ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il modello dello Stato di diritto e l’epistemologia della complessità
di Salvatore Aleo
Sommario. 1. Premessa. - 2. L’assetto culturale e storico della codificazione. - 3. Destrutturazione del modello culturale e istituzionale della codificazione. - 4. La complessità. Analisi funzionale e teoria dell’organizzazione. - 5. Complessità e diritto penale. - 6. Per un diritto flessibile.
1. Premessa.
L’occasione che mi è stata data di scrivere su questa rivista mi ha indotto a rappresentare alcune riflessioni sul modello dello Stato di diritto che ritengo necessarie, utili a stimolare un confronto.
Il modello dello Stato di diritto subisce delle trasformazioni importanti e anche epocali, pure irreversibili, che possono essere rappresentate come ‘crisi’ solo nel senso più originario di questo termine che prescinde da ogni connotazione negativa e ha invece una dimensione puramente descrittiva.
2. L’assetto culturale e storico della codificazione.
Il modello illuministico-ottocentesco-liberale-continentale dello Stato di diritto e della codificazione è stato fondato sul primato della forma della legge e sulla centralità e autosufficienza della forma di codice, sul principio di legalità, come garanzia della dimensione individuale (rispetto agli altri individui e allo Stato), sui valori di certezza del diritto, uguaglianza fra i cittadini di fronte alla legge, prevedibilità delle decisioni giudiziarie, sulla separazione fra i poteri dello Stato. Di questo modello sono corollari fra l’altro l’indipendenza e irresponsabilità politica della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale.
Beccaria chiese ai sovrani leggi poche, semplici e chiare, pene miti ma certe, processi veloci e con le prove, l’abolizione della tortura e della pena di morte; escluse addirittura che «l’autorità d’interpretare le leggi penali può risiedere presso i giudici criminali, per la stessa ragione che non sono legislatori» e considerò che «Non vi è cosa più pericolosa di quell’assioma comune, che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni»[1]. Montesquieu aveva ritenuto che «i giudici della nazione sono soltanto […] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati [senz’anima], che non possono regolarne né la forza né la severità»[2]. Al giudice era così attribuita (riconosciuta) una funzione meramente e assolutamente ricognitiva: del fatto, del suo autore e della legge.
Le trasformazioni principali avvenute più recentemente riguardano la moltiplicazione e proliferazione legislativa, al di fuori e a prescindere dalla forma di codice, la perdita di tassatività, nonché di astrattezza e generalità, della forma della legge, l’aumento esponenziale del potere discrezionale dei giudici e degli spazi di valutazione di tutti i magistrati, la enorme riduzione della prevedibilità delle decisioni giudiziarie; ciò è avvenuto in tutti i settori, massimamente in quelli in cui è più forte la dimensione welfaristica o assistenziale (diritto di famiglia, diritto minorile, diritto del lavoro[3]), nonché nel diritto penale, in cui il giudice è stato chiamato vieppiù a scelte di opportunità, di giustizia sostanziale; senza che, d’altra parte, queste trasformazioni siano state compensate da svolte e modificazioni, correzioni, del modello, che cioè ne tengano conto. Un altro fenomeno, in parte collegato, è la riduzione delle differenze e della distanza fra i sistemi di civil law e quelli di common law. Prima di soffermarci e riflettere su questi aspetti, occorre tener conto delle condizioni principali e dei contesti in cui si è sviluppato il modello che abbiamo definito illuministico-ottocentesco-liberale-continentale.
Dal punto di vista storico-culturale, quel modello ha costituito il superamento dell’assetto medievale e ha corrisposto all’incontro fra tre grandi importanti filoni: il razionalismo, soprattutto tedesco e soprattutto seicentesco; l’illuminismo, francese, ma anche tedesco, lombardo, napoletano; la religione cattolica. Il razionalismo, ovvero l’idea della verità assoluta, del primato della ragione, della ragione universale, fondata in ultima analisi sulla volontà di Dio; l’idea della perfettibilità umana e quindi anche della storia come progresso. L’illuminismo, ovvero la rappresentazione individuale della società e del diritto come strumento di garanzia e tutela della libertà individuale e dell’uguaglianza fra i cittadini; la formula del contratto sociale. La cultura cattolica, ovvero la nettezza e universalità della distinzione fra bene e male, fra virtù e peccato, l’idea stessa della soglia: la soglia del peccato, come del diritto, quindi del delitto e della garanzia.
La codificazione è stata un’operazione di semplificazione e razionalizzazione del diritto, nella fase storica in cui tutte le scienze credettero nelle leggi di natura, universali, che governano il mondo. In tal senso, tuttavia, appare tanto opportuno quanto sofisticato precisare che, storicamente, è stato soprattutto il linguaggio della fisica debitore di quello giuridico, e religioso, non viceversa. Importanti appaiono in proposito le considerazioni svolte da Kelsen[4].
L’illuminismo è stato soprattutto una reazione (polemica) di intellettuali nobili contro l’arbitrio e le nefandezze dei magistrati e le miserie degli avvocati, oltre che i privilegi cetuali ed ecclesiastici[5]. Da questo specifico punto di vista si pensi nei periodi precedenti alle opere dei grandi umanisti francesi, Rabelais e Montaigne. Il primo ha descritto il giudice Brigliadoca che amministra la giustizia con i dadi (che peraltro egli non vede più tanto bene, per la vecchiaia, e gli può capitare di scambiare «un quattro per un cinque»), e spiega (di fronte alla domanda di «Sparabubbole Primo Presidente di quella corte») che questo tipo di giudizio non è meno equo di quelli fatti dai suoi colleghi[6]. Così Guicciardini ha scritto che le sentenze «de’ Turchi, le quali si espediscono presto e quasi a caso», non sono mediamente peggiori di quelle «date tra noi, o per la ignoranza o per la malizia de’ giudici»[7]. Montaigne ha scritto un saggio bellissimo sui selvaggi (i cannibali) invitando i propri simili a considerare le loro forme di barbarie e crudeltà, peggiori appunto del cannibalismo[8].
La codificazione non sarebbe stata concepibile a prescindere dalla straordinaria attitudine e pretesa e capacità di semplificazione della cultura illuministica e appare fondata sulla logica binaria. Tutta la codificazione ha una struttura binaria semplice: l’autore e la vittima, così come i contraenti, ma anche il vero e il falso, il colpevole e l’innocente. Soggetto tipico della codificazione è chiunque, individuale e astratto; non ci sono i gruppi, le aggregazioni sociali, neppure la famiglia.
Kant descrisse la società come composta da individui, che hanno rapporti e conflitti con altri individui, mediati dallo Stato-arbitro.
Francesco Carrara, a metà ottocento, definì lo Stato come un muro di cinta che protegge i diritti degli individui; espresse la pretesa di edificare il diritto criminale come scienza: come dottrina matematica, dopo le fasi teologica e metafisica, fondata sui principi assoluti e universali della ragione, espressione in ultima analisi della volontà di Dio; definì l’oggetto peculiare di tale scienza nel delitto, come ente giuridico (astratto).
Dal punto di vista storico-sociale, quel modello culturale e istituzionale è stato concepito ed edificato in una società divisa in classi, priva di mobilità, a struttura piramidale, cioè con ceti dirigenti ristretti e culturalmente omogenei: analoghe abitudini alimentari, civili, religiose, ludiche. I detentori del potere economico e politico ritenevano che le loro poche idee fossero la verità, unica possibile, assoluta e universale. È precipua, così, la tendenza alla formalizzazione di tutte le condotte quotidiane. Si pensi, nei secoli precedenti alla codificazione, alle opere del Cortegiano, di Baldassar Castiglione[9], al Galateo, di Monsignor Della Casa[10], al Dottor volgare di De Luca (1673), soprattutto agli Scritti pedagogici di Jean-Baptiste de la Salle[11], fondatore dell’ordine dei fratelli delle scuole cristiane. Questi ultimi sono stati redatti negli anni fra 1706 e 1720 e vi sono rappresentati, con disposizioni normative numerate e articolate, definiti nei più piccoli dettagli, tutti i comportamenti possibili che bisogna esigere dai bambini a scuola e quelli che bisogna tenere nei confronti degli stessi, come le caratteristiche che devono avere la scuola e l’insegnamento.
Dal punto di vista storico-economico, quel modello culturale e istituzionale è stato corrispondente al processo di superamento dell’economia feudale e di formazione del mercato, al processo di formazione del sistema della proprietà privata e del contratto. Si pensi a tale ultimo proposito ai trattati di Pothier, di metà settecento, sui contratti e le obbligazioni. La certezza del diritto costituisce un preciso semplice criterio di funzionalità del mercato, perché consente ai soggetti che vi intervengono di conoscere preventivamente le conseguenze giuridiche dei loro comportamenti.
Dal punto di vista storico-politico, la costruzione del modello culturale e istituzionale dello Stato di diritto ha corrisposto al processo di formazione dello Stato moderno, attorno all’identità nazionale. La funzione che possiamo ritenere definitoria dello Stato di diritto è essenzialmente regolativa e prevalentemente inibitoria, definita dalla forma della legge e svolta dalla stessa forma della legge, dalla comunicazione del messaggio: l’individuo è libero di fare tutto ciò che vuole tranne le poche cose che sono espressamente vietate. L’idea liberale dello Stato minimo. Il diritto penale è il plinto, d’altronde l’extrema ratio, di questa costruzione. Ciò contribuisce anche a spiegare sia l’importanza che la fortuna dell’opera di Beccaria, insieme alla rilevanza delle sue proposte e al linguaggio e alla esposizione chiari e semplici, alla portata di tutti (mentre ancora quasi cinque secoli dopo la Divina Commedia le opere dei giuristi erano in latino, come per esempio gli Elementa iuris criminalis di Filippo Maria Renazzi, docente di diritto criminale dell’Archiginnasio romano, come si chiamava l’Università di Roma, degli anni 1773-1786).
Il modello culturale sottostante è formalistico in un senso più profondo di quello che riguarda la legge (in quanto) scritta, perché è fondato sulla predeterminazione formale di tutte le nozioni che utilizza. Così, emblematicamente, nella categoria e nel giudizio causale: fondati sulla predefinizione formale dei tipi, delle tipologie, degli eventi di cui si tratta, fra cui è effettuato il collegamento (logico-conoscitivo).
Il modello culturale e istituzionale così sinteticamente rappresentato ha subito poi una fortissima contraddizione, un fortissimo scuotimento, ad opera sia del pensiero socialista che delle nuove scienze, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la statistica, che hanno progressivamente e successivamente influito nel processo di deformalizzazione, di destrutturazione dell’assetto formalistico del modello, appunto, illuministico-liberale. La statistica e la sociologia hanno espresso in modo particolare la rappresentazione del molteplice.
Una domanda che i giuristi non si fanno, che non mi è capitato di veder fare dai miei docenti e dai miei colleghi, riguarda le ragioni principali di difformità del sistema di common law, posto che la società che lo espresse inizialmente non mi pare fosse tanto diversa da quelle continentali, in cui si è affermato il modello codificato. Preferisco tentare di rispondere in modo conviviale e approssimativo piuttosto che rimuovere il problema[12].
In primo luogo può considerarsi come nel XIII secolo funzionassero già bene in Inghilterra le giurie popolari formate dai notabili e abbienti. Inoltre ivi si affermò il sistema dell’equity, del ricorso al sovrano da parte di chi non avesse ricevuto giustizia, amministrato dal lord cancelliere, che di solito era un ecclesiastico. Ancora può farsi rilevare la differenza profonda del rapporto fra chiesa e stato e la non precisa connotazione cattolica. Infine bisogna considerare, soprattutto sintomaticamente, come gli inglesi abbiano avuto Locke e Hume, convenzionalisti, possiamo dire sociologi ante litteram, al posto di Cartesio, Leibniz e Rousseau.
Il sistema della codificazione ha costituito un’esperienza storicamente molto limitata, frutto indubbiamente di una grande semplificazione, nonché di una centralità e omogeneità dell’assetto di potere.
Va fatto rilevare, in proposito, come la codificazione giustinianea vide la luce solo dopo che l’esperienza politica e giuridica romana era finita e in oriente; fu il risultato semplificatorio di un potere autoritario imperiale, che elesse a norme le opinioni di alcuni giuristi; ebbe limitato vigore nelle zone dell’influenza bizantina; trovò dimensione importante negli studi medievali dei glossatori e commentatori.
Il sistema del diritto romano era casistico. Vi è certamente maggiore continuità con quello di common law, almeno dal punto di vista processuale. I crimina vi erano giudicati nei comizi.
Il sistema della codificazione moderna ha funzionato (assicurando certezza) in modo unilaterale dall’alto verso il basso: essenzialmente come sistema rivolto ai ceti subalterni da parte dei detentori del potere, politico ed economico. Può essere considerato emblematico, ed è pure superfluo ricordare, come nei codici penali i capitoli più ampi ed articolati siano quelli dei delitti contro lo Stato e l’autorità e dei delitti contro il patrimonio.
Nel nostro codice penale del 1930, elaborato da giuristi di valore, furono stabiliti pene e criteri penali molto severi e fu assegnato al giudice un grande potere discrezionale: perché il codice è particolarmente moderno e perché il fascismo aveva fiducia nella ‘sua’ magistratura, i cui esponenti prestarono appunto giuramento di fedeltà. Particolare potere discrezionale fu riservato al controllo giurisdizionale dell’attività della Pubblica amministrazione. Dagli anni settanta del XX secolo questa tendenza si è sviluppata in modo che possiamo definire esponenziale. In contrario può essere considerato marginale e sostanzialmente fallito il tentativo operato con la legge di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione del 1990, immediatamente prima che scoppiasse Tangentopoli.
3. Destrutturazione del modello culturale e istituzionale della codificazione.
Il processo che possiamo definire di destrutturazione formale del modello culturale e istituzionale dello Stato di diritto ha certamente avuto a che fare, a partire dagli anni settanta del secolo XX, con la legislazione speciale, ovvero dell’emergenza, relativa ai fenomeni terroristico e mafioso[13]. Ma sarebbe un errore legare a questi fenomeni sociali criminosi quello della legislazione speciale. Basti pensare in proposito a tutta la stagione delle riforme, degli anni settanta e ottanta, a partire, possiamo dire, dallo Statuto dei lavoratori, passando per l’introduzione del divorzio, la riforma del diritto di famiglia e l’introduzione dell’aborto, la riforma di parte generale del codice penale del 1974 (nel senso dell’ampliamento del potere discrezionale del giudice), le riforme dell’ordinamento penitenziario. Il termine ‘decodificazione’ è stato coniato da un civilista, Irti[14]. D’altro canto, abbiamo accennato, sarebbe semplicistico parlare di ‘crisi’ del modello, quanto piuttosto di trasformazione, rilevantissima, essenziale.
Va considerato, piuttosto, che l’assetto giurisdizionale determinatosi in materia di antiterrorismo e poi soprattutto di lotta alla mafia ha avuto effetti che possiamo definire di trascinamento sul complesso dell’attività giurisdizionale e innanzitutto investigativa, e bisogna pure tener conto che ciò è avvenuto, appunto precipuamente in materia penale, con il consenso popolare.
Oltre la proliferazione legislativa, quindi la perdita di centralità ed essenzialità del codice, sono cambiate le coordinate essenziali della legge e della legislazione. La legge ha perduto le sue aspirazioni e caratteristiche di tassatività; non è soltanto o prevalentemente descrittiva (di modelli di fatto: fattispecie, interindividuali); non è rivolta prettamente ai cittadini. La legge definisce anche principi e introduce criteri di esercizio e di orientamento della discrezionalità, che non è solo valutativa, ma che possiamo definire anche operativa. La legge è rivolta principalmente agli operatori. Le norme non descrivono solo eventi (astratti e generali, opera di chiunque) ma riguardano anche fenomeni, appresi nella loro dimensione sociale e storica concreta: il terrorismo, come la disoccupazione. L’emergenza è quindi anche il risultato di un modo nuovo e diverso di guardare le cose. La mafia, ma come la criminalità organizzata, sono nozioni prettamente sociologiche, adottate dal linguaggio comune prima che da quello della legislazione e dei giuristi.
Le prime parole chiave, per rappresentare le ragioni principali del processo che abbiamo definito di destrutturazione formale del modello culturale e istituzionale dello Stato di diritto, sono la democrazia, valore che consideriamo non negoziabile, e la velocità delle trasformazioni degli assetti socio-culturali, delle condizioni economiche, dei rapporti politici.
La nostra è una società complessa, multiforme, multiculturale, caratterizzata da una molteplicità di centri di rappresentazione politica degli interessi e degli interessi rappresentati; inoltre, estremamente e velocemente mutevole. Si fa fatica a trovare punti di accordo ed equilibrio sugli elementi normativi e, quando li si trova, questi sono risultato di compromessi contingenti, quindi anche destinati a durare poco. Le leggi sono prodotte non con l’idea di rappresentare la verità assoluta e universale, ma per regolare un fenomeno rilevato (emerso), sono (pure considerate) addirittura beni deperibili: la morte di un leader politico, il cambiamento di un vertice sindacale, un delitto efferato o eccellente, altri accidenti, sono sufficienti e rompere l’equilibrio, precario, stabilito. La velocità delle trasformazioni sociali, economiche, culturali, politiche induce il facile superamento di tutte le determinazioni su cui pure si è trovato consenso. Non si fa in tempo a trovare un accordo che già sono mutate le condizioni a contorno.
Un’altra parola chiave, connessa con la democrazia, è lo Stato sociale.
Mentre, come abbiamo detto, le funzioni definitorie dello Stato liberale di diritto sono quelle essenzialmente regolativa e prevalentemente inibitoria, affidate alla forma stessa della legge, confermate e rafforzate dalla sua applicazione ed esecuzione, che ne sono corollari, le funzioni definitorie dello Stato sociale, di segno positivo e propulsivo, a) non sono sussumibili direttamente e semplicemente nella forma astratta e generale della legge; b) non sono svolte dalla legge, che definisce le funzioni da realizzare e i criteri, ne stabilisce le regole procedimentali, ma sono affidate direttamente agli operatori, alla discrezionalità operativa degli operatori. Può parlarsi, in proposito, di amministrativizzazione e procedimentalizzazione dell’intera sfera giuridica.
Un’altra parola chiave riguarda la dimensione monopolistica dell’economia, fattore essenziale di corruzione (la parola che meglio corrisponde al mio pensiero è destrutturazione formale) del modello liberale ottocentesco dello Stato di diritto.
Le forze economiche sono prevalenti in tutte le fasi della problematica giuridica: a) intervengono nel processo di produzione legislativa, condizionandolo; b) sono preponderanti nella dimensione socio-economica: si consideri emblematicamente il contratto per adesione; c) sono enormemente più forti degli altri cittadini nella realtà processuale, nelle vicende giudiziarie, per svariate ragioni; inoltre, d) soprattutto fra di loro, trovano forme di composizione e mediazione dei conflitti su terreni e tavoli diversi da quelli giuridici (giurisdizionali) ordinari.
Il diritto dello Stato sociale di diritto non è più di ‘chiunque’, ma dei settori e delle componenti socio-economiche di volta in volta, direttamente, interessati e protagonisti.
Una parola chiave fondamentale è la globalizzazione, la dimensione internazionale e sovranazionale delle attività umane, lecite e illecite, e (dei tentativi) delle risposte istituzionali. Tentativi, perché la risposta sovranazionale è troppo più complessa e difficile, da omogeneizzare ed esprimere, di quella nazionale.
Nella globalizzazione, non si capisce mai bene quali siano gli strumenti giuridici utilizzabili, di fronte al caso concreto. Le stesse dinamiche delle Corti internazionali e sovranazionali, dei rapporti di queste con le Corti interne, nonché con le Corti costituzionali dei singoli Paesi, contribuiscono in modo rilevante alla destrutturazione formale del modello unitario (normativo, istituzionale e culturale) dello Stato di diritto.
Un’altra parola chiave sono le tecnologie della comunicazione.
Internet ha una funzione autonoma e peculiare di superamento della dimensione nazionale, di qualsiasi metodica, e della formalizzazione realizzata delle metodiche: perché crea sempre nuova formalizzazione, in tempo reale. La realtà e la logica delle reti è sicuramente uno strumento straordinario della democrazia, perché dà voce a tutti, a chi l’abbia, ma costituisce anche pericoli di strumentalizzazioni ed egemonizzazioni, da parte dei detentori sia del potere politico sia degli strumenti informatici di comunicazione.
Una parola chiave comprensiva e riassuntiva delle precedenti in una dimensione metodologica ed epistemologica è la complessità. Il senso brutale di questo saggio è che le metodiche, gli strumenti e l’approccio classici del giurista occidentale non reggono il confronto, il rapporto, lo scontro, con la complessità, reale e culturale, cioè dei fenomeni, della rappresentazione che se ne fa, della stessa società. Questa nozione è considerata qui comprensiva delle precedenti nel senso che la democrazia è complessità della dimensione sociale, le funzioni dello Stato sociale sono complesse in confronto a quelle dello Stato liberale, e così via.
4. La complessità. Analisi funzionale e teoria dell’organizzazione.
Complesso è l’opposto di semplice, come complicato, ma non vuol dire complicato. Vuol dire intrecciato, avviluppato, dal latino complexus. Il senso in cui noi lo usiamo, coerentemente con quello diffuso nel linguaggio delle scienze sociali, è di (risultato dell’analisi) multifattoriale e contestuale, in senso sia spaziale che temporale, quindi ambientale e dinamico. Complesso è un insieme di elementi considerati in correlazione fra di loro e alla stregua di un contesto, ovvero un sistema.
Questo significato è stato espresso la prima volta in un breve saggio di Warren Weaver, matematico statunitense, Science and complexity, nel 1948[15]. L’Autore ha distinto fra complessità organizzata e complessità non- o dis-organizzata, facendo riferimento rispettivamente alla teoria dell’organizzazione e alla teoria dei flussi[16].
È straordinario come lungo gli anni sessanta del secolo XX due studiosi di discipline affatto diverse abbiano scritto cose simili, comunque assimilabili, parallelamente e senza citarsi.
Luhmann, sociologo tedesco, ha messo in crisi la categoria causale, vi ha contrapposto il metodo funzionalistico, costruendo alfine la teoria dei sistemi sociali[17]. In modo assolutamente peculiare, Luhmann ha sostenuto che tutto ciò che è spiegabile in termini causali può essere meglio rappresentato in termini funzionali; mentre non è vero il reciproco, perché vi sono rappresentazioni funzionali non suscettibili di spiegazione causale[18]. Ciò vuol dire che il modello funzionalistico (quantitativo, multifattoriale e contestuale) è più ampio e generale di quello causale (binario e qualitativo). L’analisi funzionalistica dei sistemi sociali di Luhmann ha messo in evidenza come la logica binaria (fondata sulla predefinizione astratta e generale dei tipi e dei dati fra cui stabilire il collegamento) e lo schema causale siano inadeguati di fronte ai problemi posti dalla complessità organizzata e di fronte allo stesso concetto di problema[19]. La scienza ha sostituito come proprio oggetto la verità da scoprire con i problemi da risolvere.
Von Bertalanffy, biologo austriaco con la curiosità per la psicologia, tenendo fra l’altro direttamente in considerazione lo schema di Weaver, ha descritto la crisi del modello binario, dunque causale, e ha costruito la teoria generale dei sistemi, viventi[20]. Secondo questo Autore, «Si può definire sistema un complesso di componenti in interazione»[21].
La funzione è divenuta la chiave di lettura generale della teoria dei sistemi.
La validità generale della funzione (nozione inizialmente matematica) in confronto alla causalità era stata sostenuta da Mach e da Russell.
A proposito del primo, che cercò di sostituire il concetto di causa con quello di funzione, mi piace ricordare che Robert Musil (nato nel 1880), dopo essere diventato ingegnere, nel novembre 1903 si immatricolò nella Facoltà di filosofia dell’Università di Berlino, dove il 14 marzo 1908 discusse una dissertazione di laurea sulle teorie di Ernst Mach, che aveva messo in crisi le sicurezze del positivismo e del cui «scetticismo incorruttibile» (così definito da Albert Einstein) Musil era affascinato. Mach, nato nel 1838, fu colpito da un ictus nel 1897, dopo continuò a insegnare e divenne membro del Parlamento austriaco, e morì nel 1916[22].
Le posizioni di Mach furono riprese con vigore da Bertrand Russell nel saggio Sul concetto di causa, del 1912. Russell nacque nel 1872 in una prestigiosa famiglia dell’aristocrazia britannica e fu tenuto a battesimo da John Stuart Mill[23].
Queste posizioni di profondo rinnovamento culturale nella teoria della scienza vanno considerate accanto e insieme alle nuove teorie emerse nel campo della fisica: la relatività ristretta è del 1905, la generale del 1915 e la meccanica quantistica della fine degli anni venti: il principio di indeterminazione di Heisenberg è del 1927 e il principio di complementarità di Bohr è del 1928. Queste concezioni hanno certamente e fortemente influito sulla crisi dell’idea di una verità assoluta e universale, che la scienza ha il compito di scoprire. In modo particolare, hanno supportato l’idea che qualsiasi conoscenza è relativa alla soggettività sia del punto di osservazione, che della costruzione del contesto, che del metodo, che si tratta di rappresentare.
L’analisi funzionale è stata sviluppata ampiamente in sociologia[24], e in antropologia[25], come l’analisi del contributo di una parte rispetto a un tutto, di un elemento rispetto a una struttura, valutati alla stregua di un contesto, spaziale e temporale.
La nozione di funzione, in confronto a quella di causa, esprime un significato più debole: non è determinante; ma è espressione di un’analisi più ricca, multifattoriale e contestuale, in senso sia spaziale, dunque ambientale, che temporale, dunque dinamica. Ha un significato innanzitutto matematico, come la relazione di covariazione fra due grandezze (non eventi, dunque, ma grandezze), e ha avuto diffusione nel linguaggio della biologia e della sociologia, come il contributo di una parte rispetto a un tutto, considerati alla stregua di un contesto, ovvero in una analisi di contesto[26].
Nella rappresentazione della epistemologia della complessità un posto centrale spetta alla teoria dell’organizzazione, che ha assunto una rilevanza generale enorme nella nostra cultura. Questa nozione ha connotazione innanzitutto e più evidentemente sociologica ed economica.
Coase, economista inglese naturalizzato statunitense, premio Nobel nel 1991, ha definito l’organizzazione come il trasferimento nella struttura dell’impresa delle transazioni tipiche del mercato, per la riduzione dei costi. Ha distinto l’organizzazione dall’organismo, che «funziona da solo», in quanto quella è costituita da «isole di potere cosciente», soggetti liberi di scelte, individui[27].
Possiamo così definire l’organizzazione di una pluralità di individui come l’insieme delle convenzioni di carattere generale che tengono luogo degli accordi caso per caso, in funzione della realizzazione di una determinata attività. Essa è costituita dalla effettività delle relazioni funzionali, fra una pluralità di elementi, in un contesto, e va tenuta distinta dall’organigramma, che ne costituisce la rappresentazione formale dei ruoli, delle posizioni.
Appare oltremodo significativo che le voci Organizzazione, Ordine/disordine e Sistema dell’Enciclopedia Einaudi siano curate da Prigogine, fisico russo naturalizzato belga premio Nobel per la chimica nel 1975, insieme con la sua allieva filosofa Stengers[28]. Significativo della rilevanza culturale assolutamente generale assunta dalla nozione di organizzazione. Prigogine ha elaborato la teoria delle strutture dissipative (i vortici), sovvertendo i termini del rapporto fra ordine e disordine: mentre siamo abituati a pensare a un vortice, una tromba d’aria, come un disordine, egli li ha definiti come forme di auto-organizzazione della materia secondo le delimitazioni dell’ambiente; è un grande teorico della complessità e ha definito in particolare la nozione di biforcazione: come la situazione di equiprobabilità di eventi diversi al verificarsi di un evento. L’esempio può essere quello di una valanga: se cade da una parte, colpisce l’abitato e uccide le persone, se cade dall’altra parte, ostruisce un corso d’acqua e sacrifica i raccolti. In questo esempio può vedersi in modo semplice la dimensione storica della fisica.
Nei termini appena precedenti, in cui si parla di organizzazione, e auto-organizzazione, della materia, viene superata la distinzione fra complessità organizzata e complessità non- o dis- organizzata, fra sistemi organizzati e sistemi non- o dis-organizzati. Sistema e organizzazione diventano sinonimi, della epistemologia della complessità. I flussi stessi sono considerati come sistemi di organizzazione, della materia. Può osservarsi come nella transizione, fra le varie scienze, dalle scienze hard a quelle umane, dalla fisica (l’organizzazione di un cristallo), alla chimica, alla biologia (l’organizzazione della cellula, o del cervello), alla medicina, alla psicologia, all’economia, alla sociologia, al diritto, le nozioni e i significati di sistema e di organizzazione, secondo l’uso che se ne fa, siano prima sostanzialmente sovrapponibili, e subiscano via via una divaricazione: perché, via via, aumenta il numero delle variabili che possono essere prese in considerazione; e, all’estremo, la biforcazione (secondo il linguaggio di Prigogine) più pura che esiste in natura è la libertà di scelta dell’individuo, assolutamente impredicibile.
Problematiche teoriche e più propriamente morfologiche che andrebbero considerate accanto alle precedenti, ma su cui non è possibile soffermarsi in questa sede, sono quelle del caos (Lorenz), delle catastrofi (Thom) e dei frattali (Maldelbrot), che costituiscono rappresentazioni diverse della complessità.
5. Complessità e diritto penale.
Due giuristi belgi, van de Kerchove, e Ost, penalista il primo, filosofo del diritto il secondo, hanno affrontato la problematica della complessità, dal punto di vista giuridico, utilizzando la metafora del ‘terzo’: escluso dalla modernità, reintegrato dalla cultura della complessità.
Lo scotto da pagare per questa complessità è certamente l’incertezza; tale è il rischio da correre, data l’insoddisfazione nei confronti della epistemologia della semplicità, della quale è noto il carattere riduttivo o, appunto, semplificatore. Cosa diceva questa intelligibilità classica, la cui paternità è ascritta a Cartesio, che ebbe il merito di esporla direttamente? Si trattava di isolare degli oggetti (delle sostanze), chiari e distinti, staccati da uno sfondo sfumato e separato come uno scenario teatrale. Prima semplificazione: l’oggetto, l’elemento, l’individuo, la sostanza, l’atomo dell’essere non debbono nulla a ciò che li circonda. Come se fosse possibile pensare l’elemento al di fuori del sistema che lo costituisce. […]
[…] Seconda semplificazione: non c’è posto per le idee di ricorsività, di causalità multipla e circolare, di interazioni e di alea. Tutto viene determinato come il movimento di un orologio. […]
Infine, l’osservatore, reso immune dalle facezie del suo genio maligno, come in un gioco di prestigio, viene fatto sparire dal teatro del metodo. Sicuro del suo “essere” in grazia del suo “cogito”, il filosofo si trincera dietro l’“oggettività” del proprio metodo. Terza semplificazione: sappiamo oggi quanto tale oggettività non critica sia pregna di proiezioni soggettive. Solo un’epistemologia della complessità, consapevole della inevitabile implicazione dell’osservatore, può iniziare a dare uno statuto alla spiegazione che si propone di fornire.
Semplicità. Complessità. Lasciamo l’ultima parola a Morin: «Il vero dibattito, la vera alternativa vengono a situarsi ormai tra complessità e semplificazione […]. È qui che si consuma il grande cambiamento. Sparisce l’entità di partenza della conoscenza: il reale, la materia, lo spirito, l’oggetto, l’ordine, ecc. Rimane un gioco circolare che genera tali entità». Ed ancora: «Il problema consiste ormai nel trasformare la scoperta della complessità in metodo della complessità».[29]
La conclusione del capitolo di questi Autori è intitolata dunque «Il ritorno del terzo».
Dovendo descrivere in una parola tale mutamento di paradigma parleremmo di “ritorno del terzo”. Il terzo escluso. Questo terzo che il pensiero semplificatore aveva messo al bando, in un canto, fuori gioco, fuori legge, poiché tutto era sempre questo o quello. Talvolta, questo contro quello. O, allora, né questo, né quello. Niente implicazione, ma solo appartenenza totale. Niente entre-deux, ma solo la voragine della non-contraddizione: A=A; A non è non-A, terzo escluso. Questa logica monistica non conosceva che identità giustapposte. Qui ogni differenza è inoperante, al punto che nessun passaggio di entre-deux viene previsto. Il terzo, e si comprende il perché, viene espulso come un genio maligno. Quanto a noi, tutti i nostri sforzi sono stati volti ad indicare come questo terzo riapparisse nell’azione come nel pensiero. Non sotto forma di prudente compromesso (“a mezza strada”) o di indaffarato eclettismo (“di tutto un po’”), ma come il richiamo di una mediazione nel profondo della differenza che viene ad insinuarsi nelle identità più salde.
Questo terzo non è estraneo al diritto. Non si dice forse che il giudice è terzo, arbitro tra le parti? E la funzione del diritto globalmente inteso non è forse di mediare le relazioni sociali? Così, dopo questa lunga digressione metodologica, allorché nei capitoli che seguono torneremo all’analisi del diritto, disporremo della categoria del terzo che, ben lungi dall’averci allontanati dal giuridico, ci riconduce all’essenza di questo termine.
Reintegrare il terzo nell’intelligenza del diritto, tale sarà il nostro obiettivo. Particolarmente appropriato apparirà il concetto di gioco, per pensare questa “nuova distribuzione di carte” alla quale il terzo è ora invitato. Difficile, infatti, è parlare di “gioco” finché non gli sia stato riservato alcuno spazio in mezzo alle certezze dogmatiche; ma, dal momento che cominciano a profilarsi taluni entre-deux, la partita si fa complessa, il terzo ha da dire la sua o, almeno, se figura ancora come “morto” (di nuovo la casella vuota …), ha un posto da occupare ed il gioco può cominciare.[30]
La complessità, possiamo dire, è consapevolezza delle ragioni dell’incertezza, che riguardano innanzitutto la dimensione del molteplice, e quindi condizione metodologica per il ‘governo’ di questa.
Il “terzo”, per il penalista, può essere, emblematicamente, il palo nella rapina. Nei manuali di diritto penale il contributo concorsuale è definito come “causale”, e invece (per esempio) il palo nella rapina non è “causale”, nel senso più rigoroso e preciso di questo termine: perché la causalità è binaria; perché il palo non è certo condicio sine qua non e tantomeno condizione (singolarmente) adeguata e sufficiente della rapina; perché la causalità equivale alla ricerca delle condizioni necessarie e sufficienti alla riproduzione e quindi prevenzione dell’evento, e invece la problematica concorsuale riguarda più direttamente la teoria dell’organizzazione: la rapina si può fare senza il palo, correndo maggiori rischi e però in tal caso dividendo il bottino in un minor numero di parti; e una rapina complicata si fa meglio con due pali, riducendo i rischi e dividendo il bottino in un maggior numero di parti, ma possibilmente e verosimilmente in tale ipotesi un maggior bottino. Analisi, come si vede, del rapporto costi-benefici. In generale, può dirsi, nella complessità dell’organizzazione, i nessi causali sbiadiscono, e i rapporti appaiono rilevanti secondo altri modelli analitici.
La nozione di contributo può essere definita solo in modo contestuale, con riferimento a chi presta il contributo e a chi lo riceve e lo riutilizza, ed è senza minimo concettuale. Si può contribuire a un evento anche ingente con un contributo singolarmente piccolissimo, e tuttavia in concreto rilevante. Tutte le principali nozioni penalistiche vanno contestualizzate e sono, a ben vedere, prive di minimo concettuale. Si pensi alle nozioni di dolo, colpa, causa, cosa mobile, provocazione, legittima difesa: che vanno concepite come criteri di valutazione e misurazione. Il confronto con le altre scienze sociali può fornire al giurista criteri di verificabilità empirica di queste valutazioni[31]. Queste precedenti osservazione sono nella sostanza profonda abbastanza contraddittorie, distoniche, rispetto a tutta l’impostazione della dottrina e legislazione penali. Invece di essere criticate di procurare incertezza, dovrebbero e potrebbero suggerire la fallacia di tante certezze e la necessità di approfondimenti, metodologici, analitici e argomentativi.
Un passaggio metodologico assolutamente essenziale della nostra riflessione è che le nozioni di responsabilità dei modelli organizzati complessi, delle dinamiche collettive, delle associazioni delittuose, sono carenti di determinatezza e quindi tassatività, e queste carenze di tassatività e determinatezza sono corollari della complessità dei dati oggetto della considerazione, della rappresentazione normativa, dei giudizi di responsabilità. Una soluzione è indubbiamente quella semplificatoria. Così, corrisponde all’indirizzo consolidato della Corte suprema statunitense ritenere la nozione di responsabilità penale a titolo associativo contraria ai principi fondamentali del diritto penale, perché unclair. L’altra strada è quella di sviluppare e implementare i criteri e coefficienti della prova e dell’argomentazione, nonché di verificabilità empirica dei giudizi di valore, mediante, quindi, in primo luogo, la teoria dei sistemi e dell’organizzazione e, più in generale, il contributo di tutte le scienze sociali. Certo, suscita grande perplessità che proprio coloro che risultano addetti professionalmente allo studio e alla repressione delle forme di criminalità organizzata abbiano poca o nessuna dimistichezza con le metodiche – di rilevanza culturale peraltro generale – di cui stiamo parlando. Ma il problema stesso, così posto, è molto più ampio.
La teoria dell’organizzazione può conferire specificità alla categoria del delitto politico, tradizionalmente considerata difforme dai principi generali del diritto penale: perché la dimensione penalistica ne dipende precipuamente dalla dimensione collettiva organizzativa di delitti comuni; mentre il resto riguarda la essenzialmente la repressione del pensiero e della propaganda.
Il titolo di un bel libro della Delmas-Marty è Le flou du droit[32]. Il filtro flou in fotografia è quello che sfuma e ammorbidisce, sbiadisce, le immagini. Il titolo si può tradurre “La vaghezza del diritto”. La prospettiva analizzata è anche quella della produzione giuridica sovranazionale.
Per concludere, si dirà che, se non tutto è flou – in quanto le tradizionali espressioni della razionalità giuridica non sono evidentemente scomparse – vi sono comunque differenti espressioni del flou.
In effetti, la complessità dei meccanismi che si sviluppano sotto le diverse forme di pressione esercitata a livello giuridico dai diritti dell’uomo provoca dapprima un sentimento d’inquietudine – talora di panico – di fronte al potere discrezionale dato ai giudici ed all’incertezza di decisioni le quali risultano ad un tempo poco trasparenti e poco prevedibili.
Tuttavia, va anche considerato che la stessa complessità del sistema, il fatto che nessuna giurisdizione – nessun «Grande Giudice» – possegga la chiave per armonizzare tutti gli insiemi (o sottoinsiemi) di norme, sembra costituire una vera garanzia.
Tanto più che la razionalità giuridica potrebbe essere migliorata. Come si è potuto vedere dagli esempi, essa non impone il ritorno al solo principio di gerarchia delle norme, troppo rigido e riduttivo in un campo nel quale i meccanismi raggiungono un siffatto grado di complessità. Piuttosto, l’analisi dei diritti europei guadagnerebbe sul piano della coerenza se il ragionamento giuridico fosse più apertamente improntato ad una logica del flou che permetta di ricavare un’identità europea senza con questo sacrificare la diversità delle tradizioni giuridiche nazionali.
Questo ragionamento resta per l’appunto «giuridico» a condizione che si tratti d’un flou «matematizzabile», vale a dire valutato in rapporto ad un insieme di norme specificabili (gli ordinamenti giuridici nazionali per l’Europa del Consiglio d’Europa, gli ordinamenti giuridici nazionali e l’ordinamento giuridico comunitario per l’Europa dei dodici).[33]
Appare abbastanza significativo, nel senso dell’analisi sin qui svolta, che nel nuovo codice penale francese, entrato in vigore nel 1994, siano stati eliminati tutti i minimi edittali delle previsioni penali: lo stesso ergastolo è previsto nella forma jusqu’à perpétuité; parallelamente, sono state eliminate le circostanze attenuanti del reato.
6. Per un diritto flessibile.
In generale, possiamo dire, il diritto e la stessa cultura del diritto abbisognano, e si avviano a un futuro, di flessibilità[34]. Oltre tutti gli altri argomenti suggeriti ed evocati, nella globalizzazione, i sistemi flessibili si adattano più facilmente rispetto alle differenze con gli altri sistemi, e quindi riescono a dialogare; i sistemi più rigidi sono destinati comunque a perdere e perire.
Un criterio generalissimo di amministrazione e gestione della cosa pubblica, e quindi anche della giustizia, deve essere la riduzione della burocrazia, in tutti i suoi aspetti.
In termini funzionalistici, ovvero di teoria dei sistemi e dell’organizzazione, possono essere definite e valutate le stesse strutture dell’amministrazione della giustizia e la problematica delle garanzie. Garanzie non sono soltanto quelle della forma della legge (il limite); garanzie, che si tratta di sviluppare e implementare, sono quelle della prova e della motivazione, della ragionevolezza, persuasività nonché rappresentatività democratica, quindi condivisibilità, degli argomenti dei giudizi, della professionalità, formazione, responsabilità, nel senso anche più ampio del ‘senso’ della responsabilità, nonché collegialità, dei giudici.
Appare significativa, dello schema così complessivamente rappresentato, l’inesorabilità storica, nonché progressività, dello spostamento della problematica delle garanzie del cittadino dal settore penalistico sostanziale a quello processuale.
Un criterio di efficienza del sistema penale sarebbe la discrezionalità dell’azione penale e, quindi, la maggiore efficacia di tutte le forme di patteggiamento e mediazione, non formalizzate.
Il processo penale deve avere pochi imputati, si deve svolgere presto e davanti a vere giurie popolari. La detecnicizzazione corrisponderebbe anche a un’esigenza di democrazia, rispetto a valori fondamentali della convivenza.
Soprattutto in campo penale, non è assolutamente accettabile il giudice monocratico.
Mi piace riportare alcuni passaggi di Ludovico Antonio Muratori:
Quelle decisioni che vengon da un solo giudice, poco o nulla s’han da credere differenti dai consulti di un avvocato. Più stima di gran lunga meritano quelle che escono da un corpo di veri giudici, e tanto più se giudici di tribunali eccelsi, come è la Ruota romana, e i Senati delle più cospicue città.[35]
Ma il male maggiore della professione legale è proceduto dall’eccesso dell’ingegno, e massimamente dei consulenti. […] Trova mirabili sottigliezze, dissotterra o inventa cento ragioni, distinzioni, riflessioni, presunzioni, eccezioni, che tutte possono dal buon’aria all’assunto suo; e questo vel dipinge con tal garbo di frasi e parole, che vi par tutta giustizia la di lui pretensione. Ed affinché non si creda a lui solo, conduce una vanguardia e un battaglione d’altri autori, che sentono con lui. […] Allora non è più il legislatore, che decide la lite: è l’ingegno di chi la protegge, è l’ingegno del giudice, che conforme l’intende, butta là una sentenza. […] Carneade è famoso, perché si vantava di saper provare giusto quello che comunemente veniva creduto ingiusto e, voltata faccia, di saper provare ingiusto il giusto. […] Se aveste bisogno, che costoro [gli avvocati] vi provassero, che Nerone è stato un ottimo imperatore, che la febbre quartana è un bel regalo della natura, pagateli e vi serviranno. […] Né si dica: questo l’ha detto Bartolo, Baldo, i Socini, il Bero, il Cumano, il Fulgosio ecc. Sono grandi uomini, ingegni grandi; ma anch’essi vendevano una volta il loro ingegno a chiunque li pagava, perché con la loro acutezza vincessero la lite presente e non già per dare al pubblico una regola sicura del giusto e del vero nelle tali e tali cause. […] Perciò ordinariamente non dovrebbero mai essere le sottigliezze ed animosità dei consulenti quelle, che dirigessero le menti dei giudici, perché quella è mercanzia pericolosa e nata non rade volte per ingannar chi le crede. […] Volete altro? Non andarono molti anni, che insorse lite e si volle terminato il fideicommisso con tale sparata di quelle recondite dottrine, che somministra l’arsenale delle sottigliezze, che uno dei chiamati sbigottito giudicò meglio di strozzar la causa con una transazione svantaggiosissima, che di aspettare l’evento dubbioso di una sentenza.[36]
Il modello della legalità mostra, tuttavia, la sua insufficienza, i suoi limiti, nel confronto con quella che abbiamo definito complessità (nel senso della multiformità e contestualità), della realtà, dei fenomeni, della società, delle attività e delle relazioni umane, della politica e della cultura. La flessibilità del diritto è un corollario della complessità, reale e culturale. Può essere governata con un approccio multifattoriale e funzionalistico, relativistico e pragmatico.
Ha ragione anche il mio amico Corbino quando parla del «mito della legalità», facendo riferimento, da un lato, alla ‘effettività’ del diritto vivente, dall’altro alla carenza di rappresentatività dei giudici, segnatamente quelli costituzionali, in confronto al loro ruolo politico[37].
Chi scrive non intende fornire soluzioni, in una certa misura non ritiene compito del ricercatore quello di fornire soluzioni, pensando che queste le offre la storia in modo spesso casuale, occasionale, accidentale, emergenziale; bensì, proporre un metodo, contribuire alle soluzioni proponendo argomenti e criteri metodologici, il metodo appunto della complessità, quindi anche del confronto.
La problematica della complessità e la teoria dell’organizzazione devono servire in generale non solo per modulare, definire e argomentare, le nozioni di responsabilità, ma – molto più ampiamente – per definire il tavolo e le regole del gioco e controllare, quindi, la regolarità del gioco.
Un problema cruciale riguarda la formazione del giurista, che deve essere anche pratica, a partire dai problemi, e coinvolgere tutte le scienze sociali.
[1] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764, cap. IV, «Interpretazione delle leggi», Giuffrè, Milano, 1964, pp. 17-18.
[2] Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1749, libro XI, cap. VI, «Della costituzione dell’Inghilterra», trad. it., Rizzoli, Milano, 1968, 1997, vol. I, p. 317.
[3] Dimensione peculiarmente non mercantile, tanto del diritto del lavoro, quanto del nuovo diritto della crisi dell’impresa.
[4] H. Kelsen, Società e natura. Ricerca sociologica, Chicago, 1943, trad. it., Einaudi, Torino, 1953, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. Mi permetto di fare riferimento al mio recente lavoro Pensiero causale e pensare complesso. Contributo di un penalista, Pacini, Pisa, 2020, da cui riproduco queste indicazioni. Kelsen, fra l’altro, riprendendo Jaeger, filologo grecista tedesco, ha connesso la causalità con il contrappasso, in ultima analisi con la logica – innanzitutto quale giustificazione – della vendetta. Nel V cap. di Società e natura, intitolato «La legge di causalità e il principio del contrappasso nella filosofia naturalistica greca», pp. 535 ss. e poi nel nuovo saggio americano su Causalità e imputazione, del 1950, trad. it. in appendice ai Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952, 2000. W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, 1933, 1944, trad. it., Bompiani, Milano, 2003, 2011, p. 302, ha posto in evidenza come «il concetto greco di causa (αἰτία), che divenne fondamentale con il pensiero nuovo, in origine faccia tutt’uno con quello di colpa e fosse dapprima trasferito dalla responsabilità giuridica alla causalità fisica». Questa connessione è stata poi ripresa e confermata da von Wright, logico ed epistemologo finlandese, il quale ha attraversato la distinzione tra Spiegazione e comprensione, 1971, trad. it., il Mulino, Bologna, 1977, p. 88: «Alcuni studiosi di storia delle idee (Jaeger, Kelsen) affermano che gli antichi Greci formarono la loro idea di causazione in natura per analogia con le idee attinte dal dominio del diritto criminale e dalla giustizia retributiva. La causa provoca una perturbazione in uno stato di equilibrio ed è, pertanto, responsabile di qualche male o ingiustizia in natura, questo male è, poi, corretto con una punizione in accordo con il diritto naturale. La parola greca per indicare la causa, aitia, significa anche colpa. Il latino causa era, in origine, un termine giuridico [Wright cita M. R. Cohen, Causation and Its Application to History, in Journal of History of Ideas, 3, 1942, p. 13]. Si noti che anche la parola finnica che indica la causa syy, ha esattamente lo stesso doppio significato di aitia. La parola “eziologia” è ancora usata in medicina per indicare la scienza delle cause e delle malattie, ossia di perturbazioni nocive allo stato naturale del corpo; essa potrebbe, però, indicare anche la teoria e la pratica della ricerca delle cause in generale». Mi permetto di fare riferimento al mio recente lavoro su Codificazione e decodificazione, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019.
[5] Vanno ricordate, in proposito, le opere di L. A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, 1742 (sette anni prima de L’Esprit des lois), Rizzoli, Milano, 1958; G. A. di Gennaro, Delle viziose maniere di difendere le cause nel foro, 1744, Napoli, Raimondi, 1767; G. Parrino, Convivium rabularum, Napoli, 1743, ora pubblicato da R. Ajello, nella traduzione e con le note filologiche di M. L. Pisacane, in Frontiera d’Europa, anno XIII, n. 2, pp. 49 ss. Gennaro Parrino era un magistrato napoletano, figlio di un commediografo-attore-storico-editore. Scrisse il Convivium rabularum quarantenne. L’opera gli costò la carriera ed egli si dimise dalla magistratura. Il titolo può tradursi sommariamente come il Convivio dei ciarlatani (avvocati disonesti e imbroglioni, confusionari, chiacchieroni e anche urlatori). L’opera è scritta (ironicamente) in latino e dedicata a Tanucci (Ministro di grazia e giustizia del Re di Napoli, come tante altre opere di quel momento e di questo tipo). Vuole rappresentare la brutta situazione di collasso e anche di vergogne in cui si trovava il sistema giudiziario nel Regno di Napoli. Eustachio, commerciante arricchito, ha affidato, già da sei anni, il suo unico figlio diciannovenne, Camillo, a Modestino, maestro di diritto, perché lo preparasse alla carriera forense. Impaziente e dubbioso per il lungo apprendistato e per i continui rinvii di Modestino, Eustachio, per farsi un’idea più chiara di quella difficoltà, invita a casa sua quattro illustri dottori forensi perché dopo un lauto banchetto, insieme con Camillo e Modestino, esprimano un giudizio sulla preparazione dell’allievo: Blandidiano, Rapidio, Voconio e Volpino, personaggi squallidi e volgari, anche in lotta fra di loro. Costoro, dopo aver dileggiato e insultato Modestino, che ha umilmente e pazientemente illustrato le scelte didattiche ed educative attuate con Camillo, cominciano a litigare reciprocamente e la riunione finisce in una furiosa zuffa fra di essi. Questa ironia ricorda quella di Rabelais che nella sua opera descrisse in modo divertente e falsamente dottissimo le elucubrazioni e le citazioni dei giuristi. Ho descritto questa letteratura nel volume Dei giuristi e dintorni, CEDAM, Padova, 2014.
[6] F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 1542, trad. it. di A. Frassineti, Rizzoli, Milano, 1984, 2007, vol. II, pp. 839 ss., cap. XXXIX, «Come Pantagruele assiste alla causa di Brigliadoca, il quale decideva le liti col sortilegio dei dadi», pp. 839 ss.
[7] F. Guicciardini, Ricordi, 1530, Loescher, Torino, 1969, n. 209, p. 91: «Io credo siano manco male le sentenze de’ Turchi, le quali si espediscono presto e quasi a caso, che el modo de’ giudicî che si usano communemente tra’ Cristiani: perché la lunghezza di questi importa tanto, e per le spese e per e disturbi che si danno a’ litiganti, che non nuoce forse manco che facessi la sentenza che s’avessi contro el primo dì. Sanza che, se noi presuppognamo le sentenze de’ Turchi darsi al buio, ne séguita che – ragguagliato – la metà ne sia giusta; sanza che, non forse minore parte ne sono ingiuste di quelle date tra noi, o per la ignoranza o per la malizia de’ giudici».
[8] M. de Montaigne, Saggi, 1580, 1582, 1588, trad. it. di F. Garavini, Bompiani, Milano, 2012, libro I, cap. XXXI, Dei cannibali, pp. 367 ss. Ivi, p. 381: «Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci – come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa –, che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto».
[9] B. Castiglione, Cortegiano, 1507-1516, Rizzoli, Milano, 1987, 2010. Mi sembra interessante l’osservazione di S. Battaglia nella sua introduzione a questo volume, che il Cortegiano di Castiglione «costituisce la controfigura» rispetto «all’interpretazione che dell’uomo darà il Machiavelli intorno agli stessi anni» (Il Principe è del 1513).
[10] G. Della Casa, Galateo, 1553-1554, Rizzoli, Milano, 2009.
[11] J.-B. de La Salle, Scritti pedagogici, 1706-1720, trad. it. in Opere, Città Nuova, Roma, 2000.
[12] Può essere considerata assolutamente peculiare l’analisi di R. C. van Caenegem, storico belga esperto della storia giuridica europea, di cui possono vedersi sia I signori del diritto, 1987, trad. it., Giuffrè, Milano, 1991, che I sistemi giuridici europei, 2002, trad. it., il Mulino, Bologna, 2003.
[13] V. per questo il libro di L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, 2011.
[14] N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979, IV ed., 1999. Di questo A. v. pure Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino, 2016.
[15] W. Weaver, Science and Complexity, in American Scientist, 36, 1948, pp. 536-544, trad. it. rinvenibile in http://ulisse.sissa.it/bUlb0401003.jsp
[16] Nei flussi vanno rilevati comunque aspetti o elementi di organizzazione: gli argini di un fiume; soprattutto i caselli autostradali, rispetto al flusso delle auto; i tornelli, rispetto al flusso della folla. V. comunque avanti.
[17] N. Luhmann, Funzione e causalità (1962) e Metodo funzionale e teoria dei sistemi (1964), in Illuminismo sociologico, 1970, trad. it., il Saggiatore, Milano, 1983. Id., Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, 1984, trad. it., il Mulino, Bologna, 1990.
[18] Nel saggio Funzione e causalità, ivi, p. 13: «La nostra critica si pone […] l’obiettivo di invertire il rapporto di discendenza esistente fra la relazione causale e la relazione funzionale: la funzione non è un tipo particolare di relazione causale; al contrario, è la relazione causale a costituire un caso di applicazione dell’ordine funzionale».
[19] D. Zolo, Funzione, senso, complessità. I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico, introduzione a Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. XVIII.
[20] L. von Bertalanffy, Il sistema uomo. La psicologia nel mondo moderno, 1967, trad. it., ISEDI Istituto Editoriale Internazionale, Milano, 1971; Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, 1968, trad. it., Istituto Librario Internazionale, Milano, 1971. Il sistema uomo, pp. 77-78: «La scienza classica, ha detto Weaver, si connetteva alla causalità lineare o a senso unico: causa seguita da effetto, relazioni tra due o più variabili. Per esempio, la relazione tra una stella e un pianeta permette i mirabili calcoli della meccanica celeste, ma già il problema dei tre corpi è insolubile in linea di principio e può essere accostato soltanto per approssimazione. Come psicologi, possiamo pensare allo schema stimolo-risposta ove lo stimolo è variabile indipendente e la reazione variabile dipendente. La scienza, inoltre, si occupa di complessità non organizzata, vale a dire di fenomeni statistici come prodotto di eventi fortuiti. Ne è prototipo la termodinamica e in particolare il problema del vuoto delle particelle di un dato volume di gas: non possiamo seguire ognuna delle innumerevoli molecole del recipiente, ma il comportamento medio che ne risulta è espresso dalla seconda legge della termodinamica e dai suoi molti codicilli. Analogamente, le leggi statistiche sono applicabili alla genetica, alla sociologia – si pensi alla previsione del numero di suicidi o di scontri automobilistici durante il week end del Labor Day [il primo lunedì di settembre festeggiato in USA e Canada] e a molti altri campi. Le compagnie di assicurazione si basano sul fatto che è possibile prevedere il numero di incidenti automobilistici, mortalità e simili, anche se ogni caso individuale è differente e risulta da una moltitudine di cause non definite».
[21] Il sistema uomo, cit., p. 91.
[22] Ho raccontato queste vicende nel mio ultimo libro Pensiero causale e pensare complesso, cit. Nel capitolo su «La polemica contro il concetto di causalità; sua sostituzione con il concetto di funzione», Musil riporta fra l’altro due brani di Mach, che poi commenta: «“Quando parliamo di causa e di effetto,” dice Mach “mettiamo arbitrariamente in evidenza quei momenti il contesto dei quali noi dobbiamo considerare nel riprodurre l’immagine di un fatto nella direzione per noi importante. In natura non esiste né causa né effetto. La natura esiste una sola volta. Ripetizioni di casi eguali, nei quali A fosse sempre legato a B, dunque esiti eguali in circostanze eguali, dunque l’essenziale del contesto di causa ed effetto, esistono solamente nell’astrazione che noi operiamo allo scopo di riprodurre i fatti”» (R. Musil, Sulle teorie di Mach, 1908, trad. it., Adelphi, Milano, 1973, 1993, p. 48, che cita E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwicklung [La meccanica nella sua evoluzione], 1883, 5. Aufl., Leipzig, 1904, p. 524). E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen (L’analisi delle sensazioni e il rapporto della sfera fisica con quella psichica), 1886, 4. Aufl., Jena, 1903, p. 75: «In ciò risiede per me la superiorità del concetto di funzione rispetto a quello di causa: che il primo impone il rigore mentale mentre non è affetto dalla incompletezza, indeterminatezza e unilateralità del secondo. Il concetto di causa è in realtà un ripiego primitivo, provvisorio».
[23] B. Russell, Sul concetto di causa, 1912, trad. it. in Misticismo e logica e altri saggi, Longanesi, Milano, 1980, TEA, Milano, 1997, p. 170: «Nel saggio che segue intendo, primo, sostenere che la parola “causa” è legata tanto inestricabilmente a idee equivoche da rendere auspicabile la sua totale espulsione dal vocabolario filosofico; secondo, ricercare quale principio, se ve n’è uno, viene applicato nella scienza in luogo della supposta “legge di causalità”, che i filosofi immaginano venga applicata; terzo, mettere in rilievo certe confusioni, specie in rapporto con la teleologia e il determinismo, che mi sembrano connesse con concetti erronei relativi alla causalità». «Tutti i filosofi, di ogni scuola, immaginano che la causalità sia uno degli assiomi o postulati fondamentali della scienza; e invece, fatto strano, nelle scienze più progredite, come l’astronomia gravitazionale, la parola “causa” non compare mai. […] Secondo me, la legge di causalità, come molto di ciò che viene apprezzato dai filosofi, è il relitto di un’età tramontata e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si suppone erroneamente che non rechi danno». Ivi, p. 183: «Indubbiamente il motivo per cui la vecchia “legge di causalità” ha continuato così a lungo a pervadere i libri dei filosofi è semplicemente questo: l’idea di una funzione non è familiare alla maggior parte di loro, e quindi essi ricercano una formula indebitamente semplificata. Non si pone il problema della ripetizione di “una stessa” causa la quale produce “uno stesso” effetto; la costanza delle leggi scientifiche non consiste in alcuna analogia di cause e di effetti, bensì in un’analogia di rapporti. E anche “analogia di rapporti” è una frase troppo semplice; “analogia di equazioni differenziali” è l’unica frase corretta. È impossibile porre la cosa in un linguaggio non matematico […]».
[24] Inizialmente da É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 1895, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 1996. Poi da T. Parsons, Il sistema sociale, 1951, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano, 1965, nell’approccio definito dello struttural-funzionalismo.
[25] A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva, 1967, trad. it., Jaca Book, Milano, 1968. Ivi, pp. 15-16: «La vita sociale della comunità si può definire il funzionamento della struttura sociale. La funzione di ogni attività ricorrente, quale può essere la punizione di un crimine o una cerimonia funebre, è il ruolo che essa svolge nella vita sociale intesa come totalità e perciò il contributo che dà al mantenimento della continuità strutturale». «Il concetto di funzione, come si viene chiarendo, implica perciò la nozione di una struttura costituita da una serie di rapporti tra singoli elementi, la continuità della struttura essendo assicurata da un processo vitale che è l’insieme delle attività delle unità costitutive». (…) «Secondo la definizione che qui ne abbiamo dato, “funzione” è il contributo che una attività parziale dà all’attività totale di cui fa parte. La funzione di un particolare costume sociale è il contributo che esso dà alla vita sociale in quanto funzionamento dell’intero sistema sociale».
[26] A leggere P. Delattre, voce Funzione, in Enciclopedia Einaudi, Torino, vol. VI, 1979, p. 417, «La funzione di qualsiasi oggetto o elemento è strettamente legata al comportamento di tale elemento e al ruolo che esso svolge in un ambiente dato, il quale è, a sua volta, costituito da vari elementi. La nozione di funzione è quindi inseparabile da quella d’interazione e, di conseguenza, anche da quella di sistema; la sua esplicitazione può essere fatta solo a patto che intervengano, al tempo stesso, l’elemento considerato e gli altri elementi situati nell’ambiente. Come si è visto, parlare delle funzioni di un elemento non precisando affatto l’ambiente al quale esse si riferiscono è, a rigor di logica, un controsenso. Tale approssimazione diventa accettabile solo se si è già stabilito che le funzioni in questione si ritrovano in tutti i sistemi di cui l’elemento può far parte. Bisogna tuttavia temere che l’uso troppo frequente di questo linguaggio ellittico faccia dimenticare l’interdipendenza fondamentale che esiste tra le nozioni di funzione e di sistema. L’unica eccezione a questa regola corrisponde al caso degli elementi che si modificano indipendentemente dal loro ambiente, vale a dire ai mutamenti che possono essere spiegati a partire dalle sole caratteristiche intrinseche dell’elemento». Di Delattre v. anche Teoria dei sistemi ed epistemologia. Metodi e concetti utilizzati nelle diverse discipline scientifiche, 1982, trad. it., Einaudi, Torino, 1984.
[27] R. H. Coase, La natura dell’impresa, 1937, trad. it. in Impresa, mercato e diritto, il Mulino, Bologna, 1995, 2006, pp. 74-75. Ivi, pp. 75-76: «Al di fuori dell’impresa, il movimento dei prezzi dirige l’attività produttiva, che è coordinata attraverso una serie di transazioni sul mercato. Dentro l’impresa queste transazioni vengono eliminate e alla complicata struttura delle transazioni sul mercato viene sostituito l’imprenditore coordinatore che dirige l’attività produttiva». Ivi, p. 80: «Si può riassumere questa parte del ragionamento dicendo che il funzionamento di un mercato ha un costo e che, creando un’organizzazione e permettendo a una certa autorità (un “imprenditore”) di allocare le risorse, vengono risparmiati i costi del mercato. L’imprenditore deve svolgere la sua funzione a un costo più basso di quello che nasce dal ricorso al mercato, perché qualora egli non possa ottenere i fattori di produzione a un prezzo minore rispetto alle transazioni del mercato, è sempre possibile farvi ricorso».
[28] I. Prigogine e I. Stengers, Ordine/disordine, Organizzazione, Sistema, in Enciclopedia Einaudi, Torino, rispettivamente, vol. 10, 1980, pp. 87ss., 178 ss., vol. 12, 1981, pp. 993 ss.
[29] M. van de Kerchove e F. Ost, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, 1992, trad. it., Giuffrè, Milano, 1994, pp. 85-86. I passi riportati sono di E. Morin, La méthode. I. La nature de la nature, Le Seuil, Paris, 1977, pp. 382 e 386, trad. it., Il metodo. 1. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001.
[30] Il diritto ovvero i paradossi del gioco, cit., pp. 87-88.
[31] Ho curato, insieme con i colleghi del Dipartimento di scienze politiche e sociali, un volume sui Criteri di verificabilità empirica dei giudici di colpa, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020.
[32] M. Delmas-Marty, Le flou du droit. Du code pénal aux droits de l’homme, Presses Universitaires de France, Paris, 1986, trad. it., Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Giuffrè, Milano, 1992.
[33] Ivi, p. 278.
[34] Flexible droit. Pour une sociologie du droit sans rigueur è il titolo di un volume di J. Carbonnier, 1969, 1992, trad. it., Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, Giuffrè, Milano, 1997.
Non lo sapevo, quando scrissi Il diritto flessibile. Considerazioni su alcune caratteristiche e tendenze del sistema penale nella società attuale, con riferimento particolare alla criminalità organizzata, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2004, n. 2, pp. 1-76.
[35] Dei difetti della giurisprudenza, cit., p. 64.
[36] Ivi, pp. 71-75.
[37] S. Corbino, Rigore è quando arbitro fischia. Il mito della legalità, Jovene, Napoli, 2018.
Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori.
Il punto delle Sezioni Unite
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Il presupposto fondamentale per la quantificazione dell’indennizzo e del valore “reale” del bene: la distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi; - 2. Il criterio di quantificazione dell’indennità sulla base della normativa interna e comunitaria; - 3. La quantificazione dell’indennità; - 4. Statuto proprietario e pianificazione urbanistica; - 5. Quantificazione dell’indennizzo e art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001: osservazioni conclusive.
1. Il presupposto fondamentale per la quantificazione dell’indennizzo e del valore “reale” del bene: la distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi
Le Sezioni Unite (sent.n.7454/2020) tornano sul tema dei vincoli urbanistici e delle indennità spettanti ai proprietari delle aree interessate, tema, invero, assai vasto e ricco di implicazioni sistematiche circa i rapporti con lo statuto proprietario e l’esercizio dello ius aedificandi[1].
Presupposto fondamentale dal quale prende le mosse il ragionamento è la distinzione tra vincoli urbanistici a contenuto conformativo ed espropriativo[2]: i primi investono le zone della pianificazione urbanistica, comunque non singoli beni, ed hanno una durata tendenzialmente indeterminata[3] a differenza dei secondi, posti su specifici beni e quindi in grado di incidere sul diritto di proprietà in termini ben più significativi; questi ultimi, inoltre, sono soggetti alla disciplina posta dall’art. 2 della l. 19 novembre 1968, n. 1187, ancorchè dichiarata incostituzionale e infine sostituita dall’art. 9 del d.p.r. n. 327 del 2001[4].
In termini di principio, va ancora ricordato come, secondo quanto ritiene la costante giurisprudenza, possa essere corrisposto un indennizzo esclusivamente in caso di vincoli espropriativi, in considerazione della limitazione che, data la loro riconosciuta natura ablatoria, determinano sul diritto di proprietà[5]. Non così per i vincoli a contenuto conformativo, laddove l’impatto sulle facoltà di godimento del bene è di diversa latitudine, potremmo dire “quantitativo” anziché “qualitativo”[6].
E dunque, se il vincolo conformativo delinea e plasma il contenuto della proprietà e le relative facoltà in funzione di esigenze pianificatorie di carattere generale concernenti aree più vaste e pluralità di soggetti, il vincolo espropriativo incide sul singolo bene determinando una sostanziale “perdita” del diritto di proprietà.
2. Il criterio di quantificazione dell’indennità sulla base della normativa interna e comunitaria
Sulla scorta delle superiori premesse, le Sezioni Unite, investite della questione relativa alla corretta quantificazione dell’indennità di espropriazione (e di occupazione legittima), svolgono il loro esame muovendo dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 2011 e dall'annessa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis comma 4 del d.l. n. 333/1992, convertito in legge 8 agosto 1992 n. 352, in combinato disposto con la legge n. 865 del 1971 (art. 15 c. 1 e 16 c. 5 e 6) e la legge n. 10 del 1977 (art. 14), laddove l’indennità di espropriazione veniva indistintamente commisurata al valore agricolo medio[7].
Altro riferimento fondamentale è operato alla decisione della Grande Camera del 29 marzo 2006, ove, richiamando l’art. 1 del protocollo n. 1 sono stabiliti alcuni principi[8] direttamente correlati alla necessità, ai sensi dell’art. 42 c. 3 Cost., che l’indennizzo costituisca un “serio ristoro”, ossia una riparazione non integrale ma nemmeno irrisoria a fronte dell’incisione subita dal diritto di proprietà[9]. Pertanto, l’indennizzo, anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, va determinato tenendo conto del valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali ed alla sua potenziale (quanto effettiva) utilizzazione economica.
Le Sezioni Unite rammentano, quindi, come (e perché), tenuto conto dell’art. 1 del primo protocollo addizionale CEDU, dell’interpretazione data dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dello stesso art. 42 c. 3 della Costituzione italiana, il criterio, previsto dall’art. 5bis.
Da tale dichiarazione di incostituzionalità è discesa, in un primo tempo, la “reviviscenza”, ai fini della stima, del criterio del valore venale pieno previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865 n. 2359[10].
Pur successivamente abrogato l’art. 39, il principio è transitato nel d.p.r. n. 327 del 2001, laddove è espressamente demandato all’autorità espropriante, in un procedimento aperto alla partecipazione del privato, l’accertamento del valore dell’area e la determinazione della misura dell’indennità di espropriazione[11].
Da questo momento, l’indennità sarà quantificata sulla scorta di dati reali e “tangibili” come il territorio sul quale il bene insiste, il suo utilizzo, la presenza di acqua, energia elettrica ed altro affinchè sussista un “ragionevole legame” con il valore di mercato e l’indennizzo costituisca, di conseguenza, un “serio ristoro”[12].
Il rispetto di tali parametri è tassativo perché inteso ad identificare un punto di equilibrio tra il ristoro spettante all’espropriato e le esigenze pubbliche, scongiurando la possibilità che l’indennizzo risulti irrisorio o comunque non proporzionato. La valutazione in ordine al quantum debeatur, cioè, discende da un esame in concreto delle “qualità” del singolo bene oggetto di ablazione, ferma restando la non omogeneità tra aree agricole ed edificabili[13].
3. La quantificazione dell’indennità
Il suddetto carattere di concretezza, come si diceva, obbliga l’amministrazione ad una valutazione assai puntuale, in particolare quando “pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, il fondo presenti caratteristiche che ne consentono lo sfruttamento per fini ulteriori e diversi da quello agricolo, e quindi di attribuire allo stesso una valutazione di mercato tale da rispecchiare la possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria”[14]. Tale criterio di valutazione delinea un “sistema” che muove dalla distinzione – ab initio ricordata – tra vincoli conformativi ed espropriativi, avendo i primi durata tendenzialmente indeterminata a differenza dei secondi[15].
Il combinato disposto discendente dall’applicazione congiunta dell’art. 42 c. 3 della Costituzione italiana e dell’art. 1 primo protocollo della CEDU, opera, quindi, nel senso di richiedere forme di indennizzo, a fronte di incisioni al diritto di proprietà da parte di pubbliche amministrazioni nell’esercizio di poteri ablativi, “tarate” sull’effettivo valore del bene, a prescindere, in tesi, dalla natura agricola o edificatoria dello stesso.
In questa “taratura” rientra una modulazione che determina una oscillazione “in concreto”, tenuto conto delle caratteristiche intrinseche e della presenza di vincoli conformativi. In particolare, in caso di destinazione a verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, ecc., la valutazione muove dai limiti alle attività di trasformazione del suolo che rientrano nella nozione tecnica di edificazione “da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area”.
Pertanto, “ove una zona sia stata concretamente destinata ad un utilizzo meramente pubblicistico, la classificazione apporta un vincolo che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, come tali soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia, con la conseguenza che l’area va qualificata come non edificabile, restando irrilevante la circostanza che la destinazione richieda la realizzazione di strutture finalizzate unicamente alla realizzazione dello scopo pubblicistico”[16].
4. Statuto proprietario e pianificazione urbanistica
Il sistema di quantificazione dell’indennità spettante al soggetto espropriato delineato dalle Sezioni Unite è, come appare evidente, fondato su rilevanti principi di matrice interna e comunitaria, dando la misura di un ragionamento complessivamente equilibrato, a patto che nella sua concreta applicazione non si traduca in un indennizzo irrisorio.
E’, pertanto, necessario, in sede di quantificazione del valore del bene specificamente oggetto dell’attività espropriativa, l’utilizzo del giusto “calibro”.
Del resto, la diretta attinenza del vincolo allo ius aedificandi comporta comunque, in capo al titolare del diritto, un sacrificio significativo derivante dal vincolo e dalla correlativa diminuzione del valore, che si traduce, in sede di esproprio, in un’indennità “dimidiata” (rectius: “conformata”), che "ascende" dal valore agricolo (piuttosto che discendere da quello edificatorio).
Partendo dal presupposto che il diritto dominicale abbia un contenuto essenziale all’interno del quale si rinviene lo ius aedificandi, lo “schema” proposto in ordine alla quantificazione dell’indennizzo suscita, in sede di prima analisi e salvo quanto appresso si dirà, il dubbio che l’applicazione del criterio di valutazione “in concreto” possa determinare condizioni di ingiustizia, tenuto conto che il diritto di proprietà subisce “a monte” una conformazione che discende dalla apposizione del vincolo, mentre, "a valle", gli viene riservata una considerazione, in termini di valore, che, se non operata con la giusta perizia potrebbe riproporre di fatto e sotto mentite spoglie proprio i criteri dell'art. 5bis dichiarato incostituzionale nel 2011.
Da questo punto di vista potrebbe rivelarsi pericoloso e persino inquietante procedere in senso “ascendente”, muovendo, cioè, dal valore agricolo “mediato” e “corretto” percentualmente sulla scorta di un esame in concreto delle caratteristiche del bene e delle attività – esclusa quella edificatoria – in esso consentite.
Le superiori perplessità, così come suggerisce la decisione in commento, vanno, tuttavia, lette alla luce del rapporto che i commi 2 e 3 dell’art. 42 Cost. instaurano proficuamente (ed anche dialetticamente) con la (forse, occorrerebbe dire: le) proprietà[17], la quale è riconosciuta e garantita dall’ordinamento entro i limiti nei quali opera la clausola generale della funzione sociale, spettando al legislatore determinarne i modi di acquisto e di godimento, nonché i limiti, in ragione della sua funzionalizzazione al bene comune.
In questo quadro il diritto di proprietà può subire legittime compressioni, certamente ammesse e contemplate in termini di principio dalla Carta costituzionale: la funzione sociale pone, infatti, un limite “non alla proprietà in quanto tale, ma alla proprietà di quei beni che rivestono importanza dal punto di vista degli interessi sociali”[18].
Ciò consente di evidenziare un dato fondamentale, ossia che la conformazione non costituisce, a ben guardare, un vero e proprio limite, in quanto il contenuto della proprietà “sarà di volta in volta quello (più ristretto) fissato positivamente dalla legge e non già quello (più ampio) rispondente ad un immutabile modello astratto di proprietà, desunto dal diritto naturale”[19]. Il criterio di valutazione del valore reale è, dunque, aderente al dettato costituzionale, non avendo il proprietario alcuna pretesa protetta nella misura in cui il bene sia oggetto – in aderenza con la normativa vigente – di vincoli conformativi in sede di pianificazione urbanistica.
Lo stesso ius aedificandi (la cui consistenza ha notoriamente impegnato, soprattutto nella seconda metà degli anni ’70, dottrina e giurisprudenza e, non ultimo, il legislatore[20]) attiene al diritto di proprietà solo e nella misura in cui venga riconosciuto in tale sede e non in ragione di presunte (e difficilmente dimostrabili, per la verità) vocazioni che renderebbero il bene stesso edificabile a prescindere dalla destinazione di zona, dal vincolo (conformativo) e dalla funzione sociale[21].
Né può tacersi che siffatto sistema trovi una delle sue ragioni giustificative nelle questioni poste dalla c.d. rendita urbanistica e dal connesso rischio di trattamenti differenziati delle situazioni proprietarie di fronte al potere di pianificazione.
La conformazione della proprietà, operata dal legislatore o dall’amministrazione in sede di pianificazione, non è, in definitiva, a sua volta vincolata dalle “cose immobili che costituiscono il territorio”, in quanto esse sono “soggette al potere conformativo della pubblica autorità che ne stabilisce destinazioni ed usi”[22].
Sul piano legislativo, risulta in linea con il quadro testè tracciato il d.p.r. n. 327 del 2001, il quale – in particolare, agli artt. 32 c. 1 e 37 – conferisce piena rilevanza ai vincoli esistenti nel computo dell’indennità di espropriazione[23].
Stante quanto testè osservato, risulta confermata la correttezza, anche in confronto alle obiezioni sopra sollevate, dell’orientamento espresso dalla decisione in commento, nella misura in cui adotta il criterio del c.d. “valore mediato” concernente le aree sulle quali insistono vincoli conformativi, basato sul valore agricolo piuttosto che su quello edificatorio e poi adeguato in concreto tenuto conto delle attività effettivamente consentite.
Con una sola avvertenza: è necessario che le forme e le modalità della “conformazione” siano previamente poste in modo da indicare con chiarezza gli ambiti di competenza e la caratura dei poteri esercitati nei procedimenti di pianificazione in ossequio anzitutto al principio di imparzialità (ragione per la quale non è escluso che gli interessi dei privati possano, in determinate e specifiche ipotesi, prevalere su esigenze di carattere generale)[24].
Esiste, invero, la possibilità che le scelte di pianificazione (e di conseguente conformazione) creino condizioni di disparità: ciò può avvenire fisiologicamente (come anche patologicamente[25]) richiedendo (potremmo forse dire: “esigendo”) particolare cura nell’esercizio di poteri in grado di incidere in modo assai gravoso (non solo sui diritti dominicali dei singoli, ma anche) su fattori di ordine sociale, laddove entrano in campo valori costituzionali come gli artt. 3 e 53[26].
Per questa ragione, senza nulla togliere alla bontà dell’impostazione proposta dalle Sezioni Unite (che, anzi, come già anticipato, si condivide pienamente), il criterio del “valore reale” deve accompagnarsi ad un uso equo e proporzionato del potere di conformazione “a monte” e a criteri di valutazione del bene che non (ri)propongano strumentalmente “a valle” – come pure può accadere – indennità “comodamente” parametrate sul valore agricolo, imponendo un sacrificio ulteriore, non richiesto né giustificato dal quadro costituzionale e dalla normativa di rango comunitario che investe la materia.
5. Quantificazione dell’indennizzo e art. 42bis d.p.r. n. 327/2001: osservazioni conclusive
L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, infine, merita, per scrupolo di completezza dell’analisi (e dunque fatti salvi i debiti e necessari approfondimenti, considerato che trattasi di materia ancora “magmatica” sulla quale è in corso di assestamento la stessa giurisprudenza amministrativa), di essere valutato – in quanto argomento potenzialmente connesso, ma non affrontato nella decisione in commento – alla stregua della evoluzione della normativa e della giurisprudenza per quanto concerne i parametri da utilizzare in relazione all’applicazione dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327 del 2001.
Come ampiamente noto, relativamente a tale norma, frutto della dichiarazione di incostituzionalità per eccesso di delega del precedente art. 43[27], è sorto un dibattito giurisprudenziale di significativa portata che ha richiesto l’intervento dell’Adunanza Plenaria sia in ordine alla latitudine operativa della norma, sia in ordine agli obblighi ricadenti sulle amministrazioni protagoniste di espropriazioni nate o divenute sine titulo. Infatti, anche l’art. 42bis delinea un indennizzo parametrato sul valore venale del bene, con espresso richiamo, ove si tratti di aree edificabili, all’art. 37 commi 3, 4, 5, 6 e 7 (con rinvio all’art. 32 c. 1).
In ragione delle più recenti acquisizioni della giurisprudenza interna e comunitaria, per l’ipotesi di occupazione ab origine o successivamente divenuta sine titulo all’amministrazione rimangono aperte tre possibilità: 1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche; 2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione; 3) adottare un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42bis del d.p.r. n. 327/2001, corrispondendo al privato un indennizzo parametrato sul valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contemplate dalla medesima norma[28].
La fattispecie di cui all'art. 42 bis è, dunque, articolata quale potere-dovere, nel senso che l'Amministrazione è chiamata ad esercitare "il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato" alla luce dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione[29].
Quanto al rapporto tra la tutela risarcitoria e quella restitutoria, merita di essere segnalato quanto ha avuto modo di osservare di recente l’Adunanza Plenaria n. 2 del 2020: “Qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria o risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l'art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall'art. 42 bis all'amministrazione".
La domanda, pertanto, va inserita nel quadro normativo legale delineato dall'art. 42 bis, considerato, altresì, che "l'ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l'orientamento giurisprudenziale di riferimento assunto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello"[30].
Le Sezioni Unite si sono pronunciate relativamente ad una ipotesi di c.d. "occupazione appropriativa" con riferimento al periodo di occupazione legittima; la soluzione da esse prospettata circa la quantificazione dell'indennità, in tesi, potrebbe (dovrebbe) risentire del criterio di valutazione "reale" sopra rammentato, così come appunto previsto dall'art. 42bis del d.p.r. n. 327 del 2001.
D’altro canto, come si è visto, la domanda risarcitoria va interpretata alla luce della predetta norma, posta al fine di costruire un sistema in grado di “razionalizzare” la materia facendo coincidere le situazioni di fatto con quelle di diritto, per le ipotesi di attività espropriativa sine titulo (relativamente alle quali, dato il loro alto numero, la giurisprudenza comunitaria ha ripetutamente sollevato fondate obiezioni e duri rilievi): non è, pertanto, da escludere – anzi, è prevedibile – l’applicazione del medesimo criterio in presenza di attività illegittima e di una conseguente domanda risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo, con l’effetto di determinare un “appiattimento” di queste ipotesi rispetto a quelle derivanti da attività legittima.
Premesso che l’art. 42bis non si esaurisce nel solo profilo indennitario, forse, più che di “appiattimento” dovrebbe parlarsi di “omogeneizzazione” di un sistema che trova nella corretta individuazione della base sulla quale calcolare il quantum dovuto per l’incidenza dei poteri ablatori in senso lato sul diritto dominicale, la sua radice comune. Si è ritenuto, pertanto, di segnalare – senza entrare funditus in un tema che esula dal presente commento e dalle sue precipue finalità – questa apparente reductio ad unum, attraverso la potenziale riconduzione delle ipotesi di indennizzo da attività legittima e illegittima (sine titulo) ad un genus unitario, per le implicazioni che potrebbero discenderne in subiecta materia.
In conclusione, tenute presenti le considerazioni sistematiche e salvo quanto potrà emergere in sede applicativa (unico vero pericolo che si intravede nella specie), la decisione in commento mostra numerosi spunti di riflessione che riportano a tematiche di fondamentale e primaria rilevanza.
Indubbiamente, il rapporto tra diritto di proprietà e potere conformativo in vista della valutazione reale (più che venale, diremmo) del bene, superate alcune obiezioni di principio circa la sua compatibilità costituzionale, trova nel criterio adottato un punto di equilibrio stabile perché sostenuto da numerose fonti normative (interne e comunitarie), nonché da arresti fondamentali della Corte costituzionale, della Corte di giustizia e delle stesse Sezioni Unite.
Non si tratta però, come si è cercato di evidenziare, di un solo quadro, ma, in un certo qual modo, di pictures at an exhibition, di un caleidoscopio di suoni e immagini che trovano una sintesi magistrale in principi ispirati alla solidarietà (ed alla funzione) sociale, recuperando il senso “sinfonico[31]” (e complementare) delle singole e talora assai diversificate questioni che pone l’esercizio dei poteri pubblici, in particolare quelli ablatori, nelle relazioni giuridiche che investono i singoli come le collettività.
[1] A.M. Sandulli, I limiti della proprietà privata nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1971; M. Luciani, Corte costituzionale e proprietà privata, in Giur. Cost., 1977; A. Baldassarre, Proprietà (dir. costituzionle), in E.d.D., XXV, 1990; D. Sorace, Espropriazione della proprietà e misure dell’indennizzo Milano 1974; V. Cerulli Irelli, Statuto costituzionale della proprietà privata e poteri pubblici di pianificazione, in AA.VV., Politiche urbanistiche e gestione del territorio. Tra esigenze del mercato e coesione sociale, a cura di P. Urbani, Torino 2015, 11 ss.: “Il contenuto della proprietà privata (come diritto soggettivo) dei beni immobili è stabilito, in maniera differenziata per categorie di cose, e, in determinati casi per categorie di soggetti (i proprietari), dalle legge, e nei limiti e secondo i criteri stabiliti dalle leggi, dalle pubbliche autorità attraverso l’esercizio dei poteri di pianificazione, secondo la rispettiva competenza” (p. 39).
[2] Ai quali si aggiungerebbero, a rigore, i vincoli a contenuto “sostanzialmente espropriativo”, quei vincoli, come osserva v. Cerulli Irelli, cit., 27, “che dovrebbero essere equiparati a quelli espropriativi ai fini dell’indennizzo ai sensi dell’art. 42 comma 3, Cost., ... prodotti dalle destinazioni di piano, che pur non comportando l’appropriazione pubblica della cosa, ne limitano le facoltà di utilizzazione da parte del proprietario in modo tale dar rendere il suo diritto (il suo bene) privo di ogni utilità (sia in termini di valore d’uso che di valore di scambio)”.
[3] V. ad. es., Tar Puglia, Le, 2 ottobre 2018 n. 1401: “E’ legittima, in quanto correttamente motivata, una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha opposto un formale diniego in merito ad una istanza avanzata dal proprietario di alcuni terreni, interessati da vincoli di destinazione urbanistica recanti Zona C/3 comprendente aree destinate allo localizzazione di insediamenti di edilizia economica e popolare e Zona E2 comprendente aree per servizi e attrezzature per dotazione minima degli standard di cui al d.m. n. 1444/68, tendente ad ottenere la declaratoria di avvenuta decadenza dei suddetti vincoli; in tal caso, infatti, si tratta di vincoli che, in ragione della relativa natura conformativa, non possono che avere durata tendenzialmente indeterminata”.
[4] “Le indicazioni del piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L'efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione”. L’art. 2 è stato abrogato dall’art. 58 d.p.r. n. 327/2001 dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 20 maggio 1999, la quale “dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo”. Per la disciplina vigente, v. oggi artt. 9 e ss. del medesimo Testo Unico.
[5] L’indennizzo, come noto, viene riconosciuto in caso di rinnovo di vincoli espropriativi scaduti.
[6] Su questo aspetto si tornerà a breve.
[7] Viene, infatti, dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli)”. Vale la pena di rammentare che la Corte costituzionale, ricostruendo il complesso “sistema di rapporti” tra l’art. 117 c. 1 Cost. e le norme Cedu, come interpretate dalla Corte europea di Strasburgo[7], articola la decisione in funzione della risoluzione di alcuni quesiti di base, ovvero: “a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate)”. A tal fine, viene riportato l’art. 1 del protocollo n. 1 CEDU, secondo il quale: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende”.
[8] “a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma (punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c) nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato (punto 97)”. I medesimi principi sono stati, altresì, ribaditi in diverse pronunce successive, ossia: sentenza del 19 gennaio 2010 (causa Zuccalà contro Italia); sentenza dell’8 dicembre 2009 (causa Vacca contro Italia); sentenza Grande Camera 1aprile 2008 (causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia).
[9] Ci si riferisce, tra le altre, alle sentenze: n. 173 del 1991; n. 1022 del 1988; n. 355 del 1985; n. 223 del 1983; n. 5 del 1980.
[10] L’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 così recitava: “nei casi di occupazione totale, la indennità dovuta all’espropriato consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita”. Tale legge è stata abrogata dall'art. 58 del d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, con la decorrenza indicata nell'art. 59 dello stesso decreto. L’abrogazione è stata confermata dall’art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112.
[11] Cfr. art. 20 c. 3 d.p.r. n. 327 del 2001: “L’autorità espropriante, prima di emanare il decreto di esproprio accerta il valore dell’area e determina in via provvisoria la misura dell’indennità di espropriazione”.
[12] Sembra appena il caso di segnalare che l’art. 834 del Codice civile, a differenza dell’art. 42 della Costituzione, parlava già di “giusta indennità”; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, 2015, 833.
[13] Così, infatti, la sentenza della Corte cost. n. 348 del 2007: “Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato”.
[14] Così, SS.UU., n. 7454/2020, la quale cita copiosa giurisprudenza tra cui: SS.UU., 3 luglio 2013 n. 17868; Id., 7 maggio 2019 n. 11930; Cass. Civ., 19 luglio 2018 n. 19295; Cass. Civ., 8 marzo 2018 n. 5557; Cass. Civ., 17 ottobre 2011 n. 21386; G. Pagliari, op. loc. cit.
[15] Cfr., art. 9 d.p.r. n. 327 del 2001.
[16] Cass. Civ., 14 settembre 2016 n. 18057.
[17] Sul concetto di proprietà, per tutti, S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano 1954.
[18] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 1994, 201
[19] F. Gazzoni, op. loc. cit.
[20] Basti richiamare le questioni poste dalla legge n. 10 del 1977 (c.d. “legge Bucalossi”).
[21] V. Cerulli Irelli, op. cit., 42 ss.: “Lo ius aedificandi viene a configurarsi come una facoltà inerente solo ad alcune categorie di proprietà … lo scorporo del ius aedificandi dalla proprietà della cosa immobile sulla quale verrebbe esercitato, si configura come un dato positivo, dal momento che il privato proprietario di un’area (che egli ritenga vocata all’edificazione) non può pretendere che detto jus gli sia concesso se non previsto a monte in sede di piano e sulla base di un procedimento di cui egli può solo pretendere che si svolga correttamente … Né può essere fatta valere una pretesa “vocazione edificatoria” dell’area o della zona … come fondamento della pretesa, ovvero come elemento da tenere conto al fine della qualificazione come “vincolo”, della destinazione non edificatoria impressa dal piano”.
[22] V. Cerulli Irelli, La soggezione della proprietà immobiliare al potere di pianificazione, in AA.VV., Le nuove frontiere del diritto urbanistico, a cura di P. Urbani, Torino 2013, 69.
[23] Secondo l’art. 32 c. 1, “salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data dell’emanazione del decreto di esproprio, valutando l’incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa e senza considerare gli effetti del vincolo preordinato all’esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell’eventuale opera prevista, anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di una servitù”. Il successivo art. 37 precisa: “L'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene … Ai soli fini dell'applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell'emanazione del decreto di esproprio o dell'accordo di cessione. In ogni caso si esclude il rilievo di costruzioni realizzate abusivamente. Salva la disposizione dell'articolo 32, comma 1, non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio”.
[24] V. Cerulli Irelli, op. ult. cit., 70.
[25] V. Cerulli Irelli, op ult. cit., 71.
[26] v. Cerulli Irelli, op. ult. loc. cit.
[27] Corte Costit., 8 ottobre 2010 n. 293.
[28] Tar Lazio, Rm, sez. II, 12 giugno 2017 n. 6894. La medesima giurisprudenza, al fine di consentire al titolare del diritto reale leso di non sottostare all’inerzia dell’amministrazione espropriante ed ottenere il bene della vita cui aspira nell’ambito della libera disposizione dello stesso illecitamente coartata da una sottrazione dello stesso sine titulo da parte della p.a., aveva costruito la figura della c.d. “rinuncia abdicativa”. Attraverso questa figura, valorizzando il contenuto dispositivo implicito nella domanda risarcitoria, veniva desunta l’implicita rinuncia, sul piano sostanziale, al diritto di proprietà da parte del soggetto titolare del bene conteso, una volta verificatasi la sua irreversibile trasformazione quale diretta conseguenza della illegittima procedura espropriativa e dell’illecito comportamento della p.a. agente. Questione connessa e di non poco momento concerne la possibilità di immaginare, quale conseguenza della rinuncia, un conseguente effetto traslativo della proprietà. Ciò ha aperto ulteriori profili sui quali la giurisprudenza si è specificamente soffermata. In linea di principio, la soluzione che propendeva per l’effetto “abdicativo” ma non immediatamente “traslativo” non ha comportato, invero, alcun arretramento decisivo dalla costruzione della rinuncia abdicativa, trattandosi semplicemente di delineare compiutamente gli effetti della rinuncia medesima riguardo all’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione. Si osservava come, tenuto conto degli orientamenti provenienti dalla Corte costituzionale (Corte cost. 30 aprile 2015 n. 71), dalle Sezioni Unite (19 gennaio 2015 n. 735; Id., 29 ottobre 2015 n. 22096; Id., 25 luglio 2016 n. 15283), dall’Adunanza Plenaria (9 febbraio 2016 n. 2) e dalla IV sezione del Consiglio di Stato (7 novembre 2016 n. 4636) tenuto conto del quadro elaborato dalla Corte di Strasburgo, non potesse derivare da un comportamento illecito della p.a. alcuna acquisizione del fondo, configurandosi, nella specie, un illecito permanente ex art. 2043 c.c., che veniva a cessare in cinque casi: 1) restituzione del fondo; 2) sopravvenienza di un accordo transattivo; 3) rinunzia abdicativa (ancorchè non traslativa) del proprietario “implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo”; 4) compiuta usucapione; 5) provvedimento “sanante” ex art. 42bis d.p.r. n. 327/2001. In questa prospettiva, restava ferma l’opzione che consentiva al titolare del diritto reale di chiedere il risarcimento del danno, ancorchè al suo atto unilaterale di “rinuncia” venisse accreditato un effetto soltanto “abdicativo” e non propriamente “traslativo”. Riguardo al quantum del risarcimento, esso non poteva che essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfezionava la rinuncia abdicativa del proprietario, con rivalutazione ed interessi legali fino al soddisfo. Questa soluzione, tuttavia, non era pacifica in giurisprudenza, prospettando altri Tar, di converso, un differente approccio. Punto nodale del dibattito era la prospettabilità, nell’ambito del giudizio amministrativo della c.d. “rinuncia abdicativa” quale alternativa alle procedure consensuali e comunque collegate all’intervento dell’ente resistente ex art. 42bis. La parte di giurisprudenza che contestava l’applicazione alla specie della rinuncia abdicativa, sottolineava, infatti, la portata meramente unilaterale dell’atto di rinuncia, dalla quale, pertanto, a suo avviso, non può derivare alcun trasferimento della proprietà. In particolare, veniva osservato che “la funzione giudiziaria diverrebbe invero strumento ancillare rispetto all’esercizio dei facoltà discrezionali del privato nonché rispetto ad una forma di circolazione del bene, invero inaudita, che porrebbe per altro serie criticità nei rapporti coi terzi … dalla illegittima ablazione di un immobile per effetto di un procedimento espropriativo non conclusosi con un regolare e tempestivo decreto di esproprio sorge dunque (al di là dell’unica ipotesi alternativa costituita dalla possibilità di un contratto traslativo ovvero di un accordo transattivi) unicamente l’obbligo per l’Amministrazione di sanare la situazione di illecito venutasi a creare, restituendo il terreno con la corresponsione del dovuto risarcimento per il periodo di illegittima occupazione temporanea ovvero, in via subordinata, adottando il decreto di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.p.r. n. 327/2001” (così Tar Calabria, Rc, 12 maggio 2017 n. 438; tra le altre, Tar Sicilia, Pa, n. 2580/2018, n. 279/2018, n. 280/2019, n. 341/2019 e n. 630/2019). Con ordinanza 30 luglio 2019 n. 5391, la sezione Quarta del Consiglio di Stato ha, tuttavia, rimesso all’Adunanza Plenaria alcune questioni, ossia: a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva; b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis; c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis; d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione. L’Adunanza Plenaria n. 2 del 20 gennaio 2020 ha risolto tale quesito ritenendo non configurabile la rinuncia abdicativa, in quanto: a) "non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all'Autorità espropriante"; b) viene ricostruita quale atto implicito "senza averne le caratteristiche essenziali"; c) "non è provvista di base legale".
[29] A.P. n. 2 del 20 gennaio 2020.
[30] Infine, ancora la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2020, rileva che il giudice amministrativo, nell'ambito della scelta deferita all'Amministrazione tra restituzione ed acquisizione del bene, può nominare un commissario ad acta in esito al giudizio di cognizione, tenuto conto del comportamento omissivo dell’Amministrazione (che, peraltro, costituisce un illecito permanente, così come conferma A.P. n. 4 del 2020, con effetti determinanti in tema di prescrizione).
[31] Pictures at an exhibition è una suite (probabilmente, la più famosa) di Modest Musorgskij. Si parla, nel testo, di senso “sinfonico” per evocare e in qualche modo rappresentare la coralità dei “suoni” che si registrano nella materia espropriativa, senza che ciò privi di autonoma consistenza il rilievo di ciascun quadro.
Valutazioni di professionalità e standard medi di rendimento: La misurazione del lavoro dei magistrati e della organizzazione degli uffici
di Patrizia Morabito
Sommario: 1. Premessa; - 2. Come si è svolto il lavoro; - 3. La sperimentazione; - 4. E poi...il silenzio; - 5. Le prospettive.
1. Premessa
La riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007 prevedeva che la valutazione di professionalità dei magistrati si fondasse anche sul parametro della laboriosità, e che questo fosse desunto da “standard medi di rendimento”, rimettendo al Consiglio Superiore della Magistratura la loro fissazione.
Con Risoluzione del 23 settembre 2008 , il Consiglio Superiore ha costituito presso la IV Commissione un gruppo di lavoro “tecnico”, composto da magistrati e funzionari statistici, incaricato di determinare gli “standard” in vari settori della giurisdizione di primo grado.
Il gruppo ha completato e consegnato vari elaborati dopo un’approfondita indagine su di migliaia di dati, ed ha realizzato schede informatiche che raccoglievano ed organizzavano informazioni molto dettagliate sul lavoro dei magistrati e della sezione di appartenenza, e che consentivano soprattutto, finalmente, di aver una conoscenza reale e complessiva del lavoro, e non solo dei pochi aspetti tradizionalmente considerati nelle “statistiche comparate dell’ufficio”.
La delibera conclusiva del CSM del 23.7.2014 ha ritenuto che il metodo potesse trovare concreta applicazione nei procedimenti di valutazione della professionalità, per i giudici addetti alla cognizione ordinaria civile, per i giudici del lavoro, per i magistrati requirenti di primo grado ed i magistrati di sorveglianza.
2. Come si è svolto il lavoro
In estrema sintesi, nei settori civile/lavoro – del quale ultimo mi sono occupata in via esclusiva- si è proceduto ad una analisi accurata degli uffici individuati nella delibera CSM istitutiva del gruppo di lavoro, con l’intento di verificare la comparabilità del contenzioso di sedi diverse, in modo da individuare una base di confronto più ampia del singolo ufficio. Sono stati raggruppati in clusters quelli con caratteristiche simili, e la platea degli uffici che li componevano è stata estesa nelle fasi successive del lavoro.
Minor numero di dati erano stati all’epoca raccolti , perché non disponibili, per i settori penali e per le Procure, quasi assenti per i Tribunali dei Minorenni, poi tralasciati perché troppo poco informatizzati; proprio attraverso il lavoro del gruppo si è però iniziata una accurata ricognizione di attività poco conosciute e quasi non “classificate” fino a quel momento (persino i dati relativi alla presenza dei magistrati in ufficio, e agli esoneri, erano praticamente inesistenti).
Nei settori nei quali i dati informatici erano disponibili in numero adeguato, il lavoro ha dato invece esiti molto interessanti.
La ricerca è stata finalizzata a comprendere innanzitutto come operassero i magistrati di sedi diverse ma simili per qualità del contenzioso trattato, quali potessero essere gli indicatori numerici di un “buon operare”, quali fossero le quantità delle definizioni e sopravvenienze: il metodo ha utilizzato i dati di uffici che apparivano “omogenei”, quindi confrontabili.
Gli elementi acquisiti hanno offerto elementi indicativi di qualità e quantità di lavoro nel loro complesso ben più affidabili rispetto a quelli ricavabili dalle tradizionali “statistiche comparate dell’ufficio”, che sono notoriamente insufficienti ed incomplete, di fatto inutilizzabili perché confrontano pochi dati nell’ambito del medesimo ufficio, e ricomprendono funzioni totalmente diverse ed elementi disomogenei.
La comparazione frutto della ricerca del gruppo è risultata invece molto più significativa, perché operata nell’ambito dei singoli clusters , ciascuno dei quali raccoglieva più uffici con contenzioso omogeneo, non una singola sede. I dati raccolti erano poi “granulari”, dettagliavano le vicende del singoli processo, fornivano una molteplicità di informazioni: è stato possibile quindi valorizzare il lavoro del giudice nella sua complessità, in modo più rispondente al concetto di standard, non limitandosi ad alcuni tradizionali indicatori (come il numero delle definizioni con sentenza e poco altro).
Sono stati enucleati sintomatici indicatori del “buon operato”, tradizionalmente noti ma mai adeguatamente considerati e misurati, come le definizioni diverse dalle sentenze, le conciliazioni, la durata dei processi, la durata dei procedimenti definiti, le pendenze ultratriennali, l’efficacia nella conduzione dell’istruttoria. Soprattutto è stato possibile mettere sotto i riflettori la effettività della riduzione dell’arretrato, vero punctum dolens del contenzioso civile italiano.
L’esperienza ha dimostrato come il lavoro del magistrato fosse misurabile e dovesse essere misurato, e per questo fosse essenziale dotarsi di un sistema di registrazione informatica e di raccolta dei dati del lavoro giudiziario, scegliendo accuratamente e con esperienza quelli utili ed indicativi.
Le ricerche hanno fatto emergere anche anomale situazioni di contenzioso in talune sedi o settori, che sono state indagate dal gruppo di lavoro. Queste hanno rivelato che situazioni oggettivamente critiche potevano essere affrontate con metodi di lavoro efficaci, frutto dell’attenzione alle peculiarità delle circostanze. Si annovera fra questi il caso, raccontato nella relazione finale, del giudice del lavoro di un ufficio meridionale, che redigendo un numero di sentenze , decisamente inferiore a quello dei colleghi dell’ufficio, ma con un lavoro accurato e riunendo molti processi frammentati, aveva drasticamente ridotto un contenzioso ipertrofico, presente su tutti i ruoli di quella sezione, e fino a quel momento mai efficacemente studiato e contrastato.
Il caso ha vividamente palesato l’inadeguatezza dei dati statistici tradizionali per valutare il lavoro del giudice, e, per contro, l’efficacia del nuovo metodo degli standard per fare emergere il buon operato, e la capacità del magistrato di affrontare le specificità del ruolo, risolvendone le criticità.
3. La sperimentazione
Ai fini di concentrare e giustapporre i dati ritenuti significativi sono state predisposte le schede informatiche, che estraevano dalla banca dati custodita presso il CSM (che sarebbe stata istituita e costantemente implementata ed aggiornata , con cadenza periodica come disposto dalla delibera del 2014) i numeri individuati come indicativi dell’operato del giudice, consentendo comparazioni effettive con gli altri giudici dello stesso ufficio e con il più ampio gruppo dello stesso cluster .
La scheda predisposta per la valutazione dei magistrati operanti nelle sezioni lavoro, di immediata lettura, consentiva non solo di operare tale raffronto, ma simultaneamente di comprendere l’operare dell’intero ufficio, l’andamento di esso, e la gestione complessiva della sezione.
Le schede dei diversi settori, per la verità , non hanno la medesima immediatezza e leggibilità; ma la possibilità di completare l’esperienza, di migliorare il lavoro e approfondirlo avrebbe consentito l’indispensabile evoluzione ed affinamento del sistema, le modifiche ed i miglioramenti necessari, e si sarebbe arricchito di uno strumento oggettivo di trasparente conoscenza del lavoro dei magistrati, sotto molteplici punti di vista, prima ancora che di meritocratica valutazione.
Ottenute le schede informatiche, il lavoro è stato sottoposto ad una verifica, effettuando valutazioni sperimentali che sono state comparate con quelle tradizionali. In alcuni settori (particolarmente quelli civili e del lavoro) nei quali si erano potuti raccogliere molti dati, le schede si sono dimostrate un efficacissimo ausilio per conoscere dettagliatamente non solo il lavoro del valutando, ma il contesto della sezione nella quale operava. Sono emersi indici molto significativi della distribuzione del lavoro, dell’operato degli altri magistrati, della gestione dell’ufficio, e non solo del ruolo in esame.
Questa aveva riguardato alcuni colleghi, presi a “campione”, le cui valutazioni di professionalità in quel momento predisposte con metodo tradizionale, e con l’ausilio delle ordinarie “statistiche comparate dell’ufficio” erano state confrontate con quelle “sperimentali” effettuate con l’ausilio delle nuove schede elaborate dal gruppo di lavoro, dai magistrati e dai funzionari statistici che lo componevano. Le schede si sono rivelate utili ed efficacissime per rappresentare con oggettività ed immediatezza gli elementi essenziali per le valutazioni, che stentavano ad emergere con il metodo tradizionale.
Gli esiti di quella sperimentazione sono stati ampiamente soddisfacenti, soprattutto per il settore civile/lavoro, ovvero quello nel quale l’informatizzazione era avanzata, e molti erano i dati “granulari”, disponibili, relativi ad ogni elemento del contenzioso trattato.
Fu così che con Delibera adottata dall’Assemblea plenaria CSM nella seduta del 23 luglio 2014 si diede corso alla applicazione del nuovo metodo di valutazione in primo grado nei settori che avevano prodotto un lavoro collaudato, dando avvio alla utilizzazione degli standard di rendimento, modificando anche la circolare sulle valutazioni di professionalità e prevedendo l’utilizzo delle nuove schede informatiche.
La stessa delibera stabiliva di estendere ed applicare la metodologia ai magistrati addetti a settori specialistici non interessati alla prima ricognizione (esecuzioni, fallimenti) , e a quelli operanti in grado di appello, presso la Corte suprema di cassazione, la Procura generale presso la Corte suprema di cassazione la Direzione nazionale antimafia, previo compimento dell’attività istruttoria necessaria alla formazione di uno o più cluster per ciascun ambito di attività.
4. E poi...il silenzio
Nonostante il lavoro condotto dal gruppo tecnico si fosse snodato per mesi, e per anni, attraverso interlocuzioni con uffici, raccolta di dati, sperimentazioni con confronti ed incontri tra il gruppo di lavoro, i magistrati ed i consigli giudiziari di esso è stato sempre difficile, a volte impossibile, poterne parlare.
All’inizio perché è stato tenuto riservato temendo che sarebbe stato osteggiato ed ostacolato, ed avrebbe creato polemiche ancor prima di potersi avviare. Poi perché è subentrato il timore che potesse essere utilizzato per campagne di raccolta di “consenso” fra i magistrati, a favore o contro, per le polemiche che si erano scatenate già fra i gruppi associati sugli esiti del lavoro, sull’utilizzo dell’enorme massa di dati che il gruppo ha studiato ed utilizzato.
La cosiddetta “consegna del silenzio” imposta al gruppo tecnico operante, ha riscontro in un documento a firma di uno dei presidenti della IV Commissione CSM che si sono avvicendati che invitava “a non partecipare ad incontri e riunioni, in qualunque forma e sede, per illustrare lo stato dei lavori”, prima che il consiglio assumesse determinazioni conclusive. Il documento era stato indirizzato nominativamente ai (soli) magistrati componenti del gruppo di lavoro, che erano stati invitati dalla formazione decentrata di un distretto pugliese per illustrare gli esiti della prima fase dei lavori, già approvati con una delibera CSM che disponeva il prosieguo e l’avvio della seconda fase.
Ma neppure al termine dei lavori si è visto alcun intento di promuovere informazione e discussione de risultati quantomeno dei settori civile, lavoro e sorveglianza, nonostante:
a) i dati raccolti rispondessero alla esigenza di una conoscenza effettiva e approfondita dell’attività di alcuni settori della giurisdizione promettessero efficaci esiti di ampliamento;
b) il buon esito dato già alle prime sperimentazioni del sistema ( anche se certamente perfettibile);
c) i costi che tutta l’attività aveva comportato;
d) il CSM con le delibere del 2013 e del 2014 avesse ormai definitivamente approvato la modalità di valutazione degli standard di laboriosità, disponendone la attuazione.
Anzi, è stata ancor più evidente la rinuncia, da parte dello stesso organo consiliare, a promuovere la conoscenza che avrebbe richiesto una capillare opera di informazione che superasse il tecnicismo e rendesse fruibili e comprensibili a tutti i metodi ed i risultati; avviando un necessario confronto fra i magistrati, ai quali non avrebbe potuto essere imposto un metodo di valutazione di cui non fossero stati consapevoli e partecipi, al quale invece avrebbero dovuto poter contribuire.
Le ragioni di ciò mi sono rimaste sconosciute, ma se devo azzardare qualche ipotesi, oltre alla complessità dei lavori, molto tecnici, e la difficoltà di approfondire la materia, hanno giocato un ruolo importante il timore della impopolarità, originato dal sistema di conoscenza approfondita del lavoro dei singoli.
Ha parimenti avuto peso il timore per un sistema di raccolta dei dati che forniva elementi importantissimi ed oggettivi per la conoscenza della gestione degli uffici, quindi della efficacia ed efficienza (o della inadeguatezza) reale dell’attività dei direttivi e semidirettivi che ne avevano la responsabilità.
Non a caso si è subito detto che i lavori del “gruppo per la determinazione degli standard”, costituito presso la IV Commissione CSM non sarebbe stato soltanto “conformativo” per i magistrati; e non sarebbe servito solo per le valutazioni di professionalità, ma sarebbe stato utile alla V ed alla VII Commissione CSM, per le attribuzioni e competenze di queste ultime.
Le statistiche comparate dell’ufficio, dettagliatissime ed attendibili, che corredavano le nuove schede informatizzate, si sono rilevate un utilissimo indicatore non solo del lavoro del giudice in ma anche dell’organizzazione della sezione di appartenenza del valutando. Ne emergeva con evidenza quali fossero stati i criteri di distribuzione del lavoro, se fosse stato curato un efficiente andamento dell’ufficio, se fosse stata prestata attenzione al riequilibrio dei carichi, alla definizione dell’arretrato, alla soluzione delle criticità; o se l’attenzione e la cura a questi aspetti fossero state carenti. Dati senz’altro suscettibili di spiegazioni diverse e contestualizzabili, ma di solida oggettività.
Quindi attraverso la valutazione del singolo si poneva all’attenzione la gestione dell’ufficio e la capacità organizzativa di chi aveva la responsabilità. Ove fosse emersa una conduzione non adeguata, foriera di criticità, se ne sarebbe dovuto tenere conto nell’analizzare le difficoltà operative del singolo.
L’indagine aveva altrettanto oggettivamente documentato anche una disomogeneità ed inspiegabile sperequazione nella distribuzione delle risorse sul territorio, e conseguenti ingiustificabili disuguaglianze di carichi per magistrati addetti ad uffici diversi, con inevitabile richiesta agli stessi di ben diverso impegno; pertanto l’esito avrebbe potuto e dovuto orientare anche le scelte di riequilibrio di tali situazioni.
Certo, il lavoro avrebbe dovuto essere ulteriormente testato, sperimentato, collaudato, e soprattutto avrebbe dovuto essere discusso e diventare oggetto di conoscenza e confronto con i magistrati, perché potesse essere migliorato ed affinato, ancor più perché svolto in larga parte piuttosto riservatamente; e che solo nelle fasi conclusive era stato testato con una sperimentazione che aveva coinvolto i Consigli giudiziari.
Ma il conflitto ed il dibattito “esterno” , pur non sostenuto da una corretta informazione sull’origine del lavoro, sulle fonti e metodo di raccolta dei dati, diffusione mai perseguita né attuata, ha trovato maggiore sfogo in sede “politico-associativa” concentrandosi su aspetti che disattendevano le premesse, sottovalutavano l’aspetto conoscitivo e si agganciavano a posizione ideologiche di principio, trasferendo la discussione su un terreno che si prestava a sollecitare i timori dei magistrati, da un lato per metodi di verifica del loro operato che apparivano oscuri ed insondabili (perché mai loro spiegati e mai condivisi con i destinatari del sistema) e dall’altra solleticavano le spinte “difensive” più corporative di ampia parte dei destinatari, lumeggiando il rischio che fosse pretesa una produttività sempre incrementata nel tempo; sovrapponendo e a volte confondendo lo standard di rendimento con il carico esigibile.
Sta di fatto che mentre il 23 luglio 2014 la delibera del Plenum del CSM , preso atto dell’esito positivo delle ultime sperimentazioni svolte dal gruppo di lavoro presso la IV Commissione aveva deciso di "…dare mandato alla Quarta Commissione di provvedere attraverso l’Ufficio Statistico all’attività di aggiornamento annuale dei cluster e di predisporre le schede di valutazione da trasmettere al magistrato in valutazione, al capo dell’ufficio ed al consiglio giudiziario...", appena pochi mesi dopo un’altra delibera plenaria del 11 marzo 2015, adducendo in poche righe non meglio chiarite “difficoltà pratiche di compilazione delle schede da parre di alcune tipologie di uffici” stabiliva di "…di sospendere, allo stato, la previsione contenuta nel Capo XIV comma 4 della Circolare consiliare relativa ai “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati” (la n. 20691/2007)limitatamente al profilo della trasmissione al CSM delle nuove schede statistiche".
Si è rinunciato in un attimo e sine die ad avvalersi del sistema che lo stesso CSM aveva realizzato ed approvato,costato molto lavoro, fatica e denaro, imposto da una noma di legge - art. 11 del D.lgs n. 160 come riformulato dalla L. 111 del 2007 - rimasta ancora inottemperata.
5. Le prospettive
La ricognizione di quanto già predisposto, le potenzialità dello strumento messo in opera , ma guardato con sospetto, imposto senza spiegazioni e dibattiti, visto con malcelata ostilità e troppo presto inevitabilmente abbandonato, impongono di esigere la piena attuazione della legge, elidendo gli aspetti critici manifestati dal primo collaudo ovvero:
- che il sistema sia completato, aggiornato ed affinato, avvalendosi dell’esperimento sul campo, del confronto con gli utenti qualificati del sistema di valutazione (i magistrati, i Consigli Giudiziari); diffondendo il più possibile la conoscenza delle schede di valutazione già utilizzate per il “collaudo”, del sistema che le produce, dei dati dai quali attingono;
- si semplifichino le schede del settore civile, ricche di dati significativi ma eccessivamente farraginose, rendendone agevole ed immediata la lettura come per le schede di valutazione del giudice del lavoro, che si sono rivelate di immediata comprensione per tutti i magistrati, laddove ne sia stata possibile una breve illustrazione ai destinatari;
- si proceda a riconsiderare il lavoro sui settori che sono stati completati (Procure), manifestando al collaudo sensibili, criticità, rettificando la ricerca dei dati e reperendo dati più significativi del lavoro dell’inquirente;
- si completino ed implementino i lavori di accertamento dei dati di base e degli standards nei settori che fino al 2014 non hanno dato risultati apprezzabili, avvalendosi anche della maggiore informatizzazione anche per questi ormai raggiunta (giudicanti penali, giudici minorili);
- si estenda l’indagine al lavoro dei magistrati della Corte di Appello e della Corte di Cassazione, ai settori in primo grado fino ad ora non oggetto di indagine (giudici fallimentari, etc.).
Tutto ciò a beneficio di una valutazione di professionalità dovuta per legge, che sia ancorata a dati oggettivi, che offra validi e fino ad oggi inediti elementi per accertare il buon operare del magistrato ; e che contestualizzi il suo operato , alzando lo sguardo dal limitato campo di azione di questo e lo collochi nel contesto operativo di appartenenza, consentendo di valutare anche le capacità di coloro cui è affidata la gestione delle sezioni, dei gruppi di lavoro, degli uffici.
Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo.
di Alessandro Palmigiano
Sommario:1. Premessa. 2.La disciplina in materia di voucher prevista dal c.d. decreto “Cura Italia”. I contrasti con la normativa comunitaria. 3. Il rimedio interno per la risoluzione del conflitto.
1.Premessa
Dopo la dichiarazione del 11 marzo 2020, con cui l'Organizzazione mondiale della sanità ha definito il Covid-19 una pandemia, diverse sono state le conseguenze sugli spostamenti nazionali ed internazionali.
La pandemia di Covid-19, infatti, e le conseguenti restrizioni governative dovute alla crisi sanitaria in corso, ha determinato un ampio numero di cancellazioni delle prenotazioni nel settore dei trasporti, con gravissime ripercussioni sui vettori e sui tour operator. Alla stesso tempo gravi conseguenze si sono registrate a livello sociale, con un inevitabile calo della produzione interna e dei redditi medi delle popolazioni degli Stati.
E’ necessario, pertanto, affrontare la tematica mediante un bilanciamento necessario tra la tutela del diritto dei consumatori e la tutela degli interessi economici delle società operatrici nel settore.
Con l’approvazione dell’art. 88-bis del cosiddetto decreto Cura Italia (legge 17 marzo 2020 n.18 convertito con modifiche dalla legge n.27/2020), sono state adottate dal governo italiano specifiche disposizioni relative all’erogazione dei rimborsi e dei voucher in caso di cancellazione.
2.La disciplina in materia di voucher prevista dal c.d. decreto “Cura Italia”. I contrasti con la normativa comunitaria.
In primo luogo, occorre prendere le mosse dalla normativa d’emergenza di cui all’art 88-bis del cosiddetto decreto Cura Italia (legge 17 marzo 2020 n.18, convertito con modifiche dalla legge n.27/2020).
In merito, infatti, il punto 12 della predetta disposizione prevede che l’emissione unilaterale di un voucher da parte della Compagnia sia, in tutte le ipotesi di cancellazione previste dalla norma, integralmente sostitutivo del diritto di rimborso del passeggero: “ […] 12. L'emissione dei voucher previsti dal presente articolo assolve i correlativi obblighi di rimborso e non richiede alcuna forma di accettazione da parte del destinatario.” La norma, quindi, ha di fatto rimesso il rimborso del prezzo del biglietto acquistato da parte del passeggero, o l’alternativa emissione di un voucher, ad una scelta unilaterale e meramente discrezionale delle Compagnie, senza alcuna forma di accettazione da parte del consumatore. Successivamente all’emanazione del predetto provvedimento le Compagnie hanno – nella quasi totalità di casi – emesso esclusivamente voucher a seguito delle cancellazioni, rigettando qualsiasi richiesta di rimborso del prezzo inoltrata dai consumatori.
La disposizione normativa di cui all’art 88-bis del decreto Cura Italia sopra evidenziata presenta diversi profili di criticità, soprattutto in considerazione delle evidenti antinomie con le disposizioni comunitarie di settore.
L’art. 88-bis, infatti, si pone in manifesto contrasto con la vigente normativa europea di cui all’art. 8 del regolamento (CE) n. 261/2004, richiamato dall’art. 5 dello stesso, che, nel caso di cancellazione per circostanze inevitabili e straordinarie, prevede il diritto del consumatore ad ottenere un rimborso: “Quando è fatto riferimento al presente articolo, al passeggero è offerta la scelta tra:a) - il rimborso entro sette giorni, secondo quanto previsto nell'articolo 7, paragrafo 3, del prezzo pieno del biglietto, allo stesso prezzo al quale è stato acquistato, per la o le parti di viaggio non effettuate e per la o le parti di viaggio già effettuate se il volo in questione è divenuto inutile rispetto al programma di viaggio iniziale del passeggero, nonché, se del caso:- un volo di ritorno verso il punto di partenza iniziale, non appena possibile; o c) l'imbarco su un volo alternativo verso la destinazione finale, in condizioni di trasporto comparabili, ad una data successiva di suo gradimento, a seconda delle disponibilità di posti. […]”. Le disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 261/2004, quindi, prevedono una significativa forma di tutela in favore del consumatore, rimettendo a quest’ultimo (e non ai vettori) la scelta tra il rimborso del prezzo pieno del biglietto o, in alternativa, l’imbarco futuro su un volo alternativo garantito dalla Compagnia (quindi l’emissione di un voucher). Si tratta di un favor nei confronti del contraente debole del tutto contrastante con il citato art. 88-bis in cui, invece, il vettore può, in via del tutto discrezionale, negare unilateralmente il diritto di rimborso al passeggero, imponendo a quest’ultimo un voucher sostitutivo. La norma, occorre altresì precisare, si ritiene applicabile in forza dell’art. 3 del Regolamento sia nei voli intra UE sia in quelli extra UE, con partenza dal territorio di uno stato membro: “1. Il presente regolamento si applica: a) ai passeggeri in partenza da un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro soggetto alle disposizioni del trattato; […]”.
La disposizione europea è chiara e non sembra in alcun modo derogabile a causa della pandemia, come risulta confermato, peraltro, da due ulteriori significativi atti della Commissione Europea, emanati in questa direzione e che è necessario analizzare al fine di una comprensione complessiva della problematica, ovvero la Comunicazione della Commissione Europea relativi agli “Orientamenti interpretativi relativi ai regolamenti UE sui diritti dei passeggeri nel contesto dell'evolversi della situazione connessa al Covid-19” del 18 marzo 2020 e la Raccomandazione del 13 maggio 2020.
La Comunicazione della Commissione Europea del 18 marzo 2020 C(2020) veniva emanata poco dopo l’inizio della crisi sanitaria, al fine di: “[…] chiarire le modalità di applicazione di alcune disposizioni della legislazione UE sui diritti dei passeggeri nel contesto dell'epidemia di Covid-19, in particolare per quanto riguarda le cancellazioni e i ritardi.”.
Con la predetta Comunicazione, la Commissione chiariva sin da subito l’insindacabile facoltà di scelta in capo al consumatore tra rimborso e voucher, indipendentemente dalla causa, affermando che: “In caso di cancellazione di un volo da parte delle compagnie aeree (indipendentemente dalla causa), l'articolo 5 impone al vettore aereo operativo di offrire al passeggero la scelta tra: a) il rimborso, 4 b) l'imbarco su un volo alternativo non appena possibile, o c) l'imbarco su un volo alternativo ad una data successiva di suo gradimento.”.
Successivamente, con la Raccomandazione del 13 maggio 2020 C(2020) relativa ai “buoni offerti a passeggeri e viaggiatori come alternativa al rimborso per pacchetti turistici e servizi di trasporto annullati nel contesto della pandemia di Covid-19”, la Commissione non solo ribadiva la facoltà di scelta, ma ipotizzava anche una forma di aiuto statale al fine di garantire pienamente il diritto di rimborso dei passeggeri in caso di fallimento del vettore: “Infine, gli Stati membri possono decidere, a seguito del fallimento di un vettore o di un organizzatore, di soddisfare le richieste di rimborso presentate dai passeggeri o dai viaggiatori. La copertura delle richieste di rimborso andrebbe a esclusivo vantaggio dei passeggeri e dei viaggiatori e non delle imprese. Pertanto non costituirebbe un aiuto di Stato e può quindi essere attuata dagli Stati membri senza previa approvazione della Commissione.”.
Sulla scia della sopra citata Raccomandazione della Commissione, infine, si è altresì espressa l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la quale, con segnalazione del 28 maggio 2020, ha evidenziato che l’art. 88-bis si pone in contrasto con la vigente normativa europea, che nel caso di cancellazione per circostanze inevitabili e straordinarie, prevede il diritto del consumatore ad ottenere un rimborso, specificando a fronte del permanere del descritto conflitto tra normativa nazionale ed europea, interverrà per assicurare la corretta applicazione delle disposizioni di fonte comunitaria disapplicando la normativa nazionale con esse contrastanti.
3. Il rimedio interno per la risoluzione del conflitto.
In ordine al rapporto tra le fonti, il conflitto tra la norma interna di cui all’art 88-bis del cosiddetto decreto Cura Italia e le disposizioni comunitarie del regolamento (CE) n. 261/2004 può risolversi mediante la non applicazione della norma interna in favore di quella comunitaria.
Il diritto euro-unitario prevede - tra le sue fonti di produzione - il regolamento, di cui all’art. 288 Tfue; regolamento che - a dispetto del nomen iuris - presenta un rango super-primario, che risente dell’affermarsi del principio di primazia del diritto dell’Ue e che permette al regolamento di prevalere rispetto alle singole norme delle Costituzioni nazionali, salvi i contro-limiti. L’art. 288 TFUE stabilisce, infatti, che “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”.
Le disposizioni regolamentari, infatti, hanno portata generale e sono immediatamente efficaci nell’ambito di ciascuno degli stati membri senza che sia necessaria un’attività integrativa del singolo Stato.
Pertanto, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la norma di diritto interno confliggente con il regolamento. comunitario.
Del resto, già l’art. 4 n. 3 TUE sanciva a livello comunitario il c.d. principio di leale collaborazione tra gli stati, disponendo che: «gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione». Tale principio, quindi, si sostanzia nel dovere di ciascuno stato membro di fare quanto in suo potere per dare effettiva attuazione al diritto dell’Unione. In tal senso, un ruolo fondamentale per assicurare l’effettiva applicazione del diritto dell'Unione all'interno dei singoli ordinamenti è affidato al giudice nazionale, chiamato a vigilare sull'osservanza del diritto dell’Unione nell'ordinamento giuridico nazionale (cfr. Corte giust. ordinanza 6 dicembre 1990, causa C-2/88, Imm., J.J. Zwartveld e altri).
La cessione di sovranità di ciascuno stato membro dell’Unione, determina in primo luogo la primazia del diritto comunitario sul diritto interno, sancito dalla stessa Corte di Giustizia nella nota pronuncia Costa contro Enel, nella quale si è chiaramente affermato che: « Il trasferimento, effettuato dagli stati a favore dell'ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia. l'art. 177 va quindi applicato, nonostante qualsiasi legge nazionale, tutte le volte che sorga una questione d'interpretazione del trattato» (cfr. Corte giust. 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. E.N.E.L.).
La risoluzione di un’eventuale antinomia tra norma interna e norma comunitaria, quindi, viene risolta dalla stessa giurisprudenza con l’immediata applicazione della norma dell'Unione, nel caso in cui quest’ultima risulti chiara e precisa e incondizionata. Il giudice nazionale, pertanto, è tenuto in tali ipotesi ad applicare il diritto dell’Unione al fine di garantire il rispetto dei diritti che quest’ultimo attribuisce ai singoli cittadini degli stati membri (cfr. Corte giust. 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal).
Non vi è dubbio, quindi, che la norma regolamentare sopra citata prevalga sulla norma interna incompatibile.
Fatte queste doverose premesse sui rapporti tra norma interna e norma comunitaria, occorre entrare nel merito della problematica relativa alla tutela dei consumatori nel settore dei trasporti aerei.
L’intervento normativo di cui all’art. 88-bis della legge di conversione del decreto “Cura Italia”, pur nel comprensibile tentativo di tutelare anche gli operatori del settore dei trasporti dalla crisi economica, si sostanzia in una disciplina evidentemente sbilanciata in favore di questi ultimi, lesiva degli interessi dei consumatori. L’emissione discrezionale di un voucher sostitutivo del diritto di rimborso, senza alcuna preventiva accettazione da parte del consumatore, determina inevitabilmente una restrizione dei diritti allo stesso garantiti da una chiara normativa sovranazionale, il regolamento (CE) n. 261/2004 che, invece, rimette a loro la facoltà di scelte tra voucher o rimborso del prezzo del biglietto. La ratio del legislatore comunitario, quindi, è chiaramente quella di tutelare il passeggero, parte debole del rapporto contrattuale. Si ritiene, pertanto, che il giudice nazionale, in forza dei granitici principi che sanciscono la primazia del diritto comunitario sul diritto interno in caso di contrasto sopra richiamati, ove chiamato a decidere su controversie relative alla tutela dei consumatori nel settore dei trasporti, possa procedere con l’applicazione delle norme di cui al regolamento (CE) n. 261/2004, garantendo il rispetto dei diritti da quest’ultimo riconosciuti nel settore dei trasporti.
Si tratta, in ogni caso, di un’analisi da condurre caso per caso, anche in relazione alle diverse modalità di conclusione del contratto, che potrebbero comportare deroghe alle regole generali.
Resilienza della regolazione per principi e rapida obsolescenza della normativa ipertrofica: brevi considerazioni sul caso Apple di Marco Cappai
Con due decisioni gemelle del 25 settembre 2018, l’Antitrust ha accertato due pratiche commerciali scorrette poste in essere da Apple e Samsung volte, nel loro complesso, a determinare un fenomeno di “obsolescenza programmata” (Provv. nn. 27365 e 27363, nei procedimenti PS11039 – APPLE-AGGIORNAMENTO SOFTWARE e PS11009 - SAMSUNG-AGGIORNAMENTO SOFTWARE). Le imprese hi-tech avrebbero in particolare reso i propri device (iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus e Galaxy Note 4) meno performanti – e in alcuni casi finanche inutilizzabili – ad esito della forzosa installazione, a ridosso della scadenza del termine biennale di garanzia legale, di un aggiornamento del firmware (iOS 10 e 10.1.2 e Android Lollipop e Marshmallow), nel caso di Apple non successivamente disinstallabile (c.d. downgrade). Tanto, senza peraltro aver fornito agli utenti informazioni idonee a metterlo in guardia sui possibili effetti dell’installazione. Le condotte in questione si salderebbero con un’inadeguata gestione delle richieste di assistenza post-vendita avanzate dai medesimi clienti (specie se “fuori garanzia”), i quali, di fronte alla prospettazione di costi di riparazione significativi e alle difficoltà tecniche incontrate, sarebbero stati indotti ad acquistare nuovi device.
Per tali comportamenti, qualificati come pratiche commerciali sia aggressive che ingannevoli (artt. 20, 21, 22 e 24 del Codice del consumo - CdC), l’Autorità ha irrogato una sanzione pecuniaria pari al massimo edittale, per un importo di 5 milioni di euro per ciascuna compagnia.
Nel caso di Apple, l’Autorità ha altresì accertato un’ulteriore pratica, consistente nella mancata e insufficiente informazione circa alcune caratteristiche essenziali delle batterie a litio, qualificandola come fattispecie di omissioni ingannevoli ex art. 22 del CdC e sanzionandola con un’ammenda di pari importo.
Entrambe le compagnie sono state condannate alla sanzione accessoria della pubblicazione di una dichiarazione rettificativa ai sensi dell’art. 27, comma 8 CdC.
In attesa di definizione del giudizio incardinato da Samsung (R.g. n. 15363/2018), lo scorso 29 maggio il TAR Lazio ha definito il giudizio introdotto da Apple, pienamente confermando il provvedimento dell’Antitrust (Sez. I, sent. n. 5736).
La decisione offre l’occasione per riprendere un dibattito avviato con il coraggioso intervento dell’Autorità del 2018, calarlo nel corrente contesto ordinamentale e svolgere alcune considerazioni, sparse, di sistema.
Prima, un breve passo indietro sui fatti.
Come accennato, l’AGCM ha riscontrato che con l’installazione del sistema operativo iOS.10 e 10.1.2 i dispositivi hardware (iPhone 6/6Plus/6s/6sPlus) – pur tecnicamente compatibili con il nuovo sistema operativo – in svariati casi non si sono dimostrati in grado di supportare adeguatamente il nuovo firmware, non solo riguardo all’esecuzione delle nuove funzionalità, ma anche con riferimento all’esecuzione delle funzioni già svolte dal preesistente sistema operativo. In particolare, il primo aggiornamento ha cagionato molteplici spegnimenti improvvisi (unexpected power off – UPOs), dovuti all’incapacità della batteria di fornire il picco di potenza richiesto senza provocare una riduzione al di sotto dei livelli minimi della tensione necessaria per il funzionamento di alcuni componenti elettronici (§ 141, lett. a). Il secondo ha risolto il problema degli UPOs, ma comunque a svantaggio dell’utente, in quanto la via per conseguire tale risultato è stata una tendenziale riduzione delle caratteristiche di velocità e potenza di calcolo dei dispositivi (§ 142, lett. b).
Dette problematiche si sono verificate su un campione significativo di smartphone non nuovi, ma comunque regolarmente funzionanti e in buono stato di conservazione.
La normale usura, propria del fluire del tempo, di componenti elettroniche quali il processore e la batteria non sarebbe stata in altri termini tale, in mancanza dell’aggiornamento firmware, da pregiudicare il funzionamento del dispositivo (§ 123).
La strategia complessiva – osserva l’Antitrust – si connota di elementi di aggressività e di ingannevolezza.
Quanto al primo profilo, il consumatore subisce un indebito condizionamento dal fatto che, in occasione del lancio di un nuovo upgrade, il ventaglio di scelte è limitato alla possibilità di installare subito l’aggiornamento o di rimandare tale azione. Il processo deliberativo del consumatore è in qualche modo accompagnato da un sistema di avvisi e di notifiche di reminder insistente e reiterato (§ 152). Ciò non lascerebbe una reale scelta a coloro che valutassero non opportuno passare alla nuova versione del firmware, di fatto costretti a ripetere a oltranza un’azione di procrastinamento (§ 154). Al contempo, l’installazione, una volta completata, non era neanche reversibile, stante l’impossibilità per il consumatore di effettuare il downgrade (§ 146), circostanza confermata dalla stessa Apple (§ 101).
Quanto al secondo profilo, la condotta si salda a una serie di omissioni informative in merito ai possibili effetti nocivi dell’upgrade in danno degli utenti (§§ 133 ss.). Si tratta di mancanze aggravate dall’innegabile asimmetria informativa sussistente nel rapporto di consumo in questione (§§ 10, 130, 135, 151, 156, 161).
Nonostante sulla carta il nuovo sistema operativo, rilasciato gratuitamente, fosse oggettivamente più avanzato (anche per ragioni di sicurezza e per la prevenzione di bug), l’Autorità ha ritenuto non giustificabile l’unilaterale scelta del professionista tra miglioramento delle prestazioni di sistema e obsolescenza tecnologica del dispositivo fisico (§ 139).
Collante del disegno complessivo dell’azienda sarebbe anche il marcato livello di fidelizzazione della clientela (§ 176), indotta ad acquistare prodotti di Cupertino in virtù della più accentuata interoperabilità dei vari dispositivi e devices a marchio Apple e della natura “chiusa” del sistema operativo proprietario iOS, su cui gli stessi poggiano.
In tale contesto, l’AGCM ha osservato una coincidenza temporale tra il rilascio degli aggiornamenti contestati e il picco delle richieste di assistenza da parte dei possessori dei modelli interessati, non giustificabile – per la sua entità numerica e temporale – con l’usura degli apparecchi (§§ 128-129). A fronte di simili problematiche, riscontrate in prossimità o poco oltre il decorso del termine biennale di garanzia del prodotto, l’Autorità sottolinea come Apple abbia negato l’assistenza gratuita e subordinato la riparazione dei dispositivi a costi eccessivamente elevati rispetto al valore residuo del bene (§§ 144-145).
Conseguentemente, si è incentivato un processo di sostituzione con diversi modelli del medesimo produttore (§ 150).
La decisione del TAR Lazio affronta la complessità della tematica tecnologica sottostante con un approccio concettuale piuttosto snello.
Nel fare ampi richiami, specie in punto di fatto, al provvedimento dell’Antitrust, la pronuncia sembra poggiare su un unico, assorbente, argomento logico.
Essa, in particolare, definisce l’impugnativa di Apple come un ampio e articolato saggio di conoscenze e competenze tecniche, che però non coglie nel segno.
Sono infatti irrilevanti le variegate problematiche tecnologiche che sarebbero alla base dei disservizi e della supposta impossibilità di consentire il downgrade dell’aggiornamento. Ciò che rileva è la circostanza che tali fatti si siano verificati e che, in dipendenza degli stessi, siano pervenute richieste di assistenza e segnalazioni dei consumatori, non adeguatamente gestite da Apple.
Né le omissioni informative sono sanate dall’invito – inserito nell’avviso di aggiornamento del firmware – a visitare la pagina web per maggiori informazioni. In ossequio alla giurisprudenza sul c.d. “primo contatto”, il TAR ribadisce infatti che la completezza e la veridicità di un messaggio promozionale vanno verificate nell’ambito dello stesso contesto di comunicazione commerciale e non già sulla base di ulteriori informazioni che l’operatore commerciale rende disponibili solo in un secondo momento, a effetto promozionale (c.d. aggancio) già avvenuto.
In definitiva – conclude il TAR – “Apple ha costruito un sofisticato sistema, tecnologico e di marketing, che, attraverso informazioni omissive e pratiche aggressive […], condiziona fortemente il consumatore nelle proprie scelte, sotto diversi profili”, quali la “fidelizzazione forzata” degli utenti, “la periodica, frequente e insistente proposizione di aggiornamenti software che, di fatto, una volta scaricati, rallentano e riducono le funzionalità dei modelli di iPhone meno recenti, senza che il possessore ne sia informato o pienamente consapevole”, e “la sostituzione della componentistica […] soltanto presso un centro autorizzato Apple”.
In attesa del giudizio di appello (difficile immaginare che Apple intenda rinunciarvi), alcune brevi considerazioni possono esser svolte sulla vicenda, con l’agilità di chi non ambisce a offrire trattazioni esaustive.
Quello dell’obsolescenza programmata è in effetti un problema tangibile del nostro tempo e presenta molteplici spigolature.
I suoi effetti trascendono il rapporto di consumo e incidono su beni primari come la sostenibilità ambientale, dal momento che l’artificiosa accelerazione del fisiologico ciclo di vita dell’apparato moltiplica il numero di componenti, altamente inquinanti (in primis, le batterie), da smaltire, così menomando l’obiettivo strategico dell’“economia circolare” (Comunicazione della Commissione “Il Green Deal europeo” (COM(2019) 640 final), 11 dicembre 2019, p. 8).
L’angolo visuale, in questo caso, è quello del consumatore.
Da questa prospettiva, i procedimenti avviati contro Apple e Samsung stimolano una serie di riflessioni.
In primo luogo, lo scollamento temporale dei rispettivi giudizi (il secondo, come detto, in attesa di definizione) può deporre a favore di una trattazione maggiormente individuale degli stessi, fatto di per sé non negativo, atteso che la posizione di Samsung potrebbe non essere del tutto apparentabile a quella di Apple, anzitutto per ragioni di fatto.
Apple costituisce una piattaforma integrata di hardware, software e servizi. Trattasi di un soggetto verticalmente integrato, presente a tutti i livelli della filiera, dalla produzione del dispositivo hardware (e dei device interconnessi, come ad esempio i tablet, l’Apple watch e gli air pod), allo sviluppo del sistema operativo (iOS), alla gestione dell’app store, fino allo sviluppo di alcuni software e app (come iTunes e Apple Music). La situazione di Samsung è invece parzialmente diversa, perché nel mercato dei licensable operating systems (L-OSs) il sistema Android, implementato da Google, detiene una posizione dominante e costituisce, anche per un produttore forte come Samsung, un must have. Samsung, pertanto, pur essendo presente in tutti i restanti segmenti della filiera, lo è in modo meno incisivo (si pensi alla differenza di posizionamento competitivo tra l’Apple Store e il Galaxy Store) e, soprattutto, non opera al livello, cruciale, del sistema operativo.
Come evidenzia lo stesso provvedimento reso nei confronti di Samsung, gran parte degli aggiornamenti firmware che, nel caso in esame, hanno reso obsoleto il dispositivo Galaxy Note 4 “originavano da Google” (§ 93). L’argomento – riferito ad Apple – secondo cui “grava sul professionista non soltanto l’onere di individuare dei modelli astrattamente compatibili con un determinato aggiornamento firmware ma, soprattutto, valutare e ponderare l’impatto degli aggiornamenti rilasciati per i dispositivi già in uso, tenendo conto del possibile stato dell’hardware sul quale il medesimo potrà essere installato” (§ 130), non può dunque essere traslato tel quel su Samsung.
In qualche misura, l’Autorità sembra aver ricondotto la responsabilità di questo secondo operatore alla circostanza che esso, nell’ambito dei controlli preventivi che è solito svolgere, unitamente a Google, prima del lancio di un aggiornamento (§ 95), avrebbe potuto e dovuto compiere le “prove di resistenza” dell’hardware al nuovo sistema operativo.
In tale contesto, Samsung potrebbe pur sempre tentare di valorizzare il fatto che – come evidenziato dall’autorità antitrust olandese nell’indagine di mercato sugli App store – i produttori di smartphone soffrono un forte squilibrio contrattuale con Google, detentore del sistema operativo Android, che viene offerto a condizioni contrattuali “prendere o lasciare”, stanti anche le limitazioni tecniche incontrate dai produttori che intendano sviluppare una versione alternativa di Android (c.d. fork) (ACM, Market study into mobile app stores, Case no. ACM/18/032693, 11 aprile 2019, p. 70).
Per altro profilo, il produttore di dispositivi potrebbe venire a trovarsi tra l’incudine e il martello, perché rifiutare l’aggiornamento del firmware potrebbe, per un verso, salvaguardare la meccanica dell’hardware dei propri clienti, ma, per altro verso, renderne obsolete le funzionalità, nella misura in cui la vecchia versione del sistema operativo diventi incompatibile con le nuove generazioni di app, peraltro distribuite in via prevalente attraverso il Play Store di Google, i cui team di supporto tecnico ne indirizzano in qualche modo i parametri.
Va poi considerato che, a differenza di Apple, Samsung ha negato – o, comunque, ha provato a circostanziare – l’impossibilità per l’utente di effettuare il downgrading (§ 97) e, oltretutto, non può contare su una strategia di fidelizzazione della clientela altrettanto forte.
Si tratta di aspetti di fatto che sono già stati attentamente valutati dall’Antitrust e che saranno scrutinati nel contenzioso amministrativo.
Da un punto di vista giuridico, va precisato che ai fatti di causa non si applica, ratione temporis, la disciplina europea recentemente introdotta con il pacchetto “Digital Contracts” (direttive nn. 770 e 771/2020/UE).
Con il nuovo pacchetto, la garanzia legale di conformità – già prevista in Italia e che ora, superando l’approccio di armonizzazione minima della direttiva 1999/44/CE, dovrà essere obbligatoriamente recepita con determinate caratteristiche in tutti gli Stati membri (artt. 4-5 direttiva n. 2019/770/UE) – è stata estesa anche alle componenti digitali dei beni, quando la loro mancanza determinerebbe l’impossibilità di fruire del bene stesso o quando il venditore del bene si impegni contrattualmente a offrire anche un elemento digitale, come di regola avviene per i sistemi operativi degli smartphone (considerando nn. 21 e 22 direttiva n. 2019/770/UE e art. 3, § 3 direttiva n. 2019/771/UE). Quando, invece, il contenuto o servizio digitale è venduto autonomamente, si applica la direttiva sui contenuti e servizi digitali (n. 770/2020/UE), che pure prevede l’obbligo di garantire la conformità del bene o servizio al contratto. In entrambi i casi, rientra nel contenuto naturale della garanzia di conformità fornire gli aggiornamenti che sono stati convenuti nel contratto o che si rendono comunque necessari per la regolare fruizione del contenuto o servizio digitale prestato (considerando n. 44 direttiva n. 2019/770/UE). Apparentemente, l’elemento di maggiore innovatività della recente disciplina risiede nel fatto che aziende come Samsung, che vendono un dispositivo unitamente a un sistema operativo fornito da terzi, saranno chiamate a rispondere, in solido o in via esclusiva, per le azioni compiute da questi ultimi a danno dei consumatori, salvo l’eventuale regresso. Tuttavia, si tratta solo di un’applicazione dei principi generali della materia al mondo digitale, finora sprovvisto di tutele adeguate in vari ordinamenti. L’operazione è più semplice di quanto si pensi: a beneficio della certezza del diritto, si sancisce espressamente che i diritti contrattuali dei consumatori, salvi gli aggiustamenti del caso, valgono anche quando questi acquistano contenuti o servizi digitali.
In ogni caso, la disciplina in via di recepimento avrebbe toccato solo in via tangente i fatti controversi, che sono interamente riferibili a prodotti divenuti obsoleti dopo il periodo di copertura della garanzia legale (pari, in Italia, a due anni) o a ridosso della relativa scadenza.
Condivisibilmente, l’Autorità ha ritenuto che l’art. 132 CdC non può essere interpretato nel senso che, una volta decorso il periodo di copertura, il professionista può, con le proprie azioni, cagionare il deterioramento forzoso di un device ancora regolarmente funzionante.
Non a caso, la base legale dell’accertamento non è la frapposizione di ostacoli non contrattuali all’esercizio di un diritto del consumatore (art. 25, comma 1, lett. d CdC) – visto che, appunto, il diritto alla garanzia legale non viene qui in gioco – bensì la violazione delle regole, più generali, contro la scorrettezza, l’ingannevolezza e l’aggressività (artt. 20, 21, 22 e 24 CdC).
Da qui una prima conclusione.
A prescindere dalle specifiche questioni di fatto poste dal caso concreto (decisive in questa materia, ma solo superficialmente conosciute da chi scrive), all’Autorità va l’indubbio merito di aver affrontato il problema a norme invariate, valendosi delle fattispecie, elastiche, che il Codice del consumo le consegna.
Il dibattito internazionale sull’obsolescenza programmata tradisce un eccesso di specificità e in Francia ha portato, sin dal 2015, all’introduzione di una fattispecie di illecito autonoma, peraltro di natura penale (art. L. 441-2 del Code de la consommation).
Sulla scia di tale esperienza, a luglio 2018 alcuni parlamentari hanno presentato il DDL n. 615, recante “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e altre disposizioni per il contrasto dell’obsolescenza programmata dei beni di consumo”, su cui il Presidente dell’Antitrust è stato audito il 30 luglio 2019. Il DDL si occupa specificamente del tema dell’obsolescenza programmata, proponendo di introdurre una fattispecie tipica di reato, con un doppio binario sanzionatorio (art. 9).
Accanto all’introduzione del divieto per i produttori di “mettere in atto tecniche che possano portare all’obsolescenza programmata dei beni di consumo” (art. 3), il DDL prevede il rafforzamento degli obblighi informativi gravanti sugli stessi, che sono tenuti a indicare in modo chiaramente visibile e leggibile la “durata presumibile del prodotto” (art. 5 DDL) sui prodotti o sulle confezioni dei prodotti destinati ai consumatori.
Se fosse l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ambiente ad assumere una portata preponderante, allora la fattispecie di reato dovrebbe, forse, avere confini più definiti, se non altro restringendone il perimetro oggettivo alle produzioni più inquinanti e con minori indici di riciclabilità.
Se l’obiettivo, in termini di interesse pubblico tutelato, fosse invece quello di proteggere in modo più incisivo i consumatori, specie in ambiente digitale, lo strumento sarebbe, a modesto avviso di chi scrive, inadeguato.
Il punto prescinde dalle possibili criticità penalistiche, colte dalla stessa Antitrust, sollevate dal DDL, quali in primo luogo l’incertezza sugli effettivi destinatari della norma penale (il dettato normativo si riferisce in termini alternativi al produttore “o” al distributore) e la necessità di tener conto del principio del ne bis in idem.
Ciò che preme evidenziare in questa sede è che la vicenda in esame dimostra la duttilità e la resilienza della disciplina, per principi, sulle pratiche commerciali scorrette, permeata dai criteri di imputazione soggettiva dell’illecito amministrativo e di commisurazione dell’ammenda di cui alla legge n. 689/1981.
La suggestione, forse semplicistica, prende le mosse da un problema reale.
Nel rapporto tra diritto e tecnica, quest’ultima si muove – soprattutto con l’avvento della quarta rivoluzione industriale – a un passo esponenzialmente più rapido.
Occorre resistere alla tentazione di inseguire la complessità tecnologica con norme monodimensionali, prive di ampio respiro e magari ricalcate, staticamente, su un episodio di cronaca. Più sono fluide e complesse le dinamiche del mercato, più la risposta ordinamentale dovrà venire dai principi generali.
Il legislatore deve rifuggire l’ipertrofia normativa, così come la scienza amministrativa deve prevenire le moltiplicazioni dei controlli, specie quando tra loro non coordinati e ultra vires.
In questo senso, con l’imminente lancio del 5G è lecito domandarsi quale possa essere la “durata presumibile del prodotto” a fronte di un’economia popolata da dispositivi interconnessi (Internet of Things), in cui il confine tra hardware e software tende a elidersi e la risposta del “prodotto” è il frutto di un complesso dialogo coinvolgente una pluralità di apparati e programmi.
Né appare ragionevole e proporzionato addossare, sempre e comunque, tutte le responsabilità per il malfunzionamento di un dispositivo in capo al venditore del dispositivo fisico, in ragione del più immediato rapporto di prossimità con il consumatore e della fisicità della compravendita, che ha per oggetto un bene tangibile.
Nel caso di specie, ad esito di un’articolata istruttoria, l’AGCM ha individuato Apple e Samsung quali soggetti responsabili della violazione consumeristica. Non è però detto che, in un diverso scenario fattuale, la responsabilità non possa ricadere sul fornitore del sistema operativo, se diverso dal produttore, o su altro soggetto ancora.
La regolazione per principi, in una con una coerente prassi applicativa, armonizzata e coordinata nell’ambito delle reti amministrative europee (CPC, ECN, BEREC, ecc.), resta dunque la strada migliore per il giurista.
Piuttosto che modificare la disciplina sostanziale di riferimento, introducendo norme rapidamente deperibili, poiché tarate su un determinato schema contrattuale e assetto tecnologico (e, dunque, destinate a perdere di utilità non appena quei fattori siano superati dal mercato), la regolazione dovrebbe più opportunamente preoccuparsi del momento applicativo delle norme.
Gli interventi regolatori sono a più voci giudicati intempestivi ed inefficaci, se comparati alla straordinaria rapidità e al significativo dinamismo mostrati dai mercati digitali.
La lex mercatoria si esprime in un linguaggio differente dalla legge sovrana, si frappongono a un compiuto dialogo variabili tecnologiche cui le categorie giuridiche tradizionali fanno talvolta fatica a aderire perfettamente.
Non si tratta, però, di un vuoto di disciplina. Spesso, il problema è nel vocabolario, nella sintassi. E nelle competenze di chi applica le regole, nel know how tecnologico degli enforcer, negli strumenti e nelle risorse di cui essi dispongono.
Prendiamo il contenzioso in rilievo.
Secondo Apple, gli accertamenti compiuti dall’Autorità non sarebbero in grado di corroborare la tesi dell’obsolescenza programmata e, quindi, la responsabilità a carico di Apple. L’intera accusa ruoterebbe intorno a una questione tecnologica di notevole complessità, ma l’AGCM l’avrebbe affrontata senza il supporto di prove di carattere tecnico-scientifico, rinunciando a disporre le perizie del caso.
Questa dinamica, almeno in parte, sembra riconducibile alla consapevolezza dei propri mezzi da parte di Apple e, specularmente, alla volontà dell’Amministrazione di non entrare in un terreno in cui, allo stato, non vi sarebbe partita.
Nel caso di specie – esattamente come avvenuto nel caso europeo Google Shopping (AT.39740) – l’Autorità amministrativa è riuscita a inferire la condotta illecita dalla correlazione tra un cambiamento avvenuto a livello tecnologico (lì, l’implementazione di un nuovo algoritmo di ricerca; qui, il rilascio di un nuovo aggiornamento di sistema) e un fattore esterno, a quella modifica strettamente connesso (lì, la massiva deviazione di traffico, a seguito del lancio del nuovo algoritmo, dai siti di price comparison concorrenti a quelli di Google; qui, le disfunzioni subite dai device dei consumatori immediatamente dopo l’installazione dell’update e l’accresciuto numero di richieste di assistenza e di segnalazioni presentate dai consumatori).
Non sempre, però, la fenomenologia del mondo esterno consente di cogliere l’illecito sottostante con sufficiente precisione. Altre volte, questa operazione potrebbe richiedere anni di sforzi istruttori per dare i propri frutti.
Logico, allora, partire dall’organizzazione e dal modus operandi delle p.A., esplorando attività di vigilanza e di regolazione poggianti, almeno in parte, sulle medesime tecnologie sfruttate dai Big Tech. In parallelo, una politica di reclutamento e di addestramento del personale maggiormente tarata sulle sfide tecnologiche del presente può aiutare a colmare la distanza (Indagine conoscitiva congiunta AGCM-AGCom-Garante privacy sui Big Data, febbraio 2020, raccomandazione n. 4).
Per tutto il resto, salvo sconvolgimenti tettonici, ci sono i principi generali della materia.
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