ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Immagini e pensieri al tempo del coronavirus.
Maria Cristina Amoroso
Nelle affastellate immagini che ci hanno restituito i media ed i social in questa settimana ce ne sono state tre particolarmente evocative. Hanno raccontato, senza parole, di una nuova forma di resistenza civile, di un rinnovato rapporto fra cittadini e istituzioni e della dimensione privata e lavorativa di questi tempi.
1.Un violino che suona sui tetti dell’ospedale di Cremona. La “resistenza della bellezza”.

Lena Yokoyama, talentuosa violinista, ha deciso di regalare all’ospedale di Cremona momenti di etereo ma duraturo splendore. E’ salita sul tetto di uno degli ospedali oggi in lotta contro la pandemia e, con un vestito rosso leggero, ha diffuso nell’aria le note delle arie più celebri del repertorio classico italiano, ringraziando così i medici per il lavoro svolto. La musica di questo violino, che ha incantato i sanitari ed emozionato i pazienti, ha costituito un altro anello di quella lunga catena di eventi, dai canti sui balconi ai concerti in videoconferenza, che ha consentito alla musica di diventare una delle espressioni della nuova “resistenza”. Una maestra che legge il libro sotto la finestra degli alunni che non hanno il computer, un paniere calato dai balconi in cui chi ha bisogno prende cibo e chi non ha bisogno ne mette, i bigliettini sotto le porte dei negozi su cui i bambini hanno scritto che “tutto andrà bene”, gli albergatori che mettono a disposizione le loro strutture per chi non può svolgere la quarantena altrove, sono tutte forme della nuova “resistenza della bellezza”.
Si tratta di gesti compiuti in una qualsiasi parte del mondo che velocemente diventano patrimonio di tutti, senza confini. Straordinari uragani di energia positiva collettiva che squarciano con potenza la tragedia del momento, rendono la beneficienza e la solidarietà pratiche ordinarie, provocano riconversioni industriali etiche e determinano pubblicità dal sapore inedito.
Un’anima mundi che dovrebbe spingerci a pensare a come sarà la futura “normalità” che desideriamo.
2.Le strade sanificate con i mezzi antisommossa della polizia.

La polizia che usa i mezzi antisommossa per sanificare le strade, più che disinfettante sembra spandere un balsamo riconciliante tra cittadini ed istituzioni, un’acqua ragia che cancella la scritta “ACAB” e che trasforma in realtà il desiderio di avere uno Stato che prima aiuta e solo dopo aver aiutato, se è necessario, reprime.
Medicine e pensioni che arrivano trasportate dalle macchine d’ordinanza, omaggi ai medici fuori agli ospedali e mille e più divise in strada, quasi sempre senza mascherine, a fermare chi mette in pericolo gli altri. Le forze dell’ordine hanno sempre fatto questo, forse ora lo fanno di più, sicuramente oggi i cittadini hanno per loro occhi nuovi.
3.L’ultima opera del terribile Bansky. Pubblicata sui social accompagnata dalla scritta “My wife hates when I work at home”.
Se vi lamentate della vostra vita privata in quarantena, vi consiglio di pensare con sadico piacere a Bansky, uno dei maggiori esponenti della street art, solitamente abituato a rappresentare nella dimensione stradale e pubblica dello spazio urban la povertà della condizione umana, costretto dal coronavirus a realizzare la sua ultima opera in una surreale quanto simbolica location artistica.

Il bagno, spazio emblematico dell’ultimo baluardo di privacy lecito in un mondo condiviso ventiquattrore su ventiquattro con familiari che solitamente siamo abituati a vedere poche ore al giorno, diventa nella sua concretezza la tela su cui disegna topi dispettosi che creano scompiglio e caos facendo tutto ciò che in un bagno proprio non si dovrebbe fare; una rappresentazione seducente in cui i ratti dipinti sulla parete (suoi alter ego) interagiscono con gli oggetti reali dando vita ad un caos studiato, dal quale si percepisce il sottinteso fluido confine fra vita privata e vita lavorativa.
Il fronte privato ci sfida a duello più volte.
Innanzitutto dobbiamo fare i conti con lo specchio di fronte al quale il virus ci pone prima di presentare il conto al nostro spirito: non possiamo in nessun modo ignorare, o fingere di ignorare, la vera natura dei nostri rapporti. Senza mistificazioni, a breve, ci apparirà chiaro se sappiamo (e vogliamo) passare il tempo con coniugi e figli, se siamo disposti ad occuparci degli anziani genitori, se abbiamo veri amici e, soprattutto, se siamo capaci di fare compagnia a noi stessi.
Uno “stress test” dei legami umani in cui, come accade in natura, si raccoglierà quello che si è seminato.
Nei casi più dolorosi oggi le mura domestiche non significano protezione, il vincolo di rimanere in casa è già diventato la nuova insperata forza dei violenti: l’occasione per esercitare una sopraffazione ancor più forte e più crudele, perché la vittima, in questo periodo, ha oggettivamente meno possibilità di avere contatti con il salvifico modo esterno.
Da un punto di vista materiale, nei casi più sereni, vi è la necessità di riorganizzare la condivisione “del dentro”: non solo dei tempi o dei pensieri, ma anche dei luoghi; operazione complicata da realizzare in case strutturalmente e tecnologicamente impreparate alla presenza contemporanea continua di tutti i membri familiari.
L’ultima sfida, infine, riguarda la capacità di rielaborare la tradizionale concezione del lavoro alla luce degli eventi di questo momento. La volontà comune di riprodurre gli stessi cicli lavorativi del periodo pre-covid, o addirittura di aumentarli, ignorando l’assoluta e totale modifica delle condizioni in cui si opera, non può che ingenerare insoddisfazione e frustrazione perché proiettata verso un obiettivo irraggiungibile. I tempi del lavoro non sono più esclusivi come in precedenza, ma si intersecano pericolosamente con quelli della cura della casa e dei figli che, in mancanza di aiuti esterni, quand’anche equamente ripartiti tra i coniugi, sono un fattore ineliminabile destinato ad incidere sulla quantità e qualità della concentrazione riservata alle nostre attività.
Rimodulare in maniera seria le nostre aspettative di produttività ed efficienza, preservando il tempo del “dentro” dal tempo del “fuori”, evitando che il senso di colpa e l’ansia da prestazione trasformi lo “smart working” in un “total working” senza orari e senza risparmio dei giorni festivi, sembra essere l’unica strada per raggiungere l’elaborazione di un nuovo realistico concetto di lavoro “covid – sostenibile”.
La consegna del cittadino di uno Stato terzo (nota a Cass.pen.n.10371/2010)
Dubbi di legittimità circa l’omessa previsione, in sede di attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, della facoltà del giudice di rifiutare la consegna del cittadino di uno Stato terzo che risieda o dimori in Italia
di Cesare Pinelli
Sommario: 1. Premessa. 2. Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione. 3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni. 4. I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
1. Premessa.
In data 4 febbraio 2020 la VI Sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale questione di legittimità dell’art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lett. b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117, “nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno”.
L’ordinanza merita apprezzamento per la prospettazione dei profili di non manifesta infondatezza, e prima ancora per la dimostrazione dell’impossibilità di interpretare la disciplina impugnata in senso conforme a Costituzione nonché delle buone ragioni della scelta di anteporre al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia la rimessione della questione alla Corte costituzionale.
2.Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione.
Con un’impegnata motivazione, il giudice remittente esclude che la disciplina in questione possa venire interpretata in senso conforme a Costituzione, contestando l’opposto assunto della Corte d’appello di Genova nella sentenza impugnata.
Anzitutto, essa non avrebbe tenuto conto dell’innovazione apportata sul punto alla l.n. 69 del 2005 dalla l.n. 117 del 2019: nel trasformare le cause ostative ivi contemplate in rifiuto facoltativo della consegna a seguito della addizione operata al testo originario dalla sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale, la legge del 2019 “non ha preso in considerazione la posizione dei cittadini di Stati non membri dell’Unione europea che stabilmente risiedano o dimorino nel territorio nazionale e che, in quanto tali, se destinatari di un mandato di arresto europeo, ben potrebbero rientrare nella sfera di operatività (e conseguentemente beneficiare) dell’applicazione del motivo ostativo in esame”, posto che la decisione quadro consente al giudice di rifiutare l’esecuzione del mandato qualora la persona ricercata sia cittadino o dimori o risieda in uno Stato membro che si impegni a eseguire la pena o la misura di sicurezza, senza distinguere fra l’ipotesi che sia cittadino di uno Stato membro o di uno Stato terzo.
Peraltro il rifiuto di addivenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina impugnata va oltre l’argomento dello ius superveniens. Muovendo dal presupposto che una “non corretta attuazione della decisione quadro” comporta il potere-dovere del giudice comune di sollevare questione di legittimità costituzionale “laddove sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall’ordinamento” (Corte cost., n. 227 del 2010), il giudice remittente osserva che la l.n. 117 del 2019 configura al riguardo “una lacuna talmente evidente” rispetto alla scelta della decisione quadro di equiparare il cittadino dello Stato terzo a quello dello Stato membro ai fini della deliberazione sulla consegna, che un suo riempimento in via interpretativa non porterebbe a una lettura costituzionalmente conforme, ma contra legem del testo normativo.
Seguono significative considerazioni sui limiti dell’interpretazione costituzionalmente conforme, che non potrebbe produrre “una soluzione ermeneutica [……] del tutto incompatibile con il testo normativo oggetto di interpretazione, alla cui formulazione letterale deve pur sempre farsi riferimento in via prioritaria”. Il richiamo ai “cancelli delle parole”, titolo di un noto saggio di Natalino Irti, e soprattutto alla recente giurisprudenza costituzionale, equivale a una netta presa di posizione sul più ampio tema della “creatività” delle interpretazioni giudiziali, oggi notoriamente assai controverso. Presa di posizione netta, ma anche ben ponderata, poiché affermare che nemmeno un’interpretazione conforme a Costituzione può far dire a una legge ciò che la legge non dice significa cose ben diverse a seconda che il giudice si impegni nel dimostrare nella specie l’assunto, come in questo caso fa strenuamente, ovvero si limiti a negare che la lettera del testo normativo resiste a una tale torsione interpretativa. Solo nel primo caso egli potrà presupporre una eventuale insufficienza del criterio testuale, e quindi una sua priorità in senso meramente cronologico. Nell’altro caso la decisione si rivelerà carente nella motivazione, anche per avere il giudice rinunciato a fare la sua parte nella struttura triadica del giudizio incidentale, e con essa alla sua stessa responsabilità.
Lo conferma altresì il richiamo al passo della sentenza n. 36 del 2016 della Corte costituzionale per cui “l’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo”.
L’esclusione di un’interpretazione conforme a Costituzione viene dunque subordinata al suo risultare operazione “del tutto eccentrica e bizzarra” alla luce dei criteri letterale e sistematico. In effetti, nella riportata sentenza n. 49 del 2015 l’obbligo di ricorrere in via prioritaria a tale interpretazione è affermato in vista della composizione di un delicato equilibrio con la Corte di Strasburgo.
3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni.
L’ordinanza si sofferma a questo punto sulla recente giurisprudenza costituzionale sulla doppia pregiudizialità. Pur riaffermando, alla luce dell’ord.n. 117 del 2019 e della sent.n. 63 dello stesso anno, quella perdurante facoltà del giudice comune di optare fra rimessione della questione alla Corte costituzionale e rinvio pregiudiziale che la “precisazione” della sent.n. 269 del 2017 aveva implicitamente escluso enunciando l’obbligo di agire nel primo senso, la VI sezione penale dichiara di optare per l’incidente di costituzionalità. Il che pare nella specie giustificato non solo perché gran parte delle censure si appuntano sulla lesione diretta di parametri costituzionali, ma anche perché la sola riferita agli obblighi ex artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite di una violazione della decisione quadro era rilevabile ictu oculi, senza bisogno di scomodare la Corte di giustizia. E tuttavia è interessante notare incidentalmente come il giudice rimettente finisca di fatto con l’evidenziare i limiti entro cui la “precisazione” del 2017 può mantenere una portata operativa alla luce delle correzioni di tiro nel frattempo intervenute.
La premessa della “precisazione” anche qui richiamata, e consistente nel constatato intreccio dei princìpi e diritti enunciati nella CDFUE con quelli previsti in Costituzione, non è una novità, visto che già venti anni prima la Corte riteneva inevitabile la reciproca integrazione in via interpretativa tra formule enunciative di diritti garantiti in cataloghi diversi, quali nella specie la CEDU e la Costituzione (sent.n. 388 del 1999). Solo che nel 2017 su tale base si candidava, al di là della ribadita collaborazione con la Corte di giustizia, a garante dei diritti fondamentali indipendentemente dal catalogo in cui fossero previsti (Costituzione e CDFUE), col conseguente obbligo del giudice comune di sollevare questione di legittimità della legge asseritamente lesiva di tali diritti. Non a caso il sindacato accentrato veniva posto “a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)” senza distinguere a seconda che la legge confliggesse col diritto dell’Unione direttamente applicabile ovvero con una direttiva o con una decisione quadro.
Più ancora che per l’annoso problema della doppia pregiudizialità, su cui del resto, prima o poi, non avrebbe potuto non influire la sopraggiunta accettazione da parte della stessa Corte della qualifica di giudice ai fini del rinvio pregiudiziale (a partire dall’ord.n. 103 del 2008), la “precisazione” innovava a indirizzi notoriamente consolidati da decenni, con l’avocazione della cognizione di ogni dubbio di lesione di un diritto fondamentale, compresa appunto quella perpetrata da leggi confliggenti col diritto UE direttamente applicabile. Successive correzioni di tiro, segnalate anche dall’ordinanza di rimessione in esame, tenderanno a riassorbirne la portata dirompente. Oltre a ripristinare la facoltà, in luogo dell’obbligo, per il giudice comune di sollevare questione di legittimità in via prioritaria rispetto al rinvio pregiudiziale al giudice del Lussemburgo (sent.n. 20 del 2018), la Corte tornerà a ribadire il potere-dovere dello stesso giudice di non applicare la legge asseritamente lesiva di norme UE direttamente applicabili (sent.n. 63 e ord.n. 117 del 2019), limitando perciò l’ipotesi della quaestio all’ipotesi di norme nazionali dettate in attuazione di fonti del diritto dell’Unione, come la decisione quadro.
4.I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
L’ordinanza enuclea quattro profili di non manifesta infondatezza. Il primo è riferito agli artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite della decisione quadro del 2002, là dove prevede la facoltà del giudice dell’esecuzione di rifiutare la consegna della persona ricercata alla triplice condizione ivi prevista (“se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno”). Qui il giudice rimettente ha buon gioco nel sottolineare un contrasto testuale della disposizione impugnata per omessa previsione, fra i soggetti ai quali potrebbe riferirsi la mancata consegna, del cittadino del Paese terzo che risieda o dimori in uno Stato membro dell’Unione, tanto più che la decisione quadro non abilita gli Stati membri a conferire ai termini da essa impiegati una portata più estesa di quella risultante dall’interpretazione della Corte di giustizia (§§ 42 e 43 di Koslowski, 17 luglio 2008). Per cui, osserva il giudice a quo, “la volontà di tracciare un modello definitorio comune di elementi lessicali cui il legislatore europeo ha evidentemente attribuito valenza centrale nella costruzione del nuovo regime di consegna delle persone ricercate, ancorandolo al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e rendendolo applicabile, pertanto, su una base comune di regole generalmente condivise dai diversi Stati membri: i termini «dimori» e «risieda», che delimitano la sfera di applicazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, costituiscono in tal modo l’oggetto di una definizione scolpita sulla base di criteri necessariamente ‘uniformi’, proprio in quanto si riferiscono a nozioni ‘autonome’ del diritto dell’Unione europea”.
Gli altri profili si incentrano sulla violazione diretta di princìpi costituzionali, rispettivamente individuati nell’eguaglianza davanti alla legge, nella funzione rieducativa della pena e nel rispetto del diritto alla vita familiare come sancito fra gli altri dagli artt. 2 Cost. nonché 117, primo comma, per il tramite dell’art. 8 CEDU.
Quanto alla violazione del principio di eguaglianza, il giudice a quo rinviene correttamente il tertium comparationis nella opposta disciplina del mandato processuale, in ordine al quale la condizione del cittadino dello Stato terzo è equiparata a quella degli Stati membri dell’Unione, peraltro col risultato che “il residente gode di una tutela più ampia proprio nell’ipotesi in cui l’allentamento dei vincoli relazionali causato dalla consegna cd. ‘processuale’ potrebbe di contro affievolire le capacità rieducative della pena”. Ma non si limita a rilevare questo esito paradossale, e volge l’attenzione al complesso del diritto derivato europeo onde accertare le conseguenze della disposta esclusione dei cittadini di Stati terzi allorché lo stesso ordinamento dell’Unione riconosca a determinate categorie di costoro uno status particolare, come i “soggiornanti di lungo periodo” alla stregua della direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, oltre ai cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini europei, beneficiari del diritto al ricongiungimento. Osserva in particolare la Corte di cassazione che “i cittadini di Paesi terzi, pur se stabilmente residenti in Italia, costituiscono l’unica ‘categoria’ di destinatari di un mandato in executivis esclusa dall’applicazione del motivo di rifiuto di cui all’art. 18-bis, comma 1, lett. c), poiché siffatta causa ostativa dell’esecuzione, di contro, è utilmente invocabile in favore dei cittadini italiani, dei cittadini di un altro Stato membro dell’Unione residenti nello Stato e finanche degli apolidi stabilmente residenti nel territorio dello Stato, per effetto dell’equiparazione ai cittadini ai fini della legge penale prevista dall'art. 4, comma 1, cod. pen.”.
Nell’accomunare i cittadini effettivamente residenti o dimoranti in uno Stato membro ai suoi cittadini per il profilo che interessa, la decisione quadro riflette l’ispirazione della citata direttiva del 2003, frutto più fedele dell’orientamento, sancito dal Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, per cui i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro in un congruo periodo di tempo avrebbero dovuto acquisire una titolarità di diritti “il più possibile simile” a quella dei cittadini europei. Un orientamento che ci appare oggi remoto rispetto agli indirizzi legislativi prevalenti in materia non solo nel nostro ordinamento.
La trattazione di questo profilo comporterebbe per la Corte costituzionale un’esposizione supplementare di cui dubito vorrà farsi carico, essendo già chiamata a una richiesta di additiva, pur prospettata con precisione chirurgica alla luce della precedente sent.n. 227 del 2010. Inoltre il motivo di violazione del principio di eguaglianza muove in questo caso da un’ampia disamina della normativa derivata dell’Unione, a differenza di quello relativo all’esito del tutto irragionevole di una comparazione fra destinatari di un mandato processuale e di un mandato esecutivo, risultante solo dalla disciplina nazionale.
Appunti sulla nuova disciplina delle intercettazioni
di Aniello Nappi
Sommario: 1. Un archivio fondamentale- 2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni- 3. Utilizzabilità nei processi penali- 4. Utilizzabilità extrapenale.
1. Un archivio fondamentale
Se non interverrà un ulteriore rinvio, tra qualche settimana entrerà in vigore la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali prevista dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, cosiddetta riforma Orlando, e dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito nella l. 28 febbraio 2020, n. 7, cosiddetta riforma Bonafede.
Le due leggi di riforma, in parte sovrapposte, sono intervenute su numerosi articoli del codice di procedura penale[1]. Ma può ben dirsi che il cardine della nuova disciplina è nell’archivio istituito a norma dell’art. 269 comma 1 c.p.p. presso l'ufficio dello stesso pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni: un archivio gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica e relativo a tutte le intercettazioni disposte dall’ufficio.
Si tratta dunque di un archivio dell’ufficio non del singolo procedimento. Tuttavia l’istituzione e la disciplina di questo archivio hanno conseguenze determinanti sia nella prospettiva del regime di conoscibilità dei risultati delle intercettazioni sia nella prospettiva della loro utilizzabilità, non solo nel processo penale ma anche in altri giudizi civili e amministrativi. E in mancanza di un’adeguata considerazione per il suo ruolo effettivo si rischia di vanificare i possibili effetti positivi della riforma.
2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni
Secondo quanto precisa l’art. 89 bis comma 2 disp. att., che disciplina l’archivio, «il procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito»; e l’art. 114 comma 2-bis c.p.p. aggiunge che di questi atti è vietata la pubblicazione prima che siano stati selezionati come rilevanti ai fini del procedimento; mentre lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. prevede esplicitamente che «non sono coperti da segreto solo i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni acquisite al fascicolo di cui all'articolo 373, comma 5, o comunque utilizzati nel corso delle indagini preliminari».
L’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p., e disciplinato dall’art. 89 bis disp. att., è dunque distinto ed esterno al fascicolo del pubblico ministero, di cui all’art. 373 comma 5 c.p.p.; e l’inserimento dei risultati delle intercettazioni nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. non ne comporta l’acquisizione al fascicolo delle indagini preliminari, anche perché sono tutelati da un segreto diverso dal segreto investigativo previsto dall’art. 329 c.p.p.
Questa tutela non è infatti quella prevista per il segreto investigativo, che cade per gli atti di cui l’imputato possa avere conoscenza (art. 329 comma 1 c.p.p.), considerato che lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. riconosce ai difensori delle parti l'accesso all'archivio e l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate, per consentire loro l'esercizio dei propri diritti e facoltà. Si tratta dunque di una tutela ulteriore, propria dei segreti professionale e di ufficio, prevista in attuazione del divieto di comunicare e divulgare i dati registrati, per finalità diverse da quelle per cui l’intercettazione è ammessa, secondo quanto imposto dalla normativa di garanzia della privacy. E la distinzione di questo ulteriore segreto da quello investigativo giustifica la specifica previsione del divieto di pubblicazione degli atti cui si riferisce l’art. 114 comma 2- bis c.p.p.; un divieto che permane anche dopo che essi non siano più coperti dal segreto investigativo.
Secondo quanto prevede il regolamento della privacy, infatti, i dati personali sono oggetto di trattamento e sono raccolti solo per lo scopo per il quale il trattamento è autorizzato. Non sono ammessi trattamenti incompatibili con le finalità per le quali sono stati autorizzati; e i dati personali non possono essere conservati per un tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti. Esaurito questo tempo, i dati vanno distrutti d'ufficio o su iniziativa degli interessati.
Peraltro, come s’è detto, questa tutela rimarrà solo per le comunicazioni e registrazioni che non risulteranno selezionate ai fini della prova; quelle a tal fine selezionate dalle parti e dal giudice non saranno più coperte dal divieto di pubblicazione imposto dall’art. 114 comma 2-bis c.p.p.
I verbali e le registrazioni contenute nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. potranno dunque essere consultati solo dal giudice dal pubblico ministero e dai difensori delle parti, che non potranno estrarne copia prima della selezione a fini di prova e limitatamente a quelli effettivamente selezionati (art. 268 comma 8 c.p.p.).
3. Utilizzabilità nei processi penali
Prima della selezione, d’altro canto, le comunicazioni e le registrazioni inserite nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili, come si desume dallo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. e dall’art. 89 bis disp. att., che implicitamente ne vietano l’utilizzazione prima della selezione prevista dagli art. 268, art. 415 bis comma 2-bis, art. 454 comma 2-bis c.p.p.
Secondo quanto prevede l’art. 268 comma 4 c.p.p., infatti, i verbali e le registrazioni, trasmessi al pubblico ministero, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni «sono depositati presso l'archivio di cui all'articolo 269, comma 1, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l'intercettazione». Tuttavia, «se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari» (art. 268 comma 5 c.p.p.); con la conseguenza che in questo caso vengono a sovrapporsi il termine di deposito dei risultati delle intercettazioni e il termine di deposito ex art. 415 bis comma 2 c.p.p. del fascicolo delle indagini preliminari. Nonostante questa sovrapposizione, però, «la documentazione relativa alle indagini espletate» deve essere «depositata presso la segreteria del pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2 c.p.p.), mentre i verbali e le registrazioni relativi alle intercettazioni rimangono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., così come disposto dall’art. 268 comma 4 c.p.p., che ne impone comunque la conservazione in quell’archivio indipendentemente dal deposito per i difensori.
La distinzione tra il fascicolo del pubblico ministero e l’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. è fondamentale, perché i verbali e le registrazioni inclusi nell’archivio non possono essere trattati come atti delle indagini preliminari prima della selezione, che è necessaria anche per utilizzarli ai fini cautelari, come si vedrà.
Effettuato il deposito, ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato dal pubblico ministero ed eventualmente prorogato dal giudice (art. 268 comma 4 c.p.p.), «per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche» (art. 268 comma 6 c.p.p.), senza però poterne ottenere copia prima della selezione da parte del giudice.
Nel caso in cui al deposito delle intercettazioni non si sia proceduto prima della chiusura delle indagini preliminari (art. 268 comma 5 c.p.p.), l'avviso del deposito ex art. 415 bis comma 2 «contiene inoltre l'avvertimento che l'indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti depositati relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facoltà di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.). E analogamente prevede l’art. 454 comma 2-bis c.p.p. per il caso di giudizio immediato richiesto dal pubblico ministero prima del deposito ex art. 268 c.p.p., fermo restando che anche in questo caso i verbali e le registrazioni sono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1. Il diritto dei difensori alla copia è dunque parzialmente anticipato nel caso in cui il pubblico ministero sia tenuto a depositare l’elenco delle comunicazioni ritenute rilevati; e benché non espressamente menzionato, va riconosciuto anche nel caso previsto dall’art. 454 comma 2-bis c.p.p., in applicazione analogica dell’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.
Alla scadenza dei termini di deposito è di regola il giudice che decide immediatamente sulle richieste delle parti di acquisire conversazioni o flussi di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 268 comma 6 c.p.p.): senza deposito e senza richiesta delle parti il giudice non potrebbe operare d’ufficio la selezione, sicché i risultati delle intercettazioni rimarrebbero estranei allo stesso fascicolo delle indagini preliminari, essendo incluse solo nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., nel quale vanno comunque conservate indipendentemente dal deposito per i difensori.
Nei casi in cui il deposito sia avvenuto a norma dell’art. 415 bis comma 2-bis o dell’art. 454 comma 2-bis c.p.p., invece, è il pubblico ministero che, dopo avere indicato le registrazioni rilevanti per l’accusa, decide con decreto motivato sulle richieste dei difensori, che possono depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiedono copia; solo se le richieste difensive siano disattese o insorgano comunque contestazioni sulle registrazioni ritenute rilevanti anche dallo stesso pubblico ministero, i difensori possono rivolgersi al giudice perché provveda a norma dell’art. 268 comma 6. Ma in ogni caso, quale che sia il procedimento di selezione, sono inammissibili le richieste generiche di acquisizione di tutte le conversazioni intercettate, perché il procedimento esige indicazioni specifiche, onde impedire che risultino incluse nello stesso fascicolo del pubblico ministero, prima che nel fascicolo per il dibattimento, le conversazioni non effettivamente rilevanti. La stessa istituzione dell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. rimarrebbe vanificata, ove si ammettesse un indiscriminato trasferimento del suo contenuto nel fascicolo delle indagini preliminari.
Anche nei casi previsti dagli art. 415 bis comma 2-bis e 454 comma 2-bis c.p.p., nei quali può essere il pubblico ministero a effettuare la selezione senza intervento del giudice, deve ritenersi che una decisione di acquisizione indiscriminata di tutte le registrazioni, benché condivisa dalle difese, non sarebbe idonea a renderle utilizzabili, sottraendole al regime di inutilizzabilità di quanto conservato nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e non regolarmente selezionato. Questa inutilizzabilità dovrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice quando, «anche nel corso delle attività di formazione del fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'articolo 431», è chiamato a disporre la trascrizione delle registrazioni (art. 268 comma 7 e 457 comma 1 c.p.p.).
Poiché è prevedibile che il procedimento di selezione più ricorrente sarà quello previsto dall’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p., l’effettività della riforma dipenderà dal corretto esercizio di questo potere d’ufficio da parte dei giudici dell’udienza preliminare. Altrimenti nulla cambierebbe: il pubblico ministero richiederebbe e il giudice disporrebbe, con il consenso almeno implicito dei difensori, l'acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni, senza alcun preventivo vaglio di rilevanza; le trascrizioni verrebbero inserite tutte nel fascicolo per il dibattimento; diverrebbero così conoscibili agevolmente anche quelle conversazioni non rilevanti, che non dovrebbero essere neppure acquisite agli atti, ma si leggerebbero addirittura sui giornali.
In ogni caso, se la selezione viene eseguita correttamente, il giudice provvede a separare in tre parti i verbali e le registrazioni provenienti dall'intercettazione: registrazioni rilevanti; registrazioni inutilizzabili; registrazioni utilizzabili ma non rilevanti.
Le registrazioni e i verbali di cui è vietata l'utilizzazione, salvo che costituiscano corpo del reato, sono distrutti, su ordine del giudice (art. 271 comma 3 c.p.p.) e sotto il suo controllo (art. 269 comma 3 c.p.p.), con decisione assunta in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p. (art. 269 comma 2 c.p.p.).
Le registrazioni e i verbali che non sono inutilizzabili sono con-servate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione (art. 269 comma 2 c.p.p.). Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza.
D'altro canto, durante le indagini preliminari, e segnatamente ai fini delle misure cautelari, i risultati rilevanti delle intercettazioni, purché già conferiti nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. (art. 291 comma 1 c.p.p.), possono essere utilizzati dal pubblico ministero già prima del deposito, della selezione e della trascrizione delle registrazioni ex art. 268 c.p.p., anche perché queste operazioni possono essere differite sino alla chiusura delle indagini (art. 268 comma 5 c.p.p.). Tuttavia anche in questi casi la selezione non è operata unilateralmente dal pubblico ministero. Infatti, secondo quanto prevede l’art. 92 comma 1-bis disp. att., contestualmente all’adozione della misura cautelare «sono restituiti al pubblico ministero, per la conservazione nell'archivio di cui all'articolo 89 bis, gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal giudice non rilevanti o inutilizzabili». La scelta unilaterale del pubblico ministero non è dunque sufficiente per la trasmigrazione dei risultati delle intercettazioni dall’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. al fascicolo delle indagini preliminari.
Le comunicazioni e le conversazioni selezionate dal giudice, anche a fini cautelari, sono peraltro utilizzabili come prova sia nella fase delle indagini preliminari sia in dibattimento.
Secondo la giurisprudenza precedente la riforma «in sede di giudizio abbreviato, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie compiute dalla polizia giudiziaria circa il contenuto di conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione (cosiddetti "brogliacci"), essendo utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che siano stati legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero»[2]. Questa giurisprudenza deve ritenersi ormai superata, perché, come risulta dall’art. 269 comma 1 c.p.p., prima della selezione i cosiddetti brogliacci non vanno acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, ma sono custoditi nell’apposito archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e sono assolutamente inutilizzabili. Di tanto non tiene conto una relazione del Massimario della Corte di cassazione recentemente pubblicata dalla rivista on line Sistema penale, perché vi si ritiene ancora possibile utilizzare ai fini del giudizio abbreviato i verbali e le registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
4. Utilizzabilità extrapenale
Secondo la giurisprudenza civile i risultati delle intercettazioni eseguite nel procedimento penale sono pienamente utilizzabili sia dal giudice tributario sia dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, senza le limitazioni che l’art. 270 c.p.p. prevede per l’utilizzazione in altri procedimenti penali[3].
Si ritiene in particolare che «le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., norma quest'ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato o dell'indagato sicché si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all'acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale»[4]. E quanto al procedimento tributario si sostiene che «non ricorre nei procedimenti diversi da quello penale in seno al quale siano state autorizzate ed espletate le intercettazioni telefoniche, la ratio sottesa al divieto stabilito dall'art. 270 c.p., la quale è volta ad evitare che procedimenti con imputazioni fantasiose possano legittimare il ricorso alle intercettazioni, al fine di propiziarne l'utilizzazione in procedimenti per reati che non avrebbero consentito questo mezzo d'indagine»[5].
Analogamente è orientata la giurisprudenza amministrativa, nel presupposto, ancora più radicale, che «in tema di rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici, gli eventuali errori nella procedura di acquisizione delle prove da par-te dell'autorità giudiziaria che rendano le stesse inutilizzabili nel procedimento penale non ne comportano l'automatica inutilizzabilità in sede amministrativa»[6]; sicché l'inutilizzabilità delle intercettazioni non può spiegare effetti oltre gli ambiti processuali penali[7] e «gli atti e le risultanze tutte del procedimento penale, comunque acquisiti, devono essere valutati autonomamente dall'Amministrazione»[8].
Sicché si riconosce l’utilizzazione a fini extrapenali dei risultati di intercettazioni che non siano stati selezionati come rilevanti in alcun procedimento penale, come se si ammettesse l’intercettazione anche a fini amministrativi, in palese violazione della Costituzione.
Anche questa giurisprudenza deve ritenersi comunque superata dall’attuale disciplina delle intercettazioni, perché i verbali e le registrazioni custoditi nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili; e possono esserne prelevati solo in quanto selezionati ai fini dell’utilizzazione in un processo penale. Nessuno potrebbe estrarre copia di verbali o registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
Sarebbe pertanto necessario che anche la giurisprudenza civile, in particolare delle Sezioni unite della Corte di cassazione, prendesse atto di questa evoluzione normativa.
[1] Per un esame più completo e dettagliato rinvio a www.guidanappi.it
[2] Cass., sez. VI, 24 marzo 2010, Haj, m. 247007, Cass., sez. V, 26 marzo 2013, Nocella, m. 255655, Cass., sez. VI, 3 novembre 2015, Sedira, m. 265730.
[3] A. Nappi, Sull'utilizzazione extrapenale dei risultati delle intercettazioni, in Cass. pen., 2014, p. 386.
[4] Cass., sez. u, 15 gennaio 2020, n. 741, m. 656792, Cass., sez. un., 12 febbraio 2013, n. 3271, m. 625434, Cass., sez. un., 24 giugno 2010, n. 15314, m. 613973, Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292, m. 610804.
[5] Cass., sez. V, 7 febbraio 2013, n. 2916, m. 625254.
[6] Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2009, n. 7703.
[7] T.A.R. Roma Lazio sez. III, 19 marzo 2008, n. 2472, T.A.R. Roma Lazio sez. II, 6 giugno 2013, n. 5638.
[8] T.A.R. Lecce Puglia sez. III, 15 ottobre 2010, n. 2079.
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La Redazione di GIUSTIZIA INSIEME .
Il tirocinio dei m.o.t. e l’emergenza covid-19
Intervista di Ernesto Aghina e Luca Marzullo ai m.o.t. Claudia Masucci e Simona Di Maria
La sospensione dell’attività giudiziaria derivata dalla critica situazione sanitaria non riguarda unicamente la risposta alla domanda di giustizia, ma anche il delicato aspetto della formazione dei giovani magistrati.
Giustizia Insieme ha già affrontato il tema dell’adeguamento emergenziale della formazione da parte della Scuola superiore della magistratura nei confronti dei m.o.t. e dei tirocinanti ex art. 73 d.l. n. 69/2013 (vedi: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/974-la-formazione-dei-magistrati-al-tempo-dell-emergenza-da-covid-19 , e ora intende dar voce ai protagonisti del tirocinio.
Due giovani m.o.t.: Claudia Masucci e Simona Di Maria, in tirocinio mirato presso il Tribunale di Napoli e di Perugia, destinate rispettivamente alle funzioni giudicanti penali e civili, rispondono alle principali domande concernenti gli inevitabili riflessi derivati dall’emergenza giudiziaria sulla loro preparazione, l’adattamento al sistema didattico in videconferenza ed esprimono la loro opinione in ordine all’ipotizzata proroga del tirocinio.
1) Come è cambiato il tirocinio dal momento dell’insorgere dell’emergenza pandemica?
Claudia Masucci
Svolgo il tirocinio mirato come giudicante penale: in una situazione normale, i miei colleghi ed io avremmo partecipato alle udienze mediamente tre giorni a settimana, studiando in anticipo i fascicoli, confrontandoci con gli affidatari sulle diverse questioni emerse durante lo studio oppure in udienza, partecipando alle camere di consiglio e redigendo i provvedimenti. Al momento i processi si trattano solo in presenza di particolari condizioni e, di fatto, non abbiamo quasi modo di assistervi, se non a quelli che si celebrano con il rito direttissimo; dunque, la nostra formazione si attua con modalità in parte diverse.
Per la mia esperienza personale e, quindi, con riguardo all’organizzazione nella Corte d’Appello di Napoli e ai magistrati a cui sono affidata, tre sono le principali attività in cui sono impegnata in questo periodo. Innanzitutto, prosegue costantemente il prezioso dialogo con i magistrati affidatari, che mi forniscono provvedimenti da loro redatti e fascicoli di processi pendenti in modo che io possa studiarli. Un paio di volte a settimana, poi, ci “vediamo” su Teams per discutere delle questioni processuali e sostanziali individuate e per risolvere eventuali dubbi.
Inoltre, grazie all’interessamento della Commissione MOT e alla collaborazione di tutti i Tribunali del distretto, ci è stato consentito di assistere via Teams ai processi che si svolgono con il giudizio direttissimo, il che ci permette di acquisire dimestichezza con un rito che presenta notevoli peculiarità e, comunque, di partecipare ad udienze in cui si svolge un’attività effettiva. Ciò è particolarmente proficuo anche perché, dopo l’udienza, il magistrato di turno ci fornisce delle spiegazioni su quanto avvenuto, approfondisce alcune questioni di rilievo e risponde alle nostre domande. Tanto è stato previsto con riguardo alle direttissime che si svolgono in tutto il distretto e non solo presso il capoluogo, in modo da ampliare le possibilità di partecipazione.
Infine, stiamo seguendo le lezioni tenute da numerosi magistrati affidatari, che trattano questioni di diritto processuale e sostanziale con un taglio eminentemente pratico e con particolare attenzione alla giurisprudenza, in modo da offrirci una sorta di “rassegna” delle problematiche che potremmo trovarci ad affrontare una volta prese le funzioni. Anche questi incontri presentano una grande utilità, perché suppliscono, in parte, alla mancanza di esperienza pratica.
A tutto questo si accompagna, chiaramente, lo studio individuale: le varie tematiche che emergono richiedono approfondimenti e riflessioni che la specificità del periodo sicuramente permette.
Quanto alle attività della formazione centrale e della formazione decentrata, almeno per il momento, si svolgeranno con modalità a distanza in base ad un calendario che è già stato definito e che consentirà di mantenere fermo il programma inizialmente stabilito.
Simona Di Maria
Caso ha voluto che l’nsorgernza della criticità insorgesse al momento del passaggio dal generico al mirato. Il passaggio era carico di aspettative: scendere dalla ‘ruota del criceto’ e iniziare un cammino verso una meta precisa, la funzione. Quindi, più che essere cambiato il tirocinio (che doveva cambiare), è stata – inizialmente - frustrata l’aspettativa di iniziare una fase nuova, più funzionale e gratificante quanto all’apprendimento. Le prime settimane di mirato hanno riguardato le esecuzioni immobiliari: ovviamente in questa materia, fatta per lo più di operazioni e atti reattivi ad istanze, nulla si vede se non si procede. Motivo per cui ho approfittato di questo tempo per studiare la procedura ed impratichirmi con la consolle.
Le cose sono decisamente migliorate cambiando materia: contenzioso civile. Ho avvertito un cambio di passo, un rapporto con l’affidatario più stretto e dialettico. Ovviamente le udienze sono ancora pochissime (al momento, una sospensiva su teams), ma in compenso sto lavorando su quello che è stato incamerato e sto imparando a strutturare i provvedimenti. In conclusione, per la materia e per l’affidatario, in questo secondo periodo il tirocinio è assai più fruttuoso.
2) Quali interventi suggeriresti come utili per incrementare la tua preparazione in questa fase di (semi)paralisi dell’attività giudiziaria?
Claudia Masucci
Trovo che nella Corte d’Appello di Napoli siano già state attuate tutte le principali misure in grado di sopperire alla mancanza di “pratica” negli uffici: le attività in cui siamo impegnati in questo periodo sono la migliore alternativa per quella parte di formazione che necessariamente si dovrebbe svolgere in Tribunale e che al momento, per cause di forza maggiore, non è possibile esplicare.
Oltre a quanto stiamo già facendo, potrebbe essere utile provare a organizzare dei processi simulati a scopo didattico, sul modello dei mock trials anglosassoni, con assegnazione dei diversi ruoli ai MOT o, in parte, agli affidatari, anche se mi rendo conto che “inventare” un processo dal nulla è molto più complicato e impegnativo, in termini di tempo, che assistere allo svolgimento di un’udienza reale.
Simona Di Maria
Potenzierei l’apprendimento di alcuni aspetti pratici del lavoro, per acquisire quella strumentazione che consentirà, in futuro, di avere più tempo per i contenuti. Ad esempio: come strutturare i provvedimenti (sarebbe utile prepararsi degli schemi/modelli), come organizzare il proprio ruolo, come decidere sulle spese di lite e come liquidare quelle del CTU (o nelle esecuzioni, del perito e del custode), il gratuito patrocinio, come crearsi un proprio archivio, come utilizzare la consolle, personalizzandola.
Poi, mi piacerebbe partecipare a seminari specifici sulle materie più tecniche e/o seriali che comporranno il mio ruolo, ad esempio: le tematiche principali del contenzioso bancario, la protezione internazionale etc.
3) L’ applicativo TEAMS, utilizzato anche per organizzare gli stage in sede decentrata, può essere un valido strumento anche per il futuro o solo una modalità per fronteggiare l’emergenza?
Claudia Masucci
Al momento in cui scrivo non abbiamo ancora iniziato gli stage (il primo comincerà il 14 aprile), ma abbiamo utilizzato Teams per assistere alle udienze a distanza, per le lezioni collettive e gli incontri virtuali con gli affidatari. Trovo che questo applicativo possa essere prezioso anche per il futuro; consente di svolgere e seguire adeguatamente le lezioni, di condividere documenti e perfino di instaurare un confronto con il relatore tramite gli interventi, anche se non posso dire se lo stesso varrà quando ad assistere saranno cento MOT e non venti o trenta come ora. L’aspetto in cui la partecipazione via Teams potrebbe differire da quella materiale, de visu, è nella creazione di un rapporto e di un dialogo costruttivo con i colleghi di altre Corti, come ad esempio avviene nella divisione in sottogruppi durante la formazione presso la Scuola Superiore, che offre occasioni di crescita e arricchimento che, temo, difficilmente potrebbero essere replicate su una piattaforma telematica.
Simona Di Maria
Dipende dal tipo di stage. Se penso, ad esempio, a quello svolto negli istituti penitenziari ovviamente Teams non si presta a sostituire l’esperienza diretta. Viceversa per quelli che implicano una relazione frontale. Aggiungo, però, che alcuni stages non li avrei inseriti nella fase del generico: aver fatto uno stage di una settimana in ambito minorile (dopo 3 settimane di tirocinio nello stesso ambito) è stato inutile – oppure è stato un di più farci il tirocinio. Così per la sorveglianza (stage + tirocinio), gli istituti di pena e le forze dell’ordine (riserverei queste cose solo al mirato).
Teams potrebbe avere un ruolo “rivoluzionario” sotto un altro aspetto: unire le forze. Intendo dire che si potrebbe creare una piattaforma di seminari a livello nazionale, in cui i formatori (coordinandosi) inseriscono incontri e poi i tirocinanti si iscrivono a quelli di maggior interesse. In modo simile è organizzata la cd. “settimana flessibile” nelle scuole superiori (per chi ne sa qualcosa…). Così se una Corte riesce ad ingaggiare il guru delle misure di prevenzione e un’altra quello del contenzioso agrario (per dire…), ne beneficerebbero tutti e non solo i MOT locali. Una formazione decentrata, ma diffusa, che moltiplicherebbe le possibilità ed i risultati.
4) Quale la tua opinione in ordine ad una possibile sospensione del tirocinio che procrastini l’immissione in servizio nella prima sede di destinazione?
Claudia Masucci
Si tratta di un tema che è stato al centro di un lungo dibattito tra noi MOT e le posizioni che sono emerse sono molto diversificate e, trovo, tutte ugualmente legittime. Personalmente - ma so di non parlare a nome di tutti - credo che, se effettivamente questa situazione si protrarrà, consentendoci alla fine di svolgere presso gli uffici solo meno della metà del tirocinio mirato, potrebbe essere utile, più che una sospensione, che rischierebbe di lasciarci inattivi alcuni mesi, un prolungamento che ci permetta di recuperare il periodo in cui l’attività giudiziaria è rimasta parzialmente paralizzata.
Ritengo che la limitazione della pratica in Tribunale incida innanzitutto sulla capacità di gestire l’udienza, oltre che su quella di risolvere le singole questioni di diritto processuale e sostanziale (banalmente, più situazioni si affrontano, maggiore esperienza si acquisisce). Le attività che stiamo svolgendo al momento ci permettono senz’altro di individuare e di mettere a fuoco in anticipo alcuni dei problemi che ci troveremo ad affrontare e dunque, da un lato, ci forniscono senz’altro delle competenze utili ad affrontare le diverse situazioni e, dall’altro, rendono certamente più rapido l’apprendimento “sul campo”, dal momento che avremo già avuto modo di riflettere su molti quesiti ancor prima di incontrarli per la prima volta nella pratica.
Tuttavia, a mio parere, un conto è affrontare le varie problematiche “a freddo”, in via teorica, anche se con un taglio concreto; altra cosa è imparare a gestire l’udienza, capacità che credo si possa acquisire soltanto con l’esperienza. Senza assolutamente voler ridurre l’attività del magistrato ad un qualcosa di meramente pratico, credo che acquisire maggiore sicurezza potrebbe consentirci di svolgere al meglio un compito così delicato.
Simona Di Maria
La risposta dipende da vari fattori: quanto a lungo durerà la “paralisi”, quanto rarefatta sarà l’attività dopo la ripresa, quanto riuscirò a formarmi in questa fase di sospensione. Intendo dire che, se potessi sfruttare al meglio questo periodo con una formazione adeguata, sebbene ancora teorica (vedi p.to 2), potrei dedicare il periodo successivo solo alle udienze. Allora, forse, 2/3 mesi di udienze intense, sarebbe sufficiente.
Però rilevano anche altre considerazioni: da un lato, mi sentirei più tranquilla sapendo che questo periodo di stasi sarà recuperato con un allungamento del tirocinio (e se poi sarò riuscita a progredire anche durante la stasi, tanto meglio); dall’altro lato, mi rendo conto che gli uffici giudiziari di destinazione avranno più bisogno di prima e, per loro, un ritardo nella nostra presa di funzioni potrebbe essere una difficoltà in più; infine, ci sono i colleghi che andranno a coprire ruoli assai variegati e credo che per loro, anche la perdita di un mese o due, renda necessario il recupero.
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