ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Paola Filippi
Sommario: 1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega. - 2. Genesi della fattispecie incriminatrice. - 3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato. - 4. Oggetto della falsità - 5. La condotta.
1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega.
Il reato di falsità in relazioni e attestazioni, descritto all’articolo 236 bis della legge fallimentare (in vigore sino al 14 agosto 2020), è collocato ora all’articolo 342 del Codice della crisi (in vigore dal 15 agosto 2020), le condotte sanzionate sono quelle originarie salvo qualche remaquillage formale, e …anche non, come si dirà.
Sono stati modificati gli articoli ai quali la norma rinvia -remaquillage formale e necessario- in ragione della nuova collocazione della fattispecie e delle modifiche introdotte con la riforma ex d.lgs. n. 14/2019 in tema di composizione della crisi.
Il falso del professionista, nelle possibili declinazioni omissive e commissive, è dunque diverso per il contesto procedimentale in cui la relazione si inserisce. Nulla sotto questo profilo è cambiato.
E’ stato introdotto ex novo l’inciso “alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’oggetto della falsità è stato dunque ristretto - remaquillage non formale, forse necessario, non delegato-
La legge n.155/2017 non conteneva delega a operare modifiche in ordine al reato di falsità dell’attestatore a riguardo; lo schema licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre 2017 non prevedeva detto inciso, aggiunto successivamente, in sede di revisione del testo, ai fini della presentazione per l’approvazione al Consiglio dei Ministri.
Come si legge nella Relazione ministeriale “attraverso l’introduzione dell’art. 342 c.c.i., viene descritta meglio la condotta incriminata, essendo precisato il contenuto delle informazioni rilevanti la cui omissione costituisce reato”.
L’effetto dell’introduzione dell’inciso è quello dell’abrogazione delle fattispecie incriminatrici del falso integrate da attestazione sulla fattibilità del piano.
2. Genesi della fattispecie incriminatrice.
Il falso in attestazioni è stato introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. l), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, l’obiettivo era quello di assicurare una specifica tutela penale alle procedure di composizione della crisi introdotte con il d.lgs. n. 5/06, ivi compreso il riformato concordato preventivo[1]. L'art. 10 del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132, ha aggiunto il rinvio al 182 septies con riguardo alla relazione funzionale ad accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria.
La fattispecie penale era e resta generica, senza delega non poteva essere diversamente, il secco rinvio agli strumenti di composizione della crisi rende infatti difficile per l’interprete l’esatta individuazione della condotta in termini di individuazione della rappresentazione difforme dal vero penalmente rilevante.
3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato.
Il bene-interesse del falso del professionista attestatore è il corretto accesso alle procedure di composizione della crisi diverse dalla liquidazione, l’affidamento dei creditori e dunque delle posizioni creditorie coinvolte nella crisi.
L’autore non può che essere il professionista, soggetto privato indipendente, ovvero non legato ai soggetti coinvolti da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio.
Il codice della crisi lo definisce all’art. 2 lett. o) come il professionista incaricato dal debitore nell'ambito di una delle procedure di regolazione della crisi di impresa che soddisfi congiuntamente i seguenti requisiti: 1) essere iscritto all'albo dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese, nonché nel registro dei revisori legali; 2) essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 del codice civile; 3) non essere legato all'impresa o ad altre parti interessate all'operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale; il professionista ed i soggetti con i quali è eventualmente unito in associazione professionale non devono aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell'impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa.
4. Oggetto della falsità.
L’oggetto materiale consiste in falsità nella stesura delle relazioni o attestazioni che il professionista è chiamato a redigere nell’ambito delle procedure di cui agli articoli 56, comma 4, 57, comma 4, 58, commi 1 e 2, 62, comma 2, lettera d), 87, commi 2 e 3, 88, commi 1 e 2, 90, comma 5, 100, commi 1 e 2.
L’articolo 56 si riferisce agli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, trattasi di strumento negoziale stragiudiziale che prevede che l'imprenditore in stato di crisi o di insolvenza possa predisporre un piano, rivolto ai creditori, che sia idoneo a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria. Il piano deve avere data certa e deve indicare: a) la situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell'impresa; b) le principali cause della crisi; c) le strategie d'intervento e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; d) i creditori e l'ammontare dei crediti dei quali si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative; d) gli apporti di finanza nuova; e) i tempi delle azioni da compiersi, che consentono di verificarne la realizzazione, nonché gli strumenti da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi e la situazione in atto.
La relazione, che ne condiziona l’ammissione deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano.
L’articolo 57 si riferisce agli accordi di ristrutturazione dei debiti, trattasi anche in questo caso di strumento negoziale stragiudiziale. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti possono essere conclusi dall'imprenditore, anche non commerciale e diverso dall'imprenditore minore, in stato di crisi o di insolvenza, con i creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti. Gli accordi devono contenere l'indicazione degli elementi del piano economico-finanziario che ne consentono l'esecuzione.
La relazione che ne condiziona l’ammissibilità deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano e altresì attestazione dell'idoneità dell'accordo e del piano ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei termini.
L’articolo 58 riguarda la relazione da allegare in caso di rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano.
L’articolo 62 si riferisce alla convenzione di moratoria. La convenzione di moratoria è uno strumento stragiudiziale che si conclude tra un imprenditore, anche non commerciale, e i suoi creditori, diretta a disciplinare, in via provvisoria, gli effetti della crisi e avente a oggetto la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile. La relazione in questo caso deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali, dell'idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi, e della ricorrenza delle condizioni richieste per l’ammissione.
L’articolo 87 si riferisce al piano di concordato da allegare insieme alla proposta di concordato. Il piano deve indicare: a) le cause della crisi; b) la definizione delle strategie d'intervento e, in caso di concordato in continuità, i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; c) gli apporti di finanza nuova, se previsti; d) le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero; e) i tempi delle attività da compiersi, nonché le iniziative da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi pianificati e quelli raggiunti; f) in caso di continuità aziendale, le ragioni per le quali questa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;) ove sia prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta, un'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.
La relazione da allegare deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano. In caso di concordato in continuità la relazione del professionista indipendente deve attestare altresì che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La relazione può anche contenere attestazione che la proposta di concordato del debitore assicuri il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari nel caso si voglia evitare la presentazione da parte dei creditori delle proposte concorrenti di cui all’articolo 90.
L’articolo 88 si riferisce alla relazione da allegare al piano di concordato in caso si preveda un trattamento differenziato dei crediti tributari e contributivi. La relazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti fiscali e previdenziali, deve contenere attestazione della convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale.
L’articolo 90 riguarda le proposte concorrenti che possono essere presentate dai creditori non oltre trenta giorni prima della data iniziale stabilita per la votazione dei creditori sulla proposta di concorso del debitore.
L’articolo 100 riguarda la relazione che il debitore deve allegare per ottenere la autorizzazione al pagamento di crediti pregressi, essa deve contenere l’attestazione che trattasi di pagamenti essenziali per la prosecuzione dell'attività di cui è prevista la continuazione.
5. La condotta.
La condotta si realizza attraverso l’esposizione di informazioni false o omissione di informazioni rilevanti, l’oggetto materiale dell’esposizione di informazioni false riguarda, per effetto della precisazione operata con il d.lgs. n. 14/2019, “la veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’inciso è affetto da difetto di delega, in bonam partem, in quanto abrogativo del falso ricadente in attestazioni sulla fattibilità.
L’esposizione di informazioni false nell’attestazione della veridicità dei dati aziendali è integrata dall’attestazione di veridicità di dati contabili non corrispondenti al vero.
L’omessa esposizione di informazioni rilevanti è integrata dal mancato inserimento nella relazione di dati relativi all’impresa che, se conosciuti avrebbero condotto diversa determinazione il tribunale e i creditori.
La nozione di rilevanza continua ad essere riferita esclusivamente alle informazioni omesse; questa è la conclusione alla quale si giunge in base a interpretazione letterale della norma per la collocazione dell’aggettivo “rilevanti”; sul punto la dottrina non è univoca e, secondo orientamento minoritario, sarebbe ingiustificato ritenere la nozione di rilevanza limitata all’omissione e non estesa anche alle informazioni false, non si è formata giurisprudenza a riguardo[2].
In base ad una lettura sistematica della fattispecie penale e alla luce dell’oggetto della tutela, la rilevanza dell’informazione omessa è nozione diversa da quella elaborata in materia di falso in quanto, come si è detto, nel caso della falsità dell’attestatore l’omissione è rilevante penalmente se specificamente diretta a manipolare o a nascondere un dato che, se conosciuto, deporrebbe per una conseguente non ammissione alla procedura.
La lettura della norma che tenga conto della finalità della relazione consente di affermare che l’informazione omessa è rilevante quando, se conosciuta, in termini di id quod plerumque accidit, avrebbe indotto i creditori a non accettarla e il tribunale a non ammetterla, perché inidonea al conseguimento della causa giuridica o perché in violazione di norme imperative come l’art. 2740 c.c..
La rilevanza dell’omissione coincide con la rilevanza penale della condotta.
Per utilizzare la nozione elaborata dalle Sezioni Unite, per il reato di false comunicazioni sociali, dopo la novella del 2015, deve concludersi che “la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione”.
Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite in materia di false comunicazioni sociali il reato è integrato “con riguardo all’esposizione o alla omissione di fatti oggetto di 'valutazione', se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni" (Sez. Unite sentenza n. 22474/2016).
In altri termini, è sanzionata la condotta del professionista che redige una relazione attestativa nella quale, venendo meno agli obblighi di veridicità ed esaustività, attesti come veri dati aziendali non veri o non informi dell’esistenza di eventuali operazione poste in essere in violazione di norme imperative (prima tra tutte la violazione dell’art. 2740 c.c.) ovvero ometta di informare in ordine a eventuali operazioni che rendono irrealizzabile la causa giuridica del modello di composizione e così giuridicamente non fattibile il piano, l’accordo o il concordato[3].
Sono previste due circostanze aggravanti speciali quella del danno ai creditori e quella del profitto ingiusto.
Dette circostanze confermano la natura di reato di condotta del falso del professionista e l’irrilevanza ai fini della configurabilità del reato degli effetti procedurali della falsa attestazione.
In base alla casistica elaborata in sede di apertura delle procedure di composizione della crisi sono da ritenere informazioni che necessariamente devono essere fornite dall’attestatore e dunque devono essere veritiere, quelle che riguardano l’attivo, in uno con i criteri utilizzati per la valutazione, e dunque i dati relativi alla natura, alla data di acquisto, al grado di obsolescenza e all’effettiva disponibilità dei beni, quelle che riguardano eventuali vincoli. Il dato dell’attivo per crediti commerciali necessita di informazioni sull’esigibilità, recuperabilità dei crediti e solvibilità dei debitori. Il dato della redditività dell’impresa richiede informazioni in ordine alla perduranza dei contratti essenziali per la prosecuzione dell’attività.
Il reato è punito a titolo di dolo generico nella sua fattispecie semplice, ed a titolo di dolo specifico in quella aggravata del secondo comma. [4]
Ai fini della penale rilevanza della falsa attestazione occorre dunque la consapevolezza e l’intenzionalità in ordine alla non veridicità del dato e con riguardo all’omessa informazione, la consapevolezza della rilevanza.[5] La consapevolezza va valutata in relazione al grado di esigibilità di diligenza e perizia da valutarsi in ragione non solo dei requisiti di professionalità richiesti ma anche dell’oggetto dell’incarico conferito che specificamente richiede al professionista attestazione dal contenuto di cui agli articoli ai quali la fattispecie incriminatrice fa rinvio.[6]
Trattasi di reato proprio del professionista ma a concorso eventuale del debitore o dei professionisti che assistono il debitore, concorso che può realizzarsi nella forma dell’istigazione o in quella del concorso morale.
Il professionista agisce poi da autore mediato nel caso in cui il debitore gli consegni ai fini dell’elaborazione dell’attestazione dati artatamente falsificati, e la falsificazione non sia riconoscibile.
Il reato si consuma con il deposito presso la cancelleria del tribunale della relazione.
La genericità della fattispecie e le difficoltà interpretative hanno comunque determinato un’assai scarsa applicazione della fattispecie nessuna sentenza di condanna è stata ancora sottoposta al sindacato di legittimità, l’introduzione del reato di false attestazione è comunque rapidamente divenuto un significativo deterrente per i professionisti attestatori dal redigere attestazioni false o anche semplicemente sciatte sotto il profilo informativo[7].
[1] Bricchetti, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare in diritto penale contemporaneo fasc. 7/8 2019, 93; Fontana, La disciplina penale, Il nuovo sovraindebitamanento, Bologna 2018, 273; Gambardella, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in Diritto penale contemporaneo, 27 novembre 2018; Sandrelli, Le esenzioni dai reati di bancarotta e il reato di falso in attestazioni e relazioni, Il Fallimento 7/2013, 789; Bricchetti, Soluzioni concordate delle crisi di impresa e rischio penale dell’imprenditore, Le Societa` 6/2013 689, Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) contratto e impresa 2/2013, 322; Fiore S., Nuove funzioni e vecchie questioni per il diritto penale nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Il Fallimento 9/2013 1193; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate alle crisi d’impresa. Una primissima lettura, in Diritto penale contemporaneo, 2013, 1, 84 ss.; Tetto, La (ritrovata) indipendenza del professionista attentatore nelle soluzioni concordate della crisi di impresa, in questa Rivista, 2013, 675 ss; Mucciarelli, Il ruolo dell’attestatore e la nuova fattispecie penale di ‘‘Falso in attestazioni e relazioni’’, pubblicato il 3 agosto 2012 sul sito www.ilfallimentarista.it.; Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017.
[2] Tetto La (ritrovata) indipendenza del professionista attestatore nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Fallimento 6/2013, 688; Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) Contratto e Impresa 2/2013, 322. Ai fini della valutazione dell’attività dell’attestatore un rilievo particolare ha assunto il documento redatto, in data 6 giugno 2014, a cura dell’AIDEA, Accademia Italiana Di Economia Aziendale, dell’ IRDCEC, Istituto di ricerca dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, dell’ANDAF, Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari; dell’APRI, Associazione Professionisti Risanamento Imprese; dell’ OCRI, Osservatorio Crisi dal titolo “Principi di attestazione dei piani di risanamento”
[3] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[4] Brichetti – Pistorelli, Operazioni di risanamento, professionisti nel mirino, in Guida al Diritto, 2012, n. 29, pag. 45 e ss; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, cit., pag. 97. V. Demarchi Albengo, La fattispecie incriminatrice di cui al nuovo articolo 236 bis legge fall.: la responsabilità penale dell’attestatore, in Il Caso.it, doc. 325/2012, pag. 6.
[5] Bruno – Caletti, L’art. 236 bis l.fall.: il reato di falso in attestazioni e relazioni, in A. CADOPPI – Canestrari – Manna – Papa, Diritto Penale dell’Economia, Torino, 2017, II, pag. 2260; D’Alessandro, Il delitto di false attestazioni e relazioni, tra incerte formulazioni legislative e difficili soluzioni esegetiche, cit., pag. 552.
[6] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[7] Il reato di falso in attestazioni e relazioni: un delitto fantasma? Jannuzzi-Regi in diritto penale contemporaneo n. 5/17
di Bruno Giordano
Tre anni fa veniva approvata la legge 199 per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro. Migliaia di processi con centinaia di arresti in tutta Italia, sfruttamento economico e umano, azzeramento di qualsiasi diritto sociale, condizioni abitative mortificanti, decine di aziende sottoposte al controllo giudiziario, hanno fatto emergere un paese in cui la regola è il lavoro nero. Un quadro criminoso, sociale ed economico ben più grave ed esteso di quello che si pensava mille giorni fa: non soltanto lo sfruttamento di immigrati nei campi ma di tutti e in tutti i settori in cui il bisogno fa lievitare l’offerta di manodopera a qualsiasi prezzo: edilizia, call center, cantieri navali, pesca, sanità, trasporti, servizi; da Ragusa a Monfalcone, italiani e stranieri, uomini e donne, giovani e anziani, e chiunque debba accettare in silenzio qualsiasi paga.
Il silenzio è la prima vera piaga purulenta. Il bisogno diventa rassegnazione, omertà, ma non delazione; pochissime le denunce dei lavoratori che non riescono a ribellarsi. Per tutelare le vittime occorre innanzi tutto garantire il patrocinio a spese dello Stato, come già avviene per le vittime di reati sessuali, e una serie di benefici anche per chi non ha bisogno di un permesso di soggiorno.
Occorre garantire anche le imprese sane. Chi sfrutta il lavoro non sostiene nessun onere sociale o costo per la sicurezza, non produce di più ma abbassa il costo del lavoro, entra nel mercato con beni o servizi meno cari, usando la dignità dei lavoratori, la forma più cattiva di concorrenza sleale. I costi più bassi sono il frutto dell’abuso dei diritti sociali dei lavoratori sfruttati che ricevono comunque i servizi sanitari, amministrativi, previdenziali, assicurativi, giudiziari. Tutto il lavoro grigio o nero, e a maggior ragione quello sfruttato, diventa spesa pubblica sostenuta da tutti noi, e soprattutto dalle imprese sane che così pagano un doppio conto, nel mercato per la slealtà del concorrente sfruttatore e al fisco per l’aumento della spesa pubblica. Lo sfruttamento non è solo un reato ma la violazione dell’etica del mercato del lavoro e della finanza pubblica. Il mondo delle imprese sane, quindi, dovrebbe essere il primo a chiedere un’applicazione a tappeto della legge 199. Questo è il vero rating di legalità. Non mera pubblicità ma concreta responsabilità sociale.
Soprattutto in agricoltura - il settore primario più foraggiato da sovvenzioni e fondi europei e più gratificato dalla leva fiscale - taluni si giustificano per via dei prezzi troppo bassi imposti dall’oligarchia della grande distribuzione organizzata, che scarica sui produttori ricavi inferiori alle aspettative costringendoli alla riduzione dei salari, ben al di sotto di quanto previsto nei contratti collettivi, anche provinciali. Un’autoassoluzione di coscienza che fa tornare indietro le lancette a quando era il mercato a governare i diritti, ma la nostra Costituzione economica e sociale non tutela i più forti che non sanno resistere a chi è ancora più forte, ma innanzi tutto i più deboli. Il diritto e i diritti governano il mercato, non il contrario.
Soprattutto in agricoltura il caporalato del terzo millennio si insinua tra le pieghe del contratto di somministrazione usato per dare una formale copertura a chi è in grado di reclutare lavoratori stagionali, ben consapevoli dell'obbedienza e rispettoso silenzio che devono all’intermediario dell’agenzia di somministrazione, salvo perdere il lavoro per tutta la stagione.
Il controllo e la vigilanza sulle agenzie è svolto dal Ministero del lavoro che può procedere anche alla revoca dell'autorizzazione, e da parte delle Regioni che possono revocare l’accreditamento delle agenzie. Ma questo non avviene.
Emerge anche un vero e proprio caporalato urbano. Lavoratori di giornata vengono reclutati ogni mattina nelle periferie delle città per l'edilizia, trasporti, facchinaggio, lavori di manutenzione, servizi a domicilio. Insomma dove è più difficile, ma non impossibile, eseguire i controlli. Le zone franche dello sfruttamento sono quelle in cui non arrivano i controlli, che necessitano di interventi sul territorio con una visione complessiva di vari fattori: immigrazione, sicurezza del lavoro, presenza sul territorio, criminalità organizzata. I soggetti incaricati dell’attività di vigilanza (Ispettorato nazionale del lavoro,con Inps e Inail, ASL, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato) sono troppi per consentire la necessaria attività di coordinamento, manca un’unica banca dati e un’Agenzia unica che concentri tutte le forze e le competenze in materia. Contro ci sono resistenze, non argomenti.
Non è solo lotta al caporalato, ma scelta di politica economica e sociale obbligata dall’art. 41 della Costituzione. Ci vuole ancora coraggio, e volontà.
Uno dei problemi endemici dalle nostre parti è rappresentato dalle zanzare. Ricordo da sempre l’eterna lotta con quel fastidioso ronzio notturno che non riesci a superare, che ti costringe o a soffocare sotto le lenzuola durante le nostre caldissime estati oppure ad iniziare improbabili e tragicomiche cacce notturne, armati di improvvisate armi i cui segni si vedranno la mattina successiva sulle incolpevoli mura della stanza da letto.
Ho un vivido ricordo della mia infanzia, una passeggiata fatta con i miei genitori, per fortuna in auto, in una zona di mare periferica; ad un certo punto l’auto venne letteralmente sopraffatta da una nuvola di zanzare che si assieparono intorno ai fanali accesi dell’auto; per fortuna i finestrini erano tutti chiusi, salvo il deflettore dello sportello anteriore (una seicento vecchio modello) da cui sporgeva la mano di mio padre che in breve tempo venne assalita dagli insetti.
Per fortuna l’opera di disinfestazione ha evitato tali fenomeni così evidenti, almeno nelle città, ma anche la natura si è evoluta ed ha inventato le zanzare tigre che lavorano h.24, non più al solo tramonto come ai bei vecchi tempi.
Questi ricordi mi sono recentemente tornati in mente per una vicenda giudiziaria, una delle tante che costellano i nostri tribunali ogni giorno.
I Carabinieri vengono chiamati un giorno dal Pronto Soccorso di un ospedale in quanto era stata da poco ricoverata una donna con una ferita d’arma da fuco alla gola.
Esiste, per fortuna, in tal senso un preciso obbligo di denuncia per i sanitari.
Accorsi sul luogo i Carabinieri non hanno potuto interrogare la donna in quanto sottoposta ad un delicato intervento chirurgico, ma trovano sul luogo il marito, una loro vecchia conoscenza, mille volte arrestato per vari episodi di spaccio di droga, furtarelli, ricettazioni. In alcuni casi coinvolto in qualche associazione criminale del luogo piuttosto pericolosa, uscito sempre indenne da queste accuse probabilmente perché era uno dei pesci più piccoli, l’ultimissima ruota del carro.
L’uomo consegna spontaneamente un borsetto all’interno del quale viene rinvenuta una pistola, risultata rubata in precedenza, da cui era stato esploso il colpo che aveva ferito la donna.
L’uomo viene tratto in arresto. La donna supera indenne l’operazione.
Le indagini appurano che nessun contrasto esisteva tra i due coniugi; benché pregiudicato, l’uomo non era considerato avere un’indole violenta, non aveva precedenti per lesioni, rissa, o maltrattamenti nei confronti della moglie o dei figli.
Atteso che era considerato un pesce piccolo gli investigatori giungono ad ipotizzare che gli fosse stata consegnata in custodia la pistola da parte di qualche esponente di rilievo di una qualche associazione.
Inspiegabile, però, il ferimento della donna che, ripresasi per fortuna dall’intervento, non solo non ha sporto denuncia ma ha anche inviato al tribunale una missiva dichiarando di essere disponibile a riprendersi il marito in casa.
Missiva, invero, dal tenore vagamente minaccioso nei confronti del coniuge, tanto da essere considerata dal difensore di questi un ottimo deterrente per evitare nuovi similari episodi.
In occasione dell’interrogatorio di garanzia, a sorpresa, l’uomo ha deciso di fornire la sua versione dei fatti. Normalmente quelli che hanno già una certa esperienza del mondo criminale, della giustizia e dintorni, insomma i laureati in criminologia attiva, avendo almeno tre o più esperienze carcerarie, non parlano mai davanti ai giudici.
Nel nostro ordinamento, infatti, la parola dell’imputato vale processualmente poco, avendo egli “diritto” di non dire la verità, non dovendo prestare, infatti, alcun giuramento preventivo, ma quanto egli dice innanzi al giudice può essere sempre utilizzato contro di lui.
Il consiglio che spesso e volentieri i difensori danno, pertanto, specie durante le prime fasi delle indagini, è quello di non parlare.
A sorpresa, pertanto, il nostro indagato ha fornito la sua versione dei fatti, ovviamente nella sua lingua madre che qui si traduce:
“Dottò! È stato un incidente. Io avevo in mano il borsello con all’interno la pistola. Stavo impazzendo per il caldo e per una benedetta zanzara che aveva ronzato sulle nostre cape tutta la notte senza farci chiudere occhio. L’ho vista sul muro e non ci ho pensato su e gli ho tirato contro il borsello. Quello ha sbattuto sul muro ed è partito il colpo di pistola che ha pigliato quella sventurata e santa donna di mia moglie. Dottò, sono dispiaciutissimo!”
Sul fondo del borsello, in effetti, è stato ritrovato il buco provocato dal proiettile.
Non il cadavere della zanzara molesta.
FB 13 settembre 2013
di Marco Guida
È alto oltre un metro e novanta, peserà al massimo 60 chili. Quando le guardie penitenziarie lo portano in aula e lo fanno accomodare nella piccola cella, è costretto a piegare la testa per passare sotto l’uscio della porta. È nero, nerissimo di carnagione: il bianco degli occhi impressiona per il contrasto con la sua pelle; ha i capelli con riccioli raccolti alla “rasta”, sguardo basso, le mani in avanti, quasi costrette in preghiera dalle manette.
Non sappiamo quanti anni abbia con esattezza, né dove sia nato: in Italia è già approdato diverse volte ed ogni volta ha dato un nome, una data di nascita, un luogo di provenienza differente. Non hanno fantasia gli immigrati, oppure i funzionari che raccolgono per primi le loro generalità e che, forse, non comprendendo la loro lingua cercano di esemplificare: moltissimi cittadini extracomunitari sono nati il primo gennaio, di un qualche approssimativo anno.
Il nostro Babu forse ha 19 anni, forse ne ha 25; forse è nato in Gambia, forse in Gabon; non sappiamo quando è arrivato, sappiamo con certezza quello che non ha: non ha niente, neanche un posto dove dormire.
Lo hanno beccato per la terza volta in pochi giorni a vendere hashish insieme ad un suo connazionale: la prima volta è stato processato per direttissima, ha preso dieci mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena, è stato subito scarcerato.
Dopo due giorni ci è ricascato, ma è stato denunciato a piede libero, un colpo di fortuna, ma quattro giorni dopo è stato nuovamente colto in flagranza di reato, mentre vendeva marijuana ad un ragazzo; gli hanno trovato altri venti grammi di marijuana; ha cercato di nascondere i soldi che aveva ricevuto, anzi si è mangiato una banconota da venti euro e lo hanno fermato mentre se ne stava mangiando un’altra.
Durante i primi giorni di detenzione ha tentato un gesto lesionistico.
Per quasi tutto il tempo se ne sta in un angolo della cella tenendo gli occhi bassi; quando solleva qualche volta la testa ha uno sguardo tristissimo, senza speranza: a 19 o a 25 anni quello sguardo è una sconfitta per il genere umano.
Noi non siamo la Croce Rossa, non siamo i servizi sociali, noi non possiamo aiutare, noi dobbiamo solo decidere se è pericoloso per la comunità, se è necessario che rimanga in prigione per evitare che torni a commettere altri reati, a vendere di nuovo droga.
Non puoi, però, evitare di pensare a quella oceanica tristezza: lo sappiamo bene, è il prezzo che dobbiamo pagare per avere scelto una professione che produce “decisioni”.
Non ha una casa. Se avesse una casa, se avesse un posto dove stare, ma non da solo, aiutato da qualcuno, probabilmente potremmo prendere un’altra decisione. Ma è solo, disperatamente, dannatamente solo e senza uno straccio di abitazione. Rimetterlo in libertà vorrebbe dire riconsegnarlo ai suoi aguzzini, a quelli che usano i disperati come manovalanza, per un piatto di pasta; vorrebbe dire rispedirlo alla sua disperazione. Il carcere purtroppo è l’unica alternativa.
Rigettiamo la sua richiesta di scarcerazione, invitando il suo attento e volenteroso difensore di ufficio a rivolgersi ai servizi sociali per cercare una collocazione alternativa.
L’interprete di lingua inglese, unica lingua che comprende un poco in alternativa alla sua lingua madre originale che non sappiamo quale sia, gli traduce la nostra decisione.
Babu, quel gigante nero, nerissimo, lungo e magro, si piega su se stesso e comincia a piangere.
Lacrime, senza singhiozzi o gemiti, scendono lungo le guance nere, dignitosamente, in silenzio.
L’aula in quel momento è gremita di gente, di avvocati ma il pianto dell’uomo invoca rispetto e tutti comprendiamo il dolore e la sofferenza.
Il silenzio, un angosciato e rispettoso silenzio, accompagna i passi stanchi dell’uomo nero venuto dall’Africa, passato per chissà quali e quanti mondi prima di approdare in quest’aula di tribunale dove gente bianca, sconosciuta, che parla una lingua per lui incomprensibile, ha deciso di togliergli l’unica cosa che gli rimaneva: la libertà.
FB 20.10.14
di Marco Guida
È una splendida mattina di maggio, c’è il sole che gioca con qualche nuvola, si fa vedere e poi si nasconde, vuole giocare, vuole invogliarti ad andare a scoprire il mare.
Non si può. Il dovere chiama. Sei un magistrato della Repubblica, sei un onesto Servitore della Stato, ti attende il tuo tribunale dove passi da anni la maggior parte del tuo tempo.
Oramai lo conosci benissimo quello strano palazzo, grigio e rosso, posto di fronte al Cimitero per cui la sera ti fanno compagnia quella simpatiche luci votive.
Non è nato come Tribunale, ovviamente, ma era una soluzione provvisoria in attesa della costruzione del nuovo palazzo di Giustizia: nasce come clinica per anziani, o qualcosa di simile, ed è stato adattato in tutta fretta tanto doveva ospitare gli uffici giudiziari per un paio di anni, diciamo tre per i più pessimisti.
Siamo lì da 17 anni. Qualche anno addietro, in pieno agosto, dei sinistri scricchiolii, qualche cornicione caduto e, infine, dei pericolosi cedimenti di alcuni piloni hanno fatto scattare un primo allarme, sembrava che dovessimo abbandonare il tutto entro 24 h; frenetica ricerca di un altro sito in piena estate, a 41 gradi, un’impresa disperata.
Poi il miracolo. Anzi. Contrordine: il palazzo rischia di cadere ma non troppo. Qualche iniezione di cemento, una pittata qua e là, una bella relazione dei Vigili del Fuoco che dicono che tutto sommato non vi è un rischio “imminente” di crollo e la vita può ricominciare. L’ottimismo è tutto nella vita.
Settembre 2015. Colpo di scena. Le competenze in materia di edilizia giudiziaria vengono centralizzate, passano al Ministero della Giustizia che improvvisamente decide che il nostro Palazzo non è idoneo per uffici giudiziari e quindi, per risolvere brillantemente il problema, pensa bene di non pagare più il canone al proprietario, ovvero l’INAIL, cioè un altro pezzo dello Stato…
E si sa, se non paghi il canone, il palazzo giorno dopo giorno diventa fatiscente finchè un giorno di maggio, in una splendida giornata, improvvisamente la proprietà, ovvero un pezzo di Stato, deposita al conduttore, cioè ad un altro pezzo dello Stato, una perizia in cui un luminare del settore dice che quel palazzo sta crollando. Perizia che è stata svolta per diversi mesi in cui nessuno ha pensato di mettere al corrente il conduttore o chi per lui. Si sa, sono fuggevoli dimenticanze, può capitare, mica si può pensare a tutto.
In quella splendida mattinata di maggio i dirigenti degli uffici giudiziari e vari peones convenuti si sono trovati improvvisamente ad affrontare l’emergenza: occorre chiudere, ma come fai ad interrompere il servizio giustizia di una città? I problemi sono milioni, sono pazzeschi, si scala una montagna di ghiaccio a mani nude.
Finiamo sotto le tende a celebrare i processi, anzi solo a rinviarli per evitare di dover rinotificare tutto, si spostano i processi a carico di detenuti al Tribunale Civile, o presso la sede di Bitonto ancora aperta.
Il Ministro della Giustizia, appena nominato, arriva a Bari ma non capisce l’enormità della situazione, rifiuta di nominare un commissario straordinario, decide che il tutto può essere affrontato con le procedure ordinarie ed infine fa approvare un decreto legge che sospende tutti i processi penali pendenti innanzi al Tribunale di Bari sino al 30 settembre 2018, con la conseguenza che siamo stati costretti ad effettuare oltre 80.000 notifiche per riprendere l’attività ordinaria, senza che la task force di dipendenti promessa dal Ministro per fare fronte a ciò sia mai arrivata.
La Giustizia a Bari si è fermata per quasi sette mesi, molti piccoli studi di avvocati hanno chiuso, la percezione di insicurezza nella gente è stata fortissima, benchè la Procura abbia continuato a lavorare sempre, in condizioni impossibili, così come la sezione GIP GUP.
Abbiamo effettuato due traslochi nel giro di un anno, prima presso le varie sedi provvisorie (ben cinque) in cui vi è stata la diaspora dei vari uffici, e poi nella sede “ponte” ove finalmente ci siamo ricongiunti, quasi tutti.
Ebbene si, il Ministro ha affermato che si tratta di una sede “ponte” perché Bari ha diritto ad una sede nuova … peccato che da quasi un anno lo studio di pre fattibilità del nuovo polo della giustizia barese giaccia su qualche scrivania in via Arenula.
Lo dico con grande orgoglio: abbiamo fatto un miracolo, noi magistrati con tutto il personale amministrativo e con la grande collaborazione e pazienza degli avvocati.
Ne sono fiero, ci siamo comportati come veri Servitori dello Stato, rimboccandoci le mani e rimettendo in piedi un servizio essenziale per la comunità.
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