronuncia, si evince come, sin dai primi passaggi della motivazione, la Consulta rimarchi la differenza strutturale che intercorre tra la probation del rito minorile e l’omologo istituto previsto per imputati maggiorenni, nonché la misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova al servizio sociale, citata dalla Corte rimettente (con il richiamo alla sentenza n. 343 del 1987), ed indicata quale: “strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)”[15]. Queste due misure, pur mirando alla risocializzazione del condannato, non possono rimanere scollegate dalla connotazione prettamente sanzionatoria che le ancora al fatto di reato per cui si procede.
La Consulta prosegue esaminando l’istituto della messa alla prova per i maggiorenni, citando il precedente della Corte n. 91/18 che ha richiamato, affermandola, la duplice natura, processuale e sostanziale, dell’istituto[16] che, in ogni caso, assume la valenza di un vero e proprio “trattamento sanzionatorio” che persegue lo scopo della risocializzazione del reo, in ossequio al disposto di cui all’art. 27 comma 3 Cost.. Trattamento la cui esecuzione è rimessa allo spontaneo adempimento dell’interessato e che si colloca in via anticipata rispetto all’ordinario accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato; infatti, per ammetterlo, esaminati gli atti del fascicolo del Pubblico Ministero, il Giudice, in base all’art. 464 quater c.p.p., dovrà soltanto verificare che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.
A conferma della valenza sanzionatoria della probation per gli imputati maggiorenni, la Corte rimarca la presenza di elementi di peculiare afflittività che la connotano, quale l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – art. 168 bis c.p. – di prestare lavoro non retribuito di pubblica utilità cui si affianca la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno.
La Consulta poi ritorna sulla messa alla prova per i minorenni, istituto radicalmente diverso dall’omologo previsto per gli imputati maggiorenni. In modo tranchant, viene detto, nella sentenza qui in commento che, alla stessa “non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria”. Tale assunto si evidenzia da numerose considerazioni: innanzi tutto, una volta accertata – seppur sommariamente – l’esistenza del fatto di reato attribuibile all’imputato, la messa alla prova è consentita in relazione a qualsiasi tipo reato (in astratto anche quelli puniti con l’ergastolo[17]), variando solo la durata (da dodici mesi, sino a tre anni).
Ancora, altro argomento di interesse sottolineato dalla Consulta è quello per cui, all’art. 27 comma 2 d.lgs. 272/89 non si rinviene alcun obbligo di prevedere prestazioni di lavoro di pubblica utilità, né “compare alcun riferimento, qui, ai criteri generali di commisurazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen. per orientare la discrezionalità del giudice e dei servizi sociali nella definizione delle prescrizioni, a differenza di quanto si è visto accadere nella disciplina della messa alla prova per gli adulti”[18].
Una sintesi delle argomentazioni svolte dalla Consulta, conduce ad individuare il significato delle prescrizioni contenuto nel programma della messa alla prova come stimolo ad un percorso rieducativo del minore, in un’ottica di sviluppo della personalità. Anche le prescrizioni che limitano la sfera di agire del minore (si pensi alla frequenza a corsi scolastici e/o professionali, ovvero ai momenti terapeutici) non possono essere considerate a carattere sanzionatorio, ma fungono da “occasioni educative” funzionali a stimolare il cambiamento e la revisione critica della propria condotta; il loro contenuto precettivo-impositivo è espressione proprio della finalità educativa e, pertanto, in alcun modo potranno essere intese come sanzioni anticipate rispetto alla pena per il fatto di reato commesso, bensì come vere e proprie occasioni di riscatto e formazione.
6. Conclusioni
Questo passaggio conclusivo della pronuncia, richiama alla mente un’interessante considerazione letta in un contributo edito su Cassazione Penale, elaborato dal gruppo di lavoro sulla giustizia penale minorile milanese, passaggio che qui si vuol riportare e che, sostanzialmente, si ritiene racchiudere il senso del condivisibile assunto della pronuncia della Consulta, in questa sede esaminata: “L’obbiettivo centrale della messa alla prova per l’adolescente antisociale è la progressiva acquisizione di un apparato per pensare i pensieri che consenta di elaborare le esperienze emotive per tradurle in significato come cibo per la mente, piuttosto che relegarle in un accumulo di disagio destinato ad essere estroflesso ed evacuato con l’agito delinquenziale. Lo sviluppo della capacità pensante è la condizione necessaria e preliminare al superamento delle difficoltà maturative manifestate nella tendenza all’agire. In altre parole è l’acquisizione di una compiuta capacità simbolica che consente di trasferire dal registro operatorio-concreto brutale ed invasivo dell’azione criminosa, al registro linguistico e condiviso, la negoziazione del soddisfacimento degli stati del Sé, dove l’Altro può essere considerato nella sua separatezza e nella sua integrità. È possibile con ciò il raggiungimento di una dimensione etica, dove la preservazione e il benessere dell’Altro possono essere percepiti anche come benessere per il sé, e dove è possibile la fuoriuscita dalla dimensione depauperativa del “mors tua vita mea” per orientarsi in quella reciprocamente valorizzante del “vita tua vita mea”, foriera di una crescita autentica e reciproca”[19].
[1] Giostra G., Il processo penale minorile. Commento al D.PR. 448/1988, Milano, Giuffrè, 2009;
[2] Pazè, Il sistema della giustizia minorile in Italia, Rassegna Italiana di Criminologia, 4/2013, p. 210;
[3] I. Maci, Per un penale minorile partecipato: il modello delle Family group conference, in Minorigiustizia, 2013, 1, pp. 128-138;
[4] E. Fraccarollo, Intervista a Piercarlo Pazè, direttore della rivista minorigiustizia, sulla pratica della messa alla prova in Italia, in www.minoriefamiglia.it;
[5] L. Fadiga, Le origini del processo penale minorile: i lavori preparatori del dpr 448/1988, in rivista Diritto Minorile, n. 1/2009, p. 2
[6] Pricoco Maria Francesca, Il processo penale minorile: educare e riparare, in XXVIII Convegno nazionale "Infanzia e diritti al tempo della crisi: verso una nuova giustizia per i minori e la famiglia”, Milano, 13 -14 novembre 2009;
[7] http://www.centrostudinisida.it/Statistica/index.html
[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[9] In relazione al processo per fatti di ricettazione, erano previsti interventi quali: orientamento formativo e lavorativo, sostegno per il conseguimento del patentino per il ciclomotore, per il mantenimento della frequenza di uno sport di squadra, per lo svolgimento di attività di utilità sociale, colloqui di monitoraggio con l’assistente sociale e di sostegno psicologico dell’équipe penale; in relazione al secondo processo per fatti di violenza sessuale, di converso, erano previsti interventi quali: mantenimento della frequenza scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui di sostegno psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale, finalizzati anche alla rielaborazione dei reati e dei sottesi stili di vita e relazionali con i pari; svolgimento di attività socialmente utili inizialmente presso un oratorio e successivamente presso altri contesti al fine di incentivare “sentimenti di condivisione e di empatia”, attività di servizio alla persona, con l’inserimento, ove possibile, in gruppi rivolti alla presa in carico di minori coinvolti in reati di stampo sessuale, nonché colloqui di verifica e di sostegno con l’assistente sociale, con il coinvolgimento dei familiari – evidentemente, nell’ottica della Family group conference cui prima si faceva riferimento;
[10]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[11]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[12]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[13] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[14] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[15] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[16] Istituto che:“«[d]a un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)” - Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[17] L. Camaldo, Sospensione del processo e messa alla prova del minore imputato di omicidio : una recente decisione del Tribunale per i minorenni di Milano, Cass. Pen., 2006, pp. 1589-1598.
[18] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[19] Gruppo di Lavoro del Tribunale per i Minorenni di Milano, Il trattamento dei minori sottoposti alla messa alla prova: griglia per i servizi psico-sociali, Cass.Pen., 5/2012, p. 729 e ss.
La procedura civile in italia nei primi anni del xx secolo di Paolo Spaziani
Recensione a cura di Irene Ambrosi
Il bel saggio di Paolo Spaziani ci consente di ripercorrere una grande stagione, trascorsa ma non dimenticata, della scienza italiana del processo.
Il volume è dedicato ai protagonisti di quell’epoca leggendaria, alle cui venture e sventure l’Autore si accosta con rigoroso metodo scientifico e con venerazione e profonda umanità, perché dentro queste pagine, non soltanto storico-giuridiche, può dirsi che, come accade nelle opere letterarie, si aggirano persone vive, che con le loro gioie e dolori appartengono alla vita interiore di chi le ha scritte e che suscitano nel lettore, allo stesso tempo, l’interesse a conoscerne il genio e una malinconia struggente per ciò che, umano, è inesorabilmente perduto.
Il tempo che ci viene raccontato è quello del primato di Lodovico Mortara, giurista insigne, uomo «dalla ridondante personalità» e dal «non facile carattere», al quale, come ci rammenta Paolo Spaziani, dobbiamo una visione assolutamente
innovativa e moderna dell’ordinamento giuridico, al cui centro viene a trovarsi «con oltre mezzo secolo di anticipo, la persona umana”.
Mortara ebbe una carriera prestigiosissima: come presidente di Corte d’appello, nel 1906, riconobbe il diritto di voto alle donne, come ministro della giustizia, nel 1919, abrogò l’autorizzazione maritale e infine, come primo presidente della Cassazione di Roma, nel 1922, attribuì all’autorità giudiziaria il potere di controllo dei presupposti di urgenza dei decreti-legge, escludendo che potesse essere esercitata l’azione penale per un reato previsto in un decreto del governo prima della sua conversione in legge.
Paolo Spaziani ci restituisce la concezione di Mortara in tutta la sua originalità, consegnandoci in proposito le riflessioni di due illustri giuristi; da una parte, Piero Calamandrei che osservò come Mortara, diversamente dagli altri processualisti, fosse «arrivato allo studio del processo non salendovi dal diritto privato, ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti, ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia»; dall’altra, Salvatore Satta che ipotizzò come Mortara avesse scelto la missione del giudice proprio in ragione del nobile obiettivo di rendere giustizia attraverso il processo, obiettivo che non si esauriva soltanto in ciò, bensì nell’anelito di renderla in uno Stato libero, e dunque in un processo circondato delle più ampie garanzie delle libertà e dei diritti delle parti, come costante della vita professionale e scientifica di Mortara e, verosimilmente, la stessa ragione del suo abbandono della cattedra universitaria per la magistratura.
«Mentre Mortara ascendeva al primato», Carlo Lessona e Giuseppe Chiovenda, «due giovani studiosi piemontesi» facevano il loro ingresso nel mondo della procedura civile. Nel tratteggiarne le diverse personalità, le opere e i riconoscimenti accademici, l’Autore li descrive come appartenenti a due scuole contrapposte, l’una riconducibile a Lodovico Mortara, costituendo Lessona «il valoroso scrittore» cui si riferiva la recensione anonima, ma facilmente riconducibile al suo Direttore (appunto, Mortara), apparsa sulla Giurisprudenza Italiana nel 1894, l’altra riconducibile a Vittorio Scialoja, potentissimo preside della facoltà giuridica romana, con il quale si laureò Giuseppe Chiovenda nel 1893, a soli 21 anni.
Alle due scuole corrispondevano due concezioni opposte sia per carattere ideologico-politico sia per carattere metodologico- scientifico: «Mortara aveva compreso che anche il piccolo e affatto peculiare mondo della procedura avrebbe risentito della reazione degli studiosi del diritto romano (e in particolare di uno di loro, Vittorio Scialoja)». Da un lato, quindi, Mortara fu portatore di una concezione progressista volta a rafforzare la funzione del processo come strumento di giustizia sociale, dall’altro, Scialoja, difensore di una concezione liberale post-unitaria, si batté per la riaffermazione della perdurante attualità del diritto romano e per la costruzione di un nuovo sistema giuridico ispirato dalla scienza giuridica tedesca.
La ricerca di Paolo Spaziani prosegue nel racconto delle vicende professionali e personali di Giuseppe Chiovenda e Carlo Lessona, descrivendone le diverse fortune: «trionfi» per Chiovenda, «sventure» per Lessona.
Trionfi accademici per il primo, se sol si pensi alla celeberrima prolusione di Chiovenda a Bologna su L’azione nel sistema dei diritti, ricordata dalla dottrina delle successive generazioni come il «manifesto» della nuova scienza del diritto processuale civile tanto che il giorno in cui essa fu tenuta - il 3 febbraio 1903 - è considerato il giorno della sua «fondazione».
Sventure accademiche per il secondo, cagionategli improvvidamente dal suo Maestro Mortara, il quale sferrando un attacco contro uno scritto di Chiovenda, nell’estate del 1903, proprio nello stesso periodo in cui veniva indetto dalla facoltà giuridica di Napoli il concorso per coprire la cattedra già da lui occupata, ne danneggiò gravemente la candidatura; infatti, la cattedra, all’esito di un concorso protrattosi tra alterne vicende per quasi due anni, fu assegnata a Chiovenda, sebbene Lessona fosse già professore ordinario rispetto al suo concorrente, ancora straordinario, ed autore di un trattato sulle prove in cinque volumi. In proposito, Paolo Spaziani con termini illuminanti spiega: «ciò che si stava per consumare non era soltanto la gara tra due sommi studiosi ma lo scontro tra due contrastanti concezioni sul modo di condurre lo studio e l’insegnamento della scienza processuale - e poiché tra queste due concezioni quella di cui era espressione Chiovenda era molto più potente, tanto in sede accademica quanto in sede politica, rispetto a quella di cui era espressione Lessona - non bisognerà stupirsi nell’apprendere che il concorso avrebbe preso una piega tale da elidere il vantaggio iniziale di cui godeva quest’ultimo e da consentire al primo di salire trionfalmente sulla cattedra che era stata di Mortara, permettendo alla scuola di stampo roman-germanista e di ispirazione scialojana di estendere il suo dominio sull’Università italiana.». L’ultimo atto della sconfitta di Lessona si consumò nel 1906, quando Chiovenda venne chiamato all’Università di Roma per chiara fama.
Nelle pagine dedicate alla grave malattia che colpì Carlo Lessona dopo la sconfitta professionale, troviamo l’umanità sincera e la commozione dell’Autore che traspare a proposito della dedica formulata da Lessona al proprio medico, posta nella prima di copertina del particolarissimo volume Giurisprudenza animalesca, apparso nel 1906, ove si legge: «Illustre e caro collega, un anno fa tu mi hai salvato la vita con la tua scienza, con la tua arte. Io ti offro un lavoro mio che non né di scienza né di arte. Ma te lo offro con l’affetto e con la riconoscenza d’un risorto. Sei stato così buono con me! Siilo ancora accettando il dono».
Davvero arguto e divertente è il racconto delle schermaglie ironiche che Lessona riservò a Chiovenda negli anni a seguire: definendolo, parlando agli studenti durante le sue lezioni, come la «vetta dell’Himalaya» oppure inviandogli i propri «rallegramenti» per il premio ricevuto dall’accademia dei Lincei per le scienze giuridiche, appena quarantenne nel 1912, sebbene si trattasse, come chiosa a ragione l’Autore, di una «malcelata insolenza» e di «un’alluvione di insulti».
Il volume si chiude con le vicende legate alla comparsa sulla scena della scienza del processo di Piero Calamandrei e alla prematura scomparsa di Lessona, a 56 anni, il 16 aprile 1919.
La ricostruzione di quelle vicende nella riflessione di Paolo Spaziani è inedita nell’attribuire all’intervento di Calamandrei un valore di intervento pacificatore tra l’affetto per Lessona, indimenticato suo Maestro, e l’avvicinamento a Chiovenda, detentore del primato di studioso di procedura civile.
L’Autore dedica le ultime pagine alla Prefazione di Chiovenda al Trattato delle prove di Lessona del 1922 e alla «misteriosa recensione» di Calamandrei apparsa nell’anno successivo e spiega che la Recensione era soltanto formalmente dedicata a Lessona e che, viceversa, era diretta a replicare alla Prefazione di Chiovenda il quale «aveva colto quell’occasione per affermare, contrariamente al vero, che Lessona aveva riconosciuto il valore della sua scuola e persino la superiorità delle sue idee».
La reazione di Calamandrei, «uomo di studio, ma anche di azione», come lo definì Salvatore Satta, non si fece attendere e nello stilare la Recensione difese la memoria di Lessona con un’estrema abilità polemica.
Difatti, come già ipotizzato da Franco Cipriani, il misterioso bersaglio degli strali di Calamandrei non poteva che essere lo stesso Chiovenda, che mentre veniva ringraziato personalmente per aver riportato Lessona nel posto che gli spettava incarnando «il vanto più alto e il più fecondo fermento della scuola giuridica italiana», veniva a costituire il reale bersaglio dell’attacco misterioso rivolto a «qualche inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi» che avrebbe ostentato «balorda indifferenza» verso l’opera di Lessona.
Paolo Spaziani, nel dedicare il volume «alla memoria del Prof. Franco Cipriani, «esempio animatore», ci ha dato affidamento che il racconto delle vicende della procedura civile in Italia continui per il tramite della sua felice penna anche per i secondi anni del ventesimo secolo.
Noi ce lo auguriamo e glielo auguriamo.
*recensione già pubblicata su Giudice donna on line n.1/2019.
Dalla “Sapienza” alla “Giustizia”. Esperienza di un “merito insigne”, ex art. 106 comma 3 della Costituzione.
Maria Enza La Torre
Sommario: 1. La nomina di consigliere di cassazione per “meriti insigni”: un percorso accidentato. 2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica. 3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
1. La nomina di consigliere di cassazione “per meriti insigni”: un percorso accidentato.
L’art. 106, terzo comma, della Costituzione, prevede la chiamata all’ufficio di consigliere di cassazione, per “meriti insigni”, di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con quindici anni di esercizio e iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori: quindi la possibilità dell’accesso al ruolo di consigliere di cassazione – di norma magistrato “per concorso” – anche alle altre categorie di giuristi.
Questa modalità di ingresso nella magistratura non è da tutti conosciuta; anzi, come ho potuto constatare, lo è solo da pochi, al di fuori della Corte di cassazione, dei docenti di diritto pubblico e di parte dell’avvocatura.
Forse perché l’attuazione della norma costituzionale si è fatta molto a lungo attendere, sebbene già prima della sua emanazione l’innesto di giudici laici per una limitata entità di posti, ex art. 106, 3° comma Cost., si riteneva non dovesse trovare “ostacoli nella magistratura, smentisce la diceria secondo cui l’ordine dei togati è una casta chiusa, è gradito all’avvocatura, è oggettivamente importante per l’osmosi di esperienze professionali. Eppure, non diventa legge!”[1]
Solo nel 1998 – e non senza contrasti[2] - (con la l. 5 agosto n. 303), dopo cinque decenni di quiescenza, sono stati alfine esplicitati i requisiti per la chiamata degli indicati soggetti per “meriti insigni” (già “meriti eminenti”, nell’abrogato art. 122 dell’ordinamento giudiziario del 1941). Essa, si legge all’art. 2 co. 2 l. 303/1998, riguarda persona che, per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale. Ed aggiunge che “a tal fine, costituiscono parametri di valutazione gli atti processuali, le pubblicazioni, le relazioni svolte in occasione della partecipazione a convegni”.
Tale specificazione della norma costituzionale, ritenuta opportuna da alcuni[3], era stata avversata dal CNF[4], che temeva il rischio di una cristallizzazione dei criteri di valutazione, come tali snaturanti la ratio legis, di cui credeva opportuno lasciare arbitro il CSM. Ma criticata anche da chi[5] riteneva l’intervento del legislatore ordinario per un verso pleonastico - nella misura in cui la legge ordinaria dovesse parafrasare il testo della norma costituzionale - per altro verso incostituzionale, ove se ne discostasse[6].
Oggetto di ampia discussione anche la durata della carica, per la quale la Commissione giustizia del Senato aveva proposto la riammissione in servizio del professore dopo cinque anni di effettivo servizio delle funzioni giudiziarie: l’esclusione di questa possibilità, pur sperata da alcuni (Bonifacio, Giacobbe) è stata tuttavia considerata un vulnus “alla probabilità di successo della legge”[7] [8].
Per il versante forense (Osservatorio del CNF, 1988) il “modello” proposto coniugava eminenza di preparazione culturale a dirittura morale e spirito di servizio; modello che escludeva la nomina di deputati, già ipotizzata da Alfredo Rocco all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, e rifiutata dal foro, per voce di Alfredo De Marsico, che così offriva la prima manifestazione di “fedeltà indissolubile alla professione forense”[9].
L’ingresso in Cassazione dei laici, professori e avvocati, era stata auspicata dal CSM quale compimento di una importante finalità democratica[10], per un sia pur limitato “apporto prezioso di esperienze professionali che potrebbero contribuire a correggere gli eccessi formalistici spesso riscontrabili nella giurisprudenza delle giurisdizioni superiori”[11], secondo uno schema di disegno di legge predisposto nell’ambito della cassazione e poi sottoposto al Ministro della giustizia: schema che si proponeva di recepire “una ragione politica di rilievo costituzionale destinata ad incidere sul lavoro della Corte”[12].
La particolare e rigorosa qualificazione richiesta agli indicati “laici” per l’ingresso in cassazione - pur nella interpretazione più elastica che il CSM ha dato nel segno di una visione più aderente (o conformata) alle pressanti esigenze di efficienza dell’attività della Corte - non era stata prescritta dal costituente neppure per la nomina a giudice della Corte costituzionale, considerata premiale per “cinque cittadini altamente meritevoli, benemeriti della comunità nazionale, con l’onore di entrare a far parte della vita del senato”[13]. S’intendeva con essa sottolineare il requisito della capacità tecnico-giuridica correlata alle competenze proprie della Corte di cassazione, alla quale, come giudice supremo, spetta assicurare l’esatta interpretazione delle norme dell’ordinamento.
Il che impone di configurare in modo autonomo la funzione di legittimità affidata alla Cassazione, quale organo supremo della giustizia che assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 Ord. Giud. del 1941): tre valori che, in sequenza progressiva, culminano nel risultato finale dell’unità del diritto nazionale, ma che trovano il loro fulcro nella interpretazione, sulla quale si regge la funzione nomofilattica della Corte[14].
In questo contesto va collocata la nomina del professore di diritto o dell’avvocato all’ufficio di consigliere di cassazione, che è cosa diversa da una nomina a magistrato.
La particolarità di tale nomina - a componente di un organo che non è un giudice di terza istanza ma è preposto alla enunciazione di “principi di diritto” o controllo di legittimità - va ricercata nelle origini della Corte, come risulta a seguito della unificazione (con la riforma del 1923) delle varie Corti esistenti negli stati preunitari (Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo) e con l’attribuzione delle sue funzioni, indicate nell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario del 1941 sopra citato, anche in relazione all’art. 111 della Costituzione.
Ne emerge il profilo di una Corte di legittimità cui “è sempre ammesso il ricorso per violazione di legge” (art. 111, comma 7 Cost.), così affidando sempre e soltanto a quest’organo il compito definitivo di dicere ius; che prevede, nell’inerzia delle parti interessate alla controversia la facoltà per il Procuratore generale di proporre autonomo ricorso per chiedere che la sentenza sia cassata nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.); che esclude l’annullamento della sentenza giusta, ma erroneamente motivata in diritto, stabilendo che in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione (art. 384 ult. co. c.p.c.).
Elementi, questi, che delineano la funzione nomofilattica, “compito specifico della Corte di cassazione, espressione non di un predomino gerarchico ma della sua centralità” (Borré), alla quale sono chiamati a far parte anche soggetti estranei alla magistratura.
Funzione nomofilattica, va aggiunto, per ragioni di onestà intellettuale e completezza, che l’ipertrofia crescente, data dall’enorme numero di ricorsi pendenti, rischia di relegare a posizioni residuali, nella deriva quantitativo‐efficientistica che ha travolto la Corte.
2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica.
Già nelle fonti romanistiche[16] si affermava che il diritto non può star saldo se non c’è qualche giurista attraverso cui, giorno dopo giorno, possa venire condotto innanzi, verso il meglio. Più recentemente[17] è stato sottolineato il carattere dinamico, che discende dalla relatività del diritto, quale risposta a bisogni che mutano nel tempo nella ricerca di una coesione sociale che deve continuamente riscoprirsi, nella polarità fra legge e giustizia. Dinamicità dell’ordinamento, aggiunge Violante, affidata alla forza persuasiva della democrazia e alle dinamiche del pensiero giuridico, non limitabili, aggiungo, a categorie predeterminate di giuristi.
È centrale nel diritto, come già riscontrato dai romanisti e confermato dai giuristi contemporanei, il concetto della mobilità, della “invenzione” del diritto, come dice Paolo Grossi, critico delle mitologie giuridiche della modernità oltre che storico del diritto; diritto che va cercato all’interno della legge - che essa sì è “certa”, perché precostituita, e quindi statica – dal giurista, che nella storicità del diritto, e quindi nei cambiamenti sociali, individua una certezza legata al mutamento, proprio attraverso l’interpretazione.
Questo perché il testo normativo non ha una realtà autosufficiente, ma ha compiutezza solo nell’interpretazione.
Ma a chi è riservata l’attività dell’interpretazione?
Il giurista, uno dei mestieri più antichi del mondo, interpreta il diritto con diversità di esperienze e di ruoli: giudici, avvocati, professori, notai. E lo fa di professione. La cooperazione dei diversi attori è fruttuosa nella elaborazione dei principi e nella loro applicazione al caso; nella attualizzazione storico-sociale in cui viene realizzata. Ciò perché per la reale attuazione del diritto non basta la legge, non basta il giudice, ci vuole il giurista nella sua accezione più completa, nel superamento, ormai accettato, della distinzione fra teorico e pratico[18].
Certo, i ruoli – intesi sia come modelli di comportamento attesi che come contenuti di una attività che caratterizza chi la svolge - sono diversi.
Centrale, per la vita dei cittadini e la stabilità delle istituzioni, è certamente l’amministrazione della giustizia.
Nel mondo greco la giustizia esercitata dal tribunale dell’Areopago e affrancata dalla antica vendetta ha consentito alla polis di acquisire un nuovo status (Eschilo, Eumenidi); parallelamente nella Bibbia si ricorda che Mosè (Bibbia, Esodo, 18,18) ha delegato ai capi delle tribù, ma solo a quelli fidati e incorruttibili, la funzione del giudicare.
La lunga storia delle riflessioni sulla giustizia, che ha accompagnato come un’ombra lo sviluppo delle società umane, oscilla fra un ideale irraggiungibile e un criterio pratico, imperfetto e rivedibile. Amartya Sen[19], premio nobel per l’economia, uno dei più influenti pensatori del nostro tempo, indica nella razionalità lo strumento privilegiato per la realizzazione della giustizia. Non può dirsi in astratto cosa sia giusto, ma scegliere per via comparativa tra valutazioni alternative e argomentazioni concorrenti, cioè vagliare sotto la lente dello spettatore imparziale i molti punti di vista. Solo aprendoci a una pluralità di voci potremo guardare su scala globale alle ingiustizie che possono venire eliminate o ridotte senza ricadere in sterili chiusure mentali.
Peraltro i meccanismi di reclutamento dei giudici nei regimi democratici prevedono, accanto al pubblico concorso – elitario strumento di selezione per i paesi di civil law- la nomina (da parte del potere esecutivo o del legislativo o di entrambi) e l’elezione diretta.
In Francia [20] l’Ècole national de la magistrature (ENM, amministrata da un consiglio di amministrazione - di cui il presidente è il primo presidente della Corte di cassazione e il vicepresidente è il procuratore generale -e da un direttore), recluta circa cinquecento allievi magistrati per anno di cui la metà sono professionisti in riconversione (anziani avvocati, quadri della funzione pubblica, giuristi), prevalentemente per concorso[21], anche se non mancano casi di reclutamento, anche temporaneo, senza concorso.
Anche in Germania esiste la nomina diretta di professori universitari in materie giuridiche, avvocati e funzionari del pubblico ministero e della pubblica amministrazione che abbiano superato gli esami di stato. La nomina dei giudici della Corte suprema è operata dal Ministro federale per la giustizia e da una commissione.
In Spagna la magistratura (carrera judicial)[22] è disciplinata all’interno della Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial (LOPJ)[23]. L’ingresso in magistratura “basato sui principi del merito e della capacità per l’esercizio della funzione giurisdizionale”, avviene mediante il superamento di un concorso pubblico (oposición libre), che consente l’accesso ad un successivo corso teorico-pratico di selezione, presso la “Scuola Giudiziaria” (Escuela Judicial), dipendente dal Consiglio Generale del Potere Giudiziario[24]. La nomina a magistrato della Corte suprema è decisa da quest’ultimo fra i magistrati con più di quindici anni di anzianità, dei quali dieci nella categoria di magistrato, e un quinto scelto fra giuristi di nota competenza con almeno quindici anni di esperienza.
In Inghilterra la preparazione dei futuri magistrati viene affidata agli stessi magistrati. Nelle Università si studiano le regole di diritto, ma l’insegnamento della tecnica giuridica spetta ai giudici[25]. Conseguenza di questo tipo di reclutamento è che in Inghilterra si diventa giudici di solito dopo avere svolto una brillante carriera nel foro, tanto che la magistratura inglese viene considerata una emanazione del corpo dei barrister (al contrario di quelle continentali in cui la separazione delle professioni legali è molto più accentuata). Quindi nel Regno unito giudici e professionisti si formano insieme. E questo ha conseguenze anche sullo stile delle sentenze: in esse mancano rigidi canoni formali e la discussione della causa avviene in forma orale ed è fortemente personalizzata.
Negli USA i giudici della magistratura federale vengono nominati dal Presidente e devono essere confermati dal senato. Vi è poi, con varianti, il reclutamento per via elettorale[26]. Per la nomina a giudice della Corte suprema non sono richiesti requisiti formali, anche se, di regole, i giudici americani, come quelli inglesi, posseggono una notevole esperienza professionale e politica [27].
Questa visione comparatistica dà il segno di come, specie per le Corti supreme, la nomina di componenti laici sia prassi diffusa[28]. Non è uno scandalo, dunque, che anche in Italia un limitato numero di consiglieri di cassazione possa provenire dai ranghi dell’avvocatura o dell’Università. Peraltro per il reclutamento dei magistrati a seguito di concorso, senza precedenti esperienze professionali, si è avvertita la necessità sia della formazione permanente – per assicurare un alto grado di qualificazione professionale, che è anche garanzia di indipendenza della magistratura[29] - sia delle valutazioni di professionalità, al fine di superare il gap della mancanza di esperienza pratica, presente negli altri operatori del diritto.
3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
Infine una riflessione personale.
Scrivere della mia esperienza è stata l’occasione per un’analisi, che negli ultimi cinque concitati anni, non avevo avuto modo di approfondire.
Un cambiamento di lavoro ma anche di relazioni, di luoghi, di vita.
E questo dopo un lungo e proficuo periodo, nel quale ho contribuito a formare tante generazioni di studenti, ho partecipato intensamente alla vita dell’Accademia nelle sue articolazioni scientifiche e organizzative.
Quando ho ricevuto la comunicazione che il CSM mi aveva designato come consigliere di cassazione ne sono stata felice: per il prestigio di poter far parte della magistratura, non disgiunto dal fascino di un cambiamento di vita, con la voglia di mettersi in gioco. Non ultima l’influenza paterna, che sento presente nelle aule del Palazzo e il cui rigore mi guida nella mia attività.
Gli inizi non sono stati certo facili: per la mancanza di un’attività formativa mirata ad introdurmi al giudizio di legittimità, ma soprattutto perché un consigliere non proveniente dai ranghi della magistratura è considerato, se non come un corpo estraneo, comunque con sospetto. Il sospetto di non essere adatto al compito, di non avere le competenze adeguate, di non avere la mentalità del giudice.
Per superare questa diffidenza, che la vicinanza di colleghi affettuosi e disponibili ha consentito, ci sono voluti anni di impegno gravoso, sia per la difficoltà di trovare il giusto equilibrio fra studio della controversia e redazione della sentenza nella sintesi e nei tempi richiesti; sia per la necessità di integrarsi con in un contesto lavorativo e personale di tipo diverso da quello lungamente frequentato, in cui il dibattito e lo scambio delle idee era quotidiano.
Dopo il faticoso rodaggio, oggi può essere fatto un bilancio, bilancio per il quale mi avvarrò dei simboli delle due funzioni: la toga del docente e quella del giudice. Apparentemente diverse, ma emblematiche della solennità del ruolo.
La toga del giudice simboleggia la Giustizia e l’imparzialità di chi “è soggetto soltanto alla legge” e in tutti i momenti rispetta il principio, scritto nelle aule in cui si celebrano i processi, secondo cui “la legge è uguale per tutti”.
Giustizia e imparzialità, sottesa l’indipendenza necessaria per attuarle, costituiscono anche il fil rouge del comportamento del docente universitario, che verifica e valuta la preparazione degli studenti dagli esami di profitto a quello di laurea; e lo fa con l’indipendenza da influenze esterne e con l’imparzialità che prima ancora che caratteristiche del docente sono valori della persona.
In questa prospettiva ho accolto la nomina a consigliere di cassazione, più come evoluzione che come trasformazione: dal diritto segnato al diritto conclamato.
Peraltro, a ben vedere, gli elementi di affinità non sono pochi.
Il docente universitario, si sa, ha la tradizionale competenza di trasmettere il “sapere” del diritto: e cioè le nozioni, stratificate da studi svoltisi nel tempo che, dotandosi di un proprio statuto epistemologico, si erigono in scienza. Scienza però, avverte Pugliatti, rivolta a fini pratici, per non dimenticare - e non far dimenticare- che funzionale alla conoscenza è l’attuazione concreta dell’insegnamento teorico, che non può essere disgiunto dall’addestramento alle abilità, che servono per sapere usare le nozioni apprese. Ciò perché la padronanza delle abilità (il sapere procedurale) consente di mettere in relazione la conoscenza con le caratteristiche ambientali e di autoregolare i processi mentali implicati nell'esecuzione di un compito[30].
Già Carnelutti avvertiva che L’insegnamento dovrebbe fornire al discente quella somma di cognizioni e di esperienze che si riferiscono non tanto al sapere quanto al saper fare; insomma insegnargli ad applicare le regole che costituiscono il sapere; gli si presenta il caso e gli si mostra come si fa; sarà, per esempio, un contratto o un reato, un accordo o un contrasto tra due uomini. Qui occorre al maestro non soltanto il sapere ma anche il saperfare e così far bene e insieme scoprire e mostrare le ragioni del ben fare, il che esige il compiuto dominio della scienza e dell’arte[31].
Aggiungeva Pugliatti: Tutto quello che può dirsi, dunque, è che si ha scienza quando l’attività è orientata verso la conoscenza; tecnica, quando l’attività è legata al presupposto della conoscenza. La scienza opera ed è orientata verso il conoscere; la tecnica opera sulla base del conoscere; così che tra le due attività non solo vi è connessione, ma addirittura reciproca coordinazione funzionale... Basterà considerare la tecnica come applicazione o utilizzazione pratica della scienza[32].
Una sintesi fra teoria e pratica, trasmissione del sapere e del saper fare è rappresentata dalla presenza – ormai stabile – in Cassazione dei tirocinanti affidati ai magistrati formatori, che consente una continuazione di quell’attività che così non subisce interruzioni. Anzi la rende ancor più feconda: perché i giovani laureati “formati” nell’attività di tirocinio imparano quel saper fare e sono più pronti di altri ad affrontare i concorsi prima e l’attività professionale poi. Ne è la riprova il numero di tirocinanti che superano l’esame di avvocato e i concorsi per le professioni legali.
E devo aggiungere che anche l’attività dei magistrati ne ha un positivo riscontro: in una delle ultime camere di consiglio il presidente del collegio ha invitato i relatori a chiarire le problematiche in modo sistematico, per assicurare ai giovani in formazione una esatta cognizione delle tematiche trattate. Si è creato insomma un piccolo circolo culturale, una palestra dove tutti, in armonica partecipazione, hanno tratto benefici effetti.
Anche l’aspetto scientifico e di ricerca, che come molti colleghi continuo a coltivare, è incentivato dai numerosi convegni e incontri di studio di alto livello organizzati dalla Scuola di formazione della magistratura, che non fanno mancare occasioni di riflessione e di studio.
Una sorta di continuità ritrovata, dunque, pur nella diversità dei compiti e delle funzioni.
All’Università parlavo di diritto; in Cassazione continuo a parlare di diritto.
[1] L. Scotti, I sette disegni di legge del secondo pacchetto giustizia, in Documenti giustizia, 1996, 1648.
[2] F. Cipriani, La chiamata in cassazione per meriti insigni (appunti per la bicamerale), in Foro it., 1997, c. 57 ss., ripercorre la storia della magistratura dopo l’unità d’Italia, le titubanze del CSM e la pressione del CNF, i disegni di legge Martelli, Bondi e Flick e infine la laboriosa approvazione dell’art. 103, comma 3 Cost.. V. anche L. Scotti, I sette disegni di legge, loco cit..
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La magistratura, in Comm. della cost., a cura di Branca, 1986, 138
[4] CNF, Osservazioni, in Rass. Forense, 1988, 72.
[5] E. Gallo, L’avvocatura nella magistratura e il terzo comma dell’art. 106 cost., in Documenti giustizia, 1993.
[6] M. Pisani, I meriti insigni (art. 106, 3° comma Cost.) per la nomina dei laici in cassazione, in Foro it., 1999, 74 ss..
[7] I. Volpe, Dagli organismi universitari e forensi la segnalazione delle disponibilità al CSM, Guida al diritto, 1998.
[9] A. De Marsico, Avvocatura: ricordi e speranze, in Dialectica, 1981, 54.
[10] V. Sgroi, La questione cassazione, in Foro it., 1988, V, 4.
[11] S. Chiarloni, Avvocatura e magistratura nella giurisdizione. Per una cultura e un linguaggio comuni, in Documenti giustizia, 1988, 1127.
[12] A. Brancaccio, Problemi attuali della corte suprema di cassazione, Foro it. 1989, V, 216.
[13] V. amplius A. Sandulli, Corte costituzionale, Enciclopedia del novecento, 1975, I, 1046.
[14] Così A. La Torre, Nomofilachia, in Dizionario di pensieri intorno al diritto, Milano, 2012, p. 177 ss..
[16] Pomponio, Dig., I, 2, 13: “Constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit, cottidie in melius produci”.
[17] M. Cartabia M., Nuovi diritti e leggi imperfette, in Iustitia, 2016, 153 ss.
[18] S. Pugliatti, Diritto civile. Metodo, teoria e pratica, Milano 1951, ora in Salvatore Pugliatti, Scritti giuridici, Milano, 2011.
[19] A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, 2010.
[20] Philippe Astruc, Devenir magistrat aujourd'hui. Le recrutement et la formation des magistrats de l'ordre judiciaire, Paris, Lextenso éditions, 2010.
[21] Requisiti d'accesso sono diversi per le tre classi di concorso: per tutte è prevista la nazionalità francese; per la prima classe la laurea in giurisprudenza, età massima 31 anni; per la seconda classe lo stato di dipendente pubblico con almeno 4 anni di servizio, età massima 45 anni e sei mesi; per la terza classe di concorso, 8 anni di attività professionale privata, o di mandati elettivi in assemblee rappresentative o di svolgimento di funzioni giudiziarie onorarie; età massima 40 anni. I concorsi d'accesso all'ENM sono selettivi: nel 2011, su 1.486 candidati alla prima fase, ne sono stati ammessi solo 153 (10,3%). La formazione iniziale, realizzata nella sede di Bordeaux riguarda la formazione degli auditeurs de justice, secondo il quadro della rete formativa europea. Nell'insegnamento si privilegiano gli aspetti pratici: simulazioni d'udienza, stage. Nel periodo formativo di trentuno mesi gli auditeurs hanno modo di confrontare la teoria e la metodologia con la pratica professionale e con le realtà sociali, economiche ed umane.
[22] Distinta dalla carriera nel pubblico ministero (carrera fiscal): v. amplius sul tema F. Molinari, Il reclutamento e la formazione dei giudici in Spagna, Roma, 1982, 182 ss,
[23] L’art. 299 LOPJ, distingue tre livelli all’interno della magistratura: magistrato del Tribunale Supremo (magistrado del Tribunal Supremo), che è organo assimilabile alla Corte di Cassazione italiana; magistrato (magistrado), facente parte di altre corti e tribunali o operante almeno a livello provinciale; giudice (juez), operante fino al livello distrettuale.Il Tribunal Supremo, competente quale "Corte di cassazione", è l'organo posto al vertice dell'ordinamento giudiziario spagnolo (per ciascuno dei quattro diversi segmenti della giurisdizione ordinaria: civile, penale, amministrativo e sociale), eccetto per ciò che concerne la materia costituzionale (di competenza della Corte costituzionale, non integrata nel sistema giudiziario). Il Tribunal supremo che ha sede a Madrid e competenza estesa a tutto il territorio nazionale, costituisce il vertice del sistema delle impugnazioni ed è quindi il massimo responsabile dell'unità e uniformità dell'interpretazione della giurisprudenza in Spagna. Fonte: Servizio studi del Senato, Elementi di legislazione comparata in tema di mezzi di impugnazione, Dossier n. 171, 2013...
[24] Consejo General del Poder Judicial , organo di autogoverno; cfr. art. 301 Lopj, nella versione approvata nel 2003.
[25] Quindi la procedura giudiziale viene insegnata solo nelle INNS OF COURT, organizzazioni professionali proprie del common law, esistenti sin dal XIV sec., che uniscono al loro interno giudici e avvocati e controllano l'accesso all'avvocatura (bar); nel medioevo erano dei convitti in cui risiedevano studenti e giudici che svolgevano le loro attività e studiavano insieme. Per entrare nelle Inns of Court è necessario superare un esame, e al termine degli studi gli apprendisti si avviano ad esercitare il barrister. Il barrister ha la possibilità di accedere anche alla carriera giudiziaria, poiché i giudici della High Court sono scelti tra i barristers, e una volta entrati nel sistema giudiziario si può aspirare alla House of Lords, e quindi diventare giudice supremo.
[26] Ad oggi sono trentanove gli Stati che selezionano i giudici di primo grado e (solo in sede di conferma) quelli di appello mediante elezioni pubbliche in cui tutti i cittadini del territorio servito sono chiamati a scegliere. Va detto che il dissenso culturale e politico verso questa forma di reclutamento sembra essere in crescita, motivato dai rischi che il sistema comporta e dalla asserita non congruità del metodo rispetto ai cambiamenti sociali.
[27] La Corte suprema degli stati uniti d’america (SCOTUS) istituita il 24 settembre 1789 come la più alta corte federale degli Stati Uniti, è l'unico tribunale specificamente disciplinato dalla Costituzione. I nove membri della Corte (un presidente, Chief Justice of the United States, e otto membri, gli Associates Justices) sono nominati a vita. Quando un seggio diviene vacante, il Presidente degli Stati Uniti provvede alla nomina del giudice con il consenso del Senato. Cfr. Timothy R. Johnson, Oral Arguments and Decision Making on the United States Supreme Court (American Constitutionalism), State University of New York Press 2004;Garrison Nelson, Maggie Steakley, James Montague, Pathways to the US Supreme Court: From the Arena to the Monastery, Palgrave Macmillan, US, 2013.
[28] Cfr. per la descrizione dello sviluppo delle strutture giudiziarie nei paesi democratici. C. Guarnieri, La giustizia in Italia, Bologna, 2011.
[29] G. Di Federico, L’indipendenza della magistratura in Italia: una valutazione critica in chiave comparata, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2002, 125 s., mette in stretta relazione il valore dell’indipendenza con quello della eccellenza professionale, “che rende i giudici meno proni all’accettazione di influenze esterne”.
[30] Il tema è fortemente sentito nelle Università che si interrogano sulla fisionomia da imprimere ai Corsi di giurisprudenza per renderli attuali e attrattivi. Cfr. B. Pasciuta, L. Loschiavo, a cura di, La cultura giuridica. Testi di scienza, teoria e storia del diritto. La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, Romatrepress 2018.
[31] F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1935, I, 169.
[32] S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, in id., Grammatica e diritto, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 103-147. Amplius sul tema G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Bologna, Zanichelli, 2013
Dalla “Sapienza” alla “Giustizia”. Esperienza di un “merito insigne”, ex art. 106 comma 3 della Costituzione.
Sommario: 1. La nomina di consigliere di cassazione per “meriti insigni”: un percorso accidentato. 2. Le “altre professionalità”: quale apporto alla funzione di legittimità? Radici antiche e visione comparatistica. 3. La mia esperienza. Diversità di ruoli, convergenza verso comuni interessi.
L’avvocato ed il diritto alla verità
lettera a Giustizia Insieme di Cataldo Intrieri
Giustizia Insieme (bellissima rivista che ha l’ambizioso e non facile programma di ospitare un confronto tra avvocati, magistrati e studiosi) ha pubblicato una intervista a Carlo Smuraglia, avvocato e parlamentare del PCI, che mezzo secolo fa difese la famiglia di Giuseppe Pinelli , l’anarchico “volato via” da una finestra della questura di Milano nelle ore successive alla strage di piazza Fontana https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/824-il-delitto-pinelli-e-il-diritto-alla-verita.
C’è una circostanza che mi ha colpito come avvocato e che avevo dimenticato. Smuraglia per avere sostenuto la tesi del possibile omicidio dell’anarchico fu denunciato per calunnia dalla famiglia Calabresi, nonostante la vedova Pinelli avesse assunto ogni responsabilità in ordine al contenuto della denuncia. Ciò nonostante l’avvocato Smuraglia rimase imputato per due anni prima di essere prosciolto. Probabilmente pagava così il prezzo di difendere i diritti di una parte che si opponeva alla “giustizia di Stato”, meglio , di quel pezzo di “stato” ( minuscolo ) coinvolto nelle stragi. E pagava il prezzo quel difensore di avere tutti contro, magistratura , informazione ed opinione pubblica.
Sostengono alcuni autorevoli editorialisti di questa rivista che esista, inestinguibile, un “diritto alla verità" che come tale graverebbe anche su un avvocato come il “caso Smuraglia” perseguito per avere seguito la sua coscienza dimostrerebbe.
Io condivido tale convinzione e la ritengo strettamente connessa al ruolo dell’avvocato, come si dice in gergo curiale “nei limiti che qui si precisano”.
Io credo che l’obbligo di verità dell’avvocato sia quello verso i diritti di ogni suo assistito, anche dei peggiori. Colpevole o innocente, vittima o abietto responsabile, ogni essere umano porta con se il suo piccolo e pesante pacco di ragioni e di pretese, di colpe da espiare e diritti da esigere. Tutti, nessuno escluso e di questo diritto insopprimibile “di verità” , l’avvocato è fedele testimone e custode. Non è facile. Non lo è stato per Smuraglia che difendeva la vedova di un anarchico, etichettato, “poco di buono”, non lo è per chi deve difendere un detenuto malmenato ( se Cucchi avesse avuto l’avvocato subito ...ma cosa avrebbe dovuto affrontare il suo difensore nel denunciare le violenze di fronte ai magistrati che all’inizio non avevano visto?).
Ieri la memoria di FaceBook mi ha restituito un vecchio post di cinque anni fa in cui riportavo un documento della mia Camera Penale che denunciava apertamente una serie di distorsioni durante le indagini di un processo che ha segnato la storia giudiziaria di Roma (e non solo). Si era agli inizi con stampa ed opinione pubblica schierati senza esitazione contro chiunque ponesse minimamente in dubbio le ragioni dell’accusa. Non posso dimenticare come da più parti alcuni avvocati di quel processo fossero indicati come complici dei loro assistiti, investiti dalla luce obliqua del sospetto legato alla loro funzione, confondendo reati e profili deontologici.
Il tempo e una sentenza della Corte di Cassazione che l’ex presidente della Corte Canzio oggi auspica ponga fine al “disordine creato” nella giurisprudenza sui reati di Mafia hanno dimostrato che una volta tanto non erano loro, gli avvocati , a sedere, soli, disprezzati ed isolati dalla parte del torto.
Oggi in molti si rendono conto del rischio che prevalga, secondo un efficace termine del prof. Fiandaca, un’ "interpretazione criminologica" della realtà che investe ormai la stessa funzione difensiva. Una “antropologia criminale" che non risparmia gli stessi difensori incasellati in qualche riquadro di un organigramma mafioso, senza darsi cura, talvolta, di individuare condotte di concreta offensività.
Allora se ne resero conto solo gli avvocati che difendevano gente anche colpevole ma che avevano chiaro che il principio di legalità valeva pure per i “malacarne” dietro le sbarre. Mi sono stupito che non lo cogliessero i magistrati che avevo di fronte, che pure venivano tutti da una cultura che una volta alle garanzie era attenta, mi stupisco oggi che non si parli a sufficienza tra la magistratura progressista del rischio crescente di scivolare verso il diritto penale del nemico ed il reato di autore, “con le migliori intenzioni” beninteso.
Si può denunciare l’ossessione securitaria quando colpisce alcune categorie di diseredati ed esigerla come necessaria per altri tipi di reati? È veramente possibile scindere le garanzie dagli imputati in base a criteri di distinzione meramente criminologici?
Non dovremmo forse condividere l’idea che una società democratica debba accettare il rischio che delle libertà taluno faccia un pessimo uso piuttosto che cercare la sicurezza sopprimendo diritti e garanzie costituzionali?
E’ il controllo di legalità il totem cui sacrificare ogni altro diritto o il principio di ragionevolezza e proporzionalità pone dei contro-limiti anche ad esso esigendo un ragionevole contemperamento con il rispetto delle libertà individuali?
Ecco: “l’obbligo di verità” dell’avvocato è in queste poche moleste domande ed a mio parere, assai più gravoso per lui che per altri perchè sempre a differenza di quegli altri si troverà a sostenerlo sempre da solo. Anche se poi arriveranno gli altri...poi.
Mi piacerebbe che nessuno lo dimenticasse.
Edilizia di culto: un importante passo avanti verso la “laicità positiva”.
Nota a Corte cost. n. 254/2019
Giuseppe Tropea
In un precedente contributo, pubblicato su questa Rivista, relativo a una vicenda conclusasi con la condanna in Cassazione per un mutamento di destinazione d’uso al fine della creazione di un luogo di culto senza previo permesso di costruire, chi scrive evidenziava come essa, al netto delle peculiarità penalistiche, andasse inquadrata nell’ambito di una serie di problemi, legati alla legislazione regionale in materia, ancora irrisolti dalla giurisprudenza costituzionale – G. Tropea, Edilizia di culto e giudice penale: nuove limitazioni per la libertà religiosa? Nota a Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2019, n. 1854 - (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/792-edilizia-di-culto-e-giudice-penale)
Le brevi considerazioni che seguono costituiscono una piccola postilla a tale nota, alla luce della sopraggiunta sentenza n. 254/2019.
In particolare, si segnalavano alcuni profili di criticità della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016, che costituiva l’impalcatura su cui si fondavano le argomentazioni del giudice penale:
i) i distinguo fatti dalla Consulta nel 2016, con la sentenza n. 63, fanno emergere una particolare attenzione sui limiti della libertà religiosa, a fronte del difficile contesto terroristico che viviamo. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge regionale lombarda relative alla sicurezza e all’ordine pubblico: in esse non si esclude che tali interventi possano essere legittimi se presi dallo Stato che ha competenza esclusiva in materia, anzi tra gli interessi costituzionali che possono essere invocati per modulare (in stretta proporzionalità) la libertà religiosa vengono invocati proprio ordine pubblico e sicurezza, nozioni alquanto lasche e vaghe, molto delicate da maneggiare a fronte delle libertà tutelate in Costituzione, anche di quella religiosa.
ii) è inoltre previsto un temperamento delle esigenze egualitarie, nella parte in cui si fa notare che le risorse sono finite (siano essi contributi economici siano parti di suolo). Orbene il punto è che a fronte di minoranze l’art. 3, co. 2, Cost. implica proprio trattamenti di favore finalizzati a rimuovere ostacoli di tipo economico e sociale e la condizione delle minoranze religiose in relazione all’edilizia di culto secondo molti integrerebbe una di quelle situazioni di svantaggio da rimuovere.
iii) si nota una certa tendenza a rinviare alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa – con l’utilizzo della sentenza interpretativa di rigetto – la concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Ora, se sul piano della teoria generale delle situazioni giuridiche soggettive è forse corretto parlare del diritto costituzionale ad un bene immobile destinato al culto come interesse legittimo costituzionale plurisoggettivo, nel senso che l’esercizio discrezionale del potere pianificatorio non viene meno dinanzi all’art. 19 Cost., pur dovendo essere conforme al suo contenuto minimo essenziale, il problema è più complesso quando entra in gioco quella che dovrebbe essere l’extrema ratio rappresentata dal diritto penale.
Nello stesso senso altri hanno notato che la sentenza in questione presenta luci ed ombre: se è meritorio che la Corte abbia rintuzzato quei tentativi di introdurre nell’ordinamento trattamenti discriminatori tra confessioni religiose utilizzando il sistema delle intese, d’altra parte vi sono profili sui quali la Consulta non si è spinta, ad esempio proprio la legittimità della previsione di uno strumento urbanistico ulteriore (Piano per le attrezzature religiose) all’interno del Piano dei servizi, in assenza del quale non sono possibili nuove attrezzature religiose, aggravamento procedurale che destava sospetti, fra l’altro, di discriminazione indiretta, applicandosi evidentemente a nuovi edifici di culto, dunque diretto statisticamente a gravare soprattutto sulle confessioni religiose di recente insediamento (S. Cantisani, Luci e ombre nella sentenza Corte costituzionale n. 63 del 2016 (e nella connessa sentenza n. 52). Tra affermazioni di competenza ed esigenze di sicurezza, in www.giurcost.it, p. 21).
Si può dire, quindi, che la sentenza n. 63/2016, come la precedente n. 52/2016 in tema di diniego di attivazione della procedura volta all’intesa ex art. 8, co. 3, Cost. con l’UARR, sposi una logica giudiziale di modello “etnocentrico” di risoluzione dei conflitti in una società multiculturale, che avversa il comportamento multiculturale, malgrado non incida sui diritti fondamentali. Improntata invece al modello “garantista” appare la successiva sentenza n. 254/2019, ove per modello garantista si afferma l’esistenza di un limite insuperabile corrispondente alla difesa dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone e a tutela del principio di eguaglianza (su tali due distinti approcci v. G. Di Cosimo, Giudici e politica alle prese con i conflitti multiculturali, in www.rivistaaic.it).
Il passo avanti è notevole. Non a caso il Governatore della Regione Lombardia dell’epoca ritenne la legge di fatto sostanzialmente integra dopo la pronuncia del 2016. Non si può dire lo stesso oggi.
Nella sentenza n. 63/2016 si era ritenuta, fra l’altro, manifestamente inammissibile la q.l.c. riferita all’art. 72, co. 5, della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia che prevede l’approvazione da parte del Comune del Piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, o, in mancanza, unitamente al nuovo PGT. Ciò in quanto il ricorso governativo, fondato sulla violazione dell’art. 117, co. 2, lett. l) (quella facoltà contrasterebbe con il d.m. n. 1444/1968 in materia di standard urbanistici), non sarebbe stato sul punto sufficientemente motivato.
Nella sentenza n. 254/2019, al contrario, quelle disposizioni, che costituiscono il cuore della normativa regionale lombarda del 2005, come modificata nel 2015, vengono finalmente attaccate di petto.
Dopo la premessa, già esistente nell’arresto del 2016, circa la inscindibile connessione libertà religiosa/libero esercizio del culto/diritto di disporre di spazi adeguati per l’esercizio di tale libertà, e il passaggio in cui si ricorda che l’art. 72, co. 1 e 2, della legge regionale Lombardia non era stato impugnato dal Governo, mentre l’art. 72, co. 5, era stato oggetto di una dichiarazione di inammissibilità, si dichiara l’incostituzionalità sia del co. 2 che del co. 5.
Quanto al co. 2, che subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR, si osserva che le Regioni, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
Una normativa regionale sul punto, per non essere illegittima, deve quindi rispettare due condizioni: a) perseguire lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico; b) tenere in debito conto la necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose. Secondo la Corte tali presupposti non sono rispettati dalla legge regionale lombarda, nella misura in cui la subordinazione di qualsiasi attrezzatura religiosa al PAR riguarda appunto le sole attrezzature religiosa e non altre (scuole, ospedali, palestre, etc.), andando a comprimere la libertà religiosa e di culto, peraltro soprattutto delle fedi di più recente insediamento. Insomma: la libertà di culto è compressa senza alcuna ragionevolezza da finalità urbanistiche, violandosi gli artt. 2, 3, co. 1, 19 Cost.
Quanto all’art. 72, co. 5, la Consulta sottolinea come l’approvazione del PAR sia sottoposta a tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il comune può procedere alla formazione del PGT, o di una sua variante, a loro volta condizioni necessarie perché la struttura possa essere autorizzata una volta decorsi inutilmente i diciotto mesi per l’approvazione del PAR, con assoluta discrezionalità, sia sull’an che sul quantum dell’intervento.
Insomma: le competenze regionali concorrenti sul governo del territorio devono essere esercitate con ragionevolezza e proporzionalità, specie se è in gioco la libertà di culto declinata secondo esigenze di eguaglianza e non discriminazione.
Una sentenza dal tono molto “costituzionale” e poco “amministrativo”, si direbbe, che evidenzia un curioso paradosso accademico: la sentenza del 2016 è stata scritta da una costituzionalista, quella del 2019 da una amministrativista.
Il che, al netto del divertissement retroscenista, induce un triplice ordine di riflessioni generali, con una chiosa riconciliante finale.
Innanzi tutto, si rileva la tendenza della Corte, nel conflitto multiculturale, almeno a stare all’approccio degli ultimissimi anni, ad assumere un profilo più “garantista”, certo maggiormente adatto ai valori di fondo della nostra Carta fondamentale (letti assieme all’ art. 9 Cedu e alla giurisprudenza del giudice alsaziano sul punto).
In un secondo senso, più recondito ma altrettanto importante, la Consulta preferisce intervenire direttamente sulla politica pubblica regionale in materia, favorita in ciò forse dal fatto che questa volta la questione era stata sollevata in via incidentale dal Tar Lombardia e non in sede di conflitto col Governo. In questo senso ha minori margini di azione la tecnica dell’interpretativa di rigetto, che come visto nella precedente sentenza n. 63/2016 aveva assecondato un rinvio alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa rispetto alla concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni, confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Senonché questa conseguenza è insita nel mutamento di prospettiva della Corte, che ha effettuato questa volta direttamente un sindacato sulla ragionevolezza e proporzionalità delle norme oggetto di censura.
Infine, manca un’altra “parte amministrativa”, che chi scrive avrebbe invece forse apprezzato, per ragioni teoriche più che pratiche, ma che è risultata (giocoforza) assorbita per l’accoglimento delle questioni costituzionali relative agli artt. 2, 3, 19 Cost. Mi riferisco a quel passaggio dell’ordinanza di rimessione in cui si rilevava che la norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 97 Cost. in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa. Inoltre, la mancata previsione di tempi certi violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge n. 241 del 1990.
Sarebbe stata molto interessante una pronuncia della Consulta anche su tali sollecitazioni del Tar Lombardia, non solo perché la redattrice è come detto una insigne amministrativista, ma anche per il modo arguto con cui i giudici amministrativi lombardi hanno saputo maneggiare il doppio volto dell’art. 97 (buona andamento/imparzialità), principi troppo spesso declinati in potenziale antitesi (si pensi al dibattito sui rapporti fra efficienza e garanzie procedimentali).
Ma tant’è: la sentenza n. 254/2019 ci invita pure a superare gli steccati disciplinari e a ragionare da giuspubblicisti a tutto tondo, come succede da tempo in altre gloriose tradizioni continentali (su tutte quella tedesca).
E ci fa ben sperare per il futuro, se, la stessa autorevole redattrice della sentenza n. 63/2016, appena insediatasi Presidente della Corte costituzionale, oltre alle meritorie (e più note) dichiarazioni sull’incompiuto cammino della donna nelle cariche pubbliche, nel riferirsi alle matrici culturali dei componenti della Corte, ha dichiarato: «Tutti noi abbiamo una formazione, chi cattolica, chi laica, chi politicamente di destra e chi di sinistra, di uomo o di donna, di una generazione o dell’altra. E quando entriamo in camera di consiglio ogni giudice porta con sé il proprio vissuto, la propria esperienza, le proprie idee. Tutto questo è una ricchezza, non un problema, per la Corte di uno Stato laico che esprime una “laicità positiva”, come scritto in una recente sentenza: non indifferente ma equidistante dalle religioni, per tutelare un valore riconosciuto a tutti» (Il Corriere della sera, 12 dicembre 2019, p. 9).
Inutile dire, a questo punto, che la sentenza cui si fa riferimento è proprio la n. 254/2019.
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