ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
App Immuni: una storia stran(ier)a e incompiuta
di Lara Trucco
Sommario: 1. Premessa. – 2. La fase I: la App tra Unione europea e Governo italiano. – 3. La fase II: tra i due litiganti…Google ed Apple godono. – 4. La fase III: …tornando dalla App personale di tracing. – 5. …per andare alla piattaforma multinazionale di tracking. – 6. …passando dal server nazionale di testing ed identification. – 7. Una “costituente tecnologica” eurounitaria (ed italiana)?
1. Premessa
La vicenda della cd. “App Immuni” (nel prosieguo: App) offre uno spaccato di un certo interesse delle dinamiche in atto sul fronte delle strategie di contrasto al Covid-19 e delle relative criticità: questioni su cui ci si propone di portare in questa sede l’attenzione.
All’indomani dell’ufficializzazione dello stato di pandemia, infatti, l’opportunità di ricorrere all’impiego di sistemi di tracciamento per interrompere la diffusione dei contagi secondari è entrato, com’è noto, a pieno titolo nel dibattito scientifico ed altresì mediatico, portando il nostro Stato, alla pari di altri, ad impegnarsi nella loro adozione.
Le strade seguite sono state varie, essendosi passati da soluzioni tecnologiche più blande e meno efficaci; ad altre, invece, maggiormente intrusive rispetto ai dati personali “sensibili” e “supersensibili”, i quali, anche per tale motivo, hanno suscitato maggiore attenzione, rischiando, tra l’altro, di mettere a repentaglio altri diritti fondamentali, o di esporre ad una stigmatizzazione individuale e sociale i soggetti che hanno subito il contagio. Di qui, il complesso tema del bilanciamento dei valori in campo, specie una volta constatatosi che ciò a cui ad oggi non hanno potuto altri fattori di crisi, è arrivato a poterlo la crisi pandemica (essendosi passati da una situazione in cui dallo smartphone si voleva sapere «what exactly your finger was clicking on», ad una in cui si vuole, inoltre, conoscere «the temperature of your finger and the blood-pressure under its skin»[1]).
Ma, più che in altre circostanze, ha generato sconcerto l’effetto sorpresa, che si auspica non debba più ripetersi nell’eventuale ripresentarsi di fenomeni simili. Ed anche per questo l’imperativo è quello di uno sforzo teso all’aggiornamento, grazie all’ausilio dello stesso progresso tecnologico, di strumenti di lavoro originatisi in altre epoche, in una prospettiva constitutional oriented, fermo restando l’acquis giuridico-culturale già maturato[2].
2. La fase I: la App tra Unione europea e Governo italiano
La delicatezza di una tale situazione è stata immediatamente colta in ambito eurounitario, da parte, in particolare, dell’European Data Protection Board (nel prosieguo: EDPB), che, nel quadro della sua attività di promozione della cooperazione tra le autorità di protezione dei dati dell’Unione, ha prontamente evidenziato la necessità di mettere in campo «tecniche moderne» per la lotta contro il Covid-19, «nell’interesse dell’umanità»[3]; ammonendo, nel contempo, sul necessario rispetto, anche in contesti emergenziali, di tutti i diritti della persona, non ultimi quelli legati alla sfera di riservatezza individuale, protetti, com’è noto, espressamente dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (artt. 7, 8 e 52).
È stato, del resto, su tale base, nonché tenendosi presenti le altre specifiche ed attuative discipline europee sulla protezione dei dati personali (spec. GDPR[4] e direttiva e-privacy[5]), che sono stati dapprima enucleati e, dipoi, meglio specificati i principi fondamentali a cui gli Stati membri si sarebbero dovuti attenere: volontarietà, interoperabilità, copertura normativa, esplicitazione delle finalità, minimizzazione, trasparenza, protezione, pseudonimizzazione, sicurezza, temporaneità[6] (v. la tabella che segue).
I principi eurounitari in materia di applicazioni mobili per il contrasto al Covid-19
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European Data Protection Board (19 marzo) | Commiss. UE Raccomandazione (8 aprile) | Commiss. UE Orientamenti e Toolbox Stati (16 aprile) | EDPB Lettera e Linee-guida (14 e 21 aprile)
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1. Volontarietà
| Volontarietà | Volontarietà Facoltatività No conseguenze negve | Volontarietà Facoltatività No conseguenze negve |
2. Interoperabilità
| Interoperabilità | Interoperabilità Coord. con autorità sanitarie Tittà autorità sanitarie nazli | Interoperabilità Coord. con autorità sanitarie Tittà autorità sanitarie nazli |
3. Copertura normativa
| “Legge” | “Legge” Necessarietà Proporzionalità Opportunità (efficacia) | “Legge” Necessarietà Proporzionalità Opportunità |
4. Finalità
| Finalità | Finalità | Finalità |
5. Minimizzazione
| Minimizzazione
| Minimizzazione
| Minimizzazione Necessità Proporzionalità |
6. Trasparenza | Trasparenza Informazione
| Trasparenza Informazione Accessibilità | Trasparenza Informazione Accessibilità Codice sorgente |
7. Protezione | Protezione Controllo dell’interessato Riservatezza Tutela dei dati Accesso, rettifica, cancellazne No stigmatizzazione socle | Protezione Controllo dell’interessato Riservatezza Tutela dei dati Accesso, rettifica, cancellazne No stigmatizzazione socle | Protezione Controllo dell’interessato Riservatezza Tutela dei dati Accesso, rettifica, cancellazne No stigmatizzazione socle |
8. Pseudonimizzazione
| Pseudonimizzazione Aggregazione Anonimizzazione | Pseudonimizzazione Aggregazione Anonimizzazione Gestione separata dei dati | Pseudonimizzazione Aggregazione Anonimizzazione Gestione separata dei dati |
9. Sicurezza | Sicurezza Autenticità Integrità | Sicurezza Autenticità Integrità | Sicurezza Autenticità Integrità Analisi d’impatto Privacy by design e by default |
10. Temporaneità | Temporaneità Conservazione in loco Cancellazione Riesame periodico effvo | Temporaneità Conservazione in loco Cancellazione Riesame periodico effvo | Temporaneità Conservazione in loco Cancellazione Riesame periodico effvo Valutazione scientifica |
Pertanto, quando, all’indomani della dichiarazione dello stato di emergenza[7], il nostro Paese si è inserito nel novero di quelli che andavano facendo ricorso ad una siffatta soluzione tecnologica, la “cornice normativa” era già stata ampiamente tracciata a livello sovranazionale, nella direzione della valorizzazione della tecnica di tracciamento. Di qui, pertanto, l’accantonamento, ad es., della tecnologia GPS, ultronea in quanto proiettata verso l’identificazione e geolocalizzazione degli utenti (tracking) a favore del bluetooth Low Energy con la sola rilevazione (tracing) dei contatti ravvicinati tra i dispositivi (v. infra, il §4).
Si deve, in particolare, all’allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile il debutto, già con una delle proprie prime ordinanze, della progettazione dell’App, attribuendo, contestualmente, nel quadro della sua attività di coordinamento degli interventi nazionali per fronteggiare l’emergenza, la facoltà ai soggetti operanti nel Servizio nazionale di protezione civile “ed in via del tutto eccezionale” anche ad altri, di svolgere trattamenti di dati personali “particolari” concernenti lo stato di salute (art. 5 dell’ord. n. 3 del 2020)[8]. È stato poi il “Commissario Covid” nel frattempo nominato[9] ad affidare l’effettiva predisposizione dello strumento ad una società̀ operante nel settore, con la previsione della stipula di un “contratto di concessione gratuita della licenza d’uso sul software e di appalto di servizio gratuito” (art. 6, c. 5 dell’ord. n. 10 del 2020)[10].
3. La fase II: tra i due litiganti…Google ed Apple godono
All’inizio della cd. “fase II”, il nostro Paese ha potuto dunque essere ricompreso tra quelli che hanno optato per una applicazione mobile intesa al contrasto alla pandemia a basso tasso di intrusività[11]; sebbene, per vero, ancora poco di ufficiale si sapesse su come sarebbe funzionato il “Sistema Immuni” più ampiamente considerato (la stessa stipula del contratto di progettazione rimaneva in standby, in attesa di “indicazioni” più chiare[12]). Volendo azzardare un paragone, si potrebbe dire che, in quel momento, dell’autovettura era noto l’impianto elettrico e la scocca, ma non ancora la carrozzeria ed il motore, né tanto meno il sistema di sicurezza. Sicché il parere espresso dal Garante dei dati personali[13] sulla proposta normativa predisposta all’uopo (contenute all’art. 6 del d.l n. 28 del 2020[14]) non ha potuto che in via interlocutoria essere positivo, consistendo i relativi rilievi in una serie di “raccomandazioni” sul “da farsi” circa, proprio, le specifiche tecniche che si fosse inteso adottare.
La situazione si è sbloccata all’indomani della decisione, da parte del nostro e di altri governi dell’UE, di abbandonare l’idea della predisposizione di una App (pan)europea “governata” dai singoli Stati (ed in prospettiva dall’UE) e, quindi, di tipo “centralizzato” (di tipo PEPP-PT), a favore dell’infrastruttura tecnologica di marca americana nel frattempo sviluppata e resa disponibile di concerto da Apple e Google (piattaforma A/G)[15], che vedeva e vede, invece, repository e data retention gestiti dagli stessi smartphone, secondo una soluzione considerata “decentralizzata” (DP-3T e soluzione A/G). Per cui la nuova architettura informatica ha determinato una differente modalità di trasmissione e conservazione dei dati degli utenti, dato che mentre con la soluzione centralizzata essi sarebbero stati gestiti, appunto, dal server centrale (nazionale), invece nella nuova struttura decentralizzata i medesimi vengono amministrati in via normale (ma cfr. infra, i §§ che seguono) in locale sullo smartphone (v. lo schema che segue).
L’impianto del Sistema Immuni conta, pertanto, ad oggi tre componenti fondamentali: la App installata sugli smartphone, il server nazionale ubicato presso il Ministero e la piattaforma situata, invece, oltre Atlantico, le quali, come vedremo, intervengono nel corso delle due delicate fasi in cui si svolge la procedura: quella “ante alert” (v. il §4) e quella “post alert” (v. il §6) di rischio contagio.
La novità non è stata scevra di problematicità sul piano normativo, perché sebbene dal legislatore fosse stata prospettata la possibilità di conservare i dati relativi ai contatti stretti “anche” nei dispositivi mobili degli utenti (art. 6, lett. e), d.l. n. 28 del 2020, cit.), la stessa normativa sembrerebbe presupporre un impianto centralizzato, là dove prevede che la piattaforma informatica per la gestione del sistema di allerta debba essere “unica” e “nazionale” (art. 6, c. 1, d.l. n. 28 del 2020, cit.), nonché realizzata dal Commissario “esclusivamente con infrastrutture localizzate sul territorio nazionale” (art. 6, c. 5, d.l. n. 28 del 2020, cit.). Senza dire poi che la stessa società chiamata a sviluppare la App è stata selezionata proprio in ragione della appurata idoneità a garantire la predisposizione di uno strumento conforme “al modello europeo delineato dal Consorzio PEPP-PT”[16].
Che, poi, la questione abbia una portata che oltrepassa i confini nazionali, è dato di vedere nella pervicace volontà di alcuni Stati europei (spec. Francia[17]) di continuare a puntare sul “modello centralizzato” al fine di preservare la propria “sovranità tecnologica”[18], finendosi, peraltro, con ciò, non senza un qualche paradosso, per intralciare l’interoperabilità dei sistemi operativi nella stessa aerea europea[19]. Per altro verso, mentre i due colossi americani vanno affermando la propria tecnologia in Europa, il versante asiatico sembra procedere per proprio conto sostanzialmente incurante dell’interesse comune allo sradicamento dell’epidemia[20].
4. La fase III: …tornando dalla App personale di tracing
È opportuno ora soffermarsi su una delle principali ragioni che avrebbero motivato la scelta di deviare rispetto allo schema di governance iniziale: e cioè la ritenuta migliore idoneità di una siffatta soluzione proprio a «tutelare con maggiore forza la privacy»[21]. Sebbene, una tale considerazione sia stata motivata dall’impossibilità che vi sarebbe stata di allestire “in house” una struttura tecnologica altrettanto affidabile in tempi così ravvicinati[22], nondimeno, della stessa meritano in ogni caso di essere esaminati gli esiti, nella non abbandonata ipotesi dell’adozione, nel prossimo futuro, di una soluzione a tutti gli effetti “europea”.
Ora, del tasso di intrusività della tecnologia bluetooth e, di conseguenza, della App isolatamente considerata si è detto (v. supra, il §2), restando, invece, da indagarne l’impiego nel quadro del Sistema Immuni ampiamente riguardato, alla luce, in particolare, delle specifiche tecniche (spec. dell’Application Programming Interface-API) intervenute strada facendo[23].
Nella cd. “fase II” si è appreso, dunque, che la riservatezza individuale dovrebbe essere garantita, in primis, “by design” oltre che dall’impossibilità di accedere ai dati personali contenuti nello smartphone dalla previsione dell’invio di un pacchetto di informazioni personali collegato ad un doppio scambio di codici parimenti pseudonimizzati. Ciò con l’obbiettivo di impedire la ricombinazione degli identificativi pseudonimizzati con le chiavi di co-decodifica necessari al tracing[24] e, più in generale, con tutte quelle “informazioni aggiuntive” (spec. di tipo biometrico, oltre che anagrafiche[25]), meglio idonee al tracking, in quanto in grado di risalire all’identità degli utenti[26].
Quanto, dunque, alla prima parte del processo tecnologico di contact tracing (v., infra, al § 6, la seconda parte), il contatto con gli altri smartphone, col relativo scambio dei dati e metadati[27] cifrati (che vengono poi memorizzati dagli stessi smartphone) avvengono attraverso identificativi casuali, pseudonimizzati ed altamente dinamici (i Rolling Proximity Identifier-RPI) avvicendantisi di frequente[28]; i RPI, a loro volta, vengono prodotti a partire da chiavi “secondarie” parimenti pseudonimizzate e casuali (i Rolling Proximity Identifier Key-RPIK), prodotte contestualmente da chiavi “primarie”(le Temporary Exposure Key-TEK) che sono di più lunga durata rispetto ai RPI[29]…il tutto da parte di algoritmi crittografici elaborati dal backend del sistema.
In questo quadro, a mettere particolarmente a rischio il suddetto “disaccoppiamento” dei dati di tracing da quelli concernenti l’identità degli utenti è la cd. “reidentificazione inferenziale” (spec. dei soggetti risultati positivi) da parte di quegli “App users” (o, più in generale, di quei soggetti) che, essendo in possesso di “informazioni aggiuntive” di vario tipo, possono ricostruire a ritroso la propria “catena” di contatti sino ad arrivare ad individuare la persona all’origine del contagio. Di qui il monito del Garante «di evitare le occasioni» in cui i suddetti identificativi di prossimità e pseudonimi di breve periodo inviati in broadcast, «possano essere rilevati da terzi[30]», ed associati ad altre informazioni identificative dell’utenza, a maggior ragione se risultate positive al test[31]. Se quanto appena considerato (a tacere di più generiche forme di hackeraggio) fa ritenere «improbabili, ma non impossibili»[32] attacchi di de-anonimizzazione che, per l’appunto, consentono di identificare l’utente associato a un insieme di pseudonimi, ad aggravare ulteriormente la situazione potrebbe essere l’elevato grado di vulnerabilità della stessa tecnologia bluetooth che, pur costituendo la base del sistema (v., supra, il §2) non costituirebbe «un protocollo particolarmente robusto[33]». Anche se poi, a ben vedere, l’insidia di maggior momento dell’architettura decentralizzata, potrebbe essere data dall’alto tasso di esposizione al rischio di furto e smarrimento dei device[34], data la moltiplicazione delle occasioni di leakage indotta delle stesse informazioni personali.
Per contro, è doveroso osservare come di analoghe fragilità non vadano esenti nemmeno i sistemi centralizzati, dovendo mettersi, sul piatto della bilancia, altresì, la constatazione della miniera di dati che in “un sol colpo” potrebbero esservi carpiti a seguito di un data breach ben mirato nell’ambito di un’architettura “unificata”[35]. Di qui la convenienza, sul piano metodologico, di limitare le verifiche al caso concreto in rapporto al tipo di dato ed all’infrastruttura tecnologica su cui si deve fare affidamento.
5. …per andare alla piattaforma multinazionale di tracking
Va considerata ora la grande quantità di informazioni personali di cui entrano in possesso i gestori del Sistema Immuni, concernenti la vita reale come la second life digitale dei propri utenti, data la possibilità, loro riconosciuta in via legislativa, di raccogliere dati ulteriori (spec. i cd. analytics), per il tramite degli stessi device, per fini di sanità pubblica e di miglioramento del sistema di allerta (art. 6, c. 1, d.l. n. 28 del 2020, cit.); per non dire della disponibilità di altre informazioni altamente identificative degli utenti (mac address del bluetooth, gli IP address ed i codici IMEI degli smartphone, solo per citarne alcuni)[36].
Il quesito allora s’impone se sia adeguato e sufficiente un atto di fiducia[37] nei confronti di soluzioni, per di più, estranee alla giurisdizione europea, per escludere che attraverso l’impiego di appositi algoritmi combinatamente ad altre tecniche (come il machine learning), sugli stessi analytics[38] e più ampiamente ancora sui big data[39] attinti, in primis, dagli stessi smartphone, si renda possibile non solo risalire all’identità degli utenti, ma financo dei medesimi profilare la persona e personalità, condizionandone, altresì, il comportamento[40].
Alla domanda, infatti, non potrebbe non rispondersi riproponendo il problema della “controllabilità dei controllori”, data la difficoltà di vigilare sul fatto che in particolare i gestori extraeuropei non utilizzino indebitamente le informazioni a propria disposizione, specie le chiavi di decriptazione dei dati personali pseudonimizzati che transitano e vengono stivati nell’ambito del sistema Immuni (v. supra, i §§3 e 4).
Si comprende, tra l’altro, lo scrupolo del Garante nel prevenire ogni forma di riassociazione degli stessi analytics «a interessati identificabili», assicurando, nel contempo, «l’adozione di adeguate misure di sicurezza e tecniche di anonimizzazione», nel rispetto dei principi di privacy by design e by default (di cui all’art. 25 del GDPR)[41]. Ma, soprattutto, non andrebbero in questa stessa prospettiva trascurati gli input provenienti (anche) dalla stessa Unione europea, circa l’importanza (tramontata definitivamente l’idea di poter “be alone” ed ancora in attesa dei necessari anticorpi tecnologici) di “be informed”, dotandocisi di un adeguato apparato competenziale e culturale, onde scongiurare il diffondersi di un altrimenti possibile analfabetismo tecnologico “di ritorno”. Per cui è, per l’appunto, nell’ottica della trasparenza e conoscibilità (oltre che nella prospettiva di uno sviluppo tecnologico condiviso), che, a chi domina il sistema, si chiede di rendere disponibili in forma gratuita e con licenze open source i codici sorgente dei programmi informatici, nonché il rilascio di precise informative dei meccanismi di funzionamento delle medesime tecnologie e dei diritti dei soggetti interessati dai relativi trattamenti di dati (secondo, del resto, la filosofia propria delle norme europee in materia)[42].
È, del resto, su simili premesse che, tornando a quanto si diceva riguardo al sistema Immuni, ad Apple e Google si è reclamato di meglio chiarire, in particolare, le caratteristiche degli algoritmi di calcolo utilizzati (spec. per la valutazione del rischio di esposizione al contagio), la portata dei bug di sistema presenti (spec. quanto alla generazione di “falsi positivi” e “falsi negativi”), nonché le autorizzazioni di accesso al sistema (spec. quanto ai possibili interventi degli amministratori dei sistemi operativi, sulla rete e sulle stesse basi dati)….precisandosi, altresì, i rispettivi ruoli, «in ossequio ai principi di trasparenza e responsabilizzazione»[43].
6. …passando dal server nazionale di testing ed identification
Tornando al versante infrastrutturale, va portata attenzione all’ulteriore crocevia di informazioni che, specie in prospettiva, potrebbe essere il “server” (rectius: la “piattaforma”, nelle intenzioni del legislatore) del Ministero della Salute, in capo al quale è stata posta la titolarità del trattamento dei dati nel quadro del Sistema Immuni (art. 6, c. 1, d.l. n. 28 del 2020, cit.).
È, infatti, lo stesso dato normativo a prevedere la “complementarietà” delle “modalità operative del sistema di allerta tramite la piattaforma informatica” alle ordinarie modalità in uso nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (art. 6, c. 1, d.l. n. 28 del 2020, cit.); acconsentendo, altresì, a che i dati raccolti attraverso l’applicazione possano essere utilizzati “in forma aggregata o comunque anonima”, per fini di “sanità pubblica, profilassi, statistici o di ricerca scientifica” (art. 6, c. 3, d.l. n. 28 del 2020, cit.). A ciò vanno sommate, poi, le informazioni “aggiuntive” che potranno rendersi disponibili dall’innesto di patch, interconnesse, peraltro, con la sopra esaminata piattaforma straniera A/G (così da avere messo in agenda l’implementazione dei “diari clinici” degli utenti, mentre già si parla dell’implementazioni di “passaporti sanitari digitali” e delle “cartelle cliniche” dei pazienti)[44].
Tanto più che a conferire al Ministero un ruolo sul piano puramente giuridico, al momento comparabile a quello che il binomio A/G ha su quello tecnologico, è il fatto che, già oggi, si tratta del (solo) soggetto a cui è legittimamente consentito di conoscere l’identità delle persone risultate positive al Covid-19.
Gli operatori sanitari del SSN sono, infatti, ad oggi, i soli ai quali, a quanto ci consta, risulta possibile rivolgersi ed a cui, in questi casi[45], è necessario fornire le proprie anagrafiche, appartenendo ad essi il delicato compito di “attestazione”, a partire da quel momento, della correttezza della procedura[46]. Dal che, sebbene viga l’obbligo di segretezza, la evidenziata «potenziale collusione» tra l’entità che rileva la positività del paziente e il sistema di gestione dei server che gestiscono il proximity tracing[47].
Venendo dunque alla seconda parte del processo tecnologico (v., supra, al §4 la prima), il Sistema Immuni è programmato in modo tale da aversi una connessione periodica in automatico degli smartphone ad un Diagnosis Server gestito dallo stesso Ministero della Salute (v. infra) con lo scambio tra gli smartphone degli identificativi giornalieri TEK di cui si è detto, associati ai casi risultati positivi e la verifica della loro eventuale “corrispondenza” con la lista dei RPI memorizzati dagli stessi smartphone nel periodo di riferimento (v. supra, il §4). A questo punto, in caso di esito positivo, è il software A/G a fare, per così dire “da collante” tra le varie componenti del sistema consentendo il percorrimento “a ritroso” delle tappe compiute nella prima parte del processo (derivazione dalle TEK delle RPIK e da esse, quindi, gli identificativi temporanei RPI), al fine di risalire al device di riferimento a cui inviare l’alert di contagio. A questo punto le persone destinatarie dei relativi alert possono a loro volta decidere di sottoporsi ai controlli sanitari al fine di verificare il proprio stato di salute, rivolgendosi quindi, in caso di esito positivo, agli operatori sanitari, secondo un processo circolare che per noi, a questo punto, si chiude[48].
Come si vede, il meccanismo ed il flusso di informazioni che vengono messe in moto dal sistema necessitano di un’infrastruttura tecnologica solida ed di un’organizzazione amministrativa strutturata, trattandosi delle condizioni basilari per il conseguimento degli obbiettivi di efficacia e GDPR compliance. Sembra però lecito nutrire qualche dubbio al riguardo, data la disorganicità che, al momento, affligge l’impianto chiamato a tenere la regìa delle cose in ambito interno. In particolare, al momento non risultano del tutto perspicue le specifiche sulla base delle quali il Ministero dell’economia e delle finanze, insieme ad un’azienda operante nel settore dell’ICT (in house), in qualità di responsabili del trattamento, procedono, a supporto dello stesso Ministero della Salute[49], all’erogazione del servizio di interazione con gli operatori sanitari[50]. Inoltre, al momento, non paiono nemmeno chiare le specifiche tecniche e giuridiche in cui agiscono gli ulteriori fornitori di servizi sul territorio che (una volta accantonata l’idea di far convergere direttamente il flusso di dati sul server “centrale”) in qualità di “subresponsabili” dei trattamenti di dati, sono chiamati a mettere a disposizione la propria rete di distribuzione dei contenuti in varie parti del territorio nazionale (il Content Delivery Network)[51] quali “nodi di prossimità” tra il centro (il Ministero della Salute) e la periferia (gli smartphone)[52].
7. Una “costituente tecnologica” eurounitaria (ed italiana)?
Difficile tentare ora conclusioni anche sommarie data la fluidità della situazione, ma dalla vicenda Immuni sembra comunque confermata la stretta interrelazione tra governance politica ed infrastruttura tecnologica, non senza ricadute sulla tutela di diritti fondamentali (legati, in partic., alla sfera della privacy).
Il ritardo, inoltre, dell’Unione europea e degli Stati membri rischia di farsi irrimediabile se non si procede celermente alla messa a punto anche di un’“Unione digitale”[53] e all’approntamento di una piattaforma comune (“paneuropea”), solida e capillarmente diffusa tra i vari Stati membri, su cui addensare le informazioni di carattere personale[54]. Una tale cessione di “sovranità digitale” da parte degli Stati membri, mentre, dunque, nell’immediato, potrebbe verosimilmente contribuire a colmare lo scarto tra la debolezza infrastrutturale ed invece la “forza” del dato normativo eurounitario in materia, nel più lungo periodo, potrebbe fare da contrappeso al solidificarsi di monopoli tecnologici su scala globale[55].
Dinnanzi alla situazione attuale, che vede sostanzialmente la vigenza di due modelli di governance tecnologica (anche) dei dati personali – uno “a gestione autoritaria”, in mano a poteri pubblici non democratici nel senso invalso nella tradizione costituzionalistica occidentale (v. Cina) ed un altro, invece, “a gestione indipendente”, rilasciata completamente nella disponibilità di soggetti privati (Stati Uniti) – l’auspicio sarebbe che un’Unione tecnologica europea coltivi la sua connaturata via di una “gestione democratica” dell’infrastruttura e dei trattamenti.
In questo scenario, guardandosi all’Italia, risulta, a maggior ragione, valida la speranza che proprio verso una “sana” gestione dell’infrastruttura tecnologica vengano subito indirizzate energie e risorse. Di fronte al contagio, infatti, il nostro Paese si è trovato nelle condizioni di doversi affidare a soluzioni “miste” non del tutto compiute, scommettendo su un sistema di allerta, dalla (inter)faccia apparentemente “soft”, nell’ambito di una base giuridica (non repressiva ma) puramente volontaria e solidaristica. Così tuttavia, non è senza un qualche paradosso che ci si trova esposti al rischio di vedere pregiudicati i principali valori in campo: privacy e salute individuale e collettiva[56], con una compromissione complessiva del livello delle tutele di diritti fondamentali[57].
[1] Così Y.N. Harari, The world after coronavirus, in www.ft.com del 20 marzo 2020.
[2] Con più specifico riguardo “alla rotta”, indicata dal Presidente della Corte costituzionale, nel pieno dell’emergenza, si rinvia all’intervista di L. Milella, Cartabia: “La Costituzione una bussola nell’emergenza. Non c’è diritto speciale per tempi eccezionali”, in www.repubblica.it del 28 aprile 2020.
[3] EDPB, Dichiarazione sul trattamento dei dati personali nel contesto dell’epidemia di COVID-19, del 19 marzo 2020, 1.
[4] Ci si riferisce, in partic., al Reg. UE del 27 aprile 2016, n. 679 (GDPR), “on the protection of natural persons with regard to the processing of personal data and on the free movement of such data, and repealing Directive 95/46/EC” (spec. i consid. n. 35, n. 41, n. 46, n. 51, n. 53 e n. 54, nonché gli artt. 4, 6 e 9).
[5] Ci si riferisce, in partic., alla dir. 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, “relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche” (spec. gli artt. 6, 9 e 15).
[6] Commiss. EU, Racc. (UE) 2020/518 dell’8 aprile 2020 “relativa a un pacchetto di strumenti comuni dell’Unione per l’uso della tecnologia e dei dati al fine di contrastare la crisi Covid-19 e uscirne, in particolare per quanto riguarda le applicazioni mobili e l’uso di dati anonimizzati sulla mobilità” (C/2020/3300); EDPB, Lettera alla Commissione recante il “Progetto di Linee-Guida per app di contrasto alla pandemia COVID-19”, del 14 aprile; Commiss. EU, Comunic. “Orientamenti sulle app a sostegno della lotta alla pandemia di covid-19 relativamente alla protezione dei dati”, del 17 aprile 2020); e, quindi, nuovamente, EDPB, Linee guida “sull’utilizzo della geolocalizzazione e di altri strumenti di tracciamento nel contesto dell’emergenza legata al Covid-19”, del 21 aprile 2020.
[7] V. la Delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, di “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” CORSIVO?.
[8] V. l’ocdpc del 3 febbraio 2020, n. 630 recante i “Primi interventi urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” CORSIVO?, a cui, il giorno prima, il Garante per la protezione dei dati personali aveva dato “via libera” (v. il Parere n. 15 del 2 febbraio 2020).
[9] V. il dPCM del 18 marzo 2020 di “Nomina del dott. Domenico Arcuri a Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19”.
[10] V. l’ord. del 16 aprile 2020, n. 10, del Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica covid-19, con cui si è disposto “di procedere alla stipula del contratto di concessione gratuita della licenza d’uso sul software di contact tracing e di appalto di servizio gratuito con la società Bending Spoons S.p.a.”.
[11] Come puntualmente notato, all’epoca, da T. Frosini, Anonimato, privacy, niente obbligo: le salvaguardie ora ci sono, Il Dubbio del 5 maggio 2020.
[12] V.lo alla nota 16.
[13] V. Garante per la protezione dei dati personali, Parere sulla proposta normativa per la previsione di una applicazione volta al tracciamento dei contagi da COVID-19 del 29 aprile 2020.
[14] Trattasi, per la precisione, dell’art. 6 recante “Misure per l’introduzione del sistema allerta Covid-19”, del d.l. del 30 aprile 2020, n. 28, recante “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19”. Si precisa che il testo della relativa legge di conversione è stato approvato al Senato (il 17 giugno 2020) epperò, al momento in cui si scrive, è ancora in corso di esame in commissione alla Camera dei deputati.
[15] Il Ministero dell’Innovazione avrebbe proceduto alla pubblicazione del codice backend della App relativo all’elaborazione ed alla trasmissione dei dati personali sulla piattaforma Github il 25 maggio 2020.
[16] Così da rendere in corso d’opera necessario “calibrare” le clausole del contratto che sarebbe stato stipulato il 16 maggio 2020 dal Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19 con la Bending Spoons S.p.A. (v. spec. l’Allegato 2: “Attività di miglioria e personalizzazione dell’App”: “Modifica al sistema di caricamento dei dati dell’utente, sfruttando sistemi di sblocco diversi da quello attualmente previsto dal modello PEPP-PT”).
[17] Sul “modello misto” e “proprietario” che si sta predisponendo in Francia, cfr., ad es., V. Iovino, Contact tracing, la Francia si disallinea: ecco la sua “terza via”, del 1°giugno 2020; per un panorama più ampio della situazione cfr., invece, “agli esordi” ad es. R. Angius e L. Zorloni, Coronavirus e contact tracing, cosa fanno gli altri stati in Europa, del 18 aprile 2020; e M. Notarianni, Sette nazioni EU scelgono l’approccio Apple e Google per il tracciamento Covid-19, del 7 maggio 2020.
[18] Cfr., sia pur da un angolo visuale più specifico, G. Pitruzzella, O. Pollicino, Disinformation and hate speech. A European Constitutional Perspective, Milano, 2020.
[19] Cfr., sul punto, B. Calderini, App coronavirus, funzioneranno all’estero? Il dilemma interoperabilità, del 21 maggio 2020.
[20] Un tale scenario motiva, dunque, comprensibilmente, l’attenzione riservata alla vicenda dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), segnatamente il rilievo che vi fossero rischi geopolitici non trascurabili, che avrebbero necessitato di vedere monitorato il fatto che nessuno potesse e possa accedere ai dati (cfr., ex multis, G. Postiglione, Se neanche lo Stato si fida di sé stesso, del 12 giugno 2020.
[21] V., in tal senso, già C. Rossi, App Immuni, consorzio Pepp-Pt e Bending Spoons: fatti, obiettivi, analisi e polemiche del 19 aprile 2020; ed in seguito, A. Longo, L’app Immuni cambia. Seguirà il modello decentralizzato di Apple e Google Una scelta ormai definitiva. E anche obbligata. per tutelare con maggiore forza la privacy e la sicurezza dei dati del 22 aprile 2020; e A. Cazzullo, Coronavirus, Colao: «Un’apertura a ondate per testare il sistema. L’app entro maggio oppure servirà a poco», del 29 aprile 2020.
[22] Così lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento di autorizzazione al trattamento dei dati personali effettuato attraverso il Sistema di allerta Covid-19 - App Immuni del 1° giugno 2020.
[23] Per la precisione, le API sono state rese disponibili nella seconda metà di maggio (cfr., al riguardo, ad es., L. Garofalo, Disponibili le API di Apple e Google Conte, del 21 maggio 2020). V., inoltre, supra, la nota 15.
[24] Segnatamente, di ricalcolare le chiavi RPIK a partire dalle RPI e/o le chiavi TEK a partire dalle RPIK.
[25] Sulla necessaria disponibilità, però, di almeno un dato biometrico relativo alla persona, per potersi procedere alla sua identificazione, sia consentito rinviare, al riguardo, a L. Trucco, Introduzione allo studio dell’identità individuale nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 2004, 4 e ss.
[26] Ha fatto discutere, da questo punto di vista, l’assunta “combinabilità” dell’impiego della App con la funzione di geolocalizzazione dello smartphone ed i beacon che, a loro volta, sfruttano la tecnologia bluetooth per rilevare la presenza di device mobili a cui trasmettere informazioni e dati di varia natura (cfr., al riguardo, L. Garofalo, Immuni, sugli smartphone Android funzionerà solo se hai la geolocalizzazione attiva. E Google ti localizza?, del 26 maggio 2020).
[27] Così ad esempio i dati parametrici utilizzati per calcolare il “rischio contagio”.
[28] Segnatamente, i RPI cambiano ogni quindici minuti.
[29] Le chiavi TEK e RPIK, infatti, vengono generate giornalmente: sono, però, solo le TEK a venire memorizzate negli smartphone per due settimane, secondo quanto meglio si vedrà infra, al §6.
[30] V. Garante per la protezione dei dati personali, Valutazione d’impatto, “sulla protezione dei dati personali presentata dal Ministero della Salute relativa ai trattamenti effettuati nell’ambito del sistema di allerta Covid-19 denominato ‘Immuni’” (nota sugli aspetti tecnologici) del 3 giugno 2020.
[31] Si pensa, ad es., ai i cd. “paparazzi attack”, mirati proprio ad individuare le persone attraverso, per l’appunto, svariati incroci e combinazioni tra dati personali ed informazioni aggiuntive (domicilio, luoghi di lavoro e/o di svago e/o ubicazione in un dato momento, abitudini, carta di credito, dati personali “di viaggio” e l’elenco potrebbe continuare a lungo…).
[32] Così A. Armando e al., Le vulnerabilità del contact tracing che dobbiamo studiare, dell’11 giugno 2020 (di presentazione del white paper “su privacy e security delle app di proximity tracing”).
[33] Cfr., sui problemi derivanti dalla connettività bluetooth, nonché sui potenziali attacchi e financo sul certo grado di approssimazione che, più in generale, caratterizzerebbe una siffatta tecnologia A. Armando e al., Le vulnerabilità del contact tracing che dobbiamo studiare, cit.
[34] Ci riferiamo qui in termini più generali, ai dispositivi elettronici che potrebbero incorporare una tale tecnologia, non esclusi, in prospettiva, i cd. “braccialetti elettronici” (su cui v., F. Bailo, Il Covid-19 e le nuove frontiere tecnologiche: l’app Immuni e (il ritorno dei) braccialetti elettronici?, in questo Fascicolo).
[35] Il pensiero corre, in particolare, al data breach della piattaforma dell’INPS, su cui è intervenuto lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, con una Comunicazione a tutela dei soggetti interessati coinvolti (v. il Provvedimento del 14 maggio 2020).
[36] È stata, peraltro, la stessa Corte di giustizia a chiarire la natura di veri e propri «dati personali protetti» degli indirizzi IP (anche “dinamici”), data la loro capacità di consentire «di identificare in modo preciso» spec. in contesti in cui la loro raccolta ed identificazione vengano effettuate da un fornitore di contenuti oltre che dal fornitore di accesso alla rete (Corte giust., sent. 24 novembre 2011, in C‑70/10, Scarlet Extended SA; ma si vedano poi anche, amplius, tra “i pilastri giurisprudenziali” in materia Id., sent. 8 aprile 2014, in C‑293/12 e C‑594/12, Digital Rights Ireland Ltd.; Id., sent. 13 maggio 2014, in C‑131/12, Google Spain SL; Id., sent. 6 ottobre 2015, in C‑362/14, Maximillian Schrems); Id., sent. 19 ottobre 2016, in C-582/14, Patrick Breyer c. Bundesrepublik Deutschland.
[37] Sia consentito rinviare, al riguardo, a L. Trucco, Identificazione e anonimato in rete, in El derecho a la intimidad, a cura di A.E. Perales, Valencia, Tirant Lo Blanch, 2018, 297 e ss.
[38] Il sistema prevede, infatti, la raccolta di ulteriori dati dai dispositivi degli utenti a fini di sanità pubblica ma anche, genericamente, di sviluppo del funzionamento del sistema di allerta Covid-19. Trattasi, nello specifico, di alcuni analytics (device token, epidemiological information, operational info) vettori di informazioni quali, ad es., la provincia di domicilio, la data in cui è avvenuto l’ultimo contatto a rischio, il grado di rischio di contagio, la ricezione di un messaggio di allerta, lo stato di attivazione del bluetooth, le varie autorizzazioni alla App nonché, più in generale, i dati personali connessi al sistema operativo (non escluso il clock) dello smartphone.
[39] Cfr., tra i primi a porre la questione, B. Calderini, Covid-19, tra diritto alla salute e tutela della privacy: la scelta che l’Italia deve fare, https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/covid-19-il-difficile-equilibrio-tra-diritto-alla-salute-e-tutela-della-privacy/, del 24 marzo 2020.
[40] È quindi in questa prospettiva che va calato il monito del Garante, circa la necessità di rappresentare agli utenti «che tali informazioni non possono essere considerate dati anonimi», consentendo, in diversi contesti «concrete possibilità di reidentificazione degli interessati, soprattutto se associate ad altre informazioni ovvero in caso di morbilità non elevata o di ambiti territoriali con bassa densità di popolazione» (Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 1° giugno 2020, cit.).
[41] V. Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 1° giugno 2020, cit.
[42] Essendo, peraltro, tutto questo funzionale ad alimentare la linfa vitale di ogni sistema democratico rappresentato dalla pubblica opinione, e del relativo fondamentale ruolo di “watchdog” del potere, non dovendo sottovalutarsi il condizionamento che agli stessi colossi tecnologici può arrivare dalla opportunità, foss’anche per le mere ragioni di convenienza economica, dal mantenimento di un alto livello “reputazionale”, il quale si vedrebbe verosimilmente compromesso da comportamenti devianti dai binari del rispetto dei diritti delle persone.
[43] Ibidem.
[44] Cfr., amplius, l’audizione informale del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali “sull’uso delle nuove tecnologie e della rete per contrastare l’emergenza epidemiologica da Coronavirus” dell’8 aprile 2020.
[45] Sul tema della responsabilità penale con riguardo al più generale impiego della App si rinvia a F. Bailo, Il Covid-19 e le nuove frontiere tecnologiche: l’app Immuni e (il ritorno dei) braccialetti elettronici?, cit.
[46] Ci si limita ad osservare qui che si stanno predisponendo dei meccanismi di device attestation al fine di appurare l’autenticità dei dispositivi da cui provengono i dati e nel contempo la veridicità dell’identità degli stessi operatori sanitari (per cui, in prospettiva, potrebbero circolarvi dei dati personali tanto “sensibili” quanto “strategici”).
[47] Cfr. al proposito, A. Armando e al., Le vulnerabilità del contact tracing che dobbiamo studiare, cit.
[48] Nello specifico, per dar corso alla procedura è necessario utilizzare la funzione di generazione del codice OTP (One Time Password) della App comunicandolo all’operatore sanitario ed attendendo che lo stesso autorizzi l’upload delle TEK da parte dell’utente. Sempre l’operatore sanitario, poi, tramite una funzione resa disponibile dal Sistema di Tessera Sanitaria (v., infra, la nota 48), inserisce nel Sistema Immuni il codice OTP e la data di inizio dei sintomi forniti dal paziente. A questo punto, l’utente è chiamato a completare (in pochi minuti) la procedura di caricamento delle TEK generate sul proprio dispositivo nelle ultime due settimane, così trasmettendole al Sistema, il quale a sua volta, previa verifica del suddetto OTP, le elabora, dando corso alla procedura.
[49] Cfr., con riguardo ad una tale collaborazione istituzionale, il Parere del Garante per la protezione dei dati personali “su uno schema di decreto relativo ai trattamenti di dati personali effettuati tramite il Sistema Tessera Sanitaria (Sistema TS) nell’ambito del Sistema di allerta Covid-19”, del 1° giugno 2020.
[50] A quanto è dato sapere, ad essi si sarebbe domandato di mettere a diposizione, rispettivamente, la tecnologia di cui si avvale oggi il Sistema Tessera Sanitaria (v. Sogei) ed il pagamento elettronico dei sevizi pubblici verso la Pubblica Amministrazione (v. PagoPa).
[51] A grandi linee può dirsi che la CDN è chiamata a predisporre una sorta di cache delle informazioni (tra cui le varie chiavi ed i codici identificativi) in modo, tra l’altro, da velocizzarne la distribuzione attraverso nodi più prossimi agli utenti. Fornitrice del servizio dovrebbe essere una di quelle aziende americane che sole, ad oggi, risultano in grado di offrire infrastrutture interoperabili con la piattaforma A/G.
[52] Senza poi dire dell’ulteriore frammentazione causata dalla proliferazione di App di tracciamento da parte di iniziative estemporanee (anche) da parte di varie Regioni…col risultato, tutto questo, tra l’altro, di una moltiplicazione dei rischi per i dati personali circolanti nel nostro Paese. Si pensa, in particolare, alla App predisposte a livello locale da parte di alcuni ordini dei medici, alla App COVID News-Italia di rilievo, almeno nelle intenzioni, nazionale, nonché, a livello territoriale, alle app TreCovid19 (Provincia autonoma di Trento), STOPcovid19 (Regione Umbria), SM_Covid19 (Regione Campania), nonché AllerLOM e App tracing (Regione Lombardia).
[53] Specie per chi condivida l’idea che, ormai, nell’epoca dei big data, l’identificazione delle persone ha teso a farsi regola, per cui il rischio è quello, allo stato, della perdita ineluttabile ed irrimediabile di masse di informazioni concernenti le persone
[54] Una piattaforma che potrebbe essere “dedicata” nel quadro dell’agenda di standardizzazione delle cartelle cliniche elettroniche o, invece, innestarsi, in un quadro più ampio, come potrebbe essere il potenziamento, all’uopo, del Sistema di informazione Schengen, risultato “nicchiante” nell’occasione.
[55] Sul «controverso» rapporto tra regole e rete «andandosi dall’idea di una vera e propria anomia ontologica per il ciberspazio alla ritenuta non idoneità delle regole ordinarie per questo stesso fenomeno» cfr., P. Costanzo, in Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole, a cura di D. Poletti e P. Passaglia, Pisa, 2017, 18 e ss.
[56] Cfr., in partic., sul punto, l’intervista al Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, su Radio Capital, del 13 maggio 2020; e, da ultimo, il più ampio quadro delle «libertà costituzionali» su cui (anche) la App ha inciso, descritto da A. Celotto in Necessitas non habet legem?, Modena, 2020, 37 e ss.
Al momento in cui si scrive (ancora in una fase di sperimentazione) si contano circa tre milioni di download della App Immuni e, cioè, indicativamente il 3%, a fronte del livello ritenuto ottimale, in termini di efficacia dello strumento, di almeno il 56% della popolazione, benché, va precisato, in un tale ammontare rilevino, soprattutto, le zone più a rischio ed a maggiore densità di popolazione, che dunque meriterebbero una specifica considerazione (cfr. agendadigitale.eu, del 19 giugno 2020).
[57] L’opzione, infatti, per l’impiego di uno strumento apparentemente non invasivo, mentre non sembra, come si è visto, scongiurare la possibilità di incroci identitari né tanto meno la cessione indebita di dati vettori di informazioni sensibili e supersensibili, potrebbe verosimilmente privare gli operatori sanitari ed in fondo tutti di una potenziale efficace (s’intende pur sempre, se ben governato) nel contrasto al virus (specie nel quadro della cd. metodica delle cd. “3t”: “test and treat and trace” e combinatamente al “distanziamento sociale”).
L’affidamento in house dei servizi pubblici locali (nota a Corte costituzionale 27 maggio 2020, n. 100)
Michele Trimarchi
1. Da oltre dieci anni il legislatore italiano adotta disposizioni volte a contrastare l’abuso dell’affidamento diretto dei servizi pubblici a mezzo di società in house da parte delle amministrazioni nazionali e soprattutto locali.
Con questo obiettivo, l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, aveva espressamente configurato l’affidamento in house dei servizi pubblici locali come una modalità straordinaria di organizzazione e gestione degli stessi, ammissibile solo in presenza di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”.
Più di recente, il legislatore ha puntato sull’onere di motivazione dell’affidamento in house come strumento di controllo e remora all’utilizzo indiscriminato dell’istituto (art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179; l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175).
2. In questo solco si inscrive la disposizione censurata dal Tar Liguria davanti alla Corte costituzionale nella controversia decisa dal giudice delle leggi con la sentenza n. 100 del 2020: l’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), in base al quale le stazioni appaltanti devono dar conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
Secondo il giudice rimettente (Tar Liguria), tale disposizione violerebbe l’art. 76 della Costituzione, in relazione ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge delega 28 gennaio 2016, n. 11.
L’art. 1, comma 1, lettera a), l. n. 11 del 2016, che pone il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (cosiddetto gold plating), sarebbe violato poiché l’onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato non è previsto dalle direttive medesime.
Mentre l’art. 1, comma 1, lettera eee), della citata legge delega sarebbe violato poiché esso non comprende, tra gli oneri previsti per gli affidamenti diretti, accanto ad obblighi di pubblicità e trasparenza, quello di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
3. La questione di legittimità così riassunta è stata prospettata dal giudice rimettente sotto l’angolo visuale dell’eccesso di delega; ma, come la Corte costituzionale subito avverte, “ripropone […] il noto dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, sulla natura generale o eccezionale dell’affidamento in house”.
Un dibattitto al quale la stessa Corte costituzionale non aveva mancato di fornire un contributo decisivo quando aveva riconosciuto che le condizioni poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 imprimevano una stretta nelle condizioni di ammissibilità dell’affidamento in house rispetto a quanto imposto dal diritto comunitario, ma aveva concluso che ciò non fosse illegittimo in quanto il diritto europeo assicura un livello minimo e inderogabile di promozione e tutela della concorrenza, che gli Stati ben possono implementare con misure di maggior favore per l’assetto concorrenziale del mercato (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013).
La sentenza in commento, pertanto, è suscettibile di un doppio livello di lettura. Ad una prima considerazione, è una pronuncia relativa alla violazione del criterio di delega che prevede il divieto di gold plating. Ad un secondo, e più profondo, livello di lettura, costituisce una nuova presa di posizione da parte del giudice delle leggi sul rapporto tra l’affidamento diretto e quello indiretto e quindi sulle forme di organizzazione e gestione dei servizi pubblici locali.
4. Quanto alla presunta violazione del divieto di gold plating, la Corte costituzionale ricorda ch’esso concerne la “prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro” (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010).
La sua ratio è quella di “impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini”. Ciò considerato, giammai la violazione del divieto di gold plating può essere invocata in relazione a una disposizione, come quella censurata, che “si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato”.
Già il Consiglio di Stato in sede consultiva, del resto, aveva perspicuamente osservato che il divieto di gold plating “va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli «oneri non necessari», e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive” (Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, parere n. 855 del 1° aprile 2016).
5. Quanto alla presunta violazione dell’art. 1, comma 1, lettera eee), la Corte osserva che, in realtà, proprio il criterio di delega contenuto in questa disposizione, in quanto prevede oneri aggiuntivi per l’affidamento diretto (oneri in termini soprattutto di trasparenza), è “segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante”; al contrario di quanto ritenuto dal rimettente, esso pertanto finisce per legittimare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione del mancato ricorso al mercato.
D’altra parte, osserva la Corte, quando, come nel caso di specie, la delega “riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi”, occorre riconoscere al legislatore delegato un più ampio margine di discrezionalità, che gli consenta di tener conto del quadro normativo di riferimento. Relativamente all’affidamento in house, l’orientamento consolidato del legislatore italiano è, come si è già ricordato, nel senso di prevedere una serie di disincentivi all’utilizzo dell’istituto.
Anche per questa ragione, dunque, “la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013)”.
6. La dottrina italiana era stata molto critica nei riguardi della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 325 del 2010; e n. 46 del 2013) che aveva respinto le questioni di legittimità sollevate contro la scelta del legislatore nazionale di subordinare l’in house providing a presupposti più stringenti di quelli previsti dal diritto europeo. È presumibile che analogo sfavore accoglierà la sentenza in commento.
La libertà di organizzazione e gestione del servizio, oggi consacrata dalla direttiva 2014/24/UE, è il vessillo agitato da molti contro ogni forma di sfavore manifestata dal legislatore nei riguardi dell’affidamento dei servizi pubblici alle società in house, fosse anche di carattere solo procedimentale.
La Corte di Giustizia in una recentissima ordinanza ha però chiarito che dal principio di libera autorganizzazione discende innanzitutto la “libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze” e, conseguentemente, di “subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna” (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa, resa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita).
La sentenza della Corte costituzionale n. 100/2020 suscita apprezzamento anche per aver richiamato l’attenzione su questo precedente del diritto europeo.
Michele Trimarchi
Consenso sociale, populismo e diritto penale
di Sergio Seminara
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Populismo e diritto penale. – 2.1. Populismo, politica e diritto penale. – 2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico. – 2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione. – 3. Diritto penale e consenso sociale. – 4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione.
L’idea alla base delle riflessioni qui esposte è molto semplice: consenso sociale e populismo, in passato intesi come entità contrapposte, attualmente si sono reciprocamente avvicinati senza però arrivare a coincidere, in quanto ancora rinviano a contenuti diversi ed evocano differenti scenari. Non è corretto dunque affermare che, nel nostro sistema democratico a base rappresentativa, il presupposto fondativo della legittimità e dell’efficacia del diritto penale, un tempo rinvenuto nel consenso sociale, oggi si sia convertito nel populismo.
Ovviamente, tutto sta però a intendersi sui significati racchiusi all’interno dei concetti di consenso sociale e di populismo.
2. Populismo e diritto penale.
Il termine «populismo» ha assunto vari significati nella storia. Nato a cavallo tra il XIX e il XX secolo in Russia, designò originariamente un movimento culturale e politico che, attraverso un’azione rivoluzionaria diretta e un’attività di proselitismo fra il popolo, mirava a un miglioramento delle classi più ai margini della società, nel perseguimento di una sorta di socialismo; da qui, per assimilazione, quel termine ha successivamente caratterizzato programmi politici volti a favore del popolo e genericamente ispirati da valori socialisti. Negli ultimi decenni, al concetto di populismo è stata invece associata una valenza retorica di tipo demagogico e sostanzialmente fraudolenta, tesa a vellicare e irretire il popolo piuttosto che a promuoverne effettivamente le condizioni e a tutelarne realmente gli interessi. Nell’attuale prospettiva politica (mi riferisco soprattutto all’esperienza italiana), il termine in questione è stato ripetutamente utilizzato per designare gli atteggiamenti di taluni leader ed esponenti di partito finalizzati a incrementare il numero degli elettori facendo leva su insicurezze e timori, così dando vita a ciò che è stato appunto definito come il governo della paura.
Questo populismo ha condotto direttamente al diritto penale perché, per alimentarsi e irrobustirsi, ha bisogno del diritto penale. Il diritto penale fornisce infatti l’arma migliore alle sue argomentazioni: nel sottolineare, esasperandole, ansie collettive contro i fenomeni dell’immigrazione e della criminalità, esso si offre come strumento apparentemente a costo zero e dotato della maggiore efficacia in termini di repressione e di sofferenza inflitta al «nemico».
Si tratta certamente di un frutto dei tempi che viviamo e che potremmo denominare come il populismo della democrazia e della libertà di divulgazione del pensiero. Nell’Italia fascista, ai giornali – che comunque erano letti da una porzione assai ridotta della società – veniva imposto di dedicare poco spazio a fatti di criminalità, a causa del timore delle istituzioni che tali notizie potessero alimentare un senso di insicurezza. Al contrario, il regime voleva convincere i consociati che essi vivevano nel migliore dei mondi possibili (da qui origina lo stupido detto che “ai tempi del fascismo si dormiva con le porte di casa aperte”), ove – in una sorta di rinnovato contratto sociale – la loro rinuncia a una parte di libertà era ampiamente compensata attraverso un miglioramento delle condizioni di vita.
Anche per quanto riguarda il populismo può dunque ripetersi il principio che la storia non si ripete: il populismo odierno ha poco in comune con quello del secolo passato. Del resto, forti differenze si rinvengono anche nel corpo sociale.
2.1. Populismo, politica e diritto penale.
«Se le dittature del Novecento proibivano la cronaca nera, le democrazie populiste sembrano averla riscoperta come sorgente di voti. (…) Il dolore crea interesse, l’interesse produce paura e la paura moltiplica i consensi». Così scriveva sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2020 un noto e arguto opinionista, Massimo Gramellini, in relazione alla scelta di Matteo Salvini, leader della Lega, di chiudere una campagna elettorale portando sul palco, tra gli altri, la madre di un bambino sequestrato e ucciso nel 2006, allo scopo di protestare contro il permesso-premio concesso dal giudice a una donna condannata a ventiquattro anni di reclusione per il ruolo di carceriera svolto in quel sequestro, che era stata per la prima volta ammessa, dopo tredici anni di detenzione, a uscire temporaneamente dal carcere.
È poi una notizia dell’inizio di maggio 2020 che il Ministro della Giustizia, dopo avere strenuamente difeso l’operato del Direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria contro le roventi accuse di inefficienza legate alla morte di tredici detenuti in occasione delle proteste scoppiate nelle carceri agli inizi dell’attuale pandemia da coronavirus, ha proceduto alla sua sostituzione in conseguenza dei violenti attacchi politici suscitati dalla scarcerazione, con connessi arresti domiciliari, di alcuni importanti esponenti della criminalità organizzata, bisognosi di indifferibili cure rese ancor più necessarie dal rischio di contagio. In sostanza, il “siluramento” del Direttore del D.A.P. è avvenuto come conseguenza non di una gravissima sottovalutazione del problema carcerario in rapporto al Covid-19, dalla quale è derivata la morte di persone che lo Stato aveva preso in cura e si era obbligato a proteggere pur mantenendoli come reclusi, bensì di alcuni provvedimenti di scarcerazione consentiti dalla legge e resi necessari dalle condizioni di salute dei detenuti!
Il programma del populismo, applicato al diritto penale, è molto semplice: severità ed esemplarità delle pene, ripudio delle garanzie processuali in quanto ostacoli alla celerità del procedimento penale, eliminazione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario perché contrari al principio della certezza della pena. In questo senso deve ritenersi che il diritto penale populistico si attua attraverso la negazione del diritto e la centralità della pena: il diritto, nella sua accezione “liberale” che gli deriva da un’evoluzione iniziata con l’illuminismo, viene negato nel momento in cui è privato dei suoi coessenziali contenuti garantistici, considerati alla stregua di freni alla rapida ed efficiente amministrazione della giustizia; la pena subisce invece una trasformazione mediante l’assunzione di significati esclusivamente afflittivi ed eliminativi (quante volte, dopo efferati fatti di cronaca, i politici di alcuni specifici partiti auspicano che l’autore del reato sia portato in una cella e di questa venga per sempre buttata la chiave della porta!).
Si crea così un vortice repressivo destinato ad autoalimentarsi: nella percezione popolare, alimentata da martellanti slogan politici, le sanzioni appaiono troppo blande, la loro esecuzione risulta eccessivamente mite, il processo è afflitto da un esagerato apparato di garanzie, la discrezionalità giudiziale risulta sempre strumentalizzata in favore degli imputati. Il populismo beve nel calice del diritto penale fino all’ultima goccia: il metodo consiste nell’alimentare le paure – anche creandone di nuove, in realtà inesistenti – e poi mostrare un assoluto rigore nel volerle combattere, attraverso l’ampliamento delle fattispecie incriminatrici e un incessante inasprimento delle pene (con compulsive evocazioni della pena di morte e, per i delinquenti sessuali, della castrazione chimica). Ne deriva un abuso del diritto penale, che si realizza mediante continui appelli alla volontà popolare, presentata come la sola cosa che conti: ignorando qualsiasi valutazione tecnica, anzi ostentando disprezzo per la discussione scientifica, i partiti politici populisti manipolano i sentimenti del popolo e rafforzano il proprio potere.
La recente esperienza della riforma della legittima difesa di cui all’art. 52 cod. pen. dimostra che tutto quanto appartiene alla sicurezza del cittadino contro il crimine è ormai ridotto alla stregua di uno slogan, declinato con varie modalità ma sempre caratterizzato dalla contrapposizione tra una società presuntivamente civile e afflitta da ansie identitarie e un singolo individuo o gruppi di individui per definizione ostili e, conseguentemente, privi di diritti inviolabili. Dalla martellante comunicazione mediatica volta a sottolineare l’intento di rafforzare la protezione dei cittadini, all’interno dei propri domicili, rispetto a una criminalità sempre più aggressiva, non è mai emerso né il dubbio che le finalità di tutela potessero essere perseguite attraverso una più efficace prevenzione, né il timore che un ampliamento del diritto di uccidere, seppure a scopi difensivi, può solo innescare ulteriore violenza e maggiori pericoli per le stesse vittime. Ciò perché il populismo ama i discorsi semplici che, purtroppo, sono quelli destinati a fare più presa sugli ascoltatori.
2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico.
Il populismo ha necessità di rappresentare il nemico: più la società avverte paura, più essa tende a chiudersi verso l’esterno, più occorre individuare i nemici verso cui canalizzare le ansie collettive.
I destinatari di questo processo sono i nemici della collettività: terroristi, immigrati extracomunitari, autori di reati contro l’integrità sessuale e il patrimonio, spacciatori di sostanze stupefacenti, in una parola coloro che vengono presentati come pericolosi. A causa di una serie di slittamenti del “pensiero”, poi, gli avversari non necessariamente risultano tali in quanto abbiano commesso un reato, essendo sufficiente anche solo il colore della pelle o l’appartenenza a una minoranza etnica a indiziare l’inclinazione a delinquere, sicché il reato commesso risulta per presunzione aggravato.
Questa ottusa ansia punitiva non ha una precisa caratterizzazione ideologica e neppure un preciso colore politico: se la storia induce a pensare che un siffatto movimento anticulturale sia appannaggio di un’estrema destra fondata sui valori dell’ordine e della legalità, l’esperienza italiana dimostra come l’elettorato della Lega sia costituito da piccoli e medi imprenditori come pure da persone che un tempo sarebbero state ascritte al proletariato e alla piccola e medio-piccola borghesia, semplicemente intimidite da una criminalità diffusa e disilluse da una politica litigiosa e inconcludente e per questo favorevoli – nonostante il recente passato – al mito dell’“uomo forte”.
D’altra parte, un’analoga ansia punitiva, estesa ai titolari di supposti privilegi e al fenomeno corruttivo – inteso come simbolo del degrado del potere e della politica –, caratterizza movimenti libertari fondati su valori anti-sistema, vagamente tendenti verso l’abbattimento delle garanzie individuali all’interno di una conclamata sfiducia nelle istituzioni. La triste storia della riforma della prescrizione in Italia – triste nell’esito, ma soprattutto nell’estrema povertà del dibattito parlamentare che l’ha accompagnata – fornisce un’eloquente dimostrazione della formazione di una società del conflitto che è anche società del rancore, da parte di chi considera fermo l’ascensore sociale e (ovviamente al di là dei propri meriti e delle legittime aspirazioni) soffre la chiusura delle porte della carriera. Con una singolare peculiarità, tuttavia, sulla disomogenea distribuzione di questo rancore, che trascura categorie di rei come gli evasori fiscali e la più ampia parte degli autori di illeciti economici, ai quali offre un generoso riparo – salvo i casi di frodi e bancarotte di rilevanti dimensioni e con un elevato numero di vittime – il loro ruolo sociale.
La verità emersa negli ultimi anni è dunque che, indipendentemente dall’ideologia storica di partenza – tendenze indipendentistiche di alcune regioni dell’Italia settentrionale o generalizzato rifiuto di una classe politica divenuta autoreferenziale –, dalla collettività sono emersi confusi atteggiamenti di rifiuto della politica tradizionale e di insicurezza e timore del futuro, presto intercettati da alcuni partiti che hanno così ampliato la propria base elettorale attraverso la promessa di una palingenesi sociale principalmente incentrata sulla sanzione penale e la promozione del benessere individuale mediante la promessa di una liberazione dalle angosce esistenziali.
La logica, dunque, è quella del conflitto e, come hanno dimostrato i fatti, il conflitto ha prodotto consenso. Il timore che un progressivo imbarbarimento collettivo possa corrodere i fondamenti sociali è irrilevante, trattandosi di un effetto a lungo termine, che come tale risulta estraneo all’orizzonte del politicante odierno.
2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione.
In un recente passato i partiti politici modellavano il loro programma di azione alla luce di specifiche visioni della società, preventivamente dichiarando i criteri di gestione della res publica e su queste basi si orientava il voto degli elettori: la politica costituiva il luogo di un dibattito aperto ma tendenzialmente vincolato dalle ideologie di ciascun partito. I concetti di destra, centro e sinistra, con i loro rispettivi estremismi, appartenevano a questo mondo.
Oggi il rapporto appare ribaltato: quasi per ogni problema sociale gli atteggiamenti e le soluzioni adottate dai partiti vengono di volta in volta stabilite in funzione delle verosimili successive reazioni del corpo elettorale. Ne deriva una sorta di permanente consultazione che è agli antipodi di un serio programma politico di lungo termine.
In questa prospettiva si giustifica la situazione di stallo del nostro Parlamento rispetto ai problemi più delicati per il loro carico ideologico o per le loro conseguenze operative. Due esempi a questo proposito sono eloquenti.
Il primo è offerto dal delitto di false comunicazioni sociali, che una riforma introdotta con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, modificò in modo da renderlo pressoché inapplicabile, al fine – ovviamente non dichiarato – di chiudere con la formula «il fatto non è più preveduto dalla legge come reato» le pendenze processuali di importanti esponenti del partito allora al Governo: ebbene, nonostante l’assoluta irrazionalità di quella disciplina e la successione di sette governi di diverso colore politico, solo la legge 27 maggio 2015, n. 69, ha provveduto a rimediare attraverso una nuova riforma. L’esperienza parrebbe significare che, anche per i governi che un tempo si sarebbero detti di sinistra o di centrosinistra, il privilegio accordato nel 2002 alla classe imprenditoriale non appariva una nota ideologicamente stonata e neppure produttiva di negative conseguenze politiche.
Il secondo esempio concerne la vicenda del delitto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen., la cui ritenuta parziale incostituzionalità ha indotto la Corte costituzionale a pronunciare l’ordinanza 24 ottobre 2018, n. 207, con cui rinviava la prosecuzione del procedimento al 24 settembre 2019, così da consentire al legislatore ordinario, «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale», di riformulare l’incriminazione in conformità alle direttive indicate dalla Corte stessa. Ebbene: dinanzi all’alternativa se farsi alfieri delle soluzioni prospettate dalla Corte o invece mantenere la norma vigente a tutela delle rigide posizioni assunte negli ambienti cattolici, nessuno tra i maggiori partiti si è seriamente impegnato per la riforma dell’art. 580 cod. pen., ovviamente temendo che una battaglia “divisiva”, in nome della laicità e della libertà di scelte coscienziali assunte in casi estremi, si sarebbe potuta tradurre in una penalizzazione da parte del corpo elettorale. Il risultato, non certo onorevole per il Parlamento, è stato dunque che la Corte costituzionale il 25 settembre 2019 ha emesso una sentenza dichiarativa dell’illegittimità, in particolari situazioni, del reato di aiuto al suicidio. Più in generale, questa vicenda dimostra come il delicato e complesso settore del biodiritto in materia penale non sia più né di destra né di sinistra e che tutti i partiti indistintamente blandiscono la Chiesa cattolica a causa dell’influenza da essa ancora esercitata sul popolo italiano (il discorso meriterebbe ben altri approfondimenti: in tempi in cui le ideologie costituivano ancora valori tendenzialmente vincolanti, prima la Corte costituzionale e poi il Parlamento hanno soppresso il delitto di vilipendio della religione dello Stato ed equiparato la tutela della religione cattolica e di ogni altra confessione religiosa, mentre ora il segretario della Lega compare in pubblico impugnando e ostentando rosari e crocefissi come simboli, più che religiosi, identitari).
3. Diritto penale e consenso sociale.
Occorre però considerare l’altra faccia della medaglia, concernente la necessità di legittimazione del diritto penale.
Vi fu un tempo in cui il diritto penale si autolegittimava come mera manifestazione del potere da parte del suo detentore. Il diritto penale promanava dal monarca così come la moneta e ogni altro segno esteriore riconducibile all’autorità, ivi compresa la giurisdizione: il giudice corrotto o disonesto, prima ancora di danneggiare il suddito, recava offesa a colui che, immettendolo nella funzione, gli aveva attribuito funzioni originariamente sue, allo stesso modo in cui il falso nummario recava offesa, prima ancora che al privato che avesse ricevuto la moneta falsa, a colui nel cui nome quella moneta era stata coniata. In un siffatto contesto, il diritto penale non aveva necessità di ricercare una legittimazione esterna.
Trascurando i tempi in cui la legittimazione della legge venne legata alla divinità – che comunque, avendo conferito il potere al monarca, lo aveva così riconosciuto e consacrato –, solo con l’illuminismo si affaccia l’idea della ricerca di un referente “terreno”, di volta in volta individuato nel contrattualismo e nell’utilitarismo, nelle leggi della natura e in quelle della ragione. Oggi il fondamento del diritto penale trae vita dall’ordinamento democratico nel complesso delle regole dettate dalla Costituzione e risiede in questo indissolubile collegamento tra le scelte di incriminazione e i valori costituzionalmente riconosciuti. Solo così, d’altra parte, si comprende il significato dell’art. 101 Cost., il cui comma 1 evoca il popolo come termine di riferimento dell’esercizio della giurisdizione («La giustizia è amministrata in nome del popolo»), mentre il comma 2 sancisce che i giudici sono soggetti non a un’ondivaga e indecifrabile volontà del popolo, bensì «soltanto alla legge». Questo è appunto il nucleo della legalità democratica, dal quale si desume che la giustizia è regolata attraverso leggi che esprimono la volontà del popolo, la quale assume rilievo solo in quanto si traduca in leggi.
La Costituzione italiana offre però per il diritto penale indicazioni ancora più penetranti. L’art. 27 commi 1 e 3 prescrive infatti la personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa delle pene: su entrambi i precetti, il primo inteso a sancire la rimproverabilità del fatto al suo autore e il secondo a finalizzare la sanzione penale nel segno della risocializzazione, campeggia il consenso sociale come segno di una coesione della collettività nel processo di stigmatizzazione, punizione e recupero dell’individuo.
Qui la riflessione si addentra su terreni assai complessi che è possibile solo accennare. Il consenso sociale appena menzionato dovrebbe essere inteso come un equivalente dell’ordine democratico consacrato dalla Costituzione: la quale fissa un quadro di regole destinate a filtrare le scelte del Parlamento in materia penale, sia nei valori di riferimento assunti che nei contenuti. Al tempo stesso va però sottolineata la natura illusoria – ma sarebbe probabilmente meglio dire utopistica – di questo consenso: nella società ottocentesca e della prima metà del novecento il consenso che fondava il diritto penale era limitato alle classi più elevate e solo in questa limitata prospettiva si poteva parlare di una società culturalmente omogenea, che esprimeva scelte di criminalizzazione funzionali ai propri interessi, spacciati come interessi collettivi. Nella consapevolezza, dunque, che il c.d. minimo etico era il comune denominatore solo di una porzione della società.
La democrazia e la crescente complessità sociale hanno portato alla luce la disomogeneità culturale ed economica che caratterizza la popolazione e il processo di lenta disgregazione di numerosi valori può essere osservato proprio attraverso gli interventi del Parlamento e della Corte costituzionale sul testo del codice penale. In questa mutata prospettiva, il diritto penale è divenuto luogo di rielaborazione dei conflitti, ovviamente mantenendo il suo intrinseco e ineliminabile carattere autoritario.
La visione del diritto penale come luogo di rielaborazione dei conflitti – con il suo carico di razionalità e, potrebbe aggiungersi, di tolleranza e rispetto delle minoranze – appartiene ormai al bagaglio delle utopie? In realtà, il populismo mira alla creazione di consenso e il consenso produce ulteriore consenso, sempre più abbassando l’asticella dei limiti costituzionali e attizzando il fuoco della conflittualità. Ecco così che il populismo si avvicina alla teoria del consenso e pericolosamente si veste dei panni della democrazia.
4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale.
A questo punto della riflessione insorge la tentazione di schematizzare brevemente, sotto il profilo penale, le differenze fra la teoria del consenso sociale e il populismo.
Anzitutto, può ritenersi che il consenso sociale appartiene al mondo ideale di una giustizia penale amministrata nel segno della coesione fra i consociati e della solidarietà, mentre il populismo caratterizza invece il mondo reale nella sua complessità. Entrambe le rappresentazioni sono viziate da parzialità: il consenso sociale di una democrazia rappresentativa rinvia sempre a una volontà della maggioranza, quale che essa sia e comunque essa si sia costituita; il populismo, alla stregua di quanto rilevato in precedenza, è alimentato da una continua manipolazione della collettività o di una sua parte.
Sul piano del metodo, inoltre, la teoria del consenso mira alla mediazione e all’inclusione, mentre il populismo evoca il conflitto e rafforza l’emarginazione. Questa distinzione coglie indubbiamente nel vero soprattutto rispetto al populismo, che anzi rinviene la sua ragion d’essere proprio nella logica del conflitto.
Infine, la teoria del consenso sociale si riflette maggiormente sulla fase della criminalizzazione primaria, rimanendo tendenzialmente estranea alla fase della criminalizzazione secondaria, cioè della persecuzione giudiziale, e a quella dell’esecuzione, che trovano la propria disciplina in regole oggettive – fissate dalla legge nel rispetto dei vincoli costituzionali – che affidano al giudice il compito di accertare la responsabilità di un imputato considerato come persona, e non come rappresentante di una devianza combattuta dalla legge, e obbligano lo Stato a garantire un’esecuzione della pena conforme a logiche risocializzatrici e riconciliative. Questa ripartizione non è invece possibile nell’ottica populistica, che al contrario impregna di sé tutte e tre le fasi, a ciascuna di esse imprimendo il suo contenuto.
Cosa resta al fondo di questa schematizzazione? La sensazione è che la teoria del consenso sociale appartiene al mondo della razionalità e della democrazia, mentre il populismo, nelle sue radici più profonde, ha molto a che spartire con la psicanalisi dell’inconscio e la psicologia sociale.
5. Conclusioni.
Potremmo sintetizzare le brevi considerazioni svolte affermando che il populismo è per sua natura antiscientifico, in quanto alimentato esclusivamente dagli umori e dagli istinti della massa; è conflittuale, perché vive di contrapposizioni tra una comunità e i suoi nemici interni ed esterni; è ondivago, giacché l’assenza di contenuti vincolanti e di valori di riferimento consente continui mutamenti di opinioni e convinzioni; è semplificativo all’estremo, poiché si fonda su postulati elementari e indimostrati, che devono restare tali perché altrimenti si esporrebbero all’accusa di intellettualismo.
Accingendoci a concludere questo scritto, ci rendiamo improvvisamente conto che tutto quanto è stato finora descritto risulta esasperato dalla pandemia in corso, che ha segnato il tramonto di ogni verità condivisa, ha cagionato la moltiplicazione dei più vari sospetti (sulle origini del virus, sulla volontarietà della sua diffusione, sulle manovre speculative compiute su mascherine e guanti e così via), ha rivelato la confusione dei governi sulle terapie praticabili e, a seguire, ha provocato le accuse contro le istituzioni e contro i c.d. esperti. Il “fai da te” ha invaso anche i settori più tecnici e ciascuno è divenuto portatore di una propria teoria.
Non è colpa del popolo, sia chiaro: allargando la visuale al piano internazionale, dai politici che nelle fasi iniziali hanno ostinatamente negato l’esistenza del problema, fino ai mass media che hanno dato voce e credito anche alle più incredibili sciocchezze, le maggiori responsabilità ricadono su coloro che, avendo avuto un ruolo pubblico, non lo hanno gestito nell’interesse pubblico. Concludendo con queste parole, però, mi accorgo della difficoltà di definire cosa sia oggi il pubblico interesse.
Codice penale e riserva di codice*
di Sergio Seminara
Sommario: 1. La riserva di codice: il fondamento storico; – 1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice; – 1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema – 2. Limiti e finalità della riserva di codice – 3. Codice penale e accessibilità della legge – 4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale? – 5. Linee conclusive dell’indagine.
1. La riserva di codice: il fondamento storico.
Chi non ricorda l’incontro tra Renzo Tramaglino e il dottor Azzecca-garbugli nel capitolo III de I promessi sposi? Non appena il primo pose all’altro il quesito «se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale», il legale «cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. “Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza”. Ah! ecco, ecco”. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: “il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura”».
Rispetto alla vicenda narrata da Manzoni passa quasi un secolo e mezzo ma, ancora nel 1766, Beccaria descrive una giustizia amministrata attraverso «avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, (che) formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi»[1]. Come ai tempi del dottor Azzecca-garbugli, quindi, l’accumulo nel tempo di leggi destinate a sovrapporsi in assenza di formali abrogazioni e la caotica pluralità delle fonti del diritto faceva sì che la vittoria in giudizio dipendesse soprattutto dall’abilità dell’avvocato nello scovare il testo a lui più conveniente, in totale spregio delle ragioni sostanziali e nella più assoluta indifferenza verso valori oggi indiscussi e riconducibili ai principi di legalità e di certezza del diritto. Come ultimo esempio, nella storia dell’Europa continentale, di una siffatta situazione può indicarsi il Regno di Spagna, ove – in ideale continuità con una Nueva Recopilación avviata nel 1567 da Filippo II allo scopo di fare ordine nella congerie di leggi, pragmatiche e regolamenti stratificatisi nei secoli – nel 1805 si procede a una Novissima Recopilación, fortemente criticata dai contemporanei: «in luogo di un codice uniforme, breve e semplice fin dove possibile, destinato a sostituire i precedenti testi di legge per evitare il caos in cui si trova la nostra giurisprudenza, null’altro si fece che aggiungere varie disposizioni alla sua ultima edizione (= del 1777) e, in verità, con non migliore accordo. Esaminandola con attenzione la vedremo piena di inesattezze e di anacronismi, fino a comprendere antiche leggi totalmente prive di attualità, essendo venuti meno i loro presupposti; di leggi ridondanti e superflue, mescolate tra loro le leggi deroganti e le derogate, contraddittorie in molte delle loro disposizioni; leggi non conformi ai testi originali, leggi immeritevoli di tale nome, talune essendo meri decreti e addirittura semplici previsioni di polizia urbana; mentre sono assenti altre leggi assai importanti che, sebbene si trovino nella Nueva Recopilación, si omisero nella Novissima»[2].
Ecco dunque una tra le principali ragioni alla base del processo codificatorio che pervade l’Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: la certezza del diritto, intesa sia come accessibilità delle leggi che come garanzia della loro corretta applicazione. E in tale prospettiva si comprende il valore rivoluzionario dei codici, che d’un solo colpo privavano di ogni valore – come afferma ad esempio l’art. 5 del preambolo del Codice per lo regno delle Due Sicilie del 26 marzo 1819 – «le leggi romane, le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispacci, le lettere circolari, le consuetudini generali e locali e tutte le altre disposizioni legislative»[3]. Grazie al passaggio da un sistema connotato dalla molteplicità delle fonti di produzione del diritto a un unico testo caratterizzato da tendenziale completezza e modificabile solo con atto di legge[4], iniziava la costruzione di un nuovo rapporto tra lo Stato e il cittadino.
Questo rapporto, nato sotto il segno della legalità, si è però andato offuscando negli ultimi decenni, caratterizzati da un’alluvionale produzione legislativa che ha reso le leggi sempre più difficilmente accessibili e ha indotto una riflessione addirittura sulla perdurante validità del modello codicistico.
Si comprende dunque che, oggi, ogni progetto di riforma della parte speciale del codice penale suppone una preliminare riflessione sulla funzione del codice stesso. In questa prospettiva, un’importante indicazione è stata recentemente offerta dall’introduzione, nell’art. 3-bis c.p., del principio della riserva di codice.
1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice.
Sul tema della riserva di codice si sono in vario modo espressi tutti i progetti di riforma elaborati nell’ultimo trentennio.
Cominciando dallo schema di legge delega redatto dalla Commissione Pagliaro, esso non prevedeva in modo espresso la riserva di codice, ma la relazione, risalente al 25 ottobre 1991, enunciava tra i c.d. principi di codificazione «l’obiettivo di fare del codice il centro del sistema penale e di ridurre correlativamente il peso della legislazione speciale, che ha ormai assunto dimensioni abnormi».
L’opzione per una tipizzazione normativa, a livello costituzionale, trovava invece accoglimento, a distanza di pochi anni, nell’art. 129 comma 4 del Progetto di revisione della parte seconda della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale, che così disponeva: «Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono». Nella relazione si spiegava che il principio mira a «porre rimedio all’effetto perverso determinato dall’inflazione legislativa in materia penale, a causa della quale, di fatto, l’obbligo di conoscenza di tali disposizioni posto in capo a tutti i cittadini dall’articolo 5 del codice penale (…) è obbligo del quale non si può ragionevolmente pretendere l’adempimento. La razionalizzazione della tecnica legislativa, in forza dell’imposizione di un vincolo costituzionale al legislatore, facilitando la conoscibilità delle disposizioni penali, costituirà quindi una garanzia per il cittadino e, al contempo e conseguentemente, meglio assicurerà l’applicazione della stessa legge penale, senza che ne possa essere invocata in alcun caso l’ignoranza».
Questa formulazione della riserva di codice veniva ripresa alla lettera dall’art. 3 comma 2 del progetto di codice penale approvato il 22 luglio 2000 dalla Commissione Grosso, che però assegnava al principio in esame un significato nuovo rispetto sia alla centralità del codice affermata dal progetto Pagliaro, sia al legame con la conoscibilità della legge penale operato dalla Commissione bilaterale. La relazione al progetto auspicava infatti che «il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali»; al tempo stesso veniva però definita «irrealistica l’idea di codificazione del progetto Pagliaro», affermando la convinzione «che vi siano materie che non sia opportuno, o addirittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori: la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente condiviso, la dipendenza della disciplina di riferimento, ecc.»[5].
La relazione al progetto di codice penale licenziato nel 2004 dalla Commissione Nordio faceva invece ritorno alla visione del progetto Pagliaro: la riserva di codice era considerata come strumento di contrasto ai pericoli implicati dalla decodificazione e tuttavia si riteneva di non proporla nell’articolato, poiché «piuttosto dovrebbe trovare collocazione adeguata in una fonte sovraordinata, come quella costituzionale».
L’ultimo atto progettuale è rappresentato dall’art. 2 della proposta di articolato consegnata al Ministro nel settembre 2007 dalla Commissione Pisapia: «Prevedere che le nuove disposizioni penali siano inserite nel Codice Penale ovvero in leggi che disciplinano organicamente l’intera materia cui si riferiscono, coordinandole con le disposizioni del codice e nel rispetto dei principi in esso contenuti». La norma perseguiva l’intento di conciliare tutte le prospettive in precedenza delineatesi, dalla centralità del codice alla conoscibilità delle leggi penali e all’esigenza che esclusivamente nel codice siano custoditi i principi e gli istituti fondamentali: solo così si giustifica l’accostamento – operato nella relazione – tra «la necessità di fare del codice il testo centrale dell’intero sistema penale, onde porre un freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che alla effettiva possibilità di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti» e il riconoscimento della legittimità delle leggi organiche[6].
La nostra ricostruzione si conclude con l’art. 1 comma 85, lett. q), legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi recanti modifiche all’ordinamento penitenziario, nel rispetto, tra l’altro, dell’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato». Evitando di soffermarci sulla semplificazione talora eccessiva che caratterizza i collegamenti tra le varie finalità attribuite alla riserva di codice[7] e sull’ampiezza del catalogo delle fattispecie penali destinate a confluire nel codice[8], va notato come, sciogliendo ogni ambiguità, la riserva di codice sia ora proiettata esclusivamente sulle fattispecie incriminatrici. Tale restrizione aveva trovato riconoscimento, ben prima che nell’art. 3-bis c.p., in un decreto ministeriale 3 maggio 2016 istitutivo di una commissione, presieduta dal dott. Marasca, incaricata proprio del «riordino della parte speciale del codice penale», le cui indicazioni – contenute nella relazione approvata il 9 marzo 2017 – saranno in parte recepite dal d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21.
Di ciò, tuttavia, si dirà più avanti: per il momento, limitiamoci a constatare la dissonanza tra la generale enunciazione dell’art. 3-bis c.p. e la delega governativa per l’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale», giacché nel contrasto fra un principio formulato in senso assoluto e la sua applicazione solo parziale si annida l’essenza del problema.
1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema.
La relazione allo Schema di decreto legislativo sull’attuazione dell’art. 1 comma 85, lett. q), per quanto rileva ai nostri fini, afferma che la delega «riserva al codice un ruolo propulsivo di un processo virtuoso che ponga freno alla proliferazione della legislazione penale, rimettendo al centro del sistema il codice penale (…)». Subito dopo, però, la stessa relazione riconosce che l’inserimento del principio «nel codice penale e non nella Costituzione costituisce un argine alquanto labile all’espansione poco meditata del diritto penale, trattandosi di norma ordinaria e non di rango costituzionale; ma è pur vero che, inserita nella parte generale del codice penale, si eleva a principio generale di cui il futuro legislatore dovrà necessariamente tenere conto, spiegando le ragioni del suo eventuale mancato rispetto. Si costruisce in tal modo una norma di indirizzo, di sicuro rilievo, in grado di incidere sulla produzione legislativa futura in materia penale».
Rispetto a questa idea di una norma non vincolante a causa del rango e nondimeno “quasi” vincolante in virtù del contenuto, la dottrina dominante ha criticamente privilegiato il primo profilo, rilevando che, alla luce della gerarchia delle fonti di produzione del diritto, l’art. 3-bis non è in grado di determinare l’illegittimità di nuove disposizioni penali introdotte, con atto avente valore di legge, in violazione del suo contenuto. In senso contrario si è invece attribuito all’art. 3-bis il valore di «principio costituente per la materia penale, che legifica norme di rango costituzionale»; in base a questo assunto, «la violazione della riserva di codice (…) è controllabile giuridicamente ai sensi degli artt. 25 cpv. Cost. (principio giuridico-costituzionale cui è ancorata la determinatezza) e 3 Cost. (principio giuridico-costituzionale che consente alcune forma di controllo dell’ultima ratio)»[9].
L’idea di un’integrazione dal basso dei precetti costituzionali ora menzionati è interessante, ma suscita perplessità. In linea generale, viene subito da dire che l’art. 3-bis si presenta certamente come una norma anomala: in confronto alle disposizioni che lo precedono o gli fanno séguito nel titolo I del libro I, esso ha come unico destinatario il futuro legislatore che introdurrà le «nuove disposizioni che prevedono reati». Ora, pur volendo a ogni costo evitare l’antica polemica se le norme penali siano rivolte al giudice chiamato ad applicarle o all’individuo obbligato a rispettarle, un precetto destinato esclusivamente al legislatore ordinario ha senso solo in quanto provenga da una fonte sovraordinata: senza necessità di affrontare qui il problema dei c.d. autovincoli legislativi, ampiamente dibattuto nella dottrina costituzionalistica[10], ammettere che il Parlamento possa autovincolare la propria futura attività significherebbe ammettere un esercizio del potere in grado di condizionare il successivo esercizio di esso, così addirittura ponendo a rischio le basi della democrazia rappresentativa.
Si noti: qui non stiamo discutendo delle buone ragioni che stanno alla base di ogni progetto inteso ad “aggravare” la procedura di formazione delle leggi penali, così da richiedere una maggiore riflessione[11], poiché il problema verte sulla possibilità che il Parlamento introduca una norma di sistema, finalizzata ad atteggiarsi come parametro di legittimità di ogni nuova incriminazione penale, anche quando sia mutata la composizione delle Camere.
A nostro avviso, l’ipotizzabilità di una legge ordinaria, chiamata a conferire un contenuto giuridico di tipo operativo a un principio sovraordinato, si espone a un’alternativa concernente questo principio: che, se è talmente univoco da escludere contrastanti interpretazioni, costituisce la diretta fonte del vincolo anche per il legislatore futuro; se invece il contenuto attribuitogli mediante legge ordinaria convive con altre sue possibili divergenti interpretazioni, l’atto creativo sotteso dalla sua traduzione non può imporsi neppure indirettamente sulla legge futura. Come si vede, alla base di questa soluzione si riaffaccia sempre la gerarchia delle fonti, che all’interno del nostro sistema rappresenta un valore da difendere e anche – rispetto al problema in esame – un insormontabile ostacolo, che è bene rimanga tale.
In ogni caso, a noi sembra che l’art. 3-bis c.p. si sottragga alla qualifica di norma “di sistema” a causa di una sua congenita indeterminatezza.
In particolare, la formula «nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia» andrebbe intesa nel senso che, se per il passato tutto può restare fermo salvo appositi interventi del legislatore, il futuro approdo delle norme penali è rigorosamente costituito dal codice o da leggi organiche. Senza soffermarci per il momento sulla previsione di questo sbocco, la cui natura paritaria è negata dalla rubrica dell’art. 3-bis, dedicata esclusivamente alla riserva di codice, la sua conseguenza parrebbe consistere nell’impossibilità di sancire una nuova incriminazione che, allo stesso tempo, abbia ad oggetto una materia estranea a quelle contenute nel codice penale e neppure possa trovare collocazione in un’inesistente legge organica di riferimento.
Ma il vero problema non è neppure questo, bensì quello concernente il concetto di legge organica che, a differenza di altri Stati ove esso è definito a livello costituzionale nell’oggetto, nel rango e nelle modalità di formazione (come esempio possono citarsi gli artt. 46 ss. e 81, rispettivamente della Costituzione francese e spagnola), in Italia può indifferentemente riguardare il funzionamento di un organo o una disciplina tematica, in questo caso caratterizzandosi alla luce di una sfumata idea di completezza o sistematicità. In tale sua proiezione sull’oggetto, però, il termine risulta suscettibile delle più svariate declinazioni solo che lo si leghi a uno specifico argomento, a un determinato settore o a un’intera materia[12]. La conclusione finale è che una prescrizione normativa fondata su un concetto così sfuggente offre nulla più che una vaga indicazione, priva di ogni carattere vincolante.
2. Limiti e finalità della riserva di codice.
L’oggetto del dibattito è noto. In favore di una rivalutazione del ruolo del codice intervengono argomenti fondati, oltre che sull’esigenza di agevolare la conoscibilità dei precetti – così da rafforzarne la capacità di orientamento culturale e quindi l’efficacia generalpreventiva –, sull’opportunità di ostacolare derive ermeneutiche legate a una supposta specialità e autonomia dei reati extracodicistici[13]. In senso opposto si sottolinea invece l’elevato tecnicismo di disposizioni che non possono essere sradicate dal contesto normativo di riferimento, alla luce dei loro legami con le regole e i concetti ivi stabiliti ovvero con le altre disposizioni processuali o penitenziarie o amministrative poste a complemento e integrazione delle stesse fattispecie penali[14].
Sul dilemma appena riferito interviene appunto l’art. 3-bis c.p. che, prevedendo l’inserimento di nuove norme solo nel codice penale salvo il limite costituito da leggi organiche di settore, esprime comunque una netta preferenza per la collocazione codicistica. Nondimeno, ai nostri fini è significativo che tale disposizione provenga da una proposta della commissione Marasca (retro, § 1.1.) condivisa solo dalla minoranza e che la relazione infine approvata dalla commissione si esprimesse nettamente in favore della coesistenza del codice penale e di testi organici.
Non solo. Alcuni componenti della prima sottocommissione, competente per la tutela della persona, avevano espresso perplessità sulla «capacità razionalizzante della riserva di codice, strumento che reputano inadeguato ad interpretare nell’attuale momento storico le istanze di criminalizzazione, soprattutto – ma non soltanto – alla luce della forte interdipendenza tra diritto penale e normativa di contesto (è evidente che l’obiettivo della maggior conoscibilità non sempre sarà realizzabile quando le fattispecie da traslare nel codice abbiano una natura affatto o prevalentemente sanzionatoria e il corpo in cui sono attualmente collocate disciplini per il resto la materia in modo più o meno coerente)»[15]. Analogamente, la seconda sottocommissione – cui era attribuita la tutela della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio e della salute pubblica – si era espressa in favore di «corpi normativi unitari e tendenzialmente esaustivi (…), in linea con la tradizione legislativa italiana e con un modello ormai assimilato dagli operatori del diritto e dai destinatari della normativa»[16]. Così pure la terza sottocommissione, alla quale erano state attribuite la correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, aveva osservato in favore delle leggi organiche «che vi sono materie che richiedono interventi multidisciplinari, che spaziano dal livello penale a quello amministrativo e prima ancora definitorio delle categorie e dei poteri, coordinato con settori diversi etc.: sicché sarebbe un lavoro vano, nell’ottica della effettiva conoscenza di tutti i portati della legge anche solo penale, quello consistente nella estrapolazione da tali contesti dei soli precetti che applicano sanzioni penali»[17].
Come si vede, la stessa commissione ministeriale espressamente incaricata di attuare la riserva di codice ha concluso per la pratica irrealizzabilità di tale obiettivo. Ma a tale conclusione era invero già pervenuto il legislatore, che a quella commissione aveva conferito il mandato di un’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio», così dimostrando un contraddittorio atteggiamento, oscillante tra l’affermazione della centralità del codice e l’accoglimento di un doppio binario tra codice e leggi organiche[18].
3. Codice penale e accessibilità della legge.
Una precisazione preliminare è opportuna: le successive considerazioni sono dedicate al problema della collocazione delle norme penali e ad esse restano estranei i rapporti tra i principi generali del diritto penale e la legislazione penale complementare. Ai due profili sono rispettivamente dedicati, in assenza di qualsiasi coordinamento, gli artt. 3-bis e 16 c.p.: l’uno situato subito dopo la norma sull’obbligatorietà della legge penale, come a introdurre una specificazione di quell’obbligo, l’altro relegato al fondo del titolo I del libro I. È evidente però la sfasatura tra le scelte legislative: lungi dal rivestire un ruolo di rincalzo, l’art. 16 enuncia la «fondamentale unità dogmatica dell’intero diritto penale», ovunque contenuto, e tale «essenziale funzione di raccordo e di unione» tra diritto penale codicistico e legislazione penale complementare[19] mira a precludere – salvo espressa deroga, da introdursi con atto avente forza di legge – la formazione di aree e settori sottratti alle garanzie faticosamente raggiunte nel corso degli ultimi due secoli; sicché la norma contribuisce ancor più dell’art. 3-bis a chiarire il senso e i limiti dell’obbligatorietà della legge penale, dettando un precetto valido sia per il legislatore che per il giudice[20].
Così delimitato l’ambito delle riflessioni che seguono, possiamo dare per scontato che l’art. 3-bis c.p. mira a restituire attualità alle esigenze, rivendicate dai nostri antenati, di accessibilità delle norme incriminatrici sparse e disperse nell’intero ordinamento giuridico. Con la precisazione che l’idea originaria di accessibilità si legava soprattutto alla collocazione topografica delle norme all’interno del codice, anche perché – al di là dell’alternativa tra formulazioni assertive o didascaliche che caratterizzò le prime esperienze codificatorie – era evidente l’obbligo della massima chiarezza; mentre ora quell’idea si estende fino a comprendere la riconoscibilità delle norme come possibilità di una loro comprensione[21].
Questo nuovo atteggiamento non può sorprendere. Il requisito dell’accessibilità – inteso non più solo nel suo originario fondamento garantistico, ma anche come proiezione del principio di colpevolezza – trova infatti applicazione rispetto a qualsiasi disposizione penale, ovunque collocata. Già nella fondamentale sentenza 24 marzo 1988, n. 364, la Corte costituzionale aveva legato l’operatività dell’art. 5 c.p. al principio di conoscibilità della norma penale[22]; dopo pochi anni, la stessa Corte aveva precisato che «vi sono requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità del precetto penale – che rappresentano anche, peraltro, requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa – in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate»[23]. Analogamente, la giurisprudenza consolidata della Corte EDU vincola la natura penale del fatto a parametri sostanziali tra i quali rileva la qualità della norma che stabilisce precetto e sanzione, sotto il profilo della sua accessibilità per il destinatario e della idoneità a consentirgli di prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta[24].
Nella prospettiva delineata, le spinte verso un recupero della centralità del codice suppongono che esso sia strumento privilegiato per la realizzazione delle esigenze di accessibilità. La ricchezza semantica del concetto di accessibilità, riferibile sia alla sede topografica che al contesto normativo, quest’ultimo inteso anche come condizione della comprensibilità del precetto[25], dimostra tuttavia la vanità della supposizione: come purtroppo ha dimostrato un recente intervento della Corte costituzionale.
Il caso davvero non potrebbe essere più emblematico, al punto da far pensare a una beffa del destino, giacché riguarda una norma introdotta nel codice penale dal d.lgs. n. 21 del 2018, che nell’art. 570-bis (Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio) ha voluto portare l’incriminazione precedentemente prevista dall’art. 12-sexies legge 1° dicembre 1970, n. 898 (in tema di scioglimento del matrimonio), esteso dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, alle ipotesi di separazione dei genitori ex art. 3 e «ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» mediante l’art. 4 comma 2. Fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018 – che ha abrogato l’art. 12-sexies delle legge n. 898 e l’art. 3 della legge n. 54 – non si dubitava dunque in giurisprudenza che l’art. 4 comma 2 legge n. 54 avesse equiparato la tutela penale dei figli di genitori coniugati ovvero nati fuori dal matrimonio.
È possibile che il legislatore delegato abbia ritenuto allo stesso modo, argomentando dalla perdurante vigenza dell’art. 4 comma 2 legge n. 54 del 2006 e dal rinvio mobile sancito dall’art. 8 d.lgs. n. 21 del 2018. Certo è comunque che l’idea di una norma penale avente come soggetto attivo esclusivamente il coniuge, e nondimeno applicabile – fin dal momento della sua introduzione nell’ordinamento! – anche al genitore non coniugato, calpesta nel modo più evidente la comprensibilità della legge e si fa scherno della sua accessibilità.
Il principio di legalità qui come mai esigeva il suo tributo: ma la Corte costituzionale ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da numerosi giudici di merito, alla luce del «combinato disposto di due norme (l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 e l’art. 8 del d.lgs. n. 21 del 2018) che a loro volta si integrano con la disposizione incriminatrice di cui all’art. 570-bis c.p., determinando l’estensione del relativo ambito applicativo».
Ha senso parlare ancora di esigenze di riconoscibilità del precetto penale? La Corte costituzionale, proprio richiamando gli scopi del d.lgs. n. 21 del 2018, riconosce come la ricostruzione della norma penale attraverso due disposizioni extrapenali «risulti in definitiva distonica rispetto allo scopo, dichiarato dal legislatore delegante, di garantire ai consociati “una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni” attraverso la sia pur parziale attuazione del principio della “riserva di codice”. Tale considerazione dovrebbe auspicabilmente indurre il legislatore a intervenire direttamente sul testo dell’art. 570-bis (…) in omaggio all’obiettivo – rilevante ex art. 25, secondo comma, Cost. – di una più immediata riconoscibilità del precetto penale da parte dei suoi destinatari»[26]. Nondimeno, fino a quando l’intervento correttivo sul testo della fattispecie non sarà stato effettuato, viene da chiedersi se sarà possibile non ravvisare un errore inevitabile sul precetto da parte di colui – illetterato ovvero laureato e financo giurista non specializzato in diritto di famiglia – che avrà fatto affidamento sulla vigente formulazione dell’art. 570-bis. Prima ancora, però, ci si dovrà chiedere se davvero si possa parlare di errore rispetto a un precetto di univoca interpretazione e di recentissima introduzione all’interno del codice penale o se invece si tratti di un errore del legislatore, che in uno Stato di diritto mai può essere fonte di un errore colpevole del cittadino.
Riepilogando la non edificante vicenda, abbiamo un reato che è stato recentemente introdotto nel codice penale per ragioni di chiarezza e riconoscibilità sancite dal principio della riserva di codice; sulla base di un’interpretazione la cui correttezza è stata avallata dalla Corte costituzionale, tale reato, pur avendo come destinatario esclusivo il coniuge, incrimina anche il genitore privo della qualità di coniuge. Lo splendore dei principi di accessibilità, riconoscibilità e comprensibilità è dunque durato lo spazio di un mattino perché, proseguirebbe il poeta, appartengono a quel mondo «où les plus belles choses ont le pire destin».
4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale?
La vastità dell’attuale realtà normativa e il tecnicismo di taluni settori rendono velleitario qualsiasi obiettivo di concentrazione delle norme penali all’interno del codice[27]. Ma non è solo un problema quantitativo: abbandonando ideali illuministici oggi colorati di romanticismo, occorre riconoscere che parte speciale del codice penale e leggi organiche sono governate da regole eterogenee, in quanto la prima tende ad attrarre le incriminazioni alla luce del bene tutelato, cioè del suo rango o della sua rilevanza costituzionale, mentre il contenuto delle altre è determinato dalla natura complessa o multidisciplinare della materia. Sotto questo profilo, dunque, codificazione e decodificazione non stanno su un medesimo piano come scelte contrapposte, giacché obbediscono a diverse logiche sistematiche pur potendo ispirarsi agli stessi principi.
In particolare, assumendo che il principio del diritto penale come extrema ratio riguarda allo stesso modo il codice come pure la legislazione complementare e che parimenti vale per i valori dell’accessibilità e della comprensibilità delle norme penali, si fa strada una visione pragmatica che, pur riconoscendo la tendenziale centralità del codice come tavola dei valori fondamentali, sia in grado di cogliere e valorizzare le connessioni tra le varie incriminazioni e di esse con eventuali discipline extrapenali di riferimento. In questa prospettiva, il rango del bene costituisce solo un indizio in favore dell’allocazione della norma all’interno del codice, dovendosi stabilire se, alla luce del contesto in cui è inserita o delle tecnicalità che ne condizionano l’applicazione o della procedimentalizzazione di un bilanciamento di interessi del quale la norma penale costituisce l’esito, non appaia invece preferibile la sua collocazione in una legge organica.
È corretto dire che la parte speciale del codice abbia cessato di costituire un valore autoreferenziale? Verosimilmente sì: se si vuole davvero riempire il contenuto della colpevolezza anche alla luce dei criteri dell’accessibilità e dell’intellegibilità delle incriminazioni, le leggi organiche – intese come microsistemi ordinari per materie e accostabili nei contenuti ai vigenti testi unici – possono costituire una valida alternativa al codice penale, purché l’insieme complessivo che ne deriva sia in grado di assicurare «un ordine, una coerenza, un raccordo assiologico, semantico e politico-criminale»[28].
5. Linee conclusive dell’indagine.
Riconosciuta l’irrealizzabilità di un codice penale destinato a contenere tutte le norme penali, ovunque disperse nell’ordinamento giuridico, oggi si delinea un’alternativa tra due modelli generali: il primo, desumibile dalla rubrica dell’art. 3-bis c.p., aspira a una centralità del codice in conseguenza della quale esso dovrebbe comprendere tutte le fattispecie incriminatrici più significative, anche quando presentino elementi costitutivi intimamente connessi con una normativa privatistica o amministrativistica di settore; il secondo modello auspica invece, accanto al codice penale come tavola dei principi generali e delle incriminazioni fondamentali, che per specifiche materie, di particolare complessità o di alto tecnicismo, le norme penali possano trovare posto in leggi organiche intese alla stregua di testi unici.
Il riconoscimento della funzione culturale del codice, ma anche delle esigenze di accessibilità e comprensibilità delle norme penali, induce a evitare opzioni rigide e a preferire soluzioni da ricercarsi sulla base di criteri di ragionevolezza[29]. Così, in aggiunta a quanto osservato in precedenza, ulteriori esempi di una corretta collocazione di norme penali fuori dal codice penale possono ravvisarsi in ambito economico: i reati societari è bene che rimangano nel codice civile, i reati fallimentari nella c.d. legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), i reati finanziari nel c.d. testo unico finanziario (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), i reati tributari nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e così via[30]. Allo stesso tempo, tuttavia, per motivi di orientamento culturale può esprimersi un giudizio positivo sulla scelta di portare all’interno del codice penale i reati più rappresentativi della tutela dell’ambiente, così da rimarcare l’importanza di un bene per troppo tempo rimasto ai margini dell’elaborazione penalistica[31].
Tutto sta dunque a intendersi nell’individuazione delle materie che, per il loro tecnicismo o per l’esistenza di una più ampia disciplina civilistica o amministrativa, richiedono di essere elevate a sistema autonomo e di quelle che invece tollerano una collocazione delle relative incriminazioni all’interno del codice penale.
Fermo restando che qualsiasi scelta in proposito risulta indipendente dal piano assiologico nel quale si muovono le valutazioni in tema di disvalore etico o giuridico, il dibattito è aperto e ciascuna soluzione può risultare dotata di valide giustificazioni. Per tale ragione, piuttosto che di riserva di codice appare preferibile pensare a una paritaria alternativa tra codice e leggi organiche.
* Il testo fa parte di un più ampio studio destinato alla pubblicazione sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale, con il titolo “Codice penale, riserva di codice e riforma dei delitti contro la persona”.
[1] La citazione è tratta del notissimo esordio («A chi legge») che, a partire dalla “quinta” edizione, del 1766, compare nel Dei delitti e delle pene. Beccaria a più riprese si scaglia contro i «criminalisti» e i frutti della loro «più crudele imbecillità», resi da «giureconsulti autorizzati dalla sorte a decidere di tutto e a divenire, di scrittori interessati e venali, arbitri e legislatori delle fortune degli uomini» (così nella nota del § XIII).
[2] Gomez de la Serna-Montalban, Elementos del derecho civil y penal de España, Madrid, 18453, I, p. 117 s.
[3] Sul valore e sul ruolo delle opinioni nella giustizia del XVIII secolo è d’obbligo la citazione di Muratori, Dei difetti della giurisprudenza (1742), in particolare il cap. VI. Sugli ideali, tipicamente illuministici, della chiarezza, semplicità e coerenza delle leggi penali e del loro numero limitato è sufficiente il rinvio a Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 201110, p. 99; sulla moderna codificazione come processo culturale e storico, per tutti si rinvia alle differenti ricostruzioni di Cavanna, La storia del diritto moderno (secoli XVI-XVIII), Milano, 1983, p. 115 ss.; Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, p. 18 ss.
[4] Valga per tutte la citazione dell’art. 5 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789): «La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».
[5] Sulle soluzioni accolte nei progetti della commissione Pagliaro, della Bicamerale e della commissione Grosso, per tutti, Maiello, ‘Riserva di codice’ e decreto-legge in materia penale: un (apparente) passo avanti ed uno indietro sulla via del recupero della centralità del codice, in La riforma della parte generale del codice penale, a cura di Stile, Napoli, 2003, p. 159 ss.
[6] Da notare però come un forte sbilanciamento in favore della soluzione accolta nel progetto Pagliaro fosse rinvenibile nel successivo passo in cui si afferma: «Il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo e, per quanto possibile, esclusivo dell’intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di diritti e beni fondamentali».
[7] Per una critica al collegamento tra riserva di codice e rieducazione del reo Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alla playlist. Considerazioni inattuali sul principio della riserva di codice, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 5, p. 136 ss.; conf. Riccardi, Riserva di codice, in Dir. pen. cont., 20-12-2018, p. 3. Diff. Donini, La riserva di codice (art. 3-bis c.p.) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, in Leg. pen., 20-11-2018, p. 8 s.; Rotolo, Riserva di codice e legislazione complementare, in Jus Online, 2019, n. 3, p. 166 s.
[8] Per tutti, Pelissero, La politica penale delle interpolazioni, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 71. D’altra parte, come dimostra la ricerca della quale riferisce Donini, Oltre il tecnicismo e l’ideologia: verso una costruzione più scientifica delle leggi penali, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. VII ss., la maggior parte degli illeciti che costituiscono la legislazione penale complementare è posta a tutela di beni giuridici fondamentali riconducibili all’incolumità e alla salute pubblica (da ult. Ambrosetti, Codice e leggi speciali. Progettare una riforma dopo la riserva di codice, in disCrimen, 5-11-2018, p. 2 s.).
[9] Donini, L’art. 3 bis c.p. in cerca del disegno che la riforma Orlando ha forse immaginato, in Dir. pen. proc., 2018, p. 438; Id., La riserva di codice, cit., p. 8. Nel senso di negare alla norma in esame il valore di un vincolo per il futuro legislatore, tra gli altri, Gallo, La cosiddetta riserva di codice nell’art. 3-bis: buona l’idea, non così l’attuazione, in Dir. pen. cont., 20-11-2018, p. 2; Leopizzi, La grande migrazione, in Giust. pen., 2018, I, c. 84; Palazzo, La Riforma penale alza il tiro?, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 60; Riccardi, Riserva di codice, cit., p. 4 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 161 s.; vd. pure Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 143 s.; nonché Maiello, ‘Riserva di codice’, cit., p. 164.
[10] Un approfondimento è in Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica: significato, questioni di legittimità costituzionale e impatto sul sistema penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2019, n. 1, p. 215 ss.
[11] Ampiamente, da ult., Fornasari, Argomenti per una riserva di legge rafforzata in ambito penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 2, p. 162 ss.
[12] Conf. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210, che a p. 214 afferma l’illegittimità dell’art. 3-bis per difetto della legge delega.
[13] Per tali argomentazioni, tra gli altri, Fornasari, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano, 1994, p. 217; Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992, p. 266 ss.; Romano, Razionalità, codice e sanzioni penali, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, Milano, 2003, III, p. 1895; Id., Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1977, p. 190 ss.; in riferimento ai reati contro la persona conf. De Francesco, Una sfida da raccogliere: la codificazione delle fattispecie a tutela della persona, in Tutela penale della persona e nuove tecnologie, a cura di Picotti, Padova, 2013, p. 25 ss.; vd. anche Ferrajoli, Il paradigma garantista, Napoli, 20162, p. 215 ss.; Id., Crisi della legalità penale e giurisdizione. Una proposta: la riserva di codice, in Legalità e giurisdizione. Le garanzie penali tra incertezze del presente ed ipotesi del futuro, Padova, 2001, p. 27 ss. Un quadro equilibrato delle ragioni in favore della decodificazione e della ricodificazione è in Palazzo-Papa, Lezioni di diritto penale comparato, Torino, 20133, p. 41 ss.
[14] Con varietà di accenti, ma nel senso di considerare le proposte pancodicistiche come un’anacronistica riproposizione di pensieri risalenti all’illuminismo settecentesco Fiandaca, In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in Dir. pen. proc., 2001, p. 137 ss.; Id., Relazione introduttiva, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. 2: Id., La riforma codicistica tra mito accademico e realtà politico-culturale, in Gli ottant’anni del codice Rocco, a cura di Stortoni-Insolera, Bologna, 2012, p. 209 s.; Palazzo, Requiem per il codice penale? (Scienza penale e politica dinanzi alla ricodificazione), ivi, p. 39 ss.; Paliero, Riforma penale in Italia e dinamica delle fonti: una paradigmatica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1014 ss. In favore della elaborazione, accanto al codice penale, di leggi organiche di settore, da intendersi come «microsistemi integrati», Donini, Alla ricerca di un disegno, Padova, 2003, pp. 106 ss., 166 ss., 219 ss.; Id., L’art. 3 bis c.p., cit., p. 434 s.; vd. anche Losappio, Il sottosistema nel diritto penale. Definizione e ridefinizione, in Ind. pen., 2005, p. 7 ss.; Padovani-Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 2006, p. 31 ss.; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., pp. 141 ss. e 151 ss. Sul piano comparato, utili indicazioni sono offerte dalle relazioni di Quintero Olivares e Pradel, in La riforma della parte speciale del diritto penale, a cura di Papa, Torino, 2005, pp. 49 e 55 s.; vd. pure Cadoppi, Il crepuscolo del codice. Gli ottant’anni del codice Rocco alla luce dell’esperienza comparatistica, in Gli ottant’anni del codice Rocco, cit., p. 83 ss.
[15] Commissione di studio per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo per un riordino della parte speciale del codice penale, parte II, § 0, p. 16 s. Vd. anche ivi, p. 19: «l’accorpamento in testi organici di specifiche per quanto ampie materie – soprattutto se ad alto contenuto tecnico – consentirebbe ai destinatari del precetto (primario e secondario) un più agevole reperimento della disciplina di base anche extra penale e al legislatore un meno problematico aggiornamento dei presupposti tecnici del divieto penale».
[16] Commissione di studio, cit., parte III, § 1, p. 63, che allega così «esigenze di razionalità e migliore “leggibilità” dei reati».
[17] Commissione di studio, cit., parte IV, § 0, p. 107 s., che così prosegue: «Ma la ragione più importante sta nel fatto che il codice dovrebbe essere portato verso la direzione della “essenzialità” del diritto penale. Con la conseguenza che il problema maggiore o comunque contestuale a quello sottopostoci non è tanto quello del trasformare precetti extra-codice in altrettanti precetti di parte speciale, e quindi infarcire ulteriormente il codice, quanto quello di fare contemporaneamente uscire un certo numero di precetti (…) di importanza diminuita o addirittura non più percepita se non addirittura venuta meno».
[18] Cfr., tra gli altri, Donini, La riserva di codice, cit., p. 4 ss.; Pelissero, La politica penale, cit., p. 71 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 168; Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210 ss.
[19] Le citazioni sono tratte da Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 20053, p. 190; vd. pure Fiorella, Le strutture del diritto penale, Torino, 2018, p. 58 s.
[20] Cfr. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 208 e nota 6, secondo cui l’art. 3-bis avrebbe potuto essere meglio allocato subito dopo l’art. 5 ovvero nel titolo IV del libro I.
[21] Per tutti e da ult. Rotolo, ‘Riconoscibilità’ del precetto penale e modelli innovativi di tutela, Torino, 2018, p. 55: «Il ‘principio di riconoscibilità’ concerne le relazioni che legano lo Stato e il cittadino: esso impone l’equilibrio tra la garanzia offerta al destinatario del precetto di poterne comprendere il significato e l’esigenza di pretenderne l’obbedienza».
[22] «Il principio di “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, comma 3 e 25, comma 2, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da esser percepite anche in funzione di norme “extrapenali”, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare”» (punto 17 in diritto). In argomento De Francesco, Diritto penale, Torino, 2018, p. 507 ss.; Fiorella, Le strutture, cit., p. 88 s.; Manna, Corso di diritto penale, pt. gen., Milanofiori Assago, 20153, p. 427 ss.; Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 20198, p. 429 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 20187, pp. 92 s., 441 s.; de Vero, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 2020, p. 759 ss.; Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19-12-2016, p. 2 ss.; da ult. Lanzi, Error iuris e sistema penale, Torino, 2018, pp. 70 ss., 139 ss.; Papa, Fantastic voyage, Torino, 20192, p. 75 ss.
[23] Corte cost., 13 aprile 1992, n. 185.
[24] Nella sterminata bibliografia, utili spunti sono offerti da Bernardi, La sovranità penale tra Stato e Consiglio d’Europa, Napoli, 2019, p. 49 ss.; Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, p. 82 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 20187, p. 62 ss.; Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, p. 140 ss.; Sotis, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012, p. 21 ss.; Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità ‘costituzionale’ vs. legalità ‘convenzionale’?, in Dir. pen. cont., 5-4-2017, p. 2.
[25] Nel senso di differenziare conoscibilità e comprensibilità de Flammineis, L’età della (apparente) codificazione: brevi riflessioni sul d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 6, p. 30.
[26] Corte cost., 5 giugno 2019, n. 189.
[27] Sul punto non sussistono dubbi: Donini, La riserva di codice, cit., p. 7, paventa la trasformazione del codice in un «libro-ripostiglio»; Palazzo, La Riforma penale, cit., p. 60, prospetta il pericolo di un codice destinato ad assumere «proporzioni mostruose»; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 142, parla di un codice inteso come «“centro di accoglienza” (…). Un insieme di norme informe ed eterogeneo: privo di struttura, disarmonico nello stile, architettonicamente inguardabile».
[28] Donini, La riserva di codice, cit., p. 9.
[29] In questo senso non sembra condivisibile la scelta del progetto Pagliaro, fondata solo sulla mutevolezza della normativa, così escludendo dal codice penale le incriminazioni in tema di mafia, armi e stupefacenti «perché le tecniche della lotta contro gli illeciti in questione (e, talvolta, i fenomeni stessi) sono troppo legate alla contingenza dei tempi, per potere essere stabilmente formalizzate in un codice».
[30] Il Progetto Pagliaro optava decisamente per la soluzione codicistica nel titolo VII, dedicato ai reati contro l’economia, mentre la relazione della Commissione di studio, cit., parte IV, § 3.1 s., p. 137 s., si esprime in favore dell’attuale collocazione dei reati societari, bancari, finanziari e fallimentari.
[31] Per tutti D’Alessandro, Nota introduttiva agli artt. 452 bis-452 terdecies, in Commentario breve al codice penale, a cura di Forti-Seminara-Zuccalà, Milanofiori Assago, 20176, p. 1525 ss.
Non possiamo non dirci antifascisti
L’antifascismo non è un’opinione politica, cominciamo col dire questo.
“Il fascismo è stato un’eresia morale, sociale e politica e deve essere espulso da ogni angolo del nostro paese e dal mondo intero” (Don Luigi Sturzo, 1944).
Quando il Presidente della Repubblica commemora le vittime del nazifascismo in uno dei tanti sacrari disseminati nell’Italia centrale e settentrionale, non presenzia al congresso di un partito, ma celebra la lotta antifascista; quando i cittadini scendono in piazza con i vestiti della festa il 25 aprile non partecipano ad una manifestazione politica, ma rendono omaggio al “silenzio dei torturati, più duro d’ogni macigno”, come scrisse Calamandrei nella celebre “Lapide ad ignominia”; quando i magistrati italiani applicano ogni giorno principi della Costituzione maturati nel buio della dittatura fascista come la libertà di espressione (art. 21), quella di associazione (art. 18), l’inviolabilità della libertà personale ed il rifiuto di ogni forma di violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (art. 13), quotidianamente celebrano la Repubblica: perché la nostra è una Repubblica che si fonda sull’antifascismo, inteso come sistema di governo totalitario incline a comprimere diritti collettivi e individuali.
Questi sono i fondamenti della nostra democrazia conquistata tanto con la lotta partigiana tanto con il voto popolare dal quale fu legittimata l’Assemblea Costituente.
Stupisce pertanto il fatto che qualcuno pubblicamente stigmatizzi – facendo leva sul sospetto di parzialità o, peggio, faziosità del suo operato – le simpatie per l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani di un pubblico ministero, che si trova ad indagare su notizie di reato riguardanti esponenti di un partito che si dichiara di estrema destra, il pubblico ministero indaga sulle notizie di reato e non si interessa delle opinioni politiche. Si tratta di un messaggio mistificatorio: l’antifascismo non è un’opinione politica. Sarebbe anzi allarmante che un magistrato italiano non si dichiarasse antifascista, o perlomeno non esercitasse la propria funzione senza avere a mente il valore dell’antifascismo. Egli non giura forse fedeltà alla Costituzione, non si impegna ad applicare quelle leggi che dalla Costituzione derivano? E cos’è la Costituzione, se non l’enunciazione di una serie di principi antifascisti? E cos’è la magistratura, se non la custode dell’antifascismo, così come espresso nelle leggi che da quei principi discendono? In questa prospettiva finalistica, un magistrato che non sia antifascista è colui che non ha quale stella polare del suo operato la Costituzione; e tutti confidiamo che non ve ne siano in giro.
Siamo tutti, noi magistrati, antifascisti!
“Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate lì o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione” (Piero Calamandrei).
“La Memoria, custodita e tramandata, è un antidoto indispensabile contro fantasmi del passato. La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta. L’indicazione delle discriminazioni da rifiutare e respingere, al suo articolo 3, rappresenta un monito. Il presente ci indica che di questo monito vi era e vi è tuttora bisogno.
Egualmente, credo che tutti gli italiani abbiano il dovere, oggi, di riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso, con l’approvazione delle leggi razziali, nei confronti dei nostri concittadini ebrei.
La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d’Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo.
La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire” (Sergio Mattarella, 26 Gennaio 2018, celebrazione del Giorno della memoria al Quirinale).
Professiamoci, tutti, magistrati antifascisti.
E adesso la si butti pure in politica, si tiri fuori la storia dell’imparzialità: si faccia finta che non si sappia che l’antifascismo non è opinione politica, ma quel senso profondo e non sradicabile di libertà e giustizia sociale che ha guidato la mano dei Padri Costituenti, molti dei quali scesi dalle montagne quando ancora riposavano, sotto una neve inviolata, coloro a cui dobbiamo la conquista dei nostri diritti. Davvero non possiamo non dirci antifascisti.
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