ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Luigi Salvato
Sommario: 1. La fase predisciplinare: premessa. 2. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del ‘denunciante’. 3. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del magistrato, del Consiglio giudiziario, dell’A.N.M. 4. L’accesso agli atti del procedimento disciplinare.
1.- La fase predisciplinare: premessa.
La riforma del sistema della responsabilità disciplinare realizzata dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, ha innovativamente stabilito che «il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare» (art 14, comma 3), previsione resa possibile anche dalla tipizzazione degli illeciti[1]. La presentazione di una denuncia «circostanziata» (secondo la prospettazione dei fatti offerta dal denunciante) di un fatto astrattamente costituente illecito disciplinare sembrerebbe quindi sufficiente (come invece non è) ad integrare i presupposti per l’esercizio di detta azione.
La prevedibile (e verificatasi) esplosione del numero degli esposti – ipotizzabile già alla data della riforma, tenuto conto della generalizzata facoltà di presentare denuncia (art. 15, comma 1, d.lgs. n. 109 del 2006), di una tipizzazione imperfetta, del mantenimento di alcune clausole generali e, in prosieguo, ulteriormente implementata da inesatte concezioni in ordine alla finalità dell’istituto – ha suggerito di attribuire al P.G. il potere di disporre l’archiviazione diretta (art. 16, comma 5-bis, d.lgs. n. 109 del 2006)[2], nei casi: di denuncia non circostanziata; se il fatto non è riconducibile ad alcune delle fattispecie tipizzate; qualora il fatto appaia di «scarsa rilevanza» ai sensi dell’art. 3-bis di tale ultimo atto normativo. Attribuito detto potere, il d.lgs. n. 109 del 2006 ha, altresì, previsto che il P.G., al fine di adottare il provvedimento di archiviazione, può svolgere «sommarie indagini preliminari» (art. 15, comma 1[3]).
La ricezione da parte dell’Ufficio della P.G. della «notizia del fatto» di eventuale rilevanza disciplinare dà dunque avvio alla fase c.d. predisciplinare e determina l’iscrizione di un procedimento in cui è svolta un’attività di esame e valutazione della stessa (anche, eventualmente, mediante l’espletamento di «sommarie indagini preliminari»), allo scopo di stabilire: se si imponga l’esercizio dell’azione; se il procedimento possa e debba essere definito con un provvedimento di archiviazione.
In altra sede ho esplicitato gli argomenti che inducono a ritenere pacifico che la responsabilità disciplinare: a) non configura un rimedio preordinato a garantire correttezza ed esattezza delle decisioni e non costituisce il presidio (certo, non lo è in modo immediato e diretto) dei diritti dei cittadini oggetto di un determinato processo (civile o penale), la cui tutela può e deve essere assicurata esclusivamente all’interno di questo, attraverso gli strumenti previsti dalla legge processuale, ovvero, nei casi nei quali sia ipotizzabile la responsabilità del magistrato, ai sensi della legge n. 117 del 1988, mediante la proposizione della relativa azione in sede civile; b) non è uno strumento preordinato a verificare e garantire la professionalità dei magistrati[4]. La responsabilità disciplinare è, infatti, volta esclusivamente ad accertare se il magistrato abbia tenuto condotte che integrano gli elementi costitutivi di uno degli illeciti tipizzati ed a sanzionarle, ai fini e con gli effetti stabiliti dal d.lgs. n. 109 del 2006.
Nondimeno, accade spesso che, anche (forse, soprattutto) a causa di una concezione della responsabilità disciplinare erronea – pure nella declinazione che configura il procedimento disciplinare latamente inteso (riferito cioè anche alla fase c.d. predisciplinare) come una sorta di public enforcement rispetto alle iniziative attivabili dalle parti nella competente sede (civile e/o penale), al fine di ottenere il ristoro degli eventuali danni patiti a causa di provvedimenti e/o condotte illegittime del magistrato –, il numero degli esposti e dei procedimenti (soprattutto predisciplinari) è aumentato in misura davvero inusitata[5]. Tale non corretta concezione, unitamente a quelle, parimenti inesatte, secondo cui: l’obbligatorietà dell’azione implicherebbe una sorta di automatismo nel promovimento dell’azione, che dovrebbe seguire alla sola presentazione dell’esposto, senza che residui nessun margine di valutazione da parte dell’Ufficio della P.G.; l’esponente costituirebbe (come certo non è) “persona offesa” avente diritto alla comunicazione di cui all’art. 408 c.p.p., oltre che ai poteri a questa accordati nel processo penale, ha finito con l’alimentare infondate aspettative (soprattutto nel privato esponente) in ordine alla conoscibilità dell’esito del procedimento predisciplinare, al diritto a partecipare allo stesso e ad ottenere copia dei relativi atti e del decreto di archiviazione, ovvero, nel caso di esercizio dell’azione disciplinare, una precisa informazione della stessa. Di qui l’attualità della questione dell’an e del quomodo dell’accesso a dette notizie ed atti e, in linea generale, della partecipazione al procedimento predisciplinare dell’esponente, del magistrato attinto dalla notizia nonché dell’accesso a detta notizia da parte degli organi di amministrazione della giurisdizione e delll’A.N.M.
2. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del ‘denunciante’.
Relativamente alla partecipazione ed all’accesso agli atti della fase predisciplinare dell’autore della segnalazione del fatto, che sia un privato cittadino, per dare soluzione alla questione, occorre procedere dall’esame delle norme del d.lgs. n. 109 del 2006 dedicate alla stessa, che non sono molte e, tuttavia, stabiliscono con sufficiente precisione la disciplina applicabile.
All’apparenza vi è un’unica disposizione che sembra concernere specificamente detta fase, l’art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale regolamenta l’atto conclusivo della stessa, stabilendo che, nei casi dalla stessa previsti, può essere definita con un «provvedimento di archiviazione», di cui è prescritta la comunicazione al solo Ministro della giustizia il quale, se dissente, può esercitare l’azione disciplinare. Nonostante l’espressa menzione del solo provvedimento conclusivo, devono nondimeno ritenersi applicabili alla fase in esame anche le ulteriori norme contenute nel richiamato art. 16 ed a questa comunque riferibili; in particolare, quella del comma 2, secondo cui «per l’attività di indagine si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale». Depone in tal senso la considerazione che la disposizione, siccome contempla e regolamenta l’atto conclusivo di detta fase, nel caso di mancato esercizio dell’azione, già soltanto per questo rende logicamente riferibili alla stessa anche le altre norme da essa recate che alla stessa risultano applicabili. L’ulteriore previsione del potere del P.G. di svolgere già (ed anche) in detta fase «sommarie indagini preliminari», espressamente contemplata dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, tenuto conto della chiara ed univoca lettera di quest’ultima disposizione, conforta quindi che le stesse (appunto perché «indagini», benché «sommarie» e «preliminari»), devono ritenersi governate anzitutto dal citato art. 16 e, quindi, anche dalle disposizioni del codice di rito penale, sia pure entro il limite di compatibilità, da intendere, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, in modo restrittivo[6]. Per tale ragione, il limite di compatibilità, ferma la tendenziale applicabilità di dette norme, va identificato avendo riguardo al contenuto ed alla finalità della fase, in virtù di una scelta peraltro non extravagante e prevista anche in altri, benchè non omogenei, ambiti[7].
L’argomento letterale e sistematico (con riguardo cioè alla complessiva disciplina dettata dal d.lgs. n. 109 del 2006) permette dunque di identificare le norme che governano la fase e di escludere l’applicabilità di quelle concernenti il procedimento amministrativo, privando in tal modo di rilevanza, ai fini che qui interessano, la questione della natura della stessa. Indipendentemente dalla considerazione che si tratta di questione controversa, non univocamente risolta dalle Sezioni unite civili – peraltro, con riguardo ad un profilo specifico e precisamente delimitato (il grado di stabilità del provvedimento di archiviazione)[8] –, rileva, infatti, che il procedimento predisciplinare sicuramente non è riconducibile al genus di quelli amministrativi, conclusione questa per nulla messa in crisi dalla giurisprudenza di queste ultime, orientata nell’intendere restrittivamente il rinvio alle norme del codice di rito penale contenuto nel d.lgs. n. 109 del 2006[9].
Il procedimento concerne, infatti, la (e può influire sulla) funzione giurisdizionale e, quindi, le norme applicabili vanno identificate tenendo conto della circostanza che la “giurisdizionalizzazione” del procedimento disciplinare costituisce il risultato di un percorso scandito dagli interventi della giurisprudenza costituzionale[10], secondo cui l’interesse pubblico sotteso alla responsabilità disciplinare ed al relativo procedimento consiste «nell’assicurazione del regolare e corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, vale a dire una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia», che giustifica la conformazione giurisdizionale del procedimento, allo scopo della più rigorosa tutela dei beni costituzionalmente protetti[11] e con una regolamentazione particolare che riflette il proprium dell’ordine giudiziario[12]; ciò – può aggiungersi e deve ritenersi – anche con riguardo alla fase predisciplinare. Pertanto, si comprende e giustifica che il procedimento «gravita in un’area “giurisdizionalizzata”»[13], constatazione questa che ancora più conforta la riferibilità dell’art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 anche alla fase predisciplinare, nella parte in cui rinvia alle norme del codice di rito penale, sia pure entro il limite di compatibilità, da ulteriormente interpretare alla luce del contenuto della stessa.
In ogni caso, è evidente che gli atti del procedimento predisciplinare non sono affatto riconducibili ad un’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale»; certo non costituiscono atti amministrativi, poiché perseguono (non diversamente da quelli di volontaria giurisdizione, categoria diversa e, tuttavia, evocabile soltanto per segnare la distinzione attraverso il richiamo di un’ipotesi di attività svolta da magistrati, diversa dalla tutela giurisdizionale, prossima all’attività amministrativa, ma da questa distinta) uno scopo “di giustizia”, non uno scopo “politico”, sicchè bene se ne può predicare il carattere “giustiziale”, ciò che peraltro dà ragione del pacifico convincimento che, appunto per questo, il provvedimento di archiviazione non è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2.1. La finalità dell’attività e la sua incidenza sulla funzione giurisdizionale spiegano e giustificano la precisa previsione dell’art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale stabilisce che del provvedimento di archiviazione va data comunicazione esclusivamente al Ministro della giustizia, il solo che può altresì richiedere «copia degli atti» del procedimento, rendendo ulteriormente certo che l’esponente privato non è titolare di una pretesa a partecipare al procedimento ed all’accesso ai relativi atti.
Siffatta conclusione conserva piena validità anche qualora l’attività preordinata al vaglio preliminare della notizia di illecito sia svolta da un organo amministrativo (l’Ispettorato generale del Ministero della giustizia), in quanto rinviene altresì conforto nell’art. 4 del d.m. 25 gennaio 1996, n. 115 (Regolamento concernente le categorie di documenti formati o stabilmente detenuti dal Ministero di grazia e giustizia e dagli organi periferici sottratti al diritto d'accesso), che, al comma 1, stabilisce: «sono sottratte all'accesso […]» una serie di documenti e, tra questi, «i) [la] documentazione attinente a procedimenti penali e disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell'apertura di procedimenti disciplinari […]» e, quindi, non consente dubbi sull’inesistenza del diritto all’accesso anche nei confronti del Ministero della giustizia, di recente affermata dal giudice amministrativo[14]. Per altro verso, tale disposizione corrobora l’infondatezza dell’analoga pretesa, anche quando avanzata ai sensi degli artt. 22 ss della legge n. 241 del 1990 nei confronti dell’Ufficio della P.G., poiché già da sola sarebbe sufficiente ad escluderla, pure se l’attività svolta da tale organo fosse riconducibile al genus dell’attività amministrativa, come peraltro non è.
In tal senso si era, inoltre, già orientata la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi che, adita da un esponente il quale chiedeva di conoscere i documenti formati nel procedimento in fase predisciplinare al fine di esercitare il diritto di difesa in una procedura giudiziaria dinanzi al giudice amministrativo, aveva dichiarato l’istanza inammissibile per ragioni procedurali (omessa comunicazione del ricorso al controinteressato) e, tuttavia, nella premessa aveva significativamente evidenziato «la più che dubbia sussistenza di un interesse legittimante all’accesso»[15].
2.2. La pretesa alla partecipazione al procedimento ed all’accesso agli atti da parte dell’esponente privato neppure può essere ‘recuperata’ attraverso l’istituto dell’accesso civico c.d. generalizzato[16].
Al riguardo, è infatti convincente e merita condivisione la direttiva della deliberazione dell’ANAC del 28 dicembre 2016, n. 1309[17], laddove dispone che esulano «dall’accesso generalizzato gli atti giudiziari, cioè gli atti processuali o quelli che siano espressione della funzione giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello “ius dicere”, purché intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi. L’accesso e i limiti alla conoscenza degli atti giudiziari, ovvero di tutti gli atti che sono espressione della funzione giurisdizionale, anche se acquisiti in un procedimento amministrativo, sono infatti disciplinati da regole autonome previste dai rispettivi codici di rito» (§ 7.6).
L’importanza delle direttive di detta deliberazione (benché, ovviamente, non vincolante per il giudice) è certa, dato che, con riferimento al suindicato istituto, la fonte primaria non reca prescrizioni puntuali – individuando una serie di interessi, pubblici (art. 5-bis, comma 1) e privati (art. 5-bis, comma 2), suscettibili di determinare una eventuale esclusione dell’accesso, cui si associano i casi di divieto assoluto ( art. 5-bis, comma 3) – e rinvia ad un atto amministrativo (appunto le Linee guida dell’ANAC) la precisazione dell’ambito operativo dei limiti e delle esclusioni dell’accesso civico generalizzato[18]. Tale atto, nelle direttive sopra richiamate, neppure si limita ad approfondire i rapporti tra accesso e segreto previsto a tutela delle indagini penali ed il caso della connessione tra segreto ed atti di indagine e non limita l’accesso soltanto al caso in cui siano svolte indagini, rendendo in tal modo riferibile l’eccezione anche al provvedimento di archiviazione adottato de plano.
Le direttive contenute nel § 7.6. della deliberazione dell’ANAC n. 1309 del 2016, benchè questo sia rubricato “Conduzioni di indagini sui reati e loro perseguimento”, concernono infatti, estensivamente, nel secondo e nel terzo capoverso, tutti gli atti correlati all’esercizio della funzione giurisdizionale[19], rendendo certa l’inapplicabilità dell’istituto a quelli che di questa, latamente intesa, costituiscono espressione, come è reso chiaro dall’esemplificazione nella stessa contenuta (non limitata agli atti relativi alla funzione penale ed all’accertamento di reati), nonché dalla significativa puntualizzazione che l’accesso «riguarda, atti, dati e informazioni che siano riconducibili a un’attività amministrativa, in senso oggettivo e funzionale». E, per quanto sopra esplicitato, è indubbia l’irriconducibilità degli atti del procedimento predisciplinare ad un’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale».
2.3. La conclusione - benchè appagante, poiché imposta dalla natura e dalla finalità dell’attività svolta nella fase predisciplinare e saldamente fondata sulle norme sopra richiamate - non solleva dall’onere di domandarsi se essa possa, non ragionevolmente, ledere un interesse dell’esponente, oppure determinare una distonia di sistema, comunque pregiudicare interessi generali.
Una tale preoccupazione, con riguardo alla posizione dell’esponente, appare infondata. Le considerazioni sopra svolte in ordine alla ratio della responsabilità disciplinare ed alla finalità delle relative norme rendono infatti incontrovertibile l’inesistenza di un interesse dell’esponente, tutelato e tutelabile, in relazione al procedimento predisciplinare (ma anche a quello disciplinare). Ad ulteriore conforto, è sufficiente osservare che, come è stato efficacemente osservato, «per ciò che concerne poi la qualificazione dell’interesse, esso non è ravvisabile nel solo fatto che l’accertamento preliminare sia avvenuto a seguito della segnalazione del privato, giacché il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di questi ma dell’amministrazione della giustizia (e di conseguenza all’esponente non è assegnato alcun potere di impulso procedimentale o di partecipazione al procedimento, neppure nella fase pubblica)»[20]. Si tratta di considerazione di pregnante rilievo, tenuto conto che la pretesa all’accesso non fornisce «utilità finali», ma costituisce solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette (di diritto soggettivo, ovvero di interesse legittimo) e, conseguentemente, spetta soltanto se sia collegata ad un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire un documento amministrativo[21].
Nel caso di mancato esercizio dell’azione non è ipotizzabile un vulnus dell’esponente, poiché, come detto, la responsabilità disciplinare è preordinata esclusivamente a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato. Inoltre, può concorrere con la responsabilità civile, ma le due responsabilità conservano, anche quanto al procedimento, una reciproca autonomia. Ed è appunto detta autonomia a rendere certo che la negazione del diritto di accesso non permette di paventare la lesione di interessi dell’esponente. A prescindere dalla pur dirimente constatazione che l’acquisizione degli atti del giudizio disciplinare in quello civile, anche dopo la novellazione nel 2015 della legge n. 117 del 1988, è limitata a quelli soli del “giudizio”[22], rileva infatti che, qualora una parte si ritenga lesa da un provvedimento e/o da una condotta del magistrato, bene può esercitare l’azione di responsabilità civile, non sussistendo in detta sede nessun vincolo decisionale derivante dall’esito dell’esposto in sede disciplinare.
2.4. La negazione del diritto di partecipazione e di accesso alla fase predisciplinare neanche è causa di una distonia di sistema con riferimento alla disciplina concernente altre magistrature. Con riguardo agli appartenenti alla magistratura amministrativa va infatti ricordato che il Consiglio di Stato, nel decidere un ricorso avente ad oggetto la pretesa all’accesso – peraltro avanzata non da un esponente privato cittadino, bensì da un magistrato amministrativo, prospettando “possibili finalità di giustizia e difensive” e “ragioni di studio” -, ha affermato che: x) «la posizione giuridica soggettiva preesistente, cui strumentalmente inerisce il diritto di accesso, non può essere individuata nel mero e autonomo “diritto all’informazione”» e «non sussiste un fondamento del diritto di accedere a determinati documenti, rinvenibile nell’”interesse scientifico” dell’istante»; x-1) l'accesso ai provvedimenti disciplinari del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, quando richiesto da un magistrato amministrativo, neppure «può essere riconosciuto per il solo fatto che il magistrato ha "diritto di conoscere le determinazioni con le quali il CPGA fa applicazione, in concreto, del Codice deontologico", il che collega il diritto di accesso ad un generico diritto all'informazione dipendente dal mero status di appartenente ad una categoria»; x-2) «tale diritto di accesso può giustamente fondarsi sul diritto alla tutela delle proprie posizioni giuridiche in sede giudiziaria o disciplinare» ed il «magistrato amministrativo ha diritto ad accedere ai provvedimenti disciplinari emanati dalle Competenti Commissioni e dal Plenum del Consiglio di Presidenza Amministrativa, laddove ciò sia necessario per esigenze di tutela di sue posizioni giuridiche soggettive in sede giudiziaria e/o disciplinare»; conseguentemente, ha ritenuto fondata la pretesa, quando sia sorretta da dette esigenze di tutela, ma con riguardo ai «documenti […] rappresentativi di provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di magistrati amministrativi e comportanti l’applicazione di una sanzione»[23].
La sintesi dei principi enunciati dal Consiglio di Stato rende chiaro, da un canto, che la pretesa all’accesso è stata riconosciuta meritevole di accoglimento con specifico riguardo al caso in cui venga avanzata da un magistrato amministrativo, non da un esponente privato; dall’altro, che anche in riferimento a quest’ultimo, è stata giudicata utilmente proponibile soltanto se necessaria «alla tutela delle proprie posizioni giuridiche in sede giudiziaria o disciplinare» (caso non prefigurabile in relazione all’esponente, che sia un privato cittadino) e con riguardo ai provvedimenti che applicano una sanzione.
Non sussiste, dunque, una distonia di sistema pregidizievole del denunciante privato, a seconda che l’esposto concerna un magistrato ordinario o amministrativo, constatazione questa che, da sola, renderebbe superfluo ricordare che, secondo la Corte costituzionale, «il procedimento disciplinare relativo ai magistrati ordinari ha natura giurisdizionale e si svolge dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con quanto ne consegue in ordine al regime delle impugnazioni. Quello relativo ai magistrati amministrativi ha natura di procedimento amministrativo e si svolge dinanzi al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa o al Consiglio di presidenza della Corte dei conti. Questa diversa configurazione del procedimento dipende da una scelta del legislatore, che ben può articolare diversamente l'ordinamento delle singole giurisdizioni, a patto che siano rispettati i principi costituzionali comuni»[24]. La differente natura dei procedimenti che, per le argomentazioni sopra svolte, si proietta anche sulla fase predisciplinare (avente connotazione “giustiziale”, incidendo sulla funzione giurisdizionale) sarebbe comunque di per sé sufficiente a giustificare ed a rendere non irragionevole la differente disciplina applicabile nelle fattispecie in comparazione.
2.5. La conclusione così affermata neppure è lesiva di un generale diritto all’informazione e del valore della trasparenza, meritevole della più attenta considerazione e che, tuttavia, impone di ricordare che anche la «Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche»[25]. E ciò soprattutto, può aggiungersi, con riguardo ad un procedimento che non è affatto preordinato alla tutela di situazioni giuridiche soggettive di privati (gli esponenti), ampiamente ed adeguatamente tutelate su piani ed in ambiti diversi (in sede penale e civile, in virtù delle previsioni della legge n. 117 del 1988), essendo altresì qualificabili i dati come ‘giudiziari’ (nel senso sopra precisato) e, appunto per questo, sottratti alla pubblicità anche secondo la logica del d.lgs. n. 33 del 2013.
Detta enfatizzazione non considera, infine, al giusto che, come ancora affermato dalla Corte costituzionale, «in nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni», ma «resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche»[26].
Inoltre, il libero accesso oggetto dell’istituto introdotto nel 2013 (entro i limiti fissati dal legislatore e nel rispetto di quelli delineati dalla Corte costituzionale a tutela dei diritti coinvolti dallo stesso) concerne esclusivamente l’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale» quale, come detto, non è quella in esame e non riguarda affatto gli atti riconducibili alla funzione giurisdizionale, latamente intesa.
La previsione della comunicazione dell’archiviazione al Ministro della giustizia e della facoltà di quest’ultimo di esercitare l’azione in dissenso dalle conclusioni del P.G. certo non integra un controllo in senso tecnico ed ha piuttosto significato e valore di informazione ai fini dell’esercizio della distinta azione da parte del Ministro[27]. Nondimeno, costituisce sicuramente uno strumento che, ragionevolmente, assicura una “verifica” dell’attività predisciplinare svolta dal P.G. da parte del con-titolare dell’azione disciplinare, ciò che fa escludere che l’azione del primo possa ritenersi sottratta ad ogni valutazione ad opera di un diverso organo.
Peraltro, l’archiviazione. come nel rito penale, implica il non esercizio dell'azione ma, diversamente da quella penale, non richiede l’intervento del giudice, in considerazione del «diverso rilievo degli interessi in gioco», che ha suggerito il «solo correttivo di un possibile contrario intervento propulsivo dell'altro titolare dell'azione disciplinare»[28], al fine di «tutelare l’interesse del Ministro, anch’egli legittimato all’azione disciplinare, a conoscere le determinazioni del procuratore generale in ordine all’esercizio stesso, con la possibilità di far valere una propria diversa valutazione disciplinare dei fatti»[29]. Siffatta scelta si sottrae ad ogni censura, spettando alla discrezionalità del legislatore ordinario bilanciare gli interessi in gioco, in quanto l’obbligatorietà dell’azione disciplinare rinviene la sua fonte in una norma ordinaria (art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 109 del 2006), non nella Costituzione (concernendo l’art. 112 Cost l’azione penale). Il bilanciamento è stato ragionevolmente realizzato, prevedendo il potere del P.G. di archiviazione, ma assicurando che il con-titolare dell’azione abbia notizia del relativo provvedimento, così da essere in condizioni di diversamente determinarsi in ordine all’eventuale esercizio della stessa.
3. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del magistrato, del Consiglio giudiziario, dell’A.N.M.
Il magistrato attinto dalla notizia di un eventuale illecito non ha diritto di accedere agli atti, tenuto conto della finalità della fase (diretta esclusivamente a consentire un vaglio preliminare della stessa) e della previsione (significativa) secondo cui sussiste l’obbligo di provvedere alla comunicazione esclusivamente dopo l’esercizio dell’azione (art. 15, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006) e manca un’analoga disposizione con riguardo al procedimento predisciplinare. La conclusione è suffragata dalla natura strumentale della pretesa all’accesso rispetto all’esigenza di difesa che, come si è ricordato, ha indotto il giudice amministrativo a riconoscerla appunto «per la difesa nel giudizio disciplinare», esigenza insussistente in una fase in cui manca la formulazione di un’incolpazione e l’azione non è stata esercitata.
Pregnante rilevanza in tal senso ha la constatazione che il decreto di archiviazione costituisce un provvedimento che si limita a dare atto dell’insussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione disciplinare e che non potrebbe, né dovrebbe, essere utilizzato ad altri fini, concernenti il percorso professionale del magistrato, come è altresì desumibile dalle direttive di alcuni atti consiliari.
In particolare, la circolare del C.s.m. dell’8 ottobre 2007, n. 20691, recante «Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati» (nel testo modificato, da ultimo, con delibera del 21 febbraio 2018): y) nel capo VII non comprende tra le fonti di conoscenza della documentazione relativa alla valutazione di professionalità le informazioni concernenti l’eventuale pendenza di procedimenti predisciplinari (e, dunque, non radica la legittimazione alla richiesta dell’informazione); y-1) nel capo XII disciplina, nel § 1, la rilevanza del procedimento «disciplinare» e, comunque, nel § 2 fa altresì riferimento alla pendenza di procedimento «anche anteriormente all’esercizio dell’azione […] disciplinare», ma tuttavia menziona quale soggetto legittimato alla conoscenza esclusivamente la Commissione competente del C.s.m. per le valutazioni di professionalità; y-2) nel capo XIV, nel § 2, fa riferimento «all’indicazione di situazioni rappresentate dai terzi, di cui i dirigenti abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare e sempre che si riferiscano a fatti incidenti sulla professionalità del magistrato» e, quindi, attribuisce rilevanza non alla mera comunicazione della notizia, bensì alle «situazioni» in questa rappresentate indicate dai terzi ai dirigenti. Dette situazioni possono e devono costituire oggetto di considerazione da parte del dirigente in occasione della valutazione di professionalità, a prescindere dall’esame svolto in sede disciplinare (ampiamente intesa) e con riguardo alla finalità di quest’ultima, tenuto altresì conto del differente oggetto e scopo dei procedimenti di ‘controllo’ dell’attività e della condotta del magistrato.
La circolare del C.s.m. del 27 febbraio 2009, n. 4718, e successive modifiche (in particolare, apportate con la delibera del 14 marzo 2018), in tema di tenuta del fascicolo personale del magistrato, nell’indicare gli atti che possono essere inseriti nello stesso, all’art. 6, comma 2, lettera c), menziona poi esclusivamente gli atti della “Sezione disciplinare” e non indica quelli della fase predisciplinare, non contemplati neppure nell’art.8.
La circolare del C.s.m. del 20 luglio 2015, P-14858 e successive modifiche (introdotte, da ultimo, con delibera del 26 aprile 2018), recante il testo unico sulla dirigenza giudiziaria: z) all’art. 83, comma 1, lettera g), dispone che il Consiglio giudiziario o il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, devono acquisire «i fatti oggetto di eventuali procedimenti penali e disciplinari», con chiaro riferimento al solo caso in cui sia stata appunto promossa l’azione disciplinare; z-1) all’art. 87 prevede l’acquisizione da parte del C.s.m. delle «sentenze disciplinari e procedimenti pendenti» e la facoltà di «assumere ulteriori elementi di conoscenza». Dunque, neppure tale ultimo atto contempla l’acquisizione degli atti della fase predisciplinare e neanche del provvedimento che la conclude, adottato ai sensi dell’art. 16, comma 5-bis, d.lgs. n. 109 del 2006.
L’irrilevanza per il magistrato, nei termini sopra indicati, degli atti del procedimento predisciplinare induce dunque a dubitare di un suo concreto interesse all’accesso agli atti. L’unico caso in cui questi sembrerebbero utilizzabili è quello oggetto della circolare dell’8 ottobre 2007, n. 20691, (sopra indicato al punto y-1), in cui ciò avviene ad iniziativa del C.s.m. Tuttavia, qualora quest’ultimo ritenga di dare rilevanza a detti fatti ed agli accertamenti svolti nella fase predisciplinare, dovrebbe portarli a conoscenza del magistrato e, a detto fine, realizzare quel contraddittorio che la fase predisciplinare non prevede, né consente (e che non vi è ragione di realizzare, quando sia stata definita con l’archiviazione), con la conseguenza che solo a seguito di detta iniziativa del C.s.m. sorge l’interesse alla conoscenza degli atti, nei termini e nei limiti da questo ritenuti ed al medesimo spetta dunque di evidenziare se e per quali atti sussista l’interesse.
3.1. L’irrilevanza, ai suindicati scopi, del provvedimento di archiviazione induce altresì a ritenere che la notizia della pendenza di un procedimento in fase predisciplinare debba ritenersi coperta dal carattere della riservatezza anche nei confronti del Consiglio giudiziario, al quale non è ostensibile neppure il provvedimento di archiviazione, ancora più in difetto di direttive consiliari che contemplino la possibilità di accesso alla prima ed al secondo.
3.2. Soltanto tale conclusione solleva, peraltro, dall’onere di affrontare una questione che altrimenti si porrebbe nel caso di archiviazione adottata «ai sensi dell’art. 3-bis», del d.lgs. n. 109 del 2006, espressamente prevista e consentita dall’art. 16, comma 5-bis, di tale atto normativo.
Le Sezioni Unite, nel 2017, innovando un pregresso orientamento, secondo cui era inammissibile, per carenza d'interesse ad agire, il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza con cui il magistrato sia stato assolto dall'illecito disciplinare per scarsa rilevanza del fatto contestato, ai sensi dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006[30], hanno affermato che l'assoluzione con detta formula non è tale da escludere qualsiasi effetto svantaggioso per il magistrato assolto, con conseguente ammissibilità del ricorso[31]. Secondo le Sezioni unite, «l’applicazione dell'istituto in esame presuppone, quanto meno, indefettibilmente - in sostanziale analogia alla formula penalistica "perchè il fatto non costituisce reato" - l'accertamento che la fattispecie tipica dell'illecito, cioè la materialità del fatto storico tipizzato, si sia realizzata e sia riferibile all'incolpato», circostanza questa «idonea a radicare» l’interesse del magistrato «ad impugnare la sentenza al fine di ottenere una pronuncia, totalmente liberatoria, di esclusione dell'addebito».
Siffatto principio potrebbe far prefigurare un interesse del magistrato a dolersi del decreto di archiviazione adottato ex art. 3-bis, qualora questo fosse acquisibile agli atti del fascicolo personale e dello stesso fosse possibile tenere conto (automaticamente e con efficacia vincolante) ai fini delle valutazioni di professionalità. Tanto perché il provvedimento, sostanzialmente, dà atto dell’esistenza degli elementi costitutivi di un illecito disciplinare, che viene tuttavia escluso (con conseguente carenza dei presupposti dell’esercizio dell’azione) soltanto perché il fatto è stato ritenuto di «scarsa rilevanza». Dunque, quel fatto (pure ritenuto sussistente), benchè di «scarsa rilevanza» ai fini disciplinari, potrebbe rilevare in relazione alle altre valutazioni sopra richiamate. Siffatta valorizzabilità del provvedimento di archiviazione (si ripete, se automatica e vincolante) renderebbe allora necessario interrogarsi in ordine all’eventuale esigenza di identificare possibili rimedi a favore del magistrato, emergendo poi l’ulteriore questione del diritto del magistrato ad essere informato del procedimento predisciplinare (e del suo esito), questioni queste che restano esclude in radice se, come appare preferibile, venga esclusa ogni rilevanza (a fini non disciplinari) del provvedimento e l’ostensibilità dello stesso.
3.3. Il complesso di argomentazioni svolte per negare la fondatezza della pretesa all’accesso da parte dell’esponente privato conserva piena validità anche con riguardo a quella eventualmente avanzata dall’A.N.M. (ovviamente, con riguardo ad un magistrato iscritto all’associazione), che costituisce un’organizzazione rappresentativa della categoria dei magistrati, avente natura privata, il cui statuto regolamenta una procedura disciplinare (v. artt. 9, 10 ed 11) – concernente violazioni differenti da quelle oggetto del d.lgs. n. 109 del 2006 e svolta a fini e con effetti diversi rispetto a quelli della giurisdizione disciplinare – alla quale è attribuito il potere di adottare il «codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata» (art. 54, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Tale potere e la circostanza che all’A.N.M. spetta il controllo sull’osservanza delle regole deontologiche da parte dei propri iscritti sono insufficienti a radicare una pretesa giuridicamente tutelata all’accesso agli atti. Nel vigente sistema dell’illecito disciplinare tipizzato occorre mantenere ferma la distinzione tra professionalità, deontologia giudiziaria e responsabilità disciplinare, che cooperano allo stesso scopo, ma riguardano ambiti diversi e distinti. L’illecito disciplinare è, infatti, esclusivamente quello tipizzato dal legislatore e, ai fini della sua integrazione, le disposizioni del codice etico non hanno neppure il ruolo di supporto interpretativo[32], come affermato, ed efficacemente argomentato, dalle Sezioni unite civili[33].
Peraltro, proprio tale distinzione esclude che la riservatezza che circonda la fase predisciplinare (anche nei confronti dei Consigli giudiziari e dell’A.N.M.) possa risultare pregiudizievole di interessi generali. La circostanza che gli esposti, nella gran parte dei casi, sono indirizzati oltre che al P.G. anche al C.s.m. ed ai capi degli uffici riduce (se pure non elimina) la rilevanza della questione concernente l’opportunità e la possibilità di prevedere, nel caso di archiviazione in sede predisciplinare, un flusso di informazioni verso gli organi di amministrazione della giurisdizione. Nondimeno, occorre che maturi la consapevolezza in ordine al fatto che la conoscenza che l’organo di governo autonomo ed i capi degli uffici, di regola, hanno degli esposti è da sola sufficiente a ad innescare gli strumenti di controllo e di verifica della professionalità nella sede a ciò deputata (che non è quella disciplinare). A questo fine, per la piena efficacia e funzionalità del sistema di valutazione della professionalità - che viene prima del controllo in ambito disciplinare e, ordinariamente, va svolto a prescindere da questo -, occorre che sia tenuta ben presente l’inesistenza di una pregiudizialità, rispetto a questo, della fase predisciplinare, con conseguente possibilità e necessità di un autonomo e distinto esame dei fatti oggetto degli esposti da parte degli organi di amministrazione della giurisdizione, nei rispettivi ambiti di competenza, indipendentemente da detta fase, preordinata a scopi diversi da quelli del controllo di professionalità.
4. L’accesso agli atti del procedimento disciplinare.
La questione in esame è di agevole soluzione con riguardo all’accesso agli atti del procedimento disciplinare. Una volta esercitata l’azione, quanto all’esponente privato, le argomentazioni svolte in relazione alla fase predisciplinare conducono ad escludere che egli abbia diritto di partecipare ed accedere agli atti del relativo procedimento, come peraltro è reso ulteriormente certo dall’art. 15, d.lgs. n. 109 del 2006, il quale stabilisce che deve (e può) essere data notizia dell’esercizio dell’azione esclusivamente all’incolpato, al Ministro della giustizia ed al C.s.m. Peraltro, da ciò consegue la dubbia ostensibilità all’esponente finanche della notizia della definizione con l’archiviazione della fase predisciplinare. Qualora ciò fosse ammissibile si avrebbe che, in caso di informazione anodina (limitata cioè alla vaga e generica notizia che «il procedimento è stato definito»), dalla stessa sarebbe logicamente desumibile l’avvenuto esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato attinto dall’esposto.
Pacifica l’inesistenza del diritto di accesso del privato agli atti del procedimento disciplinare nella fase delle indagini, tale diritto non spetta neanche al magistrato incolpato. Nel vigente ordinamento processuale penale manca, infatti, una regola che stabilisca la conoscenza delle indagini in ogni momento da parte dell’indagato, essendo anzi previsto il c.d. segreto investigativo finché l’indagato non possa averne conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.). Al procedimento disciplinare sono applicabili le norme del c.p.p. «in quanto compatibili» (art. 16, d.lgs. n. 109 del 2006) e queste, indipendentemente dall’esigenza di un’interpretazione restrittiva dei rinvii al codice di rito penale, non risultano riferibili alle fasi dei giudizi disciplinari oggetto della specifica e diversa regolamentazione recata dagli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 109 del 2006. In particolare, la seconda di dette disposizioni stabilisce, al comma 1, il diritto di accesso agli atti soltanto a chiusura delle indagini e dopo la formulazione delle richieste conclusive da parte del Procuratore Generale alla Sezione disciplinare del C.s.m., essendo peraltro inapplicabile l’istituto del deposito degli atti previsto dall’art. 415-bis c.p.c. [34]
* Il testo riflette esclusivamente l’opinione dell’A. e, quindi, non rappresenta in alcun modo la posizione e gli orientamenti dell’Ufficio di appartenenza.
[1] Nel senso dell’obbligatorietà, già prima della riforma, ma secondo una configurazione all’epoca minoritaria, L. Aiello, Luci ed ombre nei XXV anni di consiglio superiore: prassi delle inchieste e funzione disciplinare, in Legalità e giustizia, 1984, 228; V. Correnti, La sezione disciplinare del consiglio superiore della magistratura, in Foro amm., 1986, 2629.
[2] M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, AA.VV., La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010, 376, secondo cui l'archiviazione è stata introdotta «allo scopo soprattutto di affievolire le particolari rigidità di un sistema innovativo in cui è obbligatorio l'esercizio dell'azione disciplinare ed al contempo ridurre l'enorme mole di lavoro che, altrimenti, sarebbe ben presto ricaduta sugli uffici della Procura generale presso la Corte di cassazione e della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura»; analogamente, S. Di Amato, Dalle sezioni unite una non convincente affermazione della ritrattabilità dell'azione disciplinare, Cass. pen., 2012, 67.
[3] E’ oramai pacifica, nonostante una non felice formulazione della disposizione, la possibilità di svolgere le sommarie indagini anche nel caso della presentazione di «denuncia circostanziata».
[4] L. Salvato, L’organizzazione e l’attività del Servizio disciplinare, Atti dell’incontro svolto in Roma il 14/15 marzo 2019, in occasione della presentazione del Bilancio sociale; ID, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati amministrativo, in Cass. pen., 2019, 1, 32.
[5] Nell’intervento del P.G. nell’assemblea generale della Corte di cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2018, è indicato che: nell’anno 2018 sono stati iscritti dalla Procura generale ben 1.637 procedimenti predisciplinari, con sopravvenienza di un numero di notizie di illecito superiore a quello medio di notizie pervenute nel quinquennio 2013–2017 e sensibilmente più elevato rispetto a quelle del 2017 (pari a n. 1.340); nell’anno 2018 sono stati definiti con decreto di archiviazione il 91,2% dei procedimenti. Se si considera che i posti in organico sono, alla data odierna, 9991, di cui 964 vacanti, e che i procedimenti assai di frequente danno luogo a «sommarie indagini preliminari» e, comunque, costituiscono oggetto di preciso esame e valutazione è ragionevole ritenere, non implausibilmente, che in nessun altro ambito è condotta un’opera di controllo così estesa e capillare.
[6] Tra le più recenti, S.U. 7 maggio 2019, n. 11931; 4 settembre 2015, n. 17585.
[7] Peraltro, previsioni relative ad altri ambiti, in cui il procedimento pure è privo di carattere giurisdizionale, recano una disciplina omologa. Il riferimento è a quanto stabilito per il procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati dall’art. 10, comma 4, del Regolamento CNF n. 2 del 2014, concernente anche la fase latu sensu riconducibile a quella che, con riguardo ai magistrati ordinari, è detta predisciplinare.
[8] E’, infatti, in relazione a detta precisa questione che è emerso il contrasto tra S.U. 19 dicembre 2009, n. 26809, e S.U. 5 luglio 2011, n. 14664; su tale contrasto, S. Di Amato, Dalle sezioni unite, cit.; F. Morozzo Della Rocca, Esercizio dell'azione e archiviazione nel procedimento disciplinare a carico di magistrati: una singolare decisione delle sezioni unite, in Giust. civ., 2012, I, 141; L. Salvato, Ambiguità, cit. Non ha invece preso posizione sulla questione S.U. 25 gennaio 2013, n. 1769, poiché, come sottolineato nel § 1.3 della motivazione, con riguardo al caso in cui era stato contestato il ritardo nel deposito di provvedimenti, l’efficacia preclusiva dell’archiviazione è stata negata non tanto perché «la protrazione del ritardo vale a connotare in termini di diversità non solo quantitativa, ma anche qualitativa la condotta addebitata», ma soprattutto in quanto «dal ricorso non emerge in alcun modo che la posizione specifica del ricorrente abbia formato oggetto di valutazione ai fini della adozione di un decreto di archiviazione», risultando «evidente come i detti provvedimenti di archiviazione abbiano ad oggetto indagini svolte in sede predisciplinare sul funzionamento della Sezione Riesame del Tribunale di Catania ma non anche la formulazione di specifici addebiti nei confronti del ricorrente». Dunque, la pronuncia appare scarsamente significativa anche con riguardo alla rilevanza dell’archiviazione nel caso di valutazione di un ritardo protrattosi successivamente alla stessa, posto che l’accento tonico della decisione cade sulla circostanza che la posizione del magistrato non aveva affatto costituito oggetto di esame in sede predisciplinare.
[9] Tanto per la considerazione che: a) in primo luogo, le pronunce rese su detta specifica questione hanno avuto ad oggetto la regolamentazione del procedimento dopo l’esercizio della relativa azione, non la fase predisciplinare e, quindi non sono richiamabili in relazione a quella, diversa, della natura di quest’ultima (alle sentenze richiamate nella nota 6, adde, S.U. 19 agosto 2009, n. 18374); b) in secondo luogo, perché, le pronunce, inteso restrittivamente il rinvio al c.p.p., hanno ritenuto applicabili le norme del codice di rito civile (e ciò sia le sentenze da ultimo richiamate, sia ulteriori pronunce, in particolare, S.U.8 luglio 2009, n. 15969; 19 agosto 2009, n. 18374; 15 gennaio 2013, n. 1771), avendo peraltro ad oggetto l’identificazione dei provvedimenti impugnabili, che sono soltanto quelli resi nella fase propriamente disciplinare, S.U. 8 luglio 2009, n. 15969.
[10] N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 344.
[11] Corte cost., sentenza 22 giugno 1992, n. 289.
[12] Corte cost., sentenza 13 aprile 1995, n. 119.
[13] S.U, 5 luglio 2011, n. 14664, § 8 della motivazione.
[14] TAR Lazio, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 5714 (in Questione giustizia, 2019, con nota critica di S. Messineo, La trasparenza negata. Commento a Tar Lazio n. 5714,/2019), sottolineando che il diritto di accesso di cui agli artt. 22 ss della legge 7 agosto 1990, n. 241, soggiace ai limiti previsti dai regolamenti con i quali le singole amministrazioni individuano le categorie di documenti sottratti all’accesso e, quindi, da quello recato dal d.m. richiamato supra nel testo.
[15] Provvedimento 6.7.2010, citato da G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, in Questione Giustizia, 2010, n. 5
[16] Disciplinato dal d.lgs.14 marzo 2013, n. 33, e, per quanto qui rileva, dall’art. 5 nel testo sostituito dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97; nel senso dell’inapplicabilità dell’istituto, cfr. la richiamata sentenza del TAR Lazio, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 5714.
[17] Recante «Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013».
[18] TAR Lazio, Sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326.
[19] Si riporta di seguito il testo dei cpv richiamati nel testo: «Con riferimento alle possibili sovrapposizioni con l’esercizio dell’attività giudiziaria, occorre chiarire che l’accesso generalizzato riguarda, atti, dati e informazioni che siano riconducibili a un’attività amministrativa, in senso oggettivo e funzionale.
Esulano, pertanto, dall’accesso generalizzato gli atti giudiziari, cioè gli atti processuali o quelli che siano espressione della funzione giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello “ius dicere”, purché intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi. L’accesso e i limiti alla conoscenza degli atti giudiziari, ovvero di tutti gli atti che sono espressione della funzione giurisdizionale, anche se acquisiti in un procedimento amministrativo, sono infatti disciplinati da regole autonome previste dai rispettivi codici di rito. Si consideri, al riguardo, la speciale disciplina del segreto istruttorio, ai sensi dell’art. 329 c.p.p.; il divieto di pubblicazione di atti (art. 114 c.p.p.) e il rilascio di copia di atti del procedimento a chiunque vi abbia interesse, previa autorizzazione del pubblico ministero o del giudice che procede (art. 116 c.p.p.). Per i giudizi civili, ad esempio, l’art. 76 disp. att. c.p.c., che stabilisce che le parti e i loro difensori possono esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio e in quelli delle altre parti e ottenere copia dal cancelliere; pertanto l’accesso è consentito solo alle parti e ai loro difensori. Per le procedure concorsuali la legge fallimentare che riconosce al comitato dei creditori e al fallito il diritto di prendere visione di ogni atto contenuto nel fascicolo, mentre per gli altri creditori e i terzi l’accesso è consentito purché gli stessi abbiano un interesse specifico e attuale, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore (r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 90)».
[20] G. Salvi, L’iniziativa disciplinare, cit., nel § 8.
[21] Cons. Stato, A.P., 18 aprile 2006, n. 6.
[22] L’art. 9, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, dispone: «Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa»; il riferimento al «giudizio» rende certa l’impossibilità di acquisire gli atti della fase predisciplinare, cfr. anche M. Fresa-C. Sgroi, La responsabilità civile del magistrato e i rapporti con la responsabilità disciplinare, Relazione al Seminario C.s.m. su “La nuova responsabilità civile dei magistrati tra giurisdizione e governo autonomo”, Roma 11-12 giugno 2015.
[23] Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1162.
[24] Corte cost., sentenza 27 marzo 2009, n. 87.
[25] Corte cost., sentenza 21 febbraio 2019, n. 20.
[26] Corte cost., sentenza 21 febbraio 2019, n. 20.
[27] L. Salvato, Ambiguità, cit.
[28] S. Di Amato, Dalle Sezioni unite, cit.
[29] F. Morozzo Della Rocca, Esercizio dell’azione, cit.
[30] S.U. 21 giugno 2010, n. 14889.
[31] S.U. 13 dicembre 2017, n. 29914; il principio è stato successivamente ribadito da S.U. 18 gennaio 2019, n. 1416.
[32] Dette disposizioni possono infatti coincidere con le fattispecie di illecito normativamente previste e, in tal caso, sono sostanzialmente ‘assorbite’ dalle stesse; possono invece prevedere (e rendere sanzionabili, ma in ambito esclusivamente associativo) condotte ulteriori, eticamente più impegnative, ma costituiscono allora precetti diversi, che si collocano su un piano distinto e separato rispetto al precetto disciplinare e sono (in quanto tali, tenuto conto della loro natura ed efficacia), inidonei a supportarne finanche l’interpretazione, L. Salvato, Bilancio, cit.
[33] S.U. 24 marzo 2014, n. 6827.
[34] Da ultimo, per tutte, S.U. 10 settembre 2019, n. 22577.
di Filippo Ruggiero
La sentenza 26286 del 17.10.2019 apre un parziale contrasto nella giurisprudenza della Terza Sezione.
Intanto la Prima Sezione, con l’ordinanza n. 26946 del 22.10.2019,richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
Era ottobre del 2018 e la Terza Sezione Civile della Cassazione aveva l’opportunità di mettere qualche punto fermo su una questione interpretativa che, in specie nel contenzioso relativo ai contratti di mutuo,vedeva la giurisprudenza di merito variamente posizionata, è a dire in prima battuta quella sulla soggezione dell’obbligazione per interessi di mora al divieto di cui all’art. 1815, co. 2, c.c. e quindi, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quella sulla portata degli effetti di detta nullità.
Allora, la Terza Sezione Civile, con l’ordinanza n. 27442 del 30.10.2018, affermò in modo netto che gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla l. 7 marzo 1996, n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari.
La pronuncia addiveniva a tale conclusione smentendo le interpretazioni che riconducevano gli interessi moratori entro la categoria della clausola penale, nel rilievo che gli interessi convenzionali, corrispettivi e moratori che siano, hanno comunque la medesima funzione, remunerativa del mancato godimento di un capitale da parte del mutuante, il che giustifica l’assoggettamento di entrambi alla speciale disciplina antiusura, ciò con un’ampia motivazione sulla natura dell’obbligazione per interessi e sul fondamento e la portata del divieto di usura, motivazione che, secondo il collegio, si rendeva necessaria a fronte di una giurisprudenza di merito che sovente trascurava detto principio.
La pronuncia, superato tale step e dopo l’ampia motivazione sul punto, aggiungeva due notazioni finali su aspetti ulteriori, pur esulanti dallo specifico thema decidendum: una prima sul parametro con cui raffrontare il tasso degli interessi di mora in concreto pattuito, ai fini della valutazione di usurarietà (aspetto in relazione al quale il collegio affermava che “il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento”) e una seconda, invero quasi assertiva e che ha perciò lasciato aperti margini interpretativi agli operatori,con riferimento alla portata della nullità.
Su questo secondo aspetto, in particolare, il collegio si limitava infatti ad affermare che “nonostante l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l’applicazione dell'art. 1815, co. 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.
L’affermazione di tale principio ha lasciato aperti spazi interpretativi, potendo apparire incoerente – a fronte della premessa ampia motivazione sulla riconducibilità degli interessi di mora alla speciale disciplina antiusura –la conclusione per cui in caso di interessi moratori usurari non debba trovare applicazione la sanzione della gratuità dell’obbligazione restitutoria dettata ad hoc dall’art. 1815 c.c., tant’è che tra i commentatori si è parlato apertamente di interpretazione abrogante (v. Pascucci, Interessi moratori e usura: interpretazione abrogante dell’art. 1815, co. 2, c.c.in una recente decisione della Suprema Corte, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2019, 1) e si sono quindi continuati a registrare contrasti applicativi nella giurisprudenza di merito, intanto solo in parte sopita anche con riferimento alla questione a monte dell’assoggettamento degli interessi di mora alla disciplina antiusura.
Non è così un caso che, a distanza di un anno, la questione torni prepotentemente al centro dell’attenzione, con due pronunce di legittimità rese a distanza di pochi giorni una dall’altra: una, la sentenza n. 26286 del 17.10.2019, con cui la stessa Terza Sezione ha aperto un parziale contrasto nella sua giurisprudenza, e un’altra, l’ordinanza interlocutoria n. 26946 del 22.10.2019, con cui la Prima Sezione ha intanto rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della questione alle Sezioni Unite.
La decisione della Terza Sezione (interessante anche per la presa di posizione sull’ulteriore questione della validità della clausola di salvaguardia, in relazione alla quale si valorizza la fase esecutiva del contratto, chiamando il mutuante a dare la prova dell’effettiva applicazione della clausola, tale per cui essa non resti mera formula di stile) fa preliminarmente e con merito chiarezza su cosa debba intendersi per cumulo tra interessi corrispettivi e moratori; tiene quindi fermo l’assoggettamento dell’obbligazione di interessi di mora alla disciplina antiusura, per le motivazioni di cui all’ordinanza n. 27442/18, a cui sul punto interamente rimanda, pur muovendo, sul piano sistematico, dalla diversa prospettiva che, nel caso in cui la misura degli interessi di mora sia determinata convenzionalmente tra le parti, come solitamente avviene, riconduce tale convenzione entro l’alveo della clausola penale.
Tanto riaffermato, la pronuncia si pone invece in contrasto con il precedente della stessa sezione per ciò che concerne il parametro di verifica del superamento del tasso soglia. A fronte del problema posto dalla mancata rilevazione da parte della Banca d’Italia del tasso effettivo globale medio praticato con gli interessi di mora, il precedente affermava che, in assenza di specifiche disposizioni, era impossibile pretendere che l’usurarietà non si accertasse avendo come parametro il tasso ordinariamente rilevato ai sensi dell’art. 2 della l. 108/96 ed affermava l’arbitrarietà di altri metodi, che avessero incrementato di qualche punto percentuale il tasso soglia.
La decisione odierna, di contro, riporta in auge l’argomento della rilevazione separata del tasso medio degli interessi di mora, attraverso cui è stata rilevata la famigerata maggiorazione media del 2,1%, affermando (con una interessante motivazione che opera un parallelismo con l’analoga vicenda che ha riguardato la questione della commissione di massimo scoperto, anch’essa non inclusa nella rilevazione dei tassi medi) la bontà del metodo del raffronto tra il tasso degli interessi di mora praticato, solitamente costituito da uno spread di alcuni punti percentuali da aggiungere al tasso corrispettivo, ed il tasso soglia ordinario sommato del valore medio degli interessi di mora e con la maggiorazione prevista dall’art. 2, co. 4, della l. n. 108/96.
Muovendo inoltre dall’affermazione della natura di clausola penale dell’obbligazione per interessi moratori convenzionali, la pronuncia giunge anche alla conclusione della contemporanea concorrenza, quali strumenti di tutela dell’obbligato, della riduzione della penale, che opera prescindendo dal superamento del tasso soglia alla ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 1384 c.c., nonché della nullità ex art. 1815, co. 2, c.c., a fronte del dato oggettivo del superamento del tasso soglia nei termini sopra indicati.
Anche in relazione a questo secondo aspetto, inoltre, il collegio si pone in contrasto con il precedente di un anno fa, laddove era stata affermata l’attribuzione al creditore danneggiato, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di interessi al tasso legale, affermando invece, sembra in modo netto, che se la riduzione ad equità non fa venir meno l’obbligazione di interessi, ma solo la loro riduzione, la nullità determina la totale caducazione degli interessi oltre soglia, secondo un’interpretazione aderente alla lettera dell’art. 1815 c.c., che non distingue il titolo degli interessi, e conforme alla finalità sanzionatoria della legge.
Pressoché contestualmente, la Prima Sezione della Cassazione ha richiesto in materia l’intervento delle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 26946 del 22.10.2019 che, a sua volta, ha posto in discussione il precedente dello scorso anno, per motivazioni in parte analoghe a quelle della sentenza n. 26286/19.
L’ordinanza interlocutoria ritiene infatti necessario rimettere all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite la soluzione di due questioni di massima di particolare importanza: una è quella relativa alle modalità di verifica del carattere usurario degli interessi moratori e se al riguardo sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia determinato in base alla rilevazione del tasso effettivo globale medio ovvero se, tenuto conto della rilevazione separata del relativo tasso medio, sia dato procedere ad una verifica del superamento nel caso concreto e, in ipotesi, con quali modalità. Si tratta, cioè, della questione sulla quale la sentenza n. 26286/19 aveva già fatto registrare il contrasto e l’intervento viene richiesto secondo un ragionamento che può dirsi in buona sostanza analogo a quello di detta sentenza, sia pure di più ampio respiro (ed è dato supporre nell’inconsapevolezza di tale decisione, non citata nella motivazione, atteso lo scarto di pochissimi giorni tra il deposito dei due provvedimenti).
Prima ancora, tuttavia, l’ordinanza interlocutoria richiede l’intervento delle Sezioni Unite anche sulla questione logicamente preordinata, data per assodata nella giurisprudenza della Terza Sezione dove aveva trovato continuità, relativa allo stesso assoggettamento dell’obbligazione per interessi di mora alla disciplina dettata dagli artt. 1815 c.c. e 644 c.p..
Sul punto, l’ordinanza premette che, in passato, nella giurisprudenza di legittimità la questione è stata risolta in senso affermativo sulla base del mero richiamo alla lettera degli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., che solo di recente la questione ha costituito oggetto di un vaglio più approfondito (con l’ordinanza n. 27442/18) e che tuttavia la ragioni in quella sede addotte a sostegno dell’assoggettamento degli interessi di mora alla normativa antiusura prestano il fianco alle molteplici obiezioni già evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito.
L’ordinanza interlocutoria riporta tali obiezioni; lo fa semplicemente muovendo dalla lettera dell’art. 644 c.p., che se da un lato richiede l’inclusione, nella base di calcolo, delle remunerazioni a qualunque titolo collegate all’erogazione del credito, dall’altro riferisce il divieto dell’usura ai soli interessi dati o promessi in corrispettivo di una prestazione di denaro. In ragione di tale ambiguità testuale, in ragione del carattere meramente eventuale della mora e in considerazione che l'estensione alla mora della disciplina antiusura comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla pattuizione di penali una tantum, sottratte all'ambito di operatività della disciplina antiusura seppure abbiano la medesima funzione, dà atto di come da più parti sia stata ritenuta la ragionevolezza della disciplina secondaria che ha escluso gli interessi moratori dalla base di calcolo dei tassi medi (con una rilevazione del relativo tasso operata a meri fini ricognitivi) e pone a forte vaglio critico le motivazioni della sentenza dello scorso anno, che, sebbene dichiaratamente offerte in ragione del fermento della giurisprudenza di merito, non hanno fornito, ad avviso del collegio rimettente, una risposta appagante a tali obiezioni.
In presenza di un quadro normativo particolarmente frammentato, la giurisprudenza di prossimità ha avuto il merito, insieme alla dottrina, di proporre un’ampia varietà di soluzioni praticabili e, a prescindere dalla soluzione che sarà infine percorsa, le sollecitazioni del merito, ci dice l’ordinanza interlocutoria, esigono una risposta.
di Andrea Apollonio
La sentenza della Corte di Cassazione che mette la parola (quasi) "fine" alla nota inchiesta denominata "Mafia Capitale", condotta dalla Procura di Roma con clamorosi arresti nel dicembre 2014, ha suscitato molto clamore sui giornali. Le tonalità dei commenti sono state diverse, alcune particolarmente forti. Mario Ajello su Il Messaggero, per esempio, ha parlato di "danno planetario" e di "Roma diffamata". Un giudizio, per la verità, non consono ad una sentenza pronunciata da giudici di legittimità, inevitabilmente parametrata sul diritto e non sul fatto - fatti che, peraltro, appaiono oggi definitivamente accertati; fatti che, per di più, sono di tale gravità da far dire che il "danno planetario" è stato arrecato dai corruttori, e non certo da chi quei corruttori ha arrestato, ritenendo avessero utilizzato, nei loro affari, il metodo mafioso. Perché questo l'esito: il "mondo di mezzo" era corruzione, e non mafia. O meglio, il “mondo di mezzo” era un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà", come ha dichiarato al Corriere della Sera Michele Prestipino.
Intanto, proprio su questo giornale, Giovanni Bianconi ha rassegnato forse il commento più lucido: pur parlando di "sconfitta della Procura" (e su questo, torneremo), ha fatto notare che "non a caso i giudici che hanno visto e ascoltato i testimoni in primo grado (compresi quelli che hanno raccontato intimidazioni e minacce) hanno negato la mafia, mentre quelli d'appello che hanno rovesciato il primo verdetto hanno solo letto le carte". Un dato processuale a cui pochi hanno pensato, eppure rilevantissimo: è da qui che occorre partire per svolgere un ragionamento: un modesto commento al dispositivo (ancora privo di motivazioni) che ha contraddetto tanto la sentenza d'appello, tanto la stessa Cassazione, che nel 2015 si era pronunciata de libertate sull'astratta sussistenza della fattispecie di cui all'art. 416-bis cp. Nel mezzo, il giudizio di primo grado: così tracciato l'iter, già si ha un'idea della complessità della questione.
Perché, quindi, il "mondo di mezzo", non era mafia?
Una premessa è più che doverosa. È noto come il paradigma giuridico di mafia si sia gradualmente disancorato da quello socio-criminologico da cui deriva. Una separazione consensuale tra le due branche delle scienze sociali di cui si è dovuto ben presto prendere atto anche nelle aree a più alta densità mafiosa del Paese: una separazione operata dall’esegesi giurisprudenziale, forse inevitabile, ma che, ad ogni modo, sconfessa l’originaria intentio legis dei compilatori del 1982, che hanno volutamente poggiato buona parte della struttura del delitto su di un terreno sociologico anziché sul piano tecnico-giuridico. L'art. 416-bis - "L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva per commettere delitti" - è chiaramente intessuto da elementi eterogenei di natura extra-penale, la cui compatibilità occorre gestire con un principio di stretta legalità.
Risalendo via via la questione, quali sono i meccanismi fondativi di questo potere esercitato dall’associazione mafiosa? Le note modali dell’agere di una tale associazione si condensano nell’omertà e nell’assoggettamento che derivano dal vincolo associativo: si tratta di una forza intimidatrice scaturente dalla stessa compagine, capace di produrre ex se una condizione di assoggettamento e di omertà all’interno della collettività in cui si opera. Soltanto questi caratteri - gli stessi che, elaborati in campo sociologico, sono prima stati recepiti dalla giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sull’applicazione delle misure di prevenzione e poi trasfusi dal legislatore del 1982 nell’art. 416-bis - riescono a differenziare un apparato di potere lecito (se articola le proprie attività nella piena legalità, ad esempio mediante i meccanismi della rappresentanza democratica) o criminale (se invece realizza i propri fini mediante la perpetrazione di reati) dal potere mafioso. Intimidazione, assoggettamento e omertà sono cifre in uno distintive e caratterizzanti, proprio e soltanto di quest’ultimo: sul piano sociologico, ma anche su quello giuridico, dal momento che, come prescrive l’art. 416-bis, di tale forza intimidatrice ci si deve "avvalere" per il perseguimento delle finalità alternativamente indicate dal reato.
E qui subentra il dato processuale intelligentemente richiamato da Bianconi: i giudici di primo grado hanno apprezzato, tramite l'escussione diretta dei testimoni e delle persone offese, che il vincolo associativo della banda capeggiata da Carminati e soci non generava una forza di intimidazione tale da creare una condizione di assoggettamento e di omertà, tramite cui perpetrare le proprie condotte delittuose (in particolare, i delitti di corruzione); oppure, se la generava, non è stata sfruttata: questa forza di intimidazione non era concretamente percepita da chi, col gruppo criminale, aveva a che fare.
Un dato che non sorprende, perché questa "mafia", all’interno di una realtà politica, economica e sociale fluida e complessa come quella della capitale, "tende a preferire il ricorso al metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete forme di manifestazione" (così scriveva la Cassazione nel 2015). In altre parole, e quasi banalizzando, preferisce la mazzetta all'intimidazione (quella stessa, si badi bene, indicata all'art. 416-bis).
Il problema però è tutto in punto di configurazione del reato, perché tertium non datur: o i concorrenti non riescono ad esplicare le proprie attività d’impresa perché intimoriti dalla sola presenza del gruppo mafioso nel corso delle procedure d’evidenza pubblica, oppure tali attori economici, "semplicemente", non arrivano a conseguire le stesse possibilità imprenditoriali delle società del gruppo “mafioso” in ragione della corruzione dei funzionari pubblici. E, del resto, è nota l’evidenza empirica per la quale i fenomeni di corruzione contengono un disvalore ampio, che si proietta tanto sul corretto andamento della p.a. quanto – laddove il fatto corruttivo involga anche legittime pretese di terzi – nell’alterazione delle regole e del giogo della concorrenza. Un’evidenza che, peraltro, rende difficile se non impossibile capire se il dato della esclusione da appalti e concessioni di altri attori economici trovi la sua scaturigine in una carica intimidatrice autonoma del sodalizio, tale da sprigionare condizioni di assoggettamento ed omertà, oppure nella obiettiva impossibilità di ottenere tali appalti e concessioni, dal momento che le gare risultano essere pilotate già in partenza.
Probabilmente - ma a questo punto del discorso occorrerebbe leggere le motivazioni della sentenza, ancora in nuce - è stata questa sostanziale impossibilità di valutare, e comprendere perché Carminati e compagni ottenessero tanti e tali benefici - se per il denaro elargito, se per rapporti di amicizia e di cointeressenza consolidati, se per un'intimidazione che il suo gruppo promanava - a frenare la Cassazione, un attimo prima l'enucleazione di un nuovo paradigma giuridico: quello mafioso, slegato dal carattere dell'intimidazione, agganciato piuttosto al modus corruttivo.
Per intenderci, i giudici di legittimità negli ultimi anni già avevano compiuto una parabola evolutiva non da poco, elaborando, con annessa applicazione dell'art. 416-bis, le "piccole mafie" (gruppi composti da poche persone), le "mafie silenti" (gruppi non ancora o non più operativi), ma sopratutto "mafie" intimidatrici in potenza e non in atto, consorterie cioè che presentano una carica di intimidazione soltanto astratta, non (ancora) percepita all'esterno. Abbiamo così definitivamente accantonato l'idea che la mafia sia soltanto al Sud, utilizzi la lupara ed eserciti un controllo asfissiante del territorio. Tutto questo è, ormai, archeologia giuridica; rimaneva la sentenza su "Mafia capitale".
Che era attesa dai giuristi un po' come si attende l'ultima puntata di una serie, per capire come va a finire. E tutti o quasi, prima ancora dell'altro giorno, erano arrivati alle stesse conclusioni: ribattezzare il "mondo di mezzo" come "Mafia capitale", in via definitiva, significherebbe svuotare di sigificato, in via definitiva, l'art. 416-bis. Senza più l'utilizzo o il richiamo del concetto di intimidazione (neppure in astratto), si sarebbe determinato lo stacco irreversibile del paradigma giuridico dal contesto socio-criminologico da cui è inizialmente derivato.
In questo senso, è andata bene così. Perché mettere nelle mani dei magistrati inquirenti prima e giudicanti poi un paradigma di mafia soltanto "giuridica" (e ancora, torna quanto evidenziava Bianconi, il quale paventa l'idea che in appello, dove si leggono soltanto le carte, sia stata compiuta un'operazione "da laboratorio"), quindi facilmente interpolabile, avrebbe generato pericolose distorsioni di sistema; per non parlare degli squilibri sanzionatori (leggi: pene incalcolabili) che l'applicazione dell' art. 416 bis importa.
E neppure l'avrebbero voluto gli stessi teorizzatori di questo paradigma, ideato per il caso concreto, per un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà"; i quali, però, sono tutt'altro che "sconfitti", perché la parabola della Cassazione sopra descritta ha subito un'impressionante accelerazione proprio negli ultimi anni, con l'attenzione costante a quanto accadeva nelle aule d'udienza romane. La Procura capitolina si era spinta molto oltre con l'elaborazione esegetica dell'associazione mafiosa, ha segnato il passo; e più di un giudice, anche se non l'ultimo, le ha dato ragione: questo, assieme al dibattito pubblico (tra giuristi e non) che ha generato, ha concesso alla Cassazione - i cui magistrati non sono certo indifferenti ai dibattiti in atto; tutt'altro - margini di manovra di cui mai, prima d'ora, aveva goduto. Da qui, e dalle sue pronunce evolutive, è passata l'aggressione efficace ai nuovi gruppi mafiosi, non tradizionali - perché, parliamoci chiaro: le mafie, per come le abbiamo conosciute, non esistono più. Altro che sconfitta.
di Franco Caroleo
Sommario: 1. Prologo. - 2. L’onorario del consulente tecnico fino all’1 ottobre 2019: l’insostenibile leggerezza della prenotazione a debito. - 3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019: la luce in fondo al patrocinio (a spese dello Stato). - 4. La liquidazione dell’onorario dopo la sentenza della Consulta: addio, prenotazione bella. - 5. Conclusioni.
1. Prologo.
Il 1° ottobre 2019, a pochi giorni dall’inizio delle celebrazioni dell’ottobrata romana nel vicino rione Monti, la Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza n. 217 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 «nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai soggetti ivi indicati siano «prenotati a debito, a domanda», «se non è possibile la ripetizione», anziché direttamente anticipati dall’erario».
La pronuncia, facile a prevedersi, regalerà plurimi sussulti di giubilo ai consulenti tecnici di parte e d’ufficio (nonché agli altri ausiliari dei magistrati) che, fino ad oggi, nelle cause coinvolgenti una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, rischiavano di svolgere il loro incarico senza ottenere alcun effettivo compenso (salvi i rarissimi i casi in cui la prenotazione a debito portava ad esiti fruttuosi).
La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019 si presenta fortemente innovativa, tenuto peraltro conto che in passato la stessa Consulta aveva negato rilevanza costituzionale alla questione sull’incerta conseguibilità dell’onorario da parte dell’ausiliare del giudice.
La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 impone, dunque, di svolgere alcune considerazioni sul recente approdo della Corte Costituzionale e sugli effetti da questo scaturenti.
2. L’onorario del consulente tecnico fino all’1 ottobre 2019: l’insostenibile leggerezza della prenotazione a debito.
Ai sensi del previgente art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e agli ausiliari del magistrato potevano essere prenotati a debito, su domanda dell’interessato, “se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione”.
Secondo la relazione al testo unico, gli onorari in questione dovevano essere prenotati a debito e riscossi con le spese solo dopo la “vana escussione del condannato non ammesso, e dell’ammesso in caso di revoca dell’ammissione, cui è equiparata la vittoria della causa”.
Tuttavia, come già rilevato da molti[1], il comma terzo in commento non richiedeva la necessità di attivare specifiche procedure esecutive, ma si limitava a subordinare la prenotazione a debito all’impossibilità della ripetizione (pur non chiarendo cosa dovesse intendersi in concreto).
Pertanto, considerato che in tutti i casi in cui il legislatore del d.P.R. n. 115/2002 ha voluto condizionare il pagamento all’esperimento di una particolare procedura lo ha espressamente previsto (si veda, ad esempio, l’art. 116 che dispone la liquidazione dell’onorario e delle spese spettanti al difensore di ufficio “quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali”), si era portati a riconoscere portata estensiva alla norma, ammettendo la prenotazione a debito anche in presenza di un semplice invito bonario ad adempiere (mediante raccomandata a/r) o dell’esperimento infruttuoso di parte della procedura esecutiva (atto esecutivo e contestuale precetto non seguiti da adempimento), senza dover attendere l’esito negativo del pignoramento.
Questa interpretazione più largheggiante non ha però inciso (nemmeno tangenzialmente) sul vero nodo che avviluppava il sistema della prenotazione a debito per come congegnato dall’art. 131, comma 3.
La liquidazione, infatti, restava meramente eventuale, essendo normativamente condizionata all’effettivo recupero della somma prenotata a debito da parte dell’ufficio giudiziario.
Del resto, l’art. 3, lett. s), d.P.R. n. 115/2002 definisce “prenotazione a debito” l’annotazione “a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero”.
Ciò rendeva decisamente elevato il rischio di sostanziale gratuità della prestazione del professionista, specie nelle ipotesi di condanna alle spese processuali della parte ammessa al patrocinio.
Eppure la Corte Costituzionale, in più occasioni, ha respinto i dubbi di costituzionalità periodicamente serpeggianti tra la giurisprudenza di merito (cfr. sentenza n. 287/2008: «Il rimettente muove dal presupposto interpretativo secondo cui, nei casi di ammissione di una parte al patrocinio a spese dello Stato, la disposizione censurata può comportare, in materia civile, che l’ausiliario del magistrato svolga la sua opera gratuitamente. Al contrario, tale disposizione disciplina il procedimento di liquidazione degli onorari dell’ausiliario medesimo, predisponendo il rimedio residuale della prenotazione a debito, a domanda, proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venga pregiudicato dalla impossibile ripetizione dalle parti del giudizio»; posizione successivamente ribadita nelle ord. nn. 408/2008, 195/2009, 203/2010, 12/2013).
Così, però, i giudici costituzionali non hanno fatto altro che ancorarsi al dato formale della prenotazione a debito, trascurando che, nelle frequentissime ipotesi di mancato recupero delle spese ex art. 134 d.P.R. n. 115/2002, il consulente non avrebbe mai conseguito alcun compenso.
Senza contare che nella relazione illustrativa dello schema del testo unico sulle spese di giustizia si era segnalato che, pur essendosi provveduto ad aggiornare le voci di spesa secondo la ricostruzione fatta nel testo unico, “… l’ipotesi della prenotazione a debito successivamente all’infruttuosa escussione da parte del professionista, appare un’ipotesi di scuola piuttosto che una concreta possibilità, ma in tal senso è la norma originaria”.
Quindi, già la relazione illustrativa del d.P.R. n. 115/2002 (che, come noto, mirava esclusivamente a riunire e coordinare le norme sulle spese del procedimento giurisdizionale, senza operare interventi modificativi) aveva evidenziato l’inconcludenza fattuale della regola della prenotazione a debito (ridicolizzata concettualmente a mera “ipotesi di scuola”).
Ciò nonostante, la Corte Costituzionale fino al 2019 ha preferito un’opzione ermeneutica letteralmente ineccepibile ma sostanzialmente impraticabile.
Quanto detto, è bene precisarlo, valeva con riferimento all’onorario del consulente tecnico di parte e dell’ausiliare del magistrato.
Con riferimento alle “spese sostenute per l’adempimento dell’incarico” (le cd. spese vive), invece, l’art. 131, co. 4, lett. c), già prevedeva (e prevede tuttora) l’anticipazione a carico dell’erario. Di tali spese, dunque, il consulente ha sempre potuto ottenere la corresponsione direttamente dallo Stato.
3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019: la luce in fondo al patrocinio (a spese dello Stato).
Con la sentenza n. 217/2019 la Corte Costituzionale compie una notevole virata prospettica (sì, per blandire i francesisti pettinati, parliamo pure di revirement).
La pronuncia trae origine da una rimessione operata dal Tribunale ordinario di Roma nell’ambito di un procedimento promosso ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. per l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione di una lite, in presenza di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
Nella specie, era emerso che gli onorari dovuti ai c.t.u. nominati non potevano essere corrisposti perché anche la parte (coniuge dell’ammesso al patrocinio) a carico della quale erano stati posti gli oneri della consulenza non era in grado di ottemperarvi e che, dovendosi applicare l’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, non si sarebbe garantito agli ausiliari un compenso per la prestazione svolta.
Il caso, a ben vedere, è molto simile a quelli già esaminati dalla Corte Costituzionale e sui quali era freddamente calata la mannaia della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Questa volta, però, i giudici della Consulta resistono al canto delle sirene del formalismo e sposano un approccio eminentemente pratico.
Mentre in precedenza[2] si sosteneva che il rimedio residuale della prenotazione a debito era stato predisposto proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venisse pregiudicato dall’impossibile ripetizione dalle parti, nella decisione in commento si riconosce (finalmente) che il sistema risultante dal comma 3 dell’art. 131 si rivela piuttosto etereo, perché nei fatti impedisce al consulente tecnico di vedersi pagato il proprio onorario (così testualmente: «la suddetta opzione ermeneutica adottata da questa Corte non ha potuto trovare seguito nella prassi, rendendo impossibile – con riguardo a fattispecie come quella in esame – la liquidazione degli onorari e delle altre competenze contemplate nell’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002»).
Da qui, dice la Corte Costituzionale, emerge un grave vulnus sotto il profilo della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
La nuova argomentazione proposta è semplice: se la finalità dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato è quella di assicurare la tutela dell’indigente con carico all’erario delle spese inerenti le attività di assistenza (tra cui rientra certamente l’incarico tecnico affidato al consulente d’ufficio e di parte[3]), non si può ammettere una disposizione che, in ultima analisi, comporta la gratuità della prestazione del consulente tecnico.
Con il «tramonto della logica del gratuito patrocinio», non ci possono essere deroghe ispirate a questa superata logica; e le deroghe non possono nemmeno celarsi dietro lo stratagemma di un’annotazione “a futura memoria”.
In tal senso, il meccanismo procedimentale di cui al comma 3 dell’art. 131, che riconnette l’onere della previa intimazione di pagamento all’eventuale successiva prenotazione a debito del relativo importo, «impedisce il rispetto della coerenza interna del nuovo sistema normativo incentrato sulla regola dell’assunzione, a carico dello Stato, degli oneri afferenti al patrocinio del non abbiente»[4].
E, allora, come superare l’irragionevole ostacolo della prenotazione a debito? Per i giudici costituzionali, non si può far altro che trasformare l’onorario del consulente tecnico in una spesa anticipata.
Solo con l’anticipazione del compenso da parte dell’erario, infatti, si ristabilisce l’equilibrio economico voluto dal legislatore e si ripristina la grammatica fondante la disciplina del patrocinio a spese (non ad eventuale recupero) dello Stato.
La Corte Costituzionale, quindi, sancisce la metamorfosi organica della voce di spesa e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 «nella parte» in cui prevede che gli onorari siano prenotati a debito, previa intimazione di pagamento, «anziché direttamente anticipati dall’erario».
4. La liquidazione dell’onorario dopo la sentenza della Consulta: addio, prenotazione bella.
Da un punto di vista sistematico, la Corte Costituzionale finisce con l’applicare al processo civile[5] la stessa disciplina già prevista per il processo penale all’art. 107, co. 3, lett d (“Sono spese anticipate dall’erario: […] d) le indennità e le spese di viaggio per trasferte, nonché le spese sostenute per l’adempimento dell'incarico, e l’onorario ad ausiliari del magistrato, a consulenti tecnici di parte e a investigatori privati autorizzati”)[6].
Peraltro, la ricaduta normativa della pronuncia del 2019 è quella di svuotare di contenuto il precetto del comma 3 dell’art. 131, dacché la dichiarata mutazione attrae l’onorario del consulente tecnico di parte e dell’ausiliare del magistrato nella sfera regolamentare del successivo comma 4, dedicato appunto alle spese anticipate dall’erario (quasi una fagocitazione a freddo).
Ma l’effetto pratico più evidente è che, a seguito della sentenza n. 217/2019, i consulenti tecnici di parte e gli ausiliari del magistrato vantano una pretesa anticipatoria direttamente nei confronti dello Stato.
Ciò comporta una rivisitazione del sistema che fino ad ora aveva governato i compensi dei menzionati professionisti (nell’ambito di un processo in cui una o più parti sono ammesse al patrocinio), almeno sotto sei profili che si vanno a tratteggiare qui di seguito.
a) L’intimazione di pagamento
Tra i primi commentatori della sentenza n. 217/2019, qualcuno[7] ha paventato il dubbio che la declaratoria di incostituzionalità non abbia travolto anche l’onere della previa intimazione di pagamento. Sicché, dovrebbe aversi l’anticipazione solo una volta che il professionista abbia esperito infruttuosamente il recupero nei confronti della parte.
A parere di chi scrive, la Corte Costituzionale ha inteso censurare, oltre che la prenotazione a debito, anche il meccanismo della previa intimazione. E tanto sembra potersi ricavare proprio da alcuni passaggi della pronuncia in cui:
- [par. 6 in diritto] si denuncia il vizio di ragionevolezza dell’art. 131, co. 3, «proprio perché, in luogo dell’anticipazione da parte dell’erario, prevede, a carico dei soggetti che hanno prestato l’attività di assistenza, l’onere della previa intimazione di pagamento e l’eventuale successiva prenotazione a debito del relativo importo» (l’onere intimativo è dunque esplicitamente enumerato tra le incongruenze del sistema congegnato dalla norma discussa);
- [par. 6 in diritto] si stigmatizza la lesione costituzionale della norma poiché in essa si dispone che gli onorari e le indennità «siano previamente oggetto di intimazione di pagamento e successivamente eventualmente prenotati a debito» (anche qui la condanna è rivolta non solo alla prenotazione a debito, ma anche alla sua combinazione con l’onere di preventiva intimazione);
- [dispositivo] si decreta l’illegittimità costituzionale della disposizione «nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai soggetti ivi indicati siano «prenotati a debito, a domanda», «se non è possibile la ripetizione», anziché direttamente anticipati dall’erario» (se davvero i giudici costituzionali avessero voluto conservare l’onere di previa intimazione, non avrebbero sanzionato anche il secondo inciso riferito all’impossibilità della ripetizione).
Seguendo questa linea esegetica, deve escludersi che il consulente tecnico di parte e l’ausiliare del magistrato, per ottenere l’anticipazione del proprio onorario a carico dell’erario, debbano prima invitare la parte ad adempiere.
b) La liquidazione dell’onorario del c.t.p.
Nella prassi dei tribunali era raro imbattersi in istanze di liquidazione dell’onorario dei consulenti della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
La ragione è intuibile: il previgente meccanismo della prenotazione a debito scoraggiava moltissimi periti ad intraprendere la farraginosa via indicata dal comma 3 dell’art. 131 che, come si è detto, conduceva quasi sempre ad esiti infruttuosi.
Ora che le cose cambiano, è ragionevole attendersi un incremento di queste istanze di liquidazione.
A tal riguardo, è opportuno segnalare che, laddove il consulente dell’ammesso al beneficio si limitasse a redigere la perizia di parte e, nel corso del giudizio, non fosse disposta c.t.u. o, se disposta, non venisse nominato c.t.p., lo stesso ben potrebbe pretendere la liquidazione del proprio onorario fin dall’introduzione del giudizio.
Come è noto, infatti, ai sensi dell’art. 83, co. 2, d.P.R. n. 115/2002, la liquidazione delle spese del consulente tecnico di parte è effettuata dal giudice “al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico”. Tale norma consente quindi al giudice di liquidare fin dall’atto della cessazione dell’incarico[8].
Dunque, poiché l’incarico del consulente titolare della sola perizia di parte (da prodursi in atti) può dirsi cessato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa, già da questo momento sorgerà il suo diritto di esigere la liquidazione dell’onorario.
c) Il termine per la presentazione dell’istanza di liquidazione
La nuova natura di spesa anticipata dell’onorario del consulente tecnico di parte e degli ausiliari del magistrato sollecita una riflessione sul termine di presentazione della domanda di liquidazione.
In realtà, non sembrano porsi particolari questioni con riferimento al consulente tecnico d’ufficio (nonché agli altri ausiliari del magistrato), atteso che l’art. 71, co. 2, d.P.R. n. 115/2002 prevede espressamente il termine decadenziale di cento giorni dall’espletamento dell’incarico.
La norma, come è noto, è collocata nella Parte II del testo unico in materia di spese di giustizia e, perciò, non sembra poter risentire di eventuali modifiche involgenti la disciplina del patrocinio a spese dello Stato (contenuta, invece, nella Parte III del testo unico).
Più complicata si presenta la posizione del consulente tecnico di parte, tenuto conto che per la liquidazione del suo compenso non è contemplata una disposizione simile al descritto art. 71.
Orbene, considerato che le ipotesi di decadenza (specie con riferimento a situazioni giuridiche soggettive connesse a diritti fondamentali) devono essere tipiche ed espresse, deve escludersi che l’istanza di liquidazione del c.t.p. soggiaccia ad un termine decadenziale.
Ci si chiede, però, se debba comunque individuarsi un termine ultimo di presentazione dell’istanza prima dell’emissione del provvedimento che definisce il giudizio di merito. E ciò al pari di quanto avviene in relazione alla liquidazione dell’onorario del consulente tecnico d’ufficio (poiché, chiuso il giudizio e regolato con sentenza l’onere delle spese processuali, il giudice si spoglia della potestas decidendi e non ha più il potere di provvedere alla liquidazione[9]).
Al riguardo, si è propensi a negare validità ad un’applicazione analogica della disciplina concernente l’onorario del consulente tecnico d’ufficio, essendo la figura del consulente tecnico di parte più vicina a quella del difensore, atteso che:
- al c.t.p. è riconosciuto il potere (art. 201 c.p.c.) di intervenire e assistere la parte durante lo svolgimento delle indagini peritali, presentare istanze ed osservazioni al c.t.u., prospettare l’adozione di differenti parametri di giudizio oppure sollecitare l’assunzione di ulteriori elementi di valutazione o accertamenti fattuali e partecipare all’udienza ed alla discussione in camera di consiglio ogni qual volta vi intervenga il c.t.u. ed interloquire, su autorizzazione del presidente, per chiarire e svolgere le sue considerazioni sui risultati delle indagini (art. 197 c.p.c.);
- l’istituto del c.t.p. può quindi essere considerato come strumento essenziale ed indefettibile per la compiuta realizzazione del diritto di difesa (inteso anche come assistenza tecnico-professionale) e per la piena osservanza del principio del contraddittorio;
- la liquidazione del compenso del c.t.u. attiene in ultima analisi alla regolamentazione degli oneri processuali tra le parti in giudizio, le quali devono farsi carico delle spese per gli importi riconosciuti al c.t.u. (“in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di CTU e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell’onere delle spese”: cfr. Cass. nn. 6199/1996; 22962/2004; 23586/2008; 25179/2013); al contrario, la liquidazione dell’onorario del c.t.p., per come conformata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019, non ha alcuna incidenza rispetto al governo delle spese di lite, in quanto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato determinerebbe l’insorgenza di un rapporto che si instaura direttamente tra il consulente e lo Stato, di tal che le parti rimangono totalmente estranee agli esborsi che dovranno essere corrisposti al perito (sul punto, tornano molto utili le conclusioni rassegnate dalla recente Cass. n. 22448/2019, confermative di un orientamento sorto tra la giurisprudenza di merito con riferimento alla liquidazione del compenso del difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato).
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che il c.t.p. (esattamente come il difensore patrocinante) possa presentare l’istanza di liquidazione anche dopo che sia stato pronunciato il provvedimento che definisce la fase giudiziale di riferimento.
d) L’acconto concedibile al c.t.u.
La collocazione dell’onorario del c.t.u. tra le spese anticipate ha certamente un riflesso sul regime del provvedimento (ordinatorio discrezionale e provvisorio) con cui il giudice all’udienza di giuramento del c.t.u. ex art. 193 c.p.c. accorda all’ausiliare un acconto.
Ed invero, fino alla pronuncia della Corte Costituzionale in discussione, anche nei procedimenti con ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’acconto doveva essere comunque posto a carico di una parte (o di entrambe, a seconda dei casi), trattandosi di esborso che, al più, poteva essere successivamente prenotato a debito.
Adesso che invece si è riconosciuta l’anticipazione dell’erario anche con riferimento al compenso del c.t.u., il giudice non dovrà più addebitare l’acconto ad una delle parti, potendosi limitare a dare atto della prevista anticipazione. Quindi, il cancelliere procederà ad annotare il relativo importo nel foglio notizie tra le spese anticipate.
e) Il decreto di liquidazione del compenso del c.t.u.
Alla stregua del provvedimento che concede l’acconto al c.t.u., nel decreto di liquidazione dell’onorario del c.t.u. non dovrà più disporsi alcun addebito (provvisorio) a carico delle parti, essendo il compenso annoverabile come spesa anticipata.
Di base, il provvedimento di liquidazione dell’onorario presenterà i medesimi contenuti di quello per liquidazione delle spese cd. vive (“sostenute per l’adempimento dell’incarico”), per le quali l’art. 131, co. 4, lett. c), già prevede l’anticipazione a carico dell’erario.
Potrebbe però discutersi se debba destinarsi all’anticipazione statale l’intero compenso spettante al c.t.u. (all’esito della dimidiazione ex art. 130 d.P.R. n. 115/2002) o solo la quota astrattamente riferibile alla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (seguendo questa seconda prospettazione, ad esempio: in un procedimento tra due parti di cui una sola ammessa al beneficio, il 50% del compenso già dimidiato andrebbe anticipato, mentre il restante 50% rimarrebbe a carico della parte non ammessa).
A sciogliere questa perplessità soccorre proprio la pronuncia della Corte Costituzionale del 2019 nella parte in cui sancisce l’anticipazione dell’onorario globalmente inteso: sono «gli onorari e le indennità dovuti» agli ausiliari del magistrato che devono essere «direttamente anticipati dall’erario», non solo una parte di essi; nessuna scomposizione di sorta sembra ammessa.
f) Il dispositivo della sentenza
L’ingresso dell’onorario del c.t.u. nella categoria delle spese anticipate suggerisce un ripensamento anche in ordine alla formulazione del dispositivo della sentenza.
Eliminata la necessità di individuare in via definitiva il soggetto su cui far gravare le spese di c.t.u. (come già chiarito in relazione all’acconto e al decreto di liquidazione), il dispositivo deve tenerne conto e, peraltro, muta a seconda della situazione della parte risultata soccombente. In tal senso:
- se a soccombere è la parte non ammessa al patrocinio, la regolamentazione degli esborsi processuali potrà esaurirsi nella pedissequa osservanza del disposto dell’art. 133 d.P.R. n. 115/2002, con la condanna al pagamento, in favore dello Stato, di tutte le spese processuali anticipate e prenotate a debito; sicché, potrebbe essere superfluo aggiungere un ulteriore capo di condanna dedicato alle spese di c.t.u., dacché le stesse sono ora ricomprese tra le spese anticipate;
- se a soccombere è la parte ammessa al patrocinio, la stessa, fermo il suo obbligo alla rifusione del compenso del difensore della controparte e di tutti gli esborsi processuali da questa sostenuti (ad esempio, se controparte-attrice: contributo unificato, spese di notifica etc.), non potrà vedersi condannata in sentenza al pagamento delle spese liquidate al c.t.u.; infatti, trattandosi di importi divenuti anticipabili dall’erario (con il c.t.u. che trova così già soddisfatte le sue pretese creditorie), al pari di quelli riconosciuti al difensore patrocinante (ex art. 131, co. 4, lett. a), potranno al più essere successivamente recuperati dallo Stato al ricorrere delle condizioni fissate all’art. 134 d.P.R. n. 115/2002[10]; dunque, come accade per tutte le spese processuali anticipate e prenotate a debito[11], nulla potrà essere giudizialmente imputato alla parte ammessa a titolo di onorari e spese vive del c.t.u.
5. Conclusioni.
L’innovatività della sentenza n. 217/2019 della Corte Costituzionale è indiscutibile.
Partendo dalla necessità di rispettare compiutamente la finalità propria del patrocinio a spese dello Stato, la Corte ha rilevato l’intrinseca incoerenza di un meccanismo, quale quello della prenotazione a debito, che consentiva che le prestazioni rese dai consulenti tecnici di parte e dagli ausiliari del magistrato potessero rimanere gratuite.
La soluzione adottata è stata quella di trasformare l’onorario di questi professionisti in una spesa anticipata dall’erario, elidendo pure l’onere della previa intimazione di pagamento.
Quanto alle ricadute di questa pronuncia di incostituzionalità, se ne sono potute ipotizzare alcune, confidando che la futura prassi potrà meglio far luce sulle implicazioni concrete.
Di certo, già si possono ritenere raggiunti due risultati non da poco.
Per prima cosa, si è superato un serio paradosso (non meno astruso delle zenoniane tartarughe irraggiungibili[12]) della Parte III del d.P.R. n. 115/2002 che, pur essendo rivolta al patrocinio a spese dello Stato, lasciava schiere di consulenti tecnici senza remunerazione alcuna.
Il secondo risultato, meno esplicito ma non meno significativo, è quello di aver ridato centralità alla differenza strutturale tra gratuito patrocinio e patrocinio a spese dello Stato che, proprio con riferimento alla materia dell’onorario del consulente tecnico, la Corte Costituzionale in passato aveva pericolosamente sottovalutato.
Peraltro, la sentenza n. 217, con un garbo tutt’altro che snobistico, sembra ammonire chi ancora oggi si ostina a parlare di gratuito patrocinio anziché di patrocinio a spese dello Stato. Scambiare i nomi dei due istituti non è un capriccio da pigrizia intellettuale, ma è sintomo di sciatta confusione ordinamentale.
NOTE
[1] Financo dalla Direzione Generale della Giustizia Civile - Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della Giustizia cfr. nota prot. n. 9539 del 24.1.2006 Rif. n. QUES. 633/04.
[2] Corte Cost. sent. n. 287/2008, ord. nn. 408/2008, 195/2009.
[3] Su questa linea, Corte Cost. n. 149/1983 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, nella parte in cui non prevedeva che il beneficio del gratuito patrocinio si estendesse alla facoltà per le parti di farsi assistere da consulenti tecnici, concretandosi altrimenti «un’evidente limitazione del diritto di difesa del non abbiente, che ne menoma la possibilità di efficacemente contraddire quando nel giudizio si controverta su questioni di natura tecnica».
[4] Questa conclusione stride fragorosamente con quanto precedentemente sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 287/2008, in cui si evidenziava che, gratuito o meno, l’incarico del consulente doveva considerarsi garantito dall’art. 63 c.p.c. che, comunque, «prevede l’obbligo del consulente scelto tra gli iscritti ad un albo di prestare il suo ufficio».
[5] A dire il vero, prima del recente intervento della Consulta, non tutti i settori del processo civile erano estranei all’anticipazione dell’erario degli onorari dovuti al consulente tecnico e all’ausiliare del magistrato. Infatti, nel processo di interdizione e di inabilitazione promosso dal pubblico ministero l’art. 145 d.P.R. n. 115/2002 prevede che tali onorari siano anticipati in virtù di un’ammissione al beneficio d’ufficio (è la relazione illustrativa al testo unico che si esprime in questi termini, richiamando Corte Cost. n. 112/1967), salvo successiva verifica dei limiti reddituali ai fini del recupero (come avviene nel processo penale minorile).
[6] Vale la pena rammentare che in precedenza, in relazione a questa discrasia legislativa tra processo civile e processo penale, la Corte Costituzionale aveva negato la sussistenza di una disparità di trattamento sulla base della ontologica diversità dei processi, che escludeva la necessità di adozione di modelli unitari per entrambi i giudizi (cfr. Corte Cost. sent. n. 287/2008; ma si vedano anche ord. nn. 350/2005, 201/2006, 270/2012).
[7] Cfr. Caglioti G.W., “CTU e CTP, liquidazione dell’onorario nel patrocinio a carico dello Stato: un approfondimento”, 3.10.2019, su https://www.professionegiustizia.it/documenti/notizia/2019/ctu-ctp-liquidazione-onorario-gratuito-patrocinio-corte-costituzionale.
[8] Difatti, così si procede laddove sia stato revocato il mandato dell’avvocato patrocinante e lo stesso sia stato sostituito (e non si attende la conclusione del giudizio per liquidare distintamente i due difensori che si sono avvicendati). E a nulla pare rilevare il disposto del successivo comma 3-bis (“Il decreto di pagamento è emesso dal giudice contestualmente alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la relativa richiesta”), che atterrebbe solamente alla fattispecie della chiusura della fase, in mancanza di precedente cessazione dell’incarico.
[9] Cfr. Cass. nn. 7633/2006; 28299/2009.
[10] Scarselli G., Il nuovo patrocinio nei processi civili ed amministrativi, Cedam, Padova, 2003, p. 230.
[11] Si veda Cass. n. 10053/2012 che chiarisce come non possano essere addebitate all’ammesso le spese indicate all’art. 131 che lo Stato, sostituendosi alla stessa parte - in considerazione delle sue precarie condizioni economiche e della non manifesta infondatezza delle relative pretese - si impegna ad anticipare (confermata da ultimo da Cass. n. 8388/2017).
[12] Contessa N., “Non finirà”, in Aurora, 42 Records, 2016.
di Elena Quarta
Lo scorso 12 aprile 2019 la suggestiva cornice di Palazzo De Pietro a Lecce ha fatto da sfondo alla presentazione dell'avveniristico testo del Prof. Avv. Luigi Viola che è stata l'occasione per un incontro di studio intitolato “Giustizia Algoritmica-la nuova frontiera tra luci ed ombre" organizzato dal COA dell'Ordine degli Avvocati di Lecce.
Relatori dell'incontro sono stati il Prof. Luigi Viola, docente di Diritto processuale civile della scuola di specializzazione delle professioni legali “Vittorio Aymone”, Università del Salento, Direttore scientifico del Centro Studi Diritto Avanzato nonché autore del libro “Interpretazione della legge con modelli matematici”, Elena Quarta docente di diritto dell'informatica presso la Scuola di specializzazione delle professioni legali “Vittorio Aymone”, dell' Università del Salento ed il dottor Daniele Gallucci, magistrato presso il Tribunale di Termini Imerese. Ha coordinato i lavori il promotore dell'incontro, l'Avv. Vincenzo Caprioli Consigliere dell'Ordine degli avvocati di Lecce.
Sommario: 1. La nuova era della Giustizia Algoritmica : parallelismo con l'avvento del III millennio - 2. Il segreto legame tra legge e matematica era stato già svelato dagli antichi filosofi - 3 Rapporto tra la giustizia predittiva ed il modello matematico elaborato dal Prof. Viola - 4 Conclusioni :impatti del Modello matematico tra “Millennium bug” e strumenti ADR.
1. La nuova era della Giustizia Algoritmica : parallelismo con l'avvento del III millennio
Sono ormai passati quasi 20 anni dall'avvento del III millennio, un'epoca che a livello di percezione appariva a tutti come un tempo sospeso tra passato, presente e futuro. Un tempo che, potrebbe essere associato senza dubbio alle sonorità sfuggenti e incantate del pezzo “Vivere il mio tempo” dei Litfiba. È passato quasi un ventennio, eppure i fotogrammi di quell'epoca sono ancora ben impressi nelle nostre menti. Correva l'anno 2000 e nei media imperversavano messaggi carichi di entusiasmo rivolti ad esaltare il boom dell'era digitale. Un entusiasmo che, da sempre, è indissolubilmente legato al timore del futuro. Un timore a cui venne attribuito il nome di Millennium bug, il famoso corto circuito dei sistemi informatici dovuto al cambiamento di data suggellato dallo scoccare della mezzanotte che segnava il passaggio dal 31 dicembre 1999 al 1 gennaio 2000. Un problema che , come sempre accade per gli eventi allarmistici, si rivelò poi di portata inferiore a ciò che era stato prospettato. L'avvento del futuro infatti, genera da sempre nell'uomo due sentimenti: l'entusiasmo da un lato e dall'altro il timore dell' ignoto che si proietta nella sua essenza di ombra, e intimorisce. Un'alternanza che, musicalmente parlando, si potrebbe paragonare ai sentimenti contrastanti di magia ed inquietudine suscitati dalla composizione del pianista belga Wim Mertens “Struggle for Pleasure”, caratterizzata dall'escalation di suoni intensi e rarefatti che si alternano in una perfetta alchimia. Quando si parla di ombre sembra inevitabile il richiamo al mito della caverna di Platone, dipinto di un luogo carico di tormento dove i prigionieri scorgono le ombre degli oggetti proiettate dal fuoco convinti che quella sia la realtà. Eppure ai prigionieri basterebbe volgere lo sguardo al di là dell'orizzonte in cui sono costretti a vivere per avere una diversa visione. Basterebbe dunque un diverso angolo prospettico per cogliere l'essenza reale delle cose. Le ombre, tuttavia, hanno anche l'importante funzione di chiarire dubbi e perplessità, dare insegnamenti ed indicare strade da percorrere. Invero questo è un tema presente nella letteratura e nella filosofia di ogni tempo, basti pensare al dialogo immaginato da Nietzsche in “Il Viandante e la sua ombra” o al dialogo con le ombre dei morti di Dante o Ulisse nel corso del loro viaggio. Quindi luci ed ombre come parti di una stessa realtà, è questo ciò che ritroviamo nello stesso animo umano, aspetto cristallizzato nella filosofia di Jung, e che parallelamente ritroviamo nei protagonisti delle grandi opere letterarie come il Dorian Gray di Wilde nel famoso rapporto con il suo ritratto, ed il Mephistopheles del Faust di Goethe.
E la tematica della Giustizia algoritmica portata alla ribalta dal recente testo del Prof. Luigi Viola “ Interpretazione della legge con modelli matematici” riaccende questa antica dicotomia di luci ed ombre, di entusiasmo ed al tempo stesso di timore verso questo “nuovo Millennium bug”.
A parere della scrivente, occorre allontanare dal nostro immaginario i timori, occorre cioè andare ad individuare tutto ciò che non deve essere associato a questo libro: i timori e le ombre non devono essere associati a questo testo. Perchè? Qual è il timore quando nascono opere di questo tipo?
Il timore è che un algoritmo possa sostituire il giudice o l'attività dell'interprete. Questo timore non ha ragion d'essere perchè ci sono attività proprie del Magistrato che non possono essere affidate ad un algoritmo. Es. nel caso del Magistrato di Sorveglianza, la valutazione della pericolosità di un soggetto. Il giudice, infatti, dopo un attento ascolto delle parti, analizza gli elementi e sulla base di un ragionamento giuridico perviene ad una decisione assunta alla luce di un attento bilanciamento. L'attento bilanciamento è il riflesso dei valori e del senso di umanità che guidano il magistrato nel suo operato, elementi che un algoritmo non può certamente soppiantare.
Come traspare anche dalla puntuale presentazione del testo del Presidente della I sez Civ, della Corte di Cassazione Stefano Schirò[1], è chiaro che un algoritmo non può dominare valori imprevedibili come, ad esempio, quelli derivanti dall' espletamento dell' istruttoria dibattimentale.
L'Art. 12 delle Preleggi assume le vesti di un algoritmo, ma, come sottolineato espressamente nel testo[2], non è un algoritmo che ha la pretesa di anticipare le decisioni giudiziarie. Questo strumento si colloca in un momento storico propizio. Per capire il senso di questa affermazione occorre guardare alla dicotomia esistente tra Caos e Legge. In tal senso Renato Rordorf, già presidente aggiunto della Corte di cassazione, in un suo recente editoriale riconsegna all'attualità la prefazione di un testo edito più di 30 anni fa ed intitolato Riti e sapienza del diritto ( Laterza ;1985). Nello specifico Rordorf sottolinea come l'autore Franco Cordero “con la sua prosa immaginifica, si spingeva a paragonare il diritto al Minotauro, il mostruoso figlio di Minosse e Pasifae che abita nel labirinto: un luogo dove «vigono testi individuati da un canone, e dei sapienti li frugano pescando mille contenuti talvolta imprevedibili». Una visione angosciosa – la si potrebbe dire kafkiana – perché nel labirinto non ci si raccapezza, non si riesce a prevedere dove conduce il percorso che si è intrapreso ed è arduo trovare una via d’uscita[3]”.
Perché questa visione del diritto come mostruoso essere mitologico dipinta negli anni '80 appare così attuale?
Occorre considerare che il giurista del XXI secolo si colloca di fronte ad uno scenario giuridico molto particolare , che appare influenzato da vari fattori. In primis subisce l'influenza derivante da una continua metamorfosi , caratterizzante il sistema delle fonti . Nello specifico oltre al corpus di norme e valori dell'ordinamento nazionale, occorre tener presenti anche quelli derivanti dai disposti normativi e valori di matrice europea derivanti da Trattati, convenzioni internazionali e altri principi dell’ordinamento europeo.
Altro aspetto da considerare è che la qualità delle leggi è pessima perchè talvolta il legislatore è frettoloso. Ma la fretta da dove deriva?
Ad esempio dalla necessità di ottemperare ai diktat della Corte europea dei diritti dell'uomo ( es. art. 35 ter o.p[4]. rubricato “ Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”: norma creata ad hoc per obbedire al diktat derivante dalla sentenza Torreggiani di predisporre un insieme di rimedi idonei ad affrire una riparazione adeguata al pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario)
La fretta altresì può essere dettata dalla necessità di creare norme che colmino dei vuoti normativi creati, ad esempio, da dichiarazioni di illegittimità costituzionalità delle norme che prima regolavano un determinato settore. ( Es. Art. 238 bis tu spese giustizia[5], ,rubricato “ Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie non pagate”)
Un ulteriore aspetto da considerare è che talvolta sono le stesse decisioni giurisprudenziali ad essere clamorosamente contrastanti Esempio più recente di tale fenomenologia concerne l’applicabilità[6] o meno della nuova legge in materia di responsabilità sanitaria, la c.d. Legge Gelli – Bianco (n. 24/2017) a fatti antecedenti la sua entrata in vigore. Tutto questo crea un improvviso Caos, simile a quello esiodeo che, a sua volta crea incertezza ed i consociati non sono in grado di orientare i propri comportamenti. Ed ecco che appare utile all'interno di tale quadro descrittivo riportare alla luce il segreto legame tra legge e modelli matematici, presente fin dall'antichità e mai sopito
2. Il segreto legame tra legge e matematica era stato già svelato dagli antichi filosofi
In tale contesto in cui la funzione demandata alla legge è ostacolata dal Chaos interpretare la legge diviene vitale Interpretare la legge richiama alla mente quella che è un'attività del matematico, ossia quella di dare certezza, scegliendo un valore nella rosa di infiniti valori che si prospettano all'interprete.
Il segreto legame tra la legge, la matematica ed il mondo della giustizia è stato dunque posto sotto le luci della ribalta grazie al Modello matematico elaborato dal Prof. Avv. Luigi Viola che si pone come strumento tra passato, presente e futuro. Un segreto legame che, tuttavia non è del tutto nuovo, essendo stato svelato dagli antichi filosofi. Personalmente ero solo una matricola quando, tra i banchi universitari, scoprii questo dato nel corso delle appassionati lezioni di filosofia del diritto tenute dal Prof. Raffaele De Giorgi, e ne rimasi colpita. Volendo fare una rapida rassegna, si può intraprendere un viaggio virtuale, partendo dagli approcci logici dei giuristi romani di cultura stoica. Infatti, fu la generazione dei giuristi romani della seconda metà del II sec. a.C. a subire una maggiore influenza da parte della Cultura giuridica rodiese. Esiste una bibliografia ampia sull’influenza della filosofia greca dello stoicismo sulla cultura romana in generale e sulla Giurisprudenza romana in particolare[7].
Occorre altresì considerare che, nel 1600 la parola “sistema” viene mutuata dall’ambito della teologia e trasposta in altri ambiti. I giusnaturalisti come Hobbes e Pufendorf utilizzano la parola “sistema” per ridurre ad unità concettuale dell’insieme di comandi e regole
Va poi considerato Leibniz giurista e filosofo che, fin dall’adolescenza rimane affascinato , o per meglio dire, “folgorato” dalla logica. Secondo Leibniz il diritto è un sistema di proposizioni e la logica tiene unite le norme. Ed in riferimento a Leibniz una piccola parentesi è d’obbligo. L’idea di partenza dell’elaborazione di un modello matematico per interpretare la legge è rintracciabile fin dalle prime pagine dell'innovativo testo del Prof. Viola ed è racchiuso in una frase di Leibniz: "Le parti, un giorno, di fronte ad una disputa, potranno sedersi e procedere ad un calcolo". In fondo che cos'è il processo se non la disputa descritta da Leibniz? Inoltre il momento processuale presenta tutte le caratteristiche di una situazione di interazione strategica tra le azioni del singolo e degli altri agenti, evocata da Nash nell'elaborazione della sua Teoria dei giochi[8].
Riprendendo il fil rouge della rassegna,si consideri poi Savigny il fondatore della Scuola storica del diritto che teorizza un sistema scientifico, formato da concetti giuridici.
Puchta (allievo di Savigny) poi costruisce un sistema chiuso del diritto che riesce a fondarsi da se stesso e che non ha necessità di rinvenire in istanze esterne il proprio fondamento di legittimazione.
Puchta costruisce il diritto come una piramide concettuale in cui in alto vi sono le astrazioni di grado più elevato che sono connesse in una struttura unitaria alle astrazioni di grado inferiore
(es. servitù di passaggio livello più alto diritto soggettivo - diritto reale ( su cosa) - diritto reale su cosa altrui- diritto limitato non pieno in quanto diritto di godimento non di disposizione)
“Per Puchta il fondamento del diritto sta nella sua interna razionalità , il fondamento del sistema sta nella razionalità interna al sistema.
Kelsen arriva a costruire un sistema giuridico che muta continuamente e l’importanza di questo sistema è che la contingenza sia costruita secondo norme di produzione del diritto che stabiliscono come il diritto possa mutare. Il fondamento di validità dell'intero sistema di qualificazioni normative è costituito da una norma la cui validità stessa non può essere derivata da altra norma, che non può essere messa in discussione, che non è posta, in quanto deve essere assunta come
condizione di possibilità della posizione di norma, e che pertanto è presupposta e contiene soltanto “l'istituzione di una fattispecie produttiva di norme”.
Dalla norma fondamentale (Grundnorm) il sistema di norma non deriva il fondamento del suo contenuto, ma il fondamento di validità, a quello indifferente, il quale determina soltanto le condizioni formali della produzione di qualificazioni normative e costituisce il presupposto logico-trascendentale della interpretazione del senso soggettivo delle qualificazioni normative come il loro senso oggettivo, come norme giuridiche oggettivamente valide[9]”
Secondo il prof. Raffaele De Giorgi il limite della teoria Kelseniana risiedeva nella eccessiva dinamicità del sistema, un sistema caratterizzato da un mutamento continuo che avveniva in maniera incontrollata e ciò ne determinava la complessità. Per il prof. De Giorgi il problema della complessità venne risolto da Niklas Luhmann. Ed a tal proposito, a parere della scrivente, è in particolare all’impostazione di Luhmann che può maggiormente essere associata l’impostazione del testo del prof. Luigi Viola.
Precisamente Luhmann concepisce la società moderna come un sistema funzionalmente differenziato, per tale intendendosi uno status che si pone come diretta conseguenza della evoluzione della società. In sostanza la società si differenzia in sottosistemi come economia, diritto, politica, scienza, religione, medicina, educazione.
Ciascun sottosistema svolge una specifica funzione per conto della società e la funzione del diritto è quello di rendere stabili le aspettative del comportamento ( cognitive/normative[10]).
Al fine di svolgere questa sua funzione il diritto - al pari degli altri sistemi della società come scienza e religione- tra il XVII e XVIII secolo inizia a differenziarsi al suo interno in diritto privato e diritto pubblico ( ciò consentirà al sottosistema politica di autonomizzarsi rispetto al diritto). Il diritto inizia il processo di positivizzazione che sarà pienamente compiuto con la modernità, ed anche le strategie che il diritto utilizza per il suo funzionamento mutano. A tal riguardo il diritto costruisce al suo interno dei programmi che sono dei procedimenti che consentono al diritto di assumere delle decisioni consapevoli.
Qual è la forma di programmazione del diritto? In ambito giuridico il programma è un programma condizionale Come noto, la programmazione condizionale avviene secondo la forma “se...allora..” Nello specifico, in base alla programmazione condizionale, se si verifica una premessa allora si verifica una determinata conseguenza. I programmi consentono di trasformare i problemi del sistema in problemi della decisione e, questo è utile in quanto il problema della decisione è più facilmente risolvibile attraverso il rinvenimento della decisione corretta.
Nel momento in cui individuiamo la decisione corretta risolviamo il problema della decisione e questo per il diritto è importante. Per Niklas Luhmann, il sottosistema Diritto costruisce al suo interno due modelli di programmi di decisione: a) decisioni programmanti; b) decisioni programmate. Le decisioni programmanti sono decisioni che programmano ulteriori
decisioni come le leggi e le norme giuridiche che hanno un livello di astrazione più elevato
Ed il modello elaborato dal prof. Luigi Viola potrebbe essere associata alla seconda categoria ossia il modello delle decisioni programmate che, sono decisioni che si rifanno a programmi, nello specifico decisioni che sono programmate da altre decisioni.
Es. la sentenza del giudice è una decisione programmata perchè programmata dalla norma giuridica/legge. Il diritto dovrebbe più facilmente riuscire a risolvere un problema, nel momento in cui il problema è costruito come programma di decisione in questo modo il problema è risolto trovando la decisione più opportuna[11].
3 Rapporto tra la Giustizia Predittiva ed il Modello matematico elaborato dal Prof. Viola
Il timore del futuro, l'oscurità derivante dal quadro normativo poc'anzi descritto rende necessario che il mondo del diritto riscopra il suo naturale ed antico orientamento verso schemi logici, ed a questo scenario fa da sfondo l'antico sogno di predire il futuro[12]. Di quest'ultimo sogno troviamo la trasposizione in particolare nel culto apollineo di Delfi. Un culto che, come noto, ispirava gli antichi greci a recarsi presso il tempio di Delfi, ponendo domande ad Apollo che rispondeva per il tramite dei responsi dati dalla sacerdotessa Pizia[13]. Ed ecco che il concetto di “giustizia predittiva” diviene reale.
Per "giustizia predittiva" deve intendersi la possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli; non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi. Il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri (L. VIOLA, voce Giustizia predittiva, in Enc. Giur. Treccani (treccani.it), 2018)
In tal senso, pregevole dottrina (Giovanni Canzio) ha posto il rilievo che: “....Il giudice trova così nella legge il filo per uscire dal labirinto ermeneutico delle oscurità, ambiguità, polisemie, stratificazioni orizzontali delle fonti regolatrici del caso,
sia normative (art. 12 disp. prel. cod. civ.), nazionali o internazionali, sia contrattuali (art. 1367 ss. cod. civ.)”[14] Ed infatti, il dato di partenza per qualsiasi interpretazione , di certo, è la legge soprattutto per il nostro sistema, che è di civil law ( seppur de facto sempre più orientato al common law), visto che tutti sono soggetti alla legge- che è la fonte principale del diritto ex art. 1 Preleggi
- ivi compresi i giudici ( art. 101 Cost.) che rappresentano i soggetti istituzionalmente
deputati all'interpretazione giuridica.
L’interpretazione, per l’ordinamento giuridico, non è totalmente discrezionale, ma deve ancorarsi a criteri ben precisi, fissati dallo stesso legislatore all’art. 12 Preleggi (Disposizioni sulla legge in generale, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262).
L’art. 12 Preleggi è l’unico rubricato espressamente“interpretazione della legge”, con la conseguenza logica-deduttiva che rappresenta l’unica certezza metodologica da seguire; non è legittimo prescinderne in quanto, in difetto, si opterebbe per un’interpretatio abrogans in aperto contrasto con la voluntas legis sottesa. L’art. 12 citato così recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.”.
Nella sostanza l’art. 12 serve a trovare il significato all’interno della disposizione di legge oppure, detto in altri termini, serve a trovare la norma all’interno della disposizione (la disposizione è l’enunciato letterale, mentre la norma è il risultato a cui si giunge dopo l’attività interpretativa)[15]
Essenzialmente l'art. 12 delle Preleggi individua 4 tipologie di interpretazioni:
Interpretazione Letterale (primo criterio) è criterio MAGGIORE[16] >
IL > IR Interpretazione per ratio c.d. interpretazione teleologica (secondo criterio)
IL > AL Analogia legis (terzo criterio)
IL> AI Analogia iuris, principi generali (quarto criterio)
Considerando che l'Interpretazione Letterale (IL) è posta su una posizione gerarchica
superiore rispetto alle altre, si avrà IL > IS (Interpretazioni secondarie)
Pertanto, l’art. 12 esprime la seguente disequazione:
IL > IS.
considerando che l'Interpretazione Letterale (IL) è posta su una posizione gerarchica
superiore rispetto alle altre, si avrà IL > IS (Interpretazioni secondarie)
Pertanto, l’art. 12 esprime la seguente disequazione:
IL > IS.
Dove con l'espressione “interpretazioni secondarie” si intende la somma
di tutte le interpretazioni diverse da quella letterale pertanto:
= IR (interpretazione per ratio)
+ AL ( interpretazione per analogia Legis)
+ AI (interpretazione per analogia Iuris)
Si può tradurre :
IR + AL + AI = IS[17]
In altri termini per maggiore intelligibilità si afferma che l’art. 12 delle c.d. Preleggi esprime la seguente disequazione di primo grado: IS ≤ IL in quanto:
Interpretazione letterale (IL) = interpretazione corretta (IL)
Interpretazione secondo ratio legis (IR) = interpretazione meno corretta (IR≤IL)
Interpretazione per analogia legis (AL): interpretazione meno meno corretta (AL≤IR≤IL)
Interpretazione per analogia iuris (AI): interpretazione meno meno meno corretta (AI≤AL≤IR≤IL)
In sostanza si può affermare che, se le interpretazioni subordinate (quelle per ratio e per analogia) non sono coerenti con l’interpretazione letterale, allora vuol dire che c’è contraddizione con la conseguenza che l’interpretazione prospettata non è perfetta perché il sistema giuridico, almeno per materia, non può tollerare contraddizioni (principio di nonon contraddizione come desumibile dall’art. 3 Cost. e dall’interpretazione per analogia di cui all’art. 12 cit.)[18].
Detto in altri termini:
IR + AL + AI ≤ IL
In sostanza la somma dell’interpretazione per ratio legis (IR), dell'interpretazione per analogia legis
(AL) e dell'interpretazione per analogia iuris (AI) ossia le Interpretazioni secondarie non possono
valere più di quella letterale (IL), a pena di probabile incostituzionalità
Pertanto l’art. 12 delle c.d. Preleggi esprime la seguente
disequazione di primo grado:
IS ≤ IL[19]
Partendo da questo dato, il Prof. Viola è giunto ad elaborare una formula[20] la cui applicazione alle vicende processuali consente di prevederne l'esito. Questa formula è stata già applicata in via sperimentale su alcune vicende processuali che sono state poste all'attenzione della Suprema Corte giungendo con successo a prevedere esattamente il contenuto delle decisioni Una delle prime decisioni di cui si è giunti a prevedere esattamente l'esito è stata la sentenza della Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. n. 16601 del 5 luglio 2017[21].
Tanto premesso, deve evidenziarsi che la formula dell’EQUAZIONE dell’ INTERPRETAZIONE PERFETTA (eQuIP), basata principalmente sulla lettura dell’art. 12 delle c.d. Preleggi si prospetta come disequazione di primo grado
(AI ≤ AL ≤ IR ≤ IL).
Successivamente, lo studio dell’equazione sull’interpretazione perfetta è stato inglobato in quello sull’interpretazione giuridica, comprensivo di tutti i dati previsionali giungendo a prospettare il seguente ALGORITMO PER L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA:
IP: (IL ± ILn) ^(IR ± IRn) ° [IL = 0 => (AL ± ALn)] °[AL ≈ 0 => (AI ± AIn)] [22]:
4. Conclusioni :impatti del Modello matematico tra “Millennium bug” e strumenti ADR
In ambito processuale civile si si ritiene che tanto più il processo diventa prevedibile, anche nel suo esito, tanto più gli strumenti a.d.r. potranno svilupparsi:
- per la mediazione ex d.lvo 28/2010 e negoziazione perché, sapendo il probabile esito del processo, le parti saranno maggiormente indotte a concludere un accordo, al fine di risparmiare tempi e spese processuali, così discutendo direttamente del quantum e non più dell’an (dato per pacifico);
- per l’arbitrato perché, utilizzando modelli matematici, si potrà ridurre il rischio di parzialità, in uno con maggiore celerità e trasparenza[23]
I timori di un “nuovo Millennium bug” dunque appaiono infondati in quanto l’equazione esposta è congegnata per funzionare in modo integrativo dell’attività dell’interprete, che resta l’unico soggetto capace di inserire le corrette variabili, date dalle argomentazioni. La correttezza del risultato dell’equazione dipende unicamente dalla disposizione di riferimento che si è inteso utilizzare data dall’art. 12 preleggi, nonché dall’esattezza e completezza degli argomenti utilizzati[24]
Tuttavia, a parere della scrivente, il rivoluzionario modello matematico elaborato dal Prof. Viola porterà presto all'elaborazione di programmi informatici che, saranno di ausilio al magistrato nello svolgimento della sua delicata e complessa attività, e che contribuiranno a ridurre sensibilmente il carico giudiziario pendente.
* Contributo di studio in gran parte basato sulla relazione tenuta dall'Autrice nel corso dell'incontro di studio, intitolato “Giustizia Algoritmica-la nuova frontiera tra luci ed ombre" e tenutosi presso Palazzo De Pietro a Lecce il 12 aprile 2019 .
[1] S. SCHIRò, Presentazione, in L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici, Processo, a.d.r., giustizia predittiva, Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 23
[2] Si rinvia a L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione)
[3] R.RORDORF, Editoriale, Una giustizia (im)prevedibile? Il dovere della comunicazione n. 4/2018, Questione Giustizia n. 4/2018 Trimestrale promosso da Magistratura Democratica consultabile al seguente indirizzo url http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-4.pdf
[4] Per una puntuale osservazione circa gli aspetti problematici si conceda il rinvio a E. QUARTA, La logica del giudice di fronte alla complessa equazione dell'art. 35 ter. o.p., Un affascinante viaggio alla ricerca dei valori incogniti, Congedo, Galatina ,2017
[5] Per puntuale analisi delle criticità si conceda il rinvio a E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, Key editore, 2018
[6] Nel senso della retroattività, si vedano:
- Legge Gelli-Bianco: si applica anche ai processi in corso (Tribunale di Latina, sezione seconda, sent. del 27.11.2018), in La Nuova procedura Civile, 1, 2019;
- Legge Gelli-Bianco: anche Milano applica in modo retroattivo per la quantificazione del danno biologico
(Tribunale di Milano, sezione prima, sentenza del 2.8.2018), in La Nuova Procedura Civile, 5, 2018;
- La riforma Gelli-Bianco non può applicarsi a fatti precedenti la sua entrata in vigore
(neanche per la liquidazione del danno biologico) [Tribunale Treviso, sezione prima, sentenza del 26.10.2018], in La Nuova procedura Civile, 5, 2018;
-Legge Gelli-Bianco retroattiva? Anche Roma dice no, con ampia motivazione [Tribunale di Roma, sezione tredicesima, sentenza del 4.10.2017], in La Nuova procedura Civile, 1, 2019.
- Legge Gelli-Bianco non è applicabile a casi precedenti la sua entrata in vigore [Tribunale di Taranto, sezione prima, sentenza del 21.01.2019] in La Nuova procedura Civile, 1, 2019
[7] L. KOFANOV, Diritto commerciale nella Lex Rhodia, la dottrina dei contratti consensuali nella giurisprudenza romana e il “cuore del commercio nella Russia contemporanea in P. CERAMI, M. SERIO, (a cura di ) Scritti di comparazione e storia giuridica II: ricordando Giovanni Criscuoli, Giappichelli, 2013 pag. 321-322
[8] Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello "matematico" che risolverebbe i problemi, 30/07/2018 Studio Cataldi consultabile al seguente indirizzo url in https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp
[9] R. DE GIORGI, Scienza del diritto e legittimazione Pensa, Lecce, 2007 pag. 27 e ss.
[10] In tal senso F. CASSANO, nel suo testo La certezza infondata: previsione ed eventi nelle scienze sociali, Edizioni Dedalo, Bari, 1983, pag. 25 evidenzia : “ All'inizio della sua Rechtssoziologie Niklas Luhmann distingue tra due tipi di aspettative: aspettative cognitive e aspettative normative. “Come Cognitive vengono avvertire e trattate le aspettative che, in caso di delusione sono adattate alla realtà. Per le aspettative normative è vero il contrario, cioè le si lascia cadere se qualcuno agisce in modo difforme”. In questo caso cioè “la aspettativa viene mantenuta e la discrepanza fra aspettativa e realtà viene imputata a chi ha agito in modo difforme. Le aspettative cognitive sono quindi caratterizzate da una (non necessariamente consapevole) disponibilità all'apprendimento; le aspettative normative, per contro, dalla decisione di non apprendere dalle delusioni”
[11] R. DE GIORGI, op. loc. ult. cit.
[12] Si conceda il rinvio anche a E. QUARTA. L'algoritmo giuridico che realizza l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici : la giustizia nell'era 4.0 . in www.personaedanno,it, 21 febbraio 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.personaedanno.it/articolo/l-algoritmo-giuridico-che-realizza-l-antico-sogno-dell-uomo-di-visualizzare-scenari-avveniristici-la-giustizia-nell-era-4-0-elena-quarta
[13] Si conceda il rinvio a E. QUARTA , Giustizia e predizione: l'algoritmo che legge il futuro, in questa Rivista consultabile al seguente indirizzo url https://www.giustiziainsieme.it/it/cultura-e-societa/600-giustizia-e-predizione-l-algoritmo-che-legge-il-futuro
[14] G. CANZIO, Relazione tenuta in occazione dell’incontro sul tema “Il dubbio e la legge”, nell’ambito del festival Milanesiana (Milano, 19 luglio 2018), Diritto penale contemporaneo, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it/upload/4371-canzio2018c.pdf
[15] L. VIOLA, ult. op. cit., , pag. 49 e ss.
[16] Si consideri che questo orientamento è stato confermato dalla Corte di Cassazione che ha posto in evidenza che l’interpretazione teleologica e quella costituzionalmente orientata non consentono di superare il dato letterale) Si veda a tal proposito Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 22.03.2019, n. 8230:” La nullità comminata dall’art. 46, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) e dagli artt. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985, va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”. Con tale espressione, in stretta adesione al dato normativo, deve intendersi un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione, in detti atti, degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile”. (Trasferimento di immobili abusivi e nullità: vince la tesi della nullità testuale (l’interpretazione teleologica e quella costituzionalmente orientata non consentono di superare il dato letterale) ; Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 22.03.2019, n. 8230 La Nuova Procedura Civile, 2, 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2019/03/8230_immobiliabusivi.pdf
17] L. VIOLA , Equazione dell'interpretazione perfetta versione 1.2, 8 gennaio 2017, scuola diritto avanzato, consultabile al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2016/11/Equazione_interpretazione4PERFETTA.pdf
[18] Ibidem
[19] Ibidem
[20] Una formula che è ormai giunta alla versione 1.6 ed è in fase di studio una versione 1.7 https://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/05/26/algoritmo-sullinterpretazione-giuridica/
[21] Una delle prime decisioni di cui si è giunti a prevedere esattamente l'esito è stata la sentenza della Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. n. 16601 del 5 luglio 2017. Per consultare i passaggi che hanno portato a prevederne esattamente l'esito si rinvia al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2017/05/dannipunitivialgoritmo.pdf Per un commento della sentenza si conceda il rinvio a E. QUARTA. Le Sezioni Unite scrivono l'ultimo capitolo del romanzo intitolato “punitive damages”: un revival della concezione sanzionatoria della responsabilità civile nell'era 4.0 (Nota a Cassazione civile Sezioni Unite n. 16601 del 5 luglio 2017), Obiettivo Magistrato, n. 8/2017, pag.3 e ss. Tutte le previsioni centrate sono liberamente consultabili a seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/05/26/algoritmo-sullinterpretazione-giuridica/ Ma più dettagliatamente si rinvia al testo di L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello “matematico” che risolverebbe i problemi, su Studio Cataldi, 30/07/2018 consultabile dall'indirizzo url https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp
[22] È la versione pubblicata nel testo L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione). Pertanto si rinvia allo stesso per una spiegazione dettagliata della formula
[23] L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 206 e ss.
[24] L. VIOLA, L'interpretazione della legge ex art. 12 Preleggi si basa su un algoritmo, Giustizia Civile. Com, 22 febbraio 2019, consultabile al seguente indirizzo url http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/approfondimenti/linterpretazione-della-legge-ex-art-12-preleggi-si-basa
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