ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Giustizia da remoto: adelante … con juicio – prima parte-
intervista di Franco De Stefano a Filippo Donati e Giorgio Spangher
L’applicazione intensiva della tecnologia per le attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali incontra più diffidenza e ostilità che favore e apprezzamento.
L’esperienza della pandemia, che sta sconvolgendo consolidati stili di vita e la stessa concezione di rapporti interpersonali, ha inevitabilmente investito anche il mondo del Diritto e quindi la Giustizia.
Nei primi si è scoperto un ruolo assolutamente nuovo delle potenzialità offerte dalla tecnologia e soprattutto dalle capacità di mantenere le interconnessioni tra gli individui, sia pure all’ovvio prezzo della smaterializzazione dei contatti: dal biasimo e dalla riprovazione, dai timori di alienazione o di manipolazione dell’opinione del pubblico indifferenziato di una massa potenzialmente indeterminata di fruitori si è passati alla riscoperta della capacità di stabilire invece efficienti contatti e relazioni nonostante le difficoltà di una fisica contiguità.
Un impatto contraddittorio quella stessa tecnologia pare avere sulla Giustizia …
Giustizia Insieme, consapevole della diversità di approccio da parte degli operatori della Giustizia anche all’interno dell’Avvocatura e della Magistratura, ha messo a confronto sul punto tre professori ed un presidente di tribunale, identificando alcuni temi di discussione. L’intervista ha suscitato appassionate reazioni e, soprattutto, si è imbattuta nella novità del decreto legge del 30 aprile 2020, che è intervenuto pesantemente, in recepimento di un ordine del giorno del Parlamento in sede di conversione del precedente, introducendo una figura di udienza da remoto assai depotenziata.
L’intervista raccoglie, sulle stesse tematiche, prima le risposte dei professori Donati e Spangher e, successivamente, quelle del professore Costantino e del presidente Orlando.
Le domande
1) In linea generale, come giudica l’impiego dei più moderni mezzi tecnologici per l’attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali?
2) Quali i suoi rapporti coi diritti fondamentali della persona e poi coi valori fondanti e con le esigenze concrete del processo civile e del processo penale, tenuto conto della vasta diversificazione degli oggetti e di quella conseguente dei riti già solo all’interno dell’uno e dell’altro?
3) Quali sono i rischi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di sospetto o concreto pericolo di manipolazione delle singole attività, anche solo quanto a genuinità e segretezza ovvero tutela della riservatezza?
4) Quali sono i vantaggi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia?
5) Come giudica l’impiego finora fatto della tecnologia nella gestione della cosiddetta fase uno dell’emergenza sanitaria?
6) Quali le prospettive dei mezzi offerti dalla tecnologia in tema di prestazioni di attività da remoto come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime anche del processo civile e penale, per la fase della ripartenza e dei nuovi assetti sociali, caratterizzati comunque da una radicale trasformazione dell’esistente?
7) Quali misure pensa sia opportuno sollecitare al Legislatore o al Ministro o al Consiglio Superiore della Magistratura?
Prima parte – professor Filippo Donati e professor Giorgio Spangher
1) In linea generale, come giudica l’impiego dei più moderni mezzi tecnologici per l’attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali?
Donati: Sicuramente positiva è stata l’esperienza del processo telematico, da tempo operante nel campo civile e amministrativo. L’impiego dei collegamenti telematici permette oggi di effettuare depositi e accessi ad atti e documenti senza più bisogno, come in passato, di recarsi materialmente nelle cancellerie. Il processo telematico consente inoltre a avvocati, magistrati, personale amministrativo, tecnici di parte e consulenti d’ufficio di scambiare in tempo reale e senza costi di atti e documenti rilevanti, con evidente beneficio in termini di economicità ed efficienza nella gestione del processo.
I nuovi strumenti tecnologici per la partecipazione da remoto alle attività giudiziarie si prestano, peraltro, anche ad altri usi.
La eccessiva durata dei processi, com’è noto, scoraggia gli investimenti, ostacola lo sviluppo economico, impedisce di tutelare in maniera adeguata i diritti delle persone. È per tale motivo che Richard Susskind, nel suo recente libro sul futuro della giustizia, sostiene la necessità di passare, nel settore civile, a Tribunali interamente online cui devolvere le controversie di minor valore. È questa, tuttavia, una prospettiva per noi inaccettabile. Le ragioni dell’efficienza non possono prevalere sulla necessità di garantire in maniera effettiva i principi costituzionali del giusto processo, indipendentemente dal valore della causa.
Soltanto con la partecipazione fisica delle parti e dei difensori si può realizzare un contraddittorio effettivo e una tutela piena del diritto di difesa. Ciò è particolarmente evidente per il processo penale, dove sono in gioco la libertà personale, la sicurezza dei consociati e i diritti delle vittime dei reati. Ma analoghe considerazioni valgono anche per gli altri processi.
Per tale motivo ha fatto molto discutere l’introduzione, ad opera della legislazione emergenziale, delle cosiddette udienze online. A mio avviso, la superiore necessità di impedire la diffusione del contagio può, eccezionalmente e transitoriamente, giustificare misure per ridurre al minimo le forme di contatto personale all’interno dei palazzi di giustizia, tra cui l’obbligo di partecipazione da remoto alle udienze. La garanzia piena del diritto di difesa, però, può subire solo limitazioni che siano giustificate dall’esigenza di tutelare il supremo diritto alla salute e che risultino proporzionate rispetto a tale obiettivo.
Se, nel periodo dell’emergenza sanitaria, la partecipazione da remoto può essere ammessa, nella misura in cui sia effettivamente necessaria a tutelare il fondamentale diritto alla salute, una volta passata questa fase si dovrà tornare all’udienza fisica.
Alla regola della presenza personale in udienza si potrebbero ammettere, tuttavia, alcune eccezioni, nella misura in cui le stesse non comportino una limitazione del contraddittorio ed una attenuazione dei principi del giusto processo.
Affronterò il punto nella risposta alla quarta domanda.
Spangher: Giudico positivamente il ricorso a mezzi da remote per l’attività di cancelleria, di deposito e accesso agli atti, come indicato da ultimo nella riforma delle intercettazioni. Anche se la tecnica, come emerge anche da alcune trasmissioni televisive di informazione che hanno raggiunto un livello di perfezione notevole, mentre altre evidenziano i limiti che l’attività giudiziaria da remoto attualmente manifesta, ritengo che il processo abbia una sua sacralità che va conservata. Nel processo penale si tratta di libertà della persona. Accusa e difesa non sono titolari di diritti e poteri analoghi. Il contraddittorio non può essere virtuale.
Per capire di cosa parliamo bisogna leggere l’art. 146 disp. att. che disciplina l’aula di udienza dibattimentale. Non è una norma di arredamento ma rappresenta l’essenza del processo.
Anche io faccio lezioni, esami e tesi in via telematica, da remoto. Non è la stessa cosa dell’attività in presenza. Potrei dilungarmi sulle differenze. Per il processo penale mi riconosco in quello che ha scritto Borgna, che condivido pienamente.
2) Quali i suoi rapporti coi diritti fondamentali della persona e poi coi valori fondanti e con le esigenze concrete del processo civile e del processo penale, tenuto conto della vasta diversificazione degli oggetti e di quella conseguente dei riti già solo all’interno dell’uno e dell’altro?
3) Quali sono i rischi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di sospetto o concreto pericolo di manipolazione delle singole attività, anche solo quanto a genuinità e segretezza ovvero tutela della riservatezza?
4) Quali sono i vantaggi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia?
Donati: La domanda sollecita una riflessione sui vantaggi e sui rischi della partecipazione da remoto all’attività processuale.
Partiamo dai rischi.
Il primo, il più grave, riguarda la possibile limitazione dei principi costituzionali del giusto processo. Questo rischio va assolutamente evitato, come ho indicato nella risposta alla domanda precedente. Per questo motivo non è, a mio avviso, possibile estendere le udienze online alla fase post emergenziale.
Vi è poi il problema della riservatezza e del controllo dei dati personali.
La questione si pone innanzi tutto per le udienze online, previste dalla disciplina emergenziale. È pur vero che per le udienze vale, di norma, il principio di pubblicità. Tuttavia, ogni forma di trattamento dei dati deve avvenire nel rispetto delle regole sancite dal regolamento generale sulla protezione dei dati personali e dei provvedimenti adottati dall’autorità di settore. Di qui l’esigenza assicurare il rispetto di tali regole da parte dei gestori delle piattaforme telematiche impiegate per la partecipazione da remoto alle udienze.
Il problema della riservatezza è stato sollevato anche con riguardo alle camere di consiglio “virtuali”. Il collegamento da remoto, si è detto, non garantisce la segretezza della camera di consiglio. È tuttavia possibile replicare che, ad oggi, le sempre più sofisticate tecniche di intercettazione ambientale non mettono al sicuro neppure le camere di consiglio “fisiche”. Spetta comunque al Ministero della giustizia verificare che le soluzioni tecniche per i collegamenti telematici offrano un adeguato livello di sicurezza.
Spangher: Quanto ai rischi, sono questioni sicuramente possibili, personalmente mi preoccupano di meno. Una volta evidenziate sono suscettibili di essere tecnicamente superate, anche attraverso l’attività delle varie Autority. Si può anche dire che la tracciabilità delle attività è una garanzia. Se poi qualcuno vuole manipolare, non ci sono limiti all’attività illecita.
Quanto ai vantaggi, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia, si tratta del dato sicuramente di maggior rilievo. La macchina giudiziaria, soprattutto nella parte amministrativa va sburocratizzata e l’informatizzazione può contribuire significativamente. Lo si vede in tanti aspetti, già ora, legati all’informatizzazione.
5) Come giudica l’impiego finora fatto della tecnologia nella gestione della cosiddetta fase uno dell’emergenza sanitaria?
Donati: Non è possibile, oggi, dare una risposta attendibile alla domanda.
Occorrerà attendere la fine del periodo emergenziale e valutare l’esperienza complessivamente maturata.
Spangher: Negativamente il processo da remoto (v. risposta 1), esclusa l’attività urgente con scansioni temporali suscettibili di determinare la perdita di efficacia dei provvedimenti; positivamente relativamente all’attività di cancelleria, al deposito degli atti, istanze, richieste. Resto contrario al direttissimo conseguente alla convalida, anche se giustificato dall’accesso all’abbreviato e al patteggiamento. Giudico molto negativamente l’attività probatoria e la discussione dibattimentale che dovrebbe subire una prossima modifica normativa, giusto l’o.d.g. approvato alla Camera dei deputati.
6) Quali le prospettive dei mezzi offerti dalla tecnologia in tema di prestazioni di attività da remoto come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime anche del processo civile e penale, per la fase della ripartenza e dei nuovi assetti sociali, caratterizzati comunque da una radicale trasformazione dell’esistente?
Donati: Ogni crisi deve però essere guardata non solo per i danni e le sofferenze che arreca, ma anche per le nuove opportunità che può aprire. Occorre quindi capire quanto l’esperienza di oggi potrà servire al futuro.
Ritengo che la fase dell’emergenza non possa giustificare l’avvio di un percorso volto a imporre la partecipazione in via telematica alle udienze. Il nostro sistema giudiziario, tuttavia, non può rinunciare ad avvalersi, per il futuro, dei nuovi strumenti messi a disposizione dal progresso della tecnologia. Entro certi limiti, infatti, il loro impiego potrebbe contribuire a un miglioramento complessivo della qualità e dell’efficienza della nostra giustizia.
Spangher: Rafforzare l’uso informatico relativamente alle attività del p.m., della p.g. e del giudice che non riguardino le parti private; estendere l’informatizzazione ai lavori di cancelleria; consentire alla difesa lo svolgimento delle attività di cancelleria, di deposito atti, anche di impugnazione, di istanze e di richieste.
7) Quali misure pensa sia opportuno sollecitare al Legislatore o al Ministro o al Consiglio Superiore della Magistratura?
Donati: Per alcune ipotesi, la previsione di forme di partecipazione da remoto all’attività processuale potrebbe risultare ragionevole e compatibile con l’esigenza di garantire i principi del giusto processo.
Di ciò potrebbe tenere conto il legislatore, quando sarà chiamato a valutare se, ed in che modo, estendere alla fase post emergenziale le novità introdotte, in via temporanea, per limitare la diffusione dell’epidemia.
La partecipazione fisica all’udienza non sempre appare indispensabile. Per alcuni reati minori, ad esempio, spesso la vittima è chiamata a comparire in udienza soltanto per confermare il fatto. In casi come questi, se l’interessato vive o lavora lontano dal luogo di svolgimento del processo, il giudice, sentiti i difensori, ben potrebbe autorizzarne il collegamento da luoghi in cui sia possibile garantire la sua identificazione e l’assenza di condizionamenti esterni (una sede consolare o una stazione di polizia giudiziaria, ad esempio).
Non ci sono poi ragioni per impedire al difensore, che non possa o non ritenga necessario partecipare all’udienza, di chiedere la partecipazione da remoto. Analoga possibilità potrebbe valere per i consulenti. Il giudice, sentiti i difensori delle parti, potrebbe permettere la partecipazione da remoto quando, ad esempio, si tratti soltanto di effettuare il conferimento dell’incarico.
Al giudice potrebbe inoltre essere lasciato il compito di valutare, sentiti i difensori delle parti, se accogliere una eventuale richiesta dell’imputato di partecipare all’udienza da remoto, pur non versandosi in uno dei casi previsti dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. Analoga possibilità potrebbe essere concessa per le parti del processo civile quando il giudice, sentiti i difensori delle parti, in considerazione dell’età o delle condizioni di salute o di altre circostanze, ritenga giustificato il collegamento da remoto.
Non sarebbe poi irragionevole permettere lo svolgimento dell’udienza in via telematica laddove tutti i partecipanti fossero d’accordo.
Nessun ostacolo parrebbe infine sussistere per la partecipazione in via telematica alle camere di consiglio. Sul problema della segretezza già si è detto. È stato osservato che la camera “virtuale” impedirebbe una effettiva collegialità. Neppure la camera di consiglio “fisica”, però, può escludere che, in singoli casi, di fatto la proposta del relatore finisca per essere accolta senza particolare discussione. La collegialità, in sostanza, può e deve essere garantita indipendentemente dal carattere, fisico oppure online, della camera di consiglio.
Spetterà infine al legislatore valutare se, nel processo civile di merito, estendere anche alla fase post-emergenziale le udienze “figurate”, in cui le parti possono scambiare memorie scritte, senza discussione orale. Si tratta di un istituto già sperimentato da tempo, con successo, nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo art. 380 bis c.p.c., introdotto dall’art. 1-bis del d.l. n. 168 del 2016. Non vi è dubbio che il giudizio di legittimità è assai diverso da quello di merito. Qui l’udienza assume un ruolo centrale per consentire che la ricostruzione del fatto e l’inquadramento giuridico dello stesso avvengano nel pieno contraddittorio tra le parti e con la massima garanzia del diritto di difesa. Non sono però infrequenti i casi nei quali i difensori partecipano alle udienze in maniera formale, limitandosi a richiamare i propri scritti difensivi. Si potrebbe quindi consentire al Giudice la possibilità di proporre, d’ufficio o su istanza di parte, che un’udienza si svolga in modo “figurato”, salva però la facoltà delle parti di chiederne lo svolgimento effettivo. In questa prospettiva si è del resto mosso il Consiglio di Stato (Sezione VI, ordinanza n. 2359 del 21 aprile 2020) che, in una recentissima decisione, assunta in una camera di consiglio virtuale, ha ritenuto l’udienza meramente cartolare non possa essere imposta, in mancanza di consenso tra le parti.
Al Ministero si può chiedere, innanzi tutto, di garantire l’adeguatezza delle soluzioni tecniche previste per i collegamenti da remoto, con riguardo alla sicurezza, al rispetto della disciplina sul trattamento dei dati personali e alla qualità delle comunicazioni, nonchè l’adeguatezza delle risorse per i giudici e gli ausiliari di giustizia, a partire dalla dotazione di computer portatili. Sempre al Ministero si dovrebbe chiedere di promuovere il completamento del processo telematico, estendendolo anche al processo penale, al giudizio di cassazione e ai procedimenti davanti ai giudici di pace.
Il CSM ha approvato le “linee guida agli Uffici giudiziari in ordine all’emergenza Covid-19”, volte a fornire indicazioni agli uffici giudiziari, di carattere non vincolante, per l’attuazione della nuova disciplina emergenziale. Una volta terminata la fase emergenziale, al CSM spetterà, nell’ambito delle proprie competenze, accompagnare e favorire la ripresa della normale attività giudiziaria.
Spangher: Si potrebbero rafforzare le interlocuzioni tra le parti, anche tra difesa e p.m.. Escluderei ogni attività di merito e probatoria. In ogni caso sarebbe necessario l’intervento del Legislatore. Il Ministero potrebbe istituire una Commissione per analizzare i problemi, con la partecipazione delle parti, oltre ad accelerare i lavori di quelle tecniche esistenti.
Il C.S.M. potrebbe dedicare approfondimenti a queste tematiche sia nelle Commissioni, sia sollecitando l’attività della Scuola superiore.
Fine prima parte
L’organizzazione della Giustizia nell’emergenza pandemica. Fase 2
Intervista di Paola Filippi a Barbara Fabbrini
Sommario: 1.Introduzione - 2 Le domande - 3. Le risposte - 4. Conclusioni.
1.Introduzione
“Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie”, questa è la definizione di pandemia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute.
L’11 marzo 2020 l’epidemia da coronavirus è stata ufficialmente dichiarata pandemia, il virus si è diffuso in tutto il pianeta, si salva solo l’Antartide.
I decessi accertati come causati dal Covid 19 sono 277.708 nel mondo, di questi 30.739 sono italiani: l’Italia è la nazione con la più alta percentuale di morti dopo la Spagna, mentre la Lombardia è la regione del mondo in assoluto più colpita (dati del bollettino delle 18,00 del 11 maggio 2020).
Il mondo si è dovuto riorganizzare, la herd imunity vaticinata da Boris Johnson è un'utopia: il Regno Unito con le sue 31.600 vittime ha registato più decessi dell'Italia (sebbene su una popolazione più ampia) e potrebbe uscire dalla pandemia con una mortalità più elevata dell’Italia.
In Italia, primo paese in Europa attaccato dal virus, il lockdown è iniziato il 12 marzo. Nonostante ciò, si continua a contare un quotidiano aumento del numero dei decessi, (allo stato, attestato ai livelli di metà marzo) e il numero dei contagi non è ancora sceso a zero. In regioni quali la Lombardia e il Piemonte il numero quotidiano dei contagi fatica a scendere.
Tutti i paesi del mondo hanno riorganizzato la vita nel periodo di lockdown, ed hanno selezionato l’essenziale e il voluttuario nel distanziamento sociale e nella relegazione, dando impulso al remoto e al processo di digitalizzazione.
Nel difficile bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto al processo giusto e di ragionevole durata sono stati garantiti i servizi essenziali.
Con l’emergenza ci si è resi conto degli effetti dei mancati investimenti in vari settori pubblici, primo fra tutti certamente nel settore sanitario, ma anche nel settore giustizia. Il ritardo nella modernizzazione, il ritardo nella digitalizzazione del servizio, in taluni settori è più elevato che in altri, in quello penale più di quello civile. In taluni uffici più di altri, la Cassazione nel settore penale é rimasta incredibilmente indietro.
In questo contesto il Ministero della Giustizia e, in particolare, il Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, ha affrontato il lockdown: la fase 1 che si è appena conclusa. Fondamentale é stata in questo contesto l’attività svolta dalla magistrata che dirige il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria: Barbara Fabbrini, la quale alla fine di febbraio si è trovata ad affrontare un’emergenza senza precedenti nella gestione organizzativa del settore giustizia e che grazie alla sua esperienza e la sua determinazione è riuscita ad affrontare, con ottimi risultati, quello che lei stessa ha definito "il tornado" che ha travolto il settore giustizia.
2. Le Domande
1. Quali sono state le questioni organizzative e i problemi che il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria si è trovata ad affrontare dal 23 febbraio 2020?
2. Quali sono state in grandi linee le direttive impartite?
3.Quale era lo stato della digitalizzazione avviata anteriormente all’emergenza COVID-19?
4.Quali sono le maggiori criticità connesse allo smart working con riguardo al personale amministrativo?
5.Quali sono stati i risultati raggiunti?
6. Gli Uffici giudiziari in Italia sono inseriti in realtà geografiche differenti, con diverse modalità di gestione e organizzazione delle risorse modalità che risentono spesso delle diverse capacità organizzative dei dirigenti, a queste si aggiunge una diversa situazione sanitaria in termini di pericolo di contagio, quali sono sotto questo profilo le problematiche che hanno reso più difficile l’organizzazione?
7. Il 1 maggio 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha dichiarato che "La pandemia da Covid-19 rimane un'emergenza di sanità pubblica a livello internazionale", il 4 maggio inizia la fase due, il diverso numero dei contagiati nelle diverse regioni d’Italia da l’idea che occorre attuare un’organizzazione diversa sul territorio nazionale per assicurare una cura individuale del distanziamento, quali sono le linee direttive che dal dipartimento avete adottato o adotterete?
8. Cosa rimarrà come dote strutturale degli uffici giudiziari dell’organizzazione adottata nella fase 1 e che sarà adottata nella fase 2?
3. Le risposte
1. Quali sono state le questioni organizzative e i problemi che il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria si è trovata ad affrontare dal 23 febbraio 2020?
Barbara Fabbrini: L’emergenza sanitaria ci ha investito con la potenza di un tornado e all’inizio ci ha stordito.
Il Dipartimento e uffici giudiziari si sono trovati, nella fase inziale, a dovere superare difficoltà impensabili; mancavano proprio i parametri di riferimento rispetto ad un’emergenza nazionale, anzi mondiale, di tale portata.
Siamo abituati ad affrontare, anche come Ministero, situazioni emergenziali di altro tipo, quali terremoti, alluvioni, tutti eventi però dove la difficoltà è stata pur sempre contingente, territorialmente e temporalmente, superabili con strumenti rientranti in un quadro normativo e organizzativo noto e già praticato.
Il COVID-19 ha rotto ogni schema di riferimento organizzativo anche nella Giustizia.
Il tema poi del distanziamento sociale, quale misura regina della prevenzione sanitaria, contrasta con molta parte del lavoro nei nostri uffici, che in modo analogo a quello che avviene per tutta la pubblica amministrazione, è impostato invece sul “contatto sociale” tra i vari operatori.
Tutto ciò è stato scardinato dall’irrompere del fenomeno pandemico che è entrato anche nella vita degli uffici.
Non avevamo una cornice quadro di riferimento organizzativo né precedenti che ci potessero orientare nell’azione, ed anche le informazioni inziali erano all’inizio scarse, come ben ci ricordiamo.
Il 23 febbraio ho provveduto ad emanare la prima circolare informativa, con primissime indicazioni di carattere operativo e sanitario, tenendo contestualmente contatti diretti con gli uffici interessati. Ricordo come fosse ora che dopo le prime telefonate agli uffici lombardi e la prima riunione presso la protezione civile. Ebbi la chiara sensazione che ci trovavamo difronte a qualcosa di assolutamente inedito e che occorreva rallentare l’attività ordinaria del Dipartimento per dirigerla velocemente sulla gestione dell’emergenza.
All’epoca il Lazio e tutti i territori diversi dalla Lombardia e del Veneto non erano coinvolti nell’epidemia e la percezione che il resto dell’Italia aveva era ben diversa dalla consapevolezza raggiunta oggi.
La prima e più grave difficoltà incontrata è stata proprio quella di offrire un quadro di riferimento di prevenzione sanitaria per l’epidemia, un contesto del tutto nuovo per gli uffici. Non si trattava di fornire direttive in tema di prevenzione della salute dei nostri lavoratori, qui si dovevano dare indicazioni su come prevenire il contagio da una pandemia anche in luoghi di lavoro quali i nostri uffici giudiziari.
Difficile poi è stato comprendere con rapidità il contesto istituzionale di riferimento.
Voglio dire che il Ministero della giustizia, e il Dipartimento dell’organizzazione in particolare, non ha come interlocutori istituzionali abituali il Ministero della salute e la protezione civile.
Non si può prescindere dalle indicazioni sanitarie e dalle competenze del Ministero della Salute e delle Regioni in questa vicenda, le prescrizioni sanitarie hanno conformato le modalità organizzative degli uffici per la fase uno, e questo intreccio di competenze sarà un filo rosso che vedremo percorrerà anche la fase due.
In tale contesto, essere stati immediatamente inseriti, già da fine febbraio, nel tavolo di coordinamento della protezione civile su cui sedeva Salute e il comitato scientifico, è stato fondamentale per presidiare al meglio le criticità territoriali, per avere noi informazioni in tema di protocolli sanitari da tenere, per comprendere come orientarci sugli acquisti, sulle procedure di sanificazioni. Tutte informazioni che riversavamo poi in periferia.
In tale contesto infatti, ad esempio il Commissario straordinario ci ha sin da subito abilitato a procedere con gli acquisti in via prioritaria dopo Sanità e le forze dell’ordine, e pur con molti problemi all’inizio del percorso. Ora gli uffici hanno gli strumenti e i protocolli di acquisto collaudati per la fornitura di materiale igienizzante, dispositivi di protezione personale ed quanto altro necessario per la fase dopo il 12 maggio.
Ben presto si è palesata poi la necessità di creare un quadro di riferimento normativo per la fase di emergenza che ha portato, come noto, al decreto-legge 8 marzo 2020, n. 11 e poi al decreto-legge 17 marzo 2020, n.18. Un quadro normativo che ha individuato due fasi per l’amministrazione della giustizia negli uffici: un primo periodo (dal 9 marzo all’11 maggio) con sospensione di termini e delle attività, mantenendo solo quelle indifferibili ed urgenti; una seconda fase, quella che tra poco si aprirà a partire dal 12 maggio, nella quale i Capi dell’ufficio possono riattivare le attività giudiziarie, tramite linee guida, con l’adozione di un ventaglio di soluzioni processuali e organizzative, delineate da tale articolato e con misure organizzative da altre che abbiamo indicato noi come Dipartimento in questo periodo.
2. Quali sono state in grandi linee le direttive impartite?
Barbara Fabbrini: Tante le indicazioni contenute in circolari che hanno tracciato il ritmo della fase uno per gli uffici dal 23 febbraio sino a pochi gironi fa.
Francamente credo però che prima del contenuto delle direttive e circolari, ancora più si è rivelata fondamentale la modalità trovata per offrire informazioni rapidi ed efficaci agli uffici.
Un contesto, quale quello che ci siamo trovati ad affrontare, nel quale l’emergenza pandemica mutava e si evolveva di giorno in giorno, con grandi diversità territoriali, specie nella fase inziale, richiedeva qualcosa di ulteriore e di diverso rispetto alle circolari istituzionali, certamente doverose ma che risentono inevitabilmente di lentezza e burocratizzazione.
Il Dipartimento ha pensato quindi, sin dalla prima settimana di emergenza, di creare due canali informativi, con modalità magari meno “ortodosse”, ma indubbiamente più efficaci delle circolari:
-una chat di colloquio con i vertici dei vari distretti;
-una serie di call conference settimanali, a tema, partecipate dai Capi degli uffici di vertice distrettuale, dai dirigenti amministrativi e dai Presidenti COA ove ritenuto opportuno.
Sono questi gli strumenti che ci hanno permesso di informare con velocità dirigenza e vertici degli uffici. Le circolari, le direttive sono arrivate sempre all’esito della call, si sono nutrite insomma del confronto con le reali esigenze dei territori.
La nostra preoccupazione è stata poi anche quella di mettere in contatto gli uffici più in difficoltà per il contesto pandemico con gli altri che invece ancora tale emergenza non vivevano, perché i protocolli sanitari, le misure organizzative, la politica degli acquisti della fase emergenziale, oggi potessero essere uniformi e scattare al momento del bisogno.
Ed il metodo ha funzionato al centro e al sud, nel momento in cui sono emersi casi di positività o altra necessità.
L’istituzione poi di una unità di crisi al Dipartimento con help desk dedicato, è stata utile per gli uffici per segnalazioni varie, e a noi per monitorare ed intervenire dove davvero serviva.
Le direttive impartite nelle circolari, sono andate principalmente nelle seguenti direzioni:
a)La creazione di cabina di regia, o di protocolli di interlocuzioni in sede territoriale con l’Autorità sanitaria locale, competente sul tema ed in grado di aiutare gli uffici in sede locale.
b)Indicazioni sulle misure sanitarie da seguire.
c)Indicazioni in tema di acquisti di dispositivi di protezione personale (mascherine e guanti), di fornitura del materiale igienizzante, di procedure per le pulizie e sanificazioni.
d)Indicazioni su misure inerenti all’organizzazione dei servizi degli uffici giudiziari.
e)Indicazione in tema di ampliamento all’uso di strumenti informatici da remoto:
f)Indicazioni in tema di organizzazione del lavoro del personale, sullo smart woking e altri strumenti di flessibilità.
Il tutto è riassunto di recente nell’ultima circolare emessa il 2 maggio scorso che contiene informazioni riepilogative del lavoro effettuato con gli uffici, e prime direttive per avvio fase due.
3.Quale era lo stato della digitalizzazione avviata anteriormente all’emergenza COVID-19?
Barbara Fabbrini: In questi giorni vedo che si afferma spesso che il Ministero della giustizia è indietro nella digitalizzazione. In realtà è uno dei settori della pubblica amministrazione tra i più digitalizzati; fatto questo da anni riconosciuto anche in sede internazionale.
Forse di dimentica che primi in Italia abbiamo investito in strumenti di digitalizzazione per i concorsi: ricordo che il concorso di assunzione di assistenti giudiziari con 300 mila domande e 76.000 partecipanti si è concluso in soli 11 mesi dal bando anche grazie all’informatizzazione dei nostri sistemi.
E così una procedura di una riqualificazione, 3 procedure di progressione economica, alcune procedure di mobilità territoriali in tre anni a fronte di un vuoto di oltre 20 anni, non si sarebbero potute svolgere senza l’infrastruttura e gli applicativi informatici dedicati.
Abbiamo digitalizzato la gran parte dei processi lavorativi a carattere amministrativo, al pari e a volte al meglio di altre amministrazioni: Sicoge, Siam il protocollo amministrativo, sono da tempo digitalizzati ed in uso presso gli uffici. Siamo l’unica amministrazione pubblica ad avere una piattaforma e-learning dedicata a tutto il proprio personale, parliamo di 34.000 persone.
Negli uffici da anni si fanno le comunicazioni telematiche in ambito civile e anche penale, e da settembre anche presso gli uffici giudiziari.
Giustizia gode di infrastrutture di sicurezza dei sistemi che nulla hanno da invidiare ad altre amministrazioni, perché si è investito fortemente in tale direzione con capacità di visione da parte di tutti coloro che hanno ricoperto ruoli chiave al Ministero della giustizia: la tenuta dei sistemi dopo 6 anni che il processo civile telematico, che ricordo è una realtà in primo e secondo grado, indicano anche che i nostri sistemi sono correttamente impostati.
Il Ministero della giustizia però ed indubbiamente, a differenza di altre amministrazioni, non gestisce solo pratiche amministrative, ma anche processi e procedimenti giudiziari. Non vi è dubbio che questo è un elemento di complessità che la rende del tutto differente dal resto della pubblica amministrazione, per utenti coinvolti, per delicatezza dei dati trattati e per processi da presidiare.
Quindi se vogliamo affermare che il Ministero della giustizia, per non avere ancora attivato il processo penale telematico sia in ritardo nella digitalizzazione della giustizia italiana, per carità allora vi è del vero, ma tale affermazione tradisce una visuale ristretta e limitata di cosa sia e implichi l’informatizzazione dell’Amministrazione giudiziaria, semplicemente non considera l’intero panorama.
La verità, o meglio il punto di riflessione che dobbiamo tenere presente oggi, in questa contingenza, credo però risieda altrove. La pandemia ci ha posto difronte a logiche di processi organizzativi e lavorativi legati alla digitalizzazione del tutto innovativi e necessariamente diversi rispetto a quelli impostati in precedenza in Giustizia e nelle amministrazioni centrali.
Premesso che per il lavoro giudiziario di magistrati ed avvocati la scelta di remotizzazione è da tempo operata, il lavoro del personale da remoto passa nell’amministrazione giudiziaria, al pari di altre amministrazioni, da una struttura organizzativa che, se anche fortemente digitalizzata, ha il suo perno nella “presenza” in sede del dipendente. La sede di lavoro è ancora presidio nei contratti collettivi e nella normativa del pubblico impiego. Il telelavoro e lo smart working del personale sono ancora confinate nella sperimentazione o in rigide regole di applicazione che non le rendono estensibili a tutta la popolazione del pubblico impiego e, non dobbiamo dimenticare, persino avversate al loro avvio da alcune parti sociali.
Oltre a ciò Giustizia, come altre amministrazioni ha da tempo impostato, condividendole con gli interlocutori nazionali competenti, logiche di sicurezza dei propri sistemi incentrate nella fisicità della propria rete (cd. R.U.G.)
La pandemia ha certamente rovesciato questi schemi.
Nel momento in cui si parla di contingentamento e di distanziamento sociale, anche la remotizzazione del lavoro del personale amministrativo può certamente rientrare tra i presidi di prevenzione dell’epidemia, prima ancora che essere una virtuoso misura organizzativa del lavoro dei nostri dipendenti.
E’ ovvio che una remotizzazione integrale di una popolazione di 34.000 dipendenti amministrativi, che interagisce con circa 10.000 magistrati, oltre 200 mila avvocati e circa un milioni di professionisti, comporta quella che non stento a definire, con un paragone preso dal mondo aziendale, una vera e propria riconversione industriale dell’organizzazione del lavoro giudiziario.
In questa cornice, quindi prima ancora che le politiche di sicurezza e le questioni di carattere tecnico, molto potranno le scelte che si andranno a delineare in tema di flessibilità del lavoro dipendente per la cd. “fase tre” in tutta la pubblica amministrazione, un contesto dal quale il Ministero non può prescindere.
Nel frattempo comunque 7.600 abilitazioni sugli applicativi di gestione amministrativa, 30.000 utenti delle piattaforme di call conference di (teams e skype), 26.000 utenti sulla piattaforma e-learning, in una con la possibilità di altri strumenti di flessibilità organizzativa possono certamente assicurare, per la fase emergenziale, ampio ricorso allo smart working nei termini indicati dall’articolo 87, letto alla luce dell’articolo 83 del decreto legge 18/2020.
Inoltre i nostri 34.000 dipendenti non sono tutti costantemente ed esclusivamente dedicati al solo scarico dei registri, la realtà è molto più complessa e sfaccettata.
In ogni caso, sono fermamente convinta che occorra progredire nel percorso di maggiore remotizzazione del lavoro dei nostri dipendenti, certamente per garantire soluzioni di maggore flessibilità in futuro ma anche per futuri scenari emergenziali.
Metteremo a disposizione a giorni una più ampia scelta di applicativi informatici da remoto: SNT per il settore penale e consolle assistente per il settore civile, stiamo acquistando PC portatili anche per il personale ed infine stiamo interloquendo con le altre istituzioni nazionali coinvolte per le dovute verifiche per evoluzioni delle logiche dei nostri sistemi nazionali.
Insomma guardiamo avanti.
Un dato comunque è certo. La pandemia ha portato ad accelerare scelte tecnologiche, già operate, finanziate e programmate dall’Amministrazione in tema di processo telematico, ma che stentavano a vedere il varo, per varie resistenze o timori.
Mi riferisco al deposito telematico degli atti introduttivi in PCT, al pagamento obbligatorio dei diritti di cancelleria, alle notifiche penali in SNT anche agli avvocati di fiducia di parti diverse dalle parti offese, all’avvio del PCT in Cassazione per gli avvocati. Infine, confesso buttando il cuore oltre all’ostacolo, con il decreto-legge 30 aprile 2020, 26, abbiamo introdotto il deposito di telematico di istanze, memorie, indicate dall’articolo 415 bis c.p.p., insomma il tanto agognato avvio processo penale telematico. Per noi il suo avvio doveva logicamente conseguire al varo della nuova disciplina delle intercettazioni, ma la pandemia ci ha costretto a rovesciare gli schemi e chissà che questo avvio, per ora in forma di valore legale del deposito telematico - come è stato l’avvio del PCT -, non ci aiuti ad evolverle velocemente; in questo caso non mancano le risorse, è già tutto finanziato da le ultime leggi di stabilità.
Al netto di sterili polemiche, osservo infine come il tema della remotizzazione dell’udienza invece non era nell’agenda del Ministero, anche perché la remotizzazione dell’udienza non è certo il processo telematico. Il processo telematico è realtà infrastrutturale molto più complessa, basata su flussi e conservazione di documenti nativi digitali, atti digitalizzati e multimediali, non certo su conversazioni on line.
Tuttavia in un momento in cui debbono evitarsi affollamenti, anche negli uffici giudiziari, ci è parso doveroso prevedere la remotizzazione dell’udienza basata su strumenti già in possesso dell’Amministrazione.
Si tratta in altre parole di applicativi di mere call conference, offerti esclusivamente per la fase emergenziale.
Sono convinta che nell’ambito del loro potere organizzativo, e con la giusta interlocuzione con l’avvocatura, gli uffici sapranno modulare al meglio tale opportunità.
4. Quali sono le maggiori criticità connesse allo smart working con riguardo al personale amministrativo?
Barbara Fabbrini: Come dicevo, lo smart working di questa fase emergenziale è un’assoluta novità, non tanto per lo strumento in quanto tale, ma per la quantità e le modalità del suo utilizzo.
Lo smart working immaginato sino al 31 luglio dall’articolo 87 del decreto-legge 18/2020, è in realtà in prevalenza un istituto di programmazione del lavoro che consente di evitare l’accesso all’ufficio; visto sotto altro profilo potremmo affermare che si tratta più di una misura di prevenzione dell’epidemia, che di una virtuosa modulazione del rapporto di lavoro.
Si è necessariamente perso il riferimento agli obiettivi da raggiungere, alla programmazione, ai criteri e di priorità nella, alla qualità dei progetti assegnati, che erano contenuti nella previsione originale della disciplina.
La maggiore criticità per i nostri uffici è stata quindi certamente quella di dovere calare velocemente, massicciamente progetti di lavoro agile.
Lo smart working, nella sua originaria configurazione, è poi strumento che si attaglia bene al personale di terza area, funzionari e direttori amministrativi.
L’amministrazione giudiziaria, invece, caso quasi unico nel panorama delle amministrazioni centrali, ha un personale per la maggior composto di qualifiche di prima e seconda area, con mansioni di tipo operativo e anche molto settoriali: tenuta dei registri, assistenza all’udienza, per non parlare delle mansioni dei commessi e degli autisti. Come adattare questa popolazione, che annovera circa 20.000 delle 34.000 unità allo smart working ?.
E’ indubbiamente un altro elemento di seria complessità, di fronte al quale si sono trovati gli uffici in questo periodo.
Ciò premesso, il fatto di avere “liberato” il lavoro agile da alcune condizioni vincolati della disciplina normativa originale (la legge 124/2015 e la legge 81/2017), unitamente alla circostanza che per la prima volta, anche se per necessità, ne facciamo un uso massivo è per noi un’occasione unica che non va persa.
Ho considerato da sempre lo smart working, istituto mutuato dalla disciplina del lavoro aziendale, una seria opportunità anche per il lavoro nell’amministrazione giudiziaria e sono convinta che nella cd. “fase due”, il monitoraggio, la riflessione con la dirigenza amministrativa e i sindacati, ci porteranno ad un percorso assolutamente interessante nella direzione di una maggiore applicazione anche per il lavoro giudiziario del nostro personale amministrativo.
Il Ministero però si sta muovendo in modo anche diverso rispetto ad altre amministrazioni in questo momento, non segue solo il modello della categorica divisione tra lavoro agile e lavoro in presenza che sembra proporre l’articolo 87 del decreto-legge 18/2020.
L’articolo 83 del medesimo detta come sappiamo una cornice del tutto peculiare per l’attività degli uffici giudiziari, prevedendo peraltro indubbiamente una ripartenza dell’amministrazione giudiziaria più sostenuta rispetto alle altre amministrazioni.
Che fare allora?
Anche qui, stiamo cercando di trarre dall’emergenza un’opportunità per avviare modelli organizzativi poco praticati in passato, per tanti motivi che sarebbe lungo illustrare.
Sono anni che nella pubblica amministrazione tutta non si fa uso di alcuni strumenti contrattuali previsti nei CCNL, che consentono di offrire complessiva flessibilità al lavoro, e possono essere utili per assicurare una continuità di orario dei servizi di segreteria e cancelleria, deflazionando l’afflusso di utenza e presenza in ufficio.
Rotazione nei servizi di cancelleria, orario multiperiodale, turnazione, possibilità di dividere l’orario di giornata in mattina e pomeriggio, remotizzazione del lavoro in sede differente da quella di servizio ma più vicina alla residenza del dipendente, sono tutti istituti poco applicati che ora stanno tornado utili in una logica di flessibilità complessiva dell’organizzazione del lavoro.
I nostri uffici li stanno finalmente sperimentando, accanto al lavoro agile, con difficilissimi ma quantomai interessanti, ordini di servizio che sono convinta possano costituire un valido scenario anche per il futuro.
E’ stato come riprogrammare un’azienda in pochi giorni senza avere potuto neanche approntare il piano di riconversione industriale.
La strada è faticosa, siamo partiti con tante incertezze, in un contesto difficile quale quello della pandemia, ma confidiamo nel fatto che si siano aperte nuove prospettive anche per la maggiore flessibilità del lavoro nell’Amministrazione giudiziaria.
5.Quali sono stati i risultati raggiunti?
Barbara Fabbrini: All’inizio nelle prime riunioni in call conference leggevamo incertezza, tensione, fatica nei colleghi e nella dirigenza amministrativa. Inevitabile a situazione data.
L’altro giorno in alcune ultime call alcuni colleghi Capi di ufficio hanno affermato: “Ci hai fatto fare una grande fatica ma abbiamo fatto un buon lavoro e ci sentiamo pronti”.
I dati raccolti nel rapporto sulla fase uno, che abbiamo ieri pubblicato sul sito del Ministero testimoniano di questo grande lavoro:
a) Le richieste pervenute all’unità di crisi mostrano che orami non da circa 20 gg non riceviamo più richieste di aiuto per spiegazioni sulle modalità organizzative e sui protocolli di prevenzione sanitaria da adottare; insomma il lavoro svolto durante la fase uno ci ha permesso di essere un pò più preparati per la fase due.
b) Come già detto finalmente si parla di flessibilità del lavoro, si sperimenta il lavoro agile e non solo. 77 % è la media nazionale dei dipendenti in smart working negli uffici giudiziari italiani, perfettamente in linea con la media nazionale pubblicata dalla Ministra Dadone qualche giorno fa che ammonta a 73,8%.
c) Le abilitazioni da remoto sugli applicativi informatici stanno crescendo e larghissimo è l’uso della piattaforma e-learning per la formazione a distanza;
d)Tante sono le linee guida già emesse dagli uffici in vista della fase due.
e) Gli acquisti per il materiale sanitario ci risultato fatti e sono conosciute orami le procedure di acquisto.
Direi però che anche altri sono i risultati a cui dobbiamo guardare.
Si sta riaprendo un dibattito in tema di organizzazione giudiziaria e digitalizzazione che francamente era anni che non vedevo così animato. Dopo l’entrata in vigore del processo civile telematico, nel luglio 2014, è come se il mondo della giustizia fosse soddisfatto, si usa lo strumento ma non si riflette sulla sua potenzialità di evoluzione.
Ora invece il dibattito è ripartito.
E dall’organizzazione del lavoro si sposterà presto anche sull’architettura del processo civile e penale, ne sono convinta.
Infine ma non in ultimo, seppure tragicamente costretti, si ragiona anche di sicurezza della salute dei lavoratori e ambientale.
Credo che tale processo e tali risultati vada poi accompagnati ad altri atti di “coraggio” che competeranno al Ministero e alle altre istituzioni centrali.
Mi riferisco alla necessità di riprendere velocemente le politiche di reclutamento assunzionale. Per la prima volta avevamo un programma assunzionale finanziato per più di 10.000 risorse. Stiamo immaginando e occorrono procedure concorsuali semplificate adattate ai tempi del COVID-19.
Dobbiamo concludere con il Consiglio superiore della magistratura il lavoro sulle piante organiche ordinarie e su quelle flessibili. Pensiamo quanto sarebbero stati utili risorse di magistratura che rispondono a logiche di flessibilità distrettuale in un momento come questo.
Infine, ma non in ultimo dobbiamo portare a termine il processo di revisione del decentramento amministrativo con la costituzione di direzioni territoriali dedicate all’edilizia e agli acquisti. Pensiamo a quanto sarebbero servite ora. I pochi tecnici (ingegneri e architetti) che siamo miracolosamente riusciti ad assumere a giugno sono stati davvero fondamentali in questa delicata fase in cui la sicurezza dei locali e la logistica degli spazi di lavoro assume un nuovo ruolo.
6. Gli Uffici giudiziari in Italia sono inseriti in realtà geografiche differenti, con diverse modalità di gestione e organizzazione delle risorse modalità che risentono spesso delle diverse capacità organizzative dei dirigenti, a queste si aggiunge una diversa situazione sanitaria in termini di pericolo di contagio, quali sono sotto questo profilo le problematiche che hanno reso più difficile l’organizzazione?
Barbara Fabbrini: Questo è verissimo.
Il COVID- 19 purtroppo è come se avesse funzionato anche da lente di ingrandimento dei vari contesti territoriali, facendo risaltare differenze culturali, istituzionali e sociali nazionali, prima ancora che dei nostri uffici.
Sono dati di cronaca le differenti misure per la prevenzione dell’epidemia prese dalle Regioni, che ricordo sono le autorità sanitarie competenti sul territorio, legittimamente ma spesso distoniche anche dal quadro nazionale.
A prescindere da ogni valutazione sul punto, tale situazione si è indubbiamente riflessa anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari, e crea ancora un certo disorientamento. Alcune regioni richiedono la misurazione della temperatura all’ingresso degli uffici pubblici, altre no, alcune fanno i test sierologici anche al personale dell’amministrazione giudiziaria, alcune richiedono misure di distanziamento sociale più rigorose del metro previsto dalle norme nazionali, solo per fare qualche esempio.
Ovvio che tutto ciò, spesso disorienta ed ha costituto una delle maggiori difficoltà anche per il Ministero che dal centro cerca di supportare i territori in modo uniforme.
Ecco perché la prima indicazione e prescrizione che abbiamo dato agli uffici, specie a quelli di vertice distrettuale, è quella di operare in stretto contatto con l’ATS locale, creando ove possibile una vera e propria “cabina di regia”.
Una considerazione ne discende anche per una chiave di lettura della fase che si sta aprendo.
In genere il contesto organizzativo è del tutto servente rispetto all’attività giudiziaria da svolgere. Purtroppo credo che nella fase due, invece l’agenda delle attività giudiziarie contenuta nelle linee giuda di cui all’articolo 83 del decreto-legge 18/2020 risentirà molto dell’emergenza sanitaria e del contesto territoriale.
L’uso di mascherine, il necessario distanziamento sociale, le sanificazioni periodiche dei locali, le logistiche delle aule rivisitate, finiranno indubbiamente per influire sull’articolazione e svolgimento delle udienze, dei processi e delle altre attività giurisdizionali.
Insomma ad una certa differenza tra misure territoriali dovremmo necessariamente abituarci, è inevitabile in questa fase.
Ciò che è importante però è che il paradigma sia uniforme, che i protocolli siano omogenei quanto a tipologia di misure adottate.
Altri sono gli aspetti a cui dovremmo guardare in vista del superamento della fase due e del superamento di particolarismi territoriali.
Il COVID-19 è stato, e lo sarà ancora di più nella seconda fase, un duro banco di prova dei rapporti con l’Avvocatura locale, determinerà una ripresa delle istanze sindacali per i nostri dipendenti nel del legittimo tentativo di contrattare crescenti misure di flessibilità.
La nostra dirigenza, complessivamente intesa, è chiamata ad un grande sforzo di sintesi tra tali momenti.
Mai come ora la doppia dirigenza è chiamata ad una gestione fortemente innovativa e complessa, ad un confronto con le varie istituzioni e parti sociali, ad una capacità di prendere decisioni rapide ed efficaci per il contesto e il momento di riferimento.
Non è un quadro però negativo quello che ho potuto osservare in questi giorni, i timori sono tanti, la situazione è eccezionale, ma gli uffici e i loro vertici stanno rispondendo in modo assolutamente efficace.
Il Ministero segue tale evoluzione anche per cercare di uniformare eccessive differenze organizzative e soprattutto per supportare gli uffici giudiziari in questo momento.
Semmai scontiamo una sicura inadeguatezza dell’architettura della nostra dirigenza amministrativa, del tutto insufficiente numericamente rispetto agli uffici da gestire.
Abbiamo avviato anche un ciclo di incontri dedicati alla dirigenza amministrativa.
7. Il 1 maggio 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha dichiarato che "La pandemia da Covid-19 rimane un'emergenza di sanità pubblica a livello internazionale", il 4 maggio inizia la fase due, il diverso numero dei contagiati nelle diverse regioni d’Italia da l’idea che occorre attuare un’organizzazione diversa sul territorio nazionale per assicurare una cura individuale del distanziamento, quali sono le linee direttive che dal dipartimento avete adottato o adotterete?
Barbara Fabbrini: Si, con la “fase due” entriamo in un periodo che credo sia, se possibile, forse ancor più delicato per gli uffici giudiziari. Si rientra negli uffici riprendendo gradualmente l’attività ma doverosamente mantenendo tutte quelle prescrizioni di carattere sanitario che sappiamo essere il cuore della prevenzione del COVID-19.
Come detto all’inizio, sono state molte le circoli e direttive emesse dal Dipartimento a seguito dell’inizio dell’epidemia, materiale tutto che può trovarsi sul sito del Ministero.
Con la circolare emessa il 2 maggio scorso, in particolare si detta una cornice quadro di orientamento degli uffici.
Abbiamo prescritto misure logistiche e operative, al fine di assicurare una migliore gestione degli spazi lavorativi, che vanno dal censimento degli spazi i, all’acquisto di paratie in plexiglass per gli sportelli aperti al pubblico, all’adozione di percorsi obbligati per l’utenza esterna.
Si sono invitatati gli uffici ad adottare le soluzioni organizzative per contenere l’afflusso di utenza esterna: orari rivisti degli sportelli aperti al pubblico, prenotazione e appuntamento per l’utenza e così via.
Il rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie sono poi il nucleo centrale delle indicazioni offerte agli uffici: si ricorda di mantenere tutte le prescrizioni contenute nella circolare del ministro della Salute del 22 febbraio e dal d.P.C.M. del 26 aprile scorso e sui allegati[1].
Si è ricordato di procedere al Documento di Valutazione dei Rischi.
Si sono offerte indicazioni sugli acquisti per materiale sanitario e sulle modalità di igienizzazione locali. Si sono date raccomandazioni di procedere al mantenimento dell’utilizzo del lavoro agile, anche se in quantità e modalità differenti rispetto alla fase uno, e di accompagnare ad esso l’utilizzo degli altri istituto contrattuali di flessibilità lavorative a cui facevo riferimento prima.
Ovviamente il Ministero, con le sue direzioni generali offre supposto concreto agli uffici in tale quadro prescrittivo, appronta i servizi (specie per gli acquisiti e per le abilitazioni informatiche), interloquisce con le dirigenze per declinare in modo corretto gli ordini di servizio per il personale.
In tale contesto ricordo che la spesa sino ad oggi effettuata supera i 5 milioni di euro per le procedure di sanificazione e di acquisto di materiale sanitario per gli uffici.
La seppur ridotta attività degli uffici giudiziari ha quindi permesso, in un certo senso, di approntare quanto necessario per l’avvio della fase due.
8. Cosa rimarrà come dote strutturale degli uffici giudiziari dell’organizzazione adottata nella fase 1 e che sarà adottata nella fase 2?
Barbara Fabbrini:Quanto ho illustrato sopra già dice molto sul punto.
Non dobbiamo illuderci di essere usciti dal contesto epidemiologico; gli scienziati, l’istituto superiore della sanità e il Governo su questo sono stati assolutamente chiari.
Non dobbiamo quindi neanche illuderci che il 12 maggio sia una data a cui corrisponda una completa ripresa dell’attività giudiziaria, e penso che cautela e progressività debbano essere le parole d’ordine della ripresa del lavoro nei nostri uffici in questa seconda fase.
Temo che sarà poi inevitabile che il rallentamento a cui sono stati costretti gli uffici, porterà a momenti di conflitto e imporrà di trovare soluzioni non solo organizzative, ma di revisione processuale e di scelte prioritarie che richiederanno una forte capacità di dialogo tra i vari attori del mondo della giustizia.
Ci portiamo come insegnamento dalla prima fase per la fase due, e anche per il futuro, innanzi tutto qualcosa di non scontato nell’organizzazione giudiziaria: la consapevolezza della necessità di una legislazione e organizzazione dell’emergenza, in grado di scattare e operare in varie circostanze, tale da assicurare continuità nell’esercizio della giurisdizione. Immagino un ventaglio di soluzioni di carattere tecnologico, organizzativo e normativo, in parte simili a quelle che stiamo sperimentando, da utilizzare in caso di terremoti e altre calamità e altri momenti critici.
Una riflessione questa che vale in realtà non solo per il lavoro giudiziario ma anche per altri contesti sociali e lavorativi: si pensi alle misure economiche, a quelle del lavoro nelle imprese, alla mobilità pubblica ecc.
La nuova spinta verso una digitalizzazione del processo, che ci conduce finalmente al completamento del processo civile telematico e all’avvio del processo penale telematico, la nuova visione di flessibilità lavorativa del personale tutto, costituiscono invece lo stimolo e la frontiera per le scelte del futuro. Un futuro in cui il contesto pandemico sarà terminato ma in cui credo che il “mondo” dell’amministrazione giudiziaria e degli uffici non sarà più lo stesso che abbiamo lasciato fermo alla data del 23 febbraio.
Questo va colto come un’opportunità.
Una fase quindi in cui ridisegnare diverse politiche del personale, dell’infrastruttura informatica e dell’organizzazione giudiziaria significa anche aprire ad una riflessione su una diversa architettura del processo, dotato di adeguata effettività per rispondere alle esigenze economiche e sociali che certamente emergeranno a fase emergenziale terminata.
Un percorso che è già iniziato, direi che basta solo percorrerlo.
4. Conclusioni
La pandemia da Covid 19 è stata paragonata all’influenza spagnola con nome che le deriva dalla prima nazione che, senza censura, denunciò l’arrivo del flagello.
La grande influenza del secolo scorso, tra la sua apparizione, nel 1918, e il termine, nel 1920, provocò la morte di 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi.
Come la spagnola, anche la pandemia Covid 19, ed e questa è la buona notizia, finirà.
Finirà per l’immunità di gregge o per la scoperta delle cura o per la scoperta del vaccino o, come insegna la storia delle influenze, improvvisamente così come finì la spagnola dopo tre ondate (si dice che il virus abbia subìto una mutazione verso una forma meno letale, perchè gli ospiti dei ceppi più letali tendono a estinguersi).
Ora siamo sospesi nella parentesi del distanziamento sociale.
Barbara Fabbrini ci ha chiarito i termini della “riconversione industriale dell’organizzazione del lavoro giudiziario” come attuata in vista della fase due. Ci ha fornito i numeri della remotizzazione della popolazione giudiziaria: 10.000 magistrati, oltre 200 mila avvocati e circa un milione di professionisti. Ci ha illustrato gli strumenti a disposizione affinchè l’attività giurisdizionale riprenda.
Occorre bilanciare gli interessi coinvolti: il diritto alla salute – antecedente logico del diritto alla vita https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1055-epidemia-salute-carcere - e il diritto al giusto processo declinato in termini di ragionevole durata.
Nella parentesi del distanziamento sociale la remotizzazione, nel rispetto dei diritti di difesa, è l’unica via perché la giustizia non si fermi, con la promessa certo che tutto tornerà come prima a garanzia dei diritti di difesa e del giusto processo.
Il superamento della crisi economica che seguirà alla pandemia, come già ci avverte Barbara Fabbrini, passa d’altro canto anche attraverso una risposta di giustizia ragionevolmente breve.
Quando tutto questo sarà finito avremo un livello di digitalizzazione che mai ci saremmo aspettati e questo è l’effetto collaterale positivo del Covid 19.
a.Obblighi informativi per l’utenza e dipendenti sul decalogo del ministro della salute allegato alla circolare 22 febbraio 2020;
b.Obbligo del dipendente di non recarsi in ufficio ove vi sia alterazione di temperatura corporea superiore a 37,5 gradi (ribadito anche nel d.p.c.m. del 26 aprile 2020);
c.Necessità di assicurare il distanziamento sociale anche in ambito lavorativo;
d.Acquisto di materiale igienizzante e di materiale di pulizia, e di dispositivi di protezione secondo le prescrizioni di settore (riportate nella circolare apposita emessa in data odierna);
e.Obbligo di portare i dispositivi di protezione personale (mascherine) e precauzionalmente uso di guanti nei luoghi confinati pubblici ove non possibile mantenere il distanziamento (prescritto nel d.p.c.m. del 26 aprile 2020);
f.Obbligo di pulizia/igienizzazione profonda con i prodotti specifici e di sanificazione dei locali con il sorgere di positività di dipendenti, con le modalità indicate nella circolare del 22 febbraio del Ministro della salute.
ALLEGHIAMO IL RAPPORTO DEL DIPARTIMENTO DELL'ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA SUI NUMERI DELLA GIUSTIZIA NELL'EMERGENZA COVID
Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul concorso esterno
di Andrea Apollonio
Sommario:1. Attività giudiziale e fenomeno mafioso - 2. Le Sezioni Unite "Chioccini" - 3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen" - 4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino" - 5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa.
1.Attività giudiziale e fenomeno mafioso
Uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale e delle sue interazioni con l'ambito giudiziale metteva in luce qualche anno addietro come le disposizioni si estendano «per analogia con la costruzione di una nuova "dispositio": vale altrimenti (se non c’è analogia) la vecchia disposizione arricchita di casi nuovi»[1]. Partendo cioè dalle disposizioni, che sono enunciati normativi, si arriva al loro contenuto reale tramite l'interpretazione e l'applicazione ai casi. La norma, pertanto, è solo il risultato dell'interpretazione della disposizione astratta.
Nonostante la distinzione tra disposizione e norma risalga le basi del pensiero giuridico moderno ed involga l'intera teoria generale del diritto[2], è sopratutto nella materia criminale che i meccanismi giudiziali razionali, di tipo puramente sillogistico, rappresentano illusioni (e retaggi storici) di esatta calcolabilità del diritto[3]. Invero, l'esercizio del diritto giurisprudenziale, teso a riempire di significato precettivo la fattispecie a partire dal suo dato testuale, è - al di là del suo «indiscutibile successo»[4] di cui si parla in termini non rassicuranti in dottrina - inevitabile, per quei tipi giuridici che sintetizzano un universo criminologico estremamente denso e complesso.
E' sicuramente il caso della congerie di norme volte a contrastare il pervicace fenomeno mafioso, secondo alcuni interpreti configurate tramite una «tecnica di tipizzazione [che] sconta un certo grado di genericità»[5]. A ben vedere, poiché lo scarso rilievo semantico cade direttamente dai contorni poco nitidi della figura-madre, quella di cui all'art. 416-bis c.p. (metodo mafioso e agevolazione della consorteria), che fa riferimento ad un paradigma criminologico - quello appunto di "mafia" introdotto nel 1982 - di per sé poco definibile.
In questo panorama normativo assumono una decisiva rilevanza ermeneutica gli arresti delle Sezioni Unite (persino più che in altri campi del diritto penale): basti solo pensare che due fattispecie satellite del reato di associazione mafiosa - il c.d. "concorso esterno" e l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p. - hanno visto ciascuna pronunciarsi tre volte il supremo consesso della Cassazione. Di talché, decisiva rilevanza assume la sentenza delle Sezioni unite penali, n. 8545 del 19 dicembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), imp. Chioccini, dal momento che, pur dovendo affrontare una questio iuris attinente l'aggravante della c.d. "agevolazione" mafiosa, riapre cruciali questioni interpretative anche riguardo al concorso esterno: su cui, come noto, nell'ultimo ventennio si sono scatenate vere e proprie "guerre di religione"[6].
Adottata una tale prospettiva duplice, questa sentenza diviene giocoforza un riferimento interpretativo tra i più rilevanti degli ultimi anni: tanto che con i principi affermati su queste due figure (sebbene nel caso del concorso esterno valgano quali obiter dicta, non essendo questo il thema decidendum rimesso alle Sezioni Unite), l'ampia area della contiguità alla mafia può dirsi aver cambiato - per l'ennesima volta - le proprie fattezze.
2. Le Sezioni Unite "Chioccini"
L'art. 416-bis.1 c.p., prevede che «Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». Come detto, le Sezioni Unite intervengono per la terza volta sulla circostanza aggravante, affrontando adesso la questione che più d'ogni altra ha tenuto impegnati gli interpreti, se cioè la figura dell'agevolazione «abbia natura soggettiva concernendo le modalità dell'azione, ovvero abbia natura soggettiva concernendo la direzione della volontà». Sebbene infatti la struttura duplice della fattispecie faciliti una differente lettura delle condizioni delittuose - da un lato ci si deve oggettivamente valere del metodo mafioso, dall'altro le modalità dell'azione devono essere rivolte in senso teleologico all'agevolazione dell'attività dell'associazione mafiosa - ciò legittimando la dottrina a ribadire, con poche eccezioni[7], che «la prima ipotesi si connota in termini oggettivi, mentre quella consistente nella finalità agevolatoria è, all'opposto, da qualificarsi come soggettiva»[8], non mancano pronunce della Cassazione che hanno affermato per entrambe le figure la natura oggettiva, poiché la previsione de qua riguarderebbe, a ben vedere, una modalità dell'azione rivolta ad agevolare l'associazione mafiosa.
A seconda dall'inquadramento teorico prescelto discendono conseguenze pratiche di grande rilievo sotto il profilo concorsuale, perché ritenendo la circostanza oggettiva, attinente cioè alle modalità dell'azione ai sensi dell'art. 70 c.p., essa può essere estesa ai correi; diversamente, sottolineando la necessità di un atteggiamento di tipo psicologico dell'agente, tale da richiamare i motivi a delinquere, andrebbe applicata la regola di cui all'art. 118 c.p., secondo cui, versando in questo caso, la circostanza è valutata soltanto alla persona a cui si riferisce.
La sentenza dunque evidenzia anzitutto l'assenza di un chiaro statuto applicativo dell'aggravante in parola, emergendo per questa via problemi legati da un lato alla prevedibilità e all' accessibilità della norma penale nei suoi effettivi contenuti precettivi, dall'altro, sotto il profilo della colpevolezza, al rischio di configurare una responsabilità oggettiva, da posizione[9], volta a punire - aggravando il reato base perpetrato - la mera prossimità, anche in forme collaborative, con soggetti che, dal canto loro, agevolano gruppi mafiosi.
Si affronta quindi in prima battuta la questione della natura giuridica rimessa: «Non vi è dubbio [...] che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere», dovendosi pertanto ritenere che «il dato testuale imponga la qualificazione della circostanza nell'ambito di quelle di natura soggettiva». Secondo la Corte, infatti, valutando più attentamente gli orientamenti giurisprudenziali si evince che la maggior parte delle posizioni ermeneutiche non arrivano al punto di escludere che la circostanza possa essere inquadrata tra quelle relative ai motivi a delinquere. Quando - proseguono i giudici sul loro filo argomentativo -sul piano dell'accertamento è richiesto - pur considerando l'aggravante di natura soggettiva - un ulteriore elemento di natura oggettiva, attinente alle modalità (recte: all'idoneità) dell'azione, questo non viene configurato come elemento costitutivo della fattispecie, ma come fatto da cui desumere la prova della sussistenza dell'elemento psicologico: non trattandosi quindi di un ulteriore elemento strutturale, nulla preclude la riconducibilità della previsione ai "motivi a delinquere" di cui all'art. 118 c.p. E, si aggiunge in sentenza, un tale approdo non sarebbe impedito neppure da chi valorizza l'elemento obiettivo «non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell'aggravante, nell'ottica di rendere la disposizione di cui all'art. 416-bis.1 c.p. maggiormente aderente al principio di offensività», postulando quindi - al più - una natura "mista" dell'aggravante.
E' solo adesso, accertata la natura soggettiva dell'aggravante, che la Corte può approcciarsi alla dommatica della figura circostanziale: si incarica pertanto di tracciare una linea di demarcazione, da un lato rispetto al tipo di dolo che deve caratterizzare colui che agisce per agevolare la compagine mafiosa, e dall'altro - più che per l'integrazione in sé della circostanza - ai fini dell'estensione della stessa ai concorrenti nel reato. In questo senso, la Corte prende atto dell'esigenza di riordino degli elementi costitutivi e di disciplina dell'aggravante in parola e differenzia le due forme di accertamento giudiziale.
Anzitutto, un accertamento di "primo livello", riguardante l'elemento soggettivo necessario ad integrare l'aggravante, che secondo alcuni - per lo più i fautori della teoria soggettivista - si sostanzierebbe in un marcato dolo specifico, in cui l'agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto integrante l'elemento soggettivo del reato base, agisce per il fine particolare di agevolare l'associazione (a cui possono anche sommarsi altre finalità, più personali ed egoistiche), secondo altri - per lo più i fautori della teoria oggettivista - può ridursi alla mera consapevolezza della direzione della condotta e della sua idoneità ad agevolare l'attività della compagine. Si tratta quindi di stabilire, fuori dal problema dell'estensibilità ai concorrenti, la veste tassonomica del dolo proprio della circostanza aggravante - ontologicamente differente da quello del reato base - posto che, in ogni caso, tutte le chiavi di lettura proposte conferiscono rilievo ad una ricaduta oggettiva dell'aspirazione dell'agente, nel senso cioè che l'azione debba risultare oggettivamente idonea al perseguimento del fine agevolativo.
Un accertamento di "secondo livello" investe invece i concorrenti nel reato aggravato. In questo caso, rispetto al requisito necessario ad estendere a costoro l'aggravante, possono enumerarsi tre diverse possibilità applicative: la condotta del concorrente è improntata ad un dolo specifico uguale, simmetrico a quello che caratterizza la condotta effettivamente agevolativa dell'agente principale (entrambi quindi agiscono col fine particolare di agevolare l'associazione, oppure, postulando un diverso gradiente soggettivo, con il medesimo dolo diretto); il concorrente agisce nella consapevolezza che il proprio contributo stia accedendo ad una condotta altrui caratterizzata da dolo intenzionale, che sta agevolando un'associazione mafiosa (in questo caso differenziandosi i gradi del dolo nell'ambito del concorso di persone); in ultimo, il concorrente potrebbe versare in una mera ignoranza colposa (ed è questa la soluzione prospettata, in particolare, dai fautori della tesi oggettivista, che ritengono sufficiente - ex art. 59 c.p. - per tutti i correi l'ignoranza colposa dell'agevolazione della compagine mafiosa).
Occorre quindi chiedersi, in primo luogo, quale sia la forma del dolo richiesta dall'art. 416-bis.1, sub specie dell'agevolazione, e conseguentemente quanto debba essere rilevante presso i concorrenti del reato aggravato la copertura volitiva della funzionalizzazione dell'attività criminosa verso l'associazione mafiosa. In questo senso, la Corte è chiamata a configurare uno statuto applicativo che abbracci tanto la natura e il coefficiente psicologico della circostanza, in sé considerata, tanto il problema dell'estensione della stessa ai correi, alla luce della disciplina di cui all'art. 118 c.p.
3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen"
E' interessante notare che nel ripercorrere l'elemento soggettivo come sopra declinato, si fa riferimento alle note Sezioni Unite "Thyssen"[10] applicandone i principi; o, per meglio dire, declinando in maniera più netta le speculazioni sul dolo: «che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell'azione delle sue conseguenze».
Per il vero, la distinzione avanzata nella "Thyssen" all'interno dell'elemento psicologico più marcato - seppure in motivazione ed in guisa di obiter dictum: perché, anche lì, non era esattamente la distinzione tra dolo diretto e dolo intenzionale la questione da affrontare - la si potrebbe così sintetizzare: nel dolo intenzionale l'evento di reato è lo scopo stesso dell'azione, nel dolo diretto esso si pone come collaterale del fine perseguito, non direttamente voluto ma come tale senza dubbio accettato; in altre parole, questo si ha quando l'evento è ritenuto dall'agente altamente probabile o certo, e l'autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale. E' dato comprendere che, nell'alveo della "Thyssen", nel dolo diretto coabitano ancora l'elemento rappresentativo e quello volitivo, sebbene il concetto stesso di "accettazione" diluisca inevitabilmente il secondo a favore del primo.
Come detto, la pronuncia in esame rielabora diversamente l'elemento doloso, con un passaggio che mostra di emanciparsi dalle più tradizionali letture dottrinali che hanno sempre interpretato il rapporto psicologico con l'evento in termini - pressoché inscindibili - di rappresentazione e volontà, persino con riferimento al dolo eventuale[11].
Questa scissione interna al dolo, questo - per meglio intenderci - ribaltamento delle letture tradizionali, che le Sezioni Unite "Thyssen" non avevano portato a compimento, rimanendo sul punto come sospese, preferendo giostrare il proprio percorso motivazionale sul bilanciamento tra rappresentazione e volontà (con particolare riguardo al primo elemento senza mai privarsi del tutto, nel campo del dolo non eventuale, del secondo), sembra invece essere stata conseguita - e scientemente perseguita - nella pronuncia in commento, in cui molti passaggi - finanche nel principio di diritto rassegnato - si riferiscono al dolo diretto in termini di mera consapevolezza (che l'azione arrivi obiettivamente ad agevolare l'associazione mafiosa).
Anche perché una ricostruzione "separata" di rappresentazione e volontà nel caso in esame si dimostra funzionale ad elaborare i principi di diritto infine rassegnati, connessi da un lato alla struttura dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, dall'altro alla sua estensibilità ai correi: «L'aggravante agevolatrice dell'attività mafiosa prevista dall'art. 416-bis.1 c.p. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell'altrui finalità». Dolo intenzionale da un lato; dolo diretto (per il concorrente) dall'altro.
E' di tutta evidenza come, a dover essere approfondita alla luce dei principi generali, è sopratutto la posizione del concorrente, per la cui affermazione di responsabilità penale è sufficiente un gradiente psichico inferiore rispetto all'agente, per così dire, principale (l'autore del reato monosoggettivo).
E' anzitutto lumeggiato come l'insieme dei precetti che governano il tema delle circostanze aggravanti sia stato ridisegnato dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990, n. 19, che ha quale scopo precipuo quello di estirpare ogni residuo di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato: da ciò deve discendere un'attenzione costante al principio di colpevolezza nell'estendere la circostanza aggravante, che tuttavia - afferma la Corte - non impedisce di intendere in senso meno rigoroso il portato applicativo dell'art. 118 c.p., che «non prevede l'impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un'indicazione autonoma», nella misura in cui questo tipo di circostanze, come afferma la norma, devono essere «valutate soltanto con riguardo alla persona a cui si riferiscono».
Occorre dunque - sembra dire la Corte - una valutazione in astratto sul tipo di circostanza ed una in concreto sulla vicenda delittuosa - da cui si possa evincere «la possibilità di estrinsecazione della circostanza all'esterno». E l'agevolazione mafiosa permetterebbe, in sostanza, una tale estrinsecazione. Cosicché, «qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l'intento dell'agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l'estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo»[12].
La soluzione ermeneutica relativa alla comunicabilità della circostanza passa quindi da una vistosa deroga del principio scolpito all'art. 118 c.p., che fa rivivere la meno rigorosa dinamica estensiva di cui all'art. 59 cpv., ed è tutta improntata sul concetto già espresso di consapevolezza (recte: su una condotta caratterizzata da dolo diretto): il reato aggravato ex art. 416-bis.1 c.p. si applica al concorrente non animato da tale scopo ma che risulti consapevole dell'altrui finalità.
La regola di imputazione soggettiva (ex art. 59 c.p.) è dunque quel dolo diretto inteso come mera rappresentazione, priva del controcanto volitivo; definito, in altri termini, come rappresentazione e consapevolezza dello scopo altrui, con la doverosa specificazione che una siffatta cognizione delle cose non abbia frenato l'agire delittuoso. Una specificazione che tanto ricorda le molte formule adattabili al dolo eventuale, e che forse la include, se è vero che - come si premura di specificare la Corte - «per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme del dolo eventuale».
4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino"
Dolo diretto del concorrente, che sembra essere lo stesso che caratterizza il concorso esterno nell'associazione mafiosa, figura con cui la Corte intende confrontarsi[13]. La sentenza infatti costruisce la differenza tra le due fattispecie considerate dalla dottrina prossime e promiscue[14], prendendo però in esame un modello di concorso esterno non armonico a quello di riferimento nell'attuale panorama interpretativo, quello delle Sezioni Unite "Mannino"[15]: sentenza rispetto ai cui principi essenziali il "diritto vivente" elaborato in seguito, pur specificando molte questioni lasciate aperte, aderisce con poche divergenze.
In particolare, rispetto all'elemento oggettivo del reato concorsuale, nella sentenza in commento si afferma che «elemento differenziale della condotta è l'intervento non tipico dell'attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la c.d. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura)»: una forma di agevolazione in particolari frangenti temporali della vita associativa, quella cui ci si rifà, ritenuta qualificante dalle Sezioni Unite "Demitry" nel 1994 (le prime intervenute sull'istituto)[16], secondo cui è proprio nei momenti di crisi dell'associazione che l'apporto del concorrente (eventuale) raggiunge il suo scopo rafforzativo; tesi che tuttavia, per evidenti aporie logiche, era stata ampiamente superata - e di fatto mai più ripresa - dalla giurisprudenza successiva, infine cassata dall'ultimo approdo delle Sezioni Unite del 2005, secondo cui il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa costituisce il normale modus operandi delle organizzazioni e non è invece legato, in alcun modo, a momenti di fibrillazione o a difficoltà contingenti.
Dalle Sezioni Unite "Mannino" sembra discostarsi anche l'affermazione per cui il concorso esterno necessita del dolo diretto, diversamente dalla figura circostanziale che è, come detto, legata al dolo intenzionale, sopratutto ove si consideri che in questa pronuncia la Corte si rifà ad un dolo diretto che, come già sottolineato, si limita alla rappresentazione e non alla volizione: una prospettazione, anch'essa, più vicina a quanto si diceva nella "Demitry" piuttosto che alle operazioni di puntellamento dell'elemento soggettivo eseguite nella "Mannino", che nettamente esclude forme psicologiche di mera rappresentazione nell'integrazione del concorso eventuale.
Anche questa interpretazione del concorso esterno, che sembra risalire agli esordi del processo di definizione pretoria della fattispecie, può essere intesa come il prodotto - forse, la conseguenza - della ricostruzione separata del dolo, che si emancipa dalla volizione dell'evento e delle conseguenze della propria condotta, pur senza sfociare (almeno da un punto di vista formale e tassonomico) nel problematico campo del dolo eventuale: sarebbe proprio questa forma di dolo diretto, secondo la Corte, il coefficiente di imputazione soggettiva sufficiente ad integrare il reato di concorso esterno, diversamente dalla circostanza de qua, che richiederebbe il combinato soggettivo di rappresentazione e volontà nella sua veste di dolo intenzionale (e specularmente, come già evidenziato, il dolo diretto per il concorrente).
5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa
La disamina della sentenza suscita taluni rilievi critici da avanzarsi rispetto alla necessità che alcuni passaggi fossero corredati da un più ampio apparato motivazionale. Necessità avvertita rispetto alla rivisitazione dei principi in tema di dolo delle Sezioni Unite "Thyssen", che comporta, proprio perché espresso dalle stesse Sezioni Unite qualche anno più tardi, un'oscillazione giurisprudenziale fatalmente oggetto di nuovo dibattito pretorio; come pure, qualche perplessità rimane nel tratteggio del concorso esterno effettuato dalla sentenza in commento, che sembra rimettere in pista una giurisprudenza abbandonata dagli interpreti da oltre un ventennio: così amplificando l'esigenza, da tempo pressante, di un intervento legislativo chiaro e puntuale sul concorso esterno[17].
Nondimeno, appaga la complessiva ricostruzione - giuridica e criminologica, l'una natura discendendo dall'altra - dell'area della contiguità mafiosa. Quel cordone di contenimento dell'agevolazione mafiosa, steso dal legislatore penale del 1991 (anche) con l'introduzione di questa peculiare figura aggravatrice, non può dunque limitarsi a comprendere le condotte di chi abbia un collegamento diretto con l’associazione e voglia attivamente sostenerne gli obiettivi, ma deve coinvolgere e sanzionare anche altre categorie di agenti: anzitutto chi, sulla base di risultanze probatorie obiettive, risulti consapevole che il proprio contributo vada ad agevolare, seppur occasionalmente, seppur con un'unica condotta perpetrata, la compagine mafiosa.
Con quest'ampliamento casistico ci si avvicina molto – sempre discorrendo sul piano criminologico - alla cerchia dei professionisti, dei colletti bianchi, a cui il mondo mafioso si appoggia con notevole profitto, sopratutto con riguardo alle attività economiche poste in essere dalle "mafie imprenditrici". E' anche a questi tipi d'autore, fortemente caratterizzati (e basti solo pensare ai riciclatori dei capitali mafiosi), che la Corte pone mente definendo la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa in senso soggettivo, agganciandola però ad elementi obiettivi di condotta che lumeggino tanto il profilo offensivo tanto il grado di dolo mostrato, e soprattutto permettendone l’estensione, veicolandola attraverso un elemento soggettivo meno marcato ma comunque doloso: in tal modo, le Sezioni Unite scolpiscono su una norma che «rappresenta garanzia di maggiore efficacia della funzione preventivo-repressiva del fenomeno mafioso» (così la Corte, nella sua premessa), un principio di diritto dall'elevato tasso general-preventivo, sopratutto rispetto al vasto mondo dei "consigliori", dei professionisti e dei funzionari pubblici "a disposizione"[18], i cui comportamenti contigui all'associazione mafiosa saranno adesso valutati, tra l'altro, nel largo alveo interpretativo dell'art. 416-bis.1 c.p., sub specie dell'agevolazione.
Da quest'approccio teorico-applicativo a base criminologica si dipana la ricostruzione dogmatica della circostanza, da trattare - almeno rispetto ai suoi elementi di struttura - come fattispecie autonoma, dal momento che essa non vale soltanto a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva, con riferimento al peculiare bene protetto, ma spesso riesce ad assorbire il disvalore del reato a cui accede[19], tanto da determinare - la circostanza - conseguenze di grande rilievo sostanziale, processuale, penitenziario[20].
Emerge una figura circostanziale caratterizzata, per quanto appena detto, da pericolo astratto, nondimeno costruita su di una condotta offensiva, obiettivamente idonea allo scopo, e, sul versante soggettivo, da dolo (anche) di pericolo, nonché da un dolo specifico marcatamente anticipatorio[21]. Ciò, volendosi sanzionare quell'agevolazione che produca «l'effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione»: non si spiegherebbero altrimenti i condivisibili richiami ad un altro scopo della norma: quello di evitare «fenomeni emulativi, essi stessi forieri di un rafforzamento della tipica struttura mafiosa», ad ulteriore riprova della collocazione della fattispecie nel campo del pericolo astratto. Il tema dei fenomeni "emulativi" richiamati in sentenza ha un connotato criminologico che, in questo senso, è davvero illuminante, perché chi emula opera su di un piano parallelo a quello dell'associazione, ritenendo possibile il contatto e l'apporto materiale: ciò può avvenire, ma è più logico che non accada.
D'altronde, si tratta di un'anticipazione della tutela penale necessitata dalla fisionomia dell'oggetto di tutela[22] che nel caso di specie notoriamente richiede, accanto ad un'attività di elaborazione delle leggi e della loro interpretazione, il massimo grado di attenzione e di sforzo delle istituzioni politiche e sociali.
[1] Donini, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell'illecito interpretativo, in Dir. pen. cont., 3, 2016, p. 8.
[2] Cfr. Crisafulli, Disposizione (e norma) (voce), in Enc. Dir., XIII, 1964, p. 195 ss.
[3] Sul punto sia sufficiente il pensiero ad un noto teorico della "crisi della fattispecie": Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, p. 987 ss.; Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, p. 917 ss.
[4] Donini, Il diritto giurisprudenziale, cit., p. 4.
[5] Così Fiandaca, Commento all'art. 1 della Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Norme antimafia), in Leg. pen., 1983, p. 263
[6] Il riferimento testuale è al lucido contributo di Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Dir. pen. cont., 1, 2012, p. 252
[7] Ad esempio si concentra sull'aspetto più concreto ed immediato dell'offesa Fondaroli, Commento sub art. 7 D.L. 152/91, in Palazzo – Paliero (diretto da), Commentario breve alle leggi penali complementari, Cedam, 2007, p. 820; vd. anche Squillaci, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, p. 15.
[8] Guerini - Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Giappichelli, 2019, p. 132.
[9] Una forma di responsabilità che si pone, come noto, in contrasto con i principi di legalità e colpevolezza: sul punto si veda Pelissero, Il concorso doloso mediante omissione: tracce di responsabilità di posizione, in Giur. it., 2010, p. 978 ss.; con riferimento alle forme di responsabilità da posizione nel contesto associativo e mafioso, cfr. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazioni per delinquere, in Cass. pen., 1995, p. 263.
[10] Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in Cass. pen., 2015, p. 4624 ss., con nota di De Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, che, come noto, ha suscitato un variegato dibattito nel campo dottrinale: cfr. anche Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso "Thyssenkrupp", in Giur. it., 2014, p. 2566 ss.; De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 77 ss.
[11] Bricola, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di accertamento e di oggetto del dolo, Giuffré, 1960, p. 28; Pecoraro Albani, Il dolo, Jovene, 1955, p. 325 ss.; da ultimo Pulitanò, Diritto penale, V° ed., Giappichelli, 2013, p. 315: «Il contenuto tipico del dolo eventuale deve avere un afferrabile contenuto intellettivo e volitivo». Peraltro, una ricostruzione in questo senso della nozione di dolo eventuale sarebbe operativa già sul terreno della tipicità penale, ex artt. 42 e 43 c.p.: così Raffaele, op. cit., p. 420, anche sulla scorta del pensiero di Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Giuffré, 1999, p. 71.
[12] Ad una simile conclusione applicativa era giunto il Pubblico Ministero nelle sue note d'udienza, passando però da una diversa lettura della norma, che non transitava dai "motivi a delinquere": la circostanza dovrebbe essere classificata «come “oggettiva” in quanto ex art. 70 c.p. afferente a “la gravità del danno o del pericolo”, se si facesse riferimento al bene giuridico preso in considerazione nella previsione normativa», applicando in tal modo ai compartecipi «il generale regime di imputazione minimo delle aggravanti di cui al secondo comma dell'art. 59 c.p.».
[13] Confronto che d'altro canto era stato sollecitato dal Pubblico Ministero, per cui la Corte avrebbe dovuto vagliare, tra l'altro, la questione dei «rapporti tra la ritenuta necessità di un dolo specifico dell’aggravante qualificata, come soggettiva e la giurisprudenza di codeste sezioni unite che hanno considerato il dolo specifico di agevolazione dell’associazione come componente strutturale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa».
[14] Ad es. Siracusano, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1875, afferma che una volta elaborato per via giurisprudenziale o addirittura tipizzato, il concorso esterno potrebbe soppiantare la speculare figura circostanziale di carattere agevolativo.
[15] Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, in Cass. pen., 2005, p. 3732 ss.
[16] Sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss.
[17] Sul punto De Vero, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. e proc., 2003, p. 1327 ss.; Maiello, Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge in AA.VV. Scenari di mafia, a cura di Fiandaca e Visconti, Giappichelli, 2010, p. 172; volendo, si veda inoltre Apollonio, Potere politico e leggi antimafia nella Seconda Repubblica, in Apollonio (a cura di), Processo e legge penale nella Seconda Repubblica, Carocci, 2015, p. 142.
[18] Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico criminali, dommatici e applicativi, Dike, 2016, p. 62, afferma che l'ampiezza applicativa dell'aggravante in parola generalmente riesce a fornire una «risposta sanzionatoria proporzionata alla gravità dei fatti rispetto a tutte le condotte, oggettivamente o soggettivamente, riconducibili nella sfera della contiguità politico-mafiosa». Un'affermazione che oggi rinviene nuova linfa nella sentenza in commento.
[19] Sarebbe limitativo, non fosse altro che per il disvalore che promana ed il bene giuridico protetto (lo stesso del reato di associazione mafiosa), indicarla come un elemento che sta "attorno" al reato, al pari di qualsiasi altra circostanza.
[20] Una tesi che, volendo, è già stata evocata in Apollonio, Il metodo mafioso nello spazio transfrontaliero. Il problema dei rapporti tra l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/1991 e quella della transnazionalità (art. 4 L. 146/2006), in Dir. pen. cont., 1, 2018, p. 11.
[21] Una tale tecnica compilativa nei reati a sfondo mafioso, con riferimento alla tipizzazione dell'elemento soggettivo, è stata presa in esame da Marino, "Il "filo di Arianna". Dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in Dir. pen. cont., 6, 2018, p. 61: «l’apicalità dei beni coinvolti nei settori, ad esempio, della mafia e del terrorismo, spiega il ricorso legislativo al paradigma anticipatorio».
[22] Se è vero che occorre sempre calibrare il giudizio sul bene giuridico tutelato, sfuggendo alla tentazione - che da sempre aleggia nel campo dei reati di pericolo astratto o presunto - di giungere a conclusioni perentorie «su base ontologica»: così Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Giappichelli, 2005, p. 289; Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 454 ss.
Lo smart working in tempo di covid-19
di Antonella Occhino - prof. ordinario diritto del lavoro facoltà di economia Università Cattolica del Sacro Cuore
Sommario: 1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile. - 2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti. - 3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza. – 4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile. - 5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile.
L’applicazione straordinaria in tempo di Covid-19 dello smart working è senza dubbio una situazione eccezionale per l’estensione della misura e per l’incrocio delle fonti che regolano in Italia il lavoro a distanza. La disciplina di tutela, per espresso rinvio delle fonti che nel frattempo sono intervenute, rimane quella prevista dalla legge 81/2017 che regola il lavoro cd. agile nel quadro dei rapporti particolari di lavoro subordinato in virtù di una clausola individuale pattuita tra le parti e che determina adattamenti coerenti delle tutele applicabili, in primis in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, incluso il rispetto della disciplina sui riposi come estensione del diritto alla salute, e poi circa i limiti ai poteri datoriali, con particolare riferimento ai controlli a distanza. L’avvio della modalità a distanza nel lavoro subordinato, cd. smart working, resta così affidata dalla legge all’apposizione consensuale di un “patto di lavoro agile” al contratto di lavoro subordinato, qualunque altra clausola lo caratterizzi ulteriormente, ovvero sia esso a tempo indeterminato o determinato, a tempo pieno o parziale, in apprendistato – in tal caso con gli adattamenti necessari all’assolvimento dell’obbligo formativo - o altrimenti qualificato dalla volontà delle parti.
2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti.
Nella stretta attualità dell’avvio della cd. fase 2 delle misure di contrasto e contenimento del contagio da Covid-19 due documenti di rilievo nazionale hanno affrontato il tema dello smart working per le imprese del settore privato, a valle della tenuta della legge n. 81/2017. Rispetto ad essi la disciplina di legge si integra con quanto viene concordato nei testi prodotti dalla concertazione tripartita tra Governo e Parti sociali (Protocollo del 24 aprile 2020) e dalla contrattazione bilaterale di ogni livello (CCNL e contratti collettivi decentrati, cui lo stesso Protocollo rinvia) e con una fonte di rango regolamentare (DPCM) del 26 aprile 2020, G.U. n. 108 del 27 aprile 2020) che ne adatta i contenuti senza poterla contraddire, non avendo la “forza di legge” necessaria (come hanno i DL e i D.LGS). A conferma, quando il legislatore ha inteso modificare la disciplina dello smart working in deroga alla legge 81/2017 ha operato tramite DL, come è avvenuto per le sole pubbliche amministrazioni con l’art. 87, commi 1-4, DL 18/2017.
Nel Protocollo del 24 aprile 2020 si promuove la diffusione del lavoro agile nel rispetto del principio della consensualità della trasformazione del contratto dalla modalità in presenza a quella a distanza, secondo formule totali o alternate. Ad esempio vi si afferma che “il documento contiene linee guida”, che si tratta della “possibilità per l’azienda di ricorrere al lavoro agile”, che nel DPCM dell’11 marzo 2020 si era previsto che per le attività di produzione “tali misure raccomandano: sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere volte al proprio domicilio o in modalità a distanza”. L’efficacia del Protocollo è affidata alla implementazione tramite i vincoli associativi che legano le imprese alle associazioni firmatarie, rafforzate dalla affermazione che “le imprese adottano il presente Protocollo”.
Il DPCM del 26 aprile 2020 esclude l’acquisizione del consenso del lavoratore come momento necessario per il passaggio dalla modalità in presenza a quella a distanza, là dove all’art. 1, comma 1, lettera gg) dispone che “fermo restando quanto previsto dall’art. 87 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, per i datori di lavoro pubblici, la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti” (aggiungendosi solo che “gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”), con una disposizione che, ferme le ragioni emergenziali, modifica tuttavia un aspetto fondamentale dell’istituto come previsto dalla legge 81/2017, ovvero la necessaria contrattualità del passaggio alla modalità a distanza, tipica del “patto di lavoro agile”. E’ pur vero che la fattispecie del lavoro agile è definita dalla legge 81/2017 (art. 1) “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Benché non sia del tutto coerente al sistema delle fonti che una disposizione regolamentare deroghi alla legge sulla necessaria consensualità del passaggio dalla modalità in presenza alla modalità a distanza (vista la previsione del DPCM per cui “la modalità di lavoro agile … può essere applicata … a ogni rapporto di lavoro subordinato .. anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”) è pur vero che la ratio della norma si giustifica sia nel quadro delle misure sulla limitazione degli spostamenti, incluso il commuting casa-lavoro, sia di quelle che impongono il distanziamento fisico nei luoghi di lavoro, con conseguente riduzione dei possibili spazi di compresenza effettiva negli ambienti di lavoro. Ed è anche da considerare che l’implementazione della modalità a distanza definisce a contrario i presupposti di ricorso alla Cassa integrazione guadagni in deroga (cd. CIGD), poiché essi sussistono a fronte di sospensioni dell’attività lavorativa che invece lo smart working, almeno in parte, consente di evitare.
3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza.
Il Protocollo del 24 aprile 2020 si intitola “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, ed è stato firmato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri del lavoro e delle politiche sociali, dello sviluppo economico e della salute, da Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confindustria, Rete Imprese Italia (Confesercenti, Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio), Confapi, Alleanza Cooperative (Legacoop, Confcooperative, AGCI), Confimi, Federdistribuzione, Confprofessioni, ad integrazione dell’omonimo Protocollo del 14 marzo 2020. Si tratta di un documento di concertazione sociale tripartita condiviso da tutte le principali sigle associative rappresentative del mondo del lavoro e delle imprese, il che conferisce indubbiamente ai suoi contenuti una ampia legittimazione sociale.
Al punto 8 - organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte e smart working, rimodulazione dei livelli produttivi) - si prevede che “in riferimento al DPCM 11 marzo 2020, punto 7, limitatamente al periodo della emergenza dovuta al COVID-19, le imprese potranno, avendo a riferimento quanto previsto dai CCNL e favorendo così le intese con le rappresentanze sindacali aziendali:” (ex plurimis): “disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione o, comunque, di quelli dei quali è possibile il funzionamento mediante il ricorso allo smart work, o comunque a distanza”; “utilizzare lo smart working per tutte quelle attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza nel caso vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, valutare sempre la possibilità di assicurare che gli stessi riguardino l’intera compagine aziendale, se del caso anche con opportune rotazioni”.
Il rinvio alla contrattazione collettiva per la effettiva implementazione dello smart working – cui anche il Protocollo fa espresso riferimento - si conferma come la via più efficace per la realizzazione degli obiettivi dichiarati, sia perché in assenza di una propria forza normativa il Protocollo non potrebbe incidere sugli obblighi delle imprese se non per via del vincolo associativo con l’organizzazione firmataria, sia perché sul piano sostanziale la contrattazione collettiva si conferma la fonte di origine sociale reciprocamente complementare di quella statuale/regionale per ogni aspetto di disciplina dei rapporti di lavoro. D’altronde proprio in tema di smart working la contrattazione collettiva è stata la vera protagonista delle prassi aziendali che già prima della legge 81/2017 ne avevano promosso la diffusione, benché la legge abbia omesso - sia per l’apposizione del patto di lavoro agile sia per la relativa disciplina – il rinvio ai contratti collettivi - passati, presenti, futuri - senza per questo escluderne l’efficacia sui singoli rapporti di lavoro, in virtù dei meccanismi normali che presiedono alla loro applicazione.
In effetti lo smart working in Italia origina proprio dall’esperienza di alcune grandi imprese, agli inizi prevalentemente nel settore del credito (banche e assicurazioni), ma anche in altri importanti settori del secondario (alimentari) e del terziario (trasporti), dove si era già sviluppata - prima della legge 81/2017 - una vivace contrattazione aziendale sullo smart working, destinato agli inizi per lo più al personale impiegatizio e direttivo, e poi estesa a tutti i lavoratori, nei limiti del possibile, secondo diversi piani di HRM. Se l’informatica ha indubbiamente favorito le prime e ancora attuali applicazioni del lavoro a distanza, la robotica in prospettiva può incrementare ulteriormente la diffusione dello smart working anche nelle fasi più operative dei processi produttivi.
4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile.
L’espressione smart working, tipicamente italiana, equivale a quella in uso nei paesi anglosassoni cd. home working o working at home, e si è affermata nel nostro ordinamento come una derivazione del telelavoro, anche in linea con l’aumento delle aspettative delle persone di fruire maggiormente di tempi e spazi di libertà, sia per obiettivi classici come la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sia per obiettivi diversi, dichiarati in alcuni contratti aziendali, come la tutela ambientale legata alla riduzione degli spostamenti casa-lavoro, e quindi dell’inquinamento. E la legge 81/2017 avrebbe raccolto queste indicazioni definendo la modalità agile in relazione allo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 18, comma 1).
L’ampiezza del fenomeno del lavoro a distanza si coglie a partire dal dato che il luogo di lavoro nei rapporti di lavoro subordinato è modificabile per decisione unilaterale del datore di lavoro senza altro limite che le “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” previste dall’art. 2103 c.c. (anche dopo la modifica operata dall’art. 3, d. lgs. 81/2015, che ha modificato i limiti dello jus variandi con riguardo alle mansioni), dove ai commi 9 e 10 si prevede che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” e che “… (omissis) ogni patto contrario è nullo”. Tuttavia il riconoscimento di un potere unilaterale di modifica del luogo della prestazione da parte del datore di lavoro trova fondamento nel suo potere organizzativo come riflesso della libertà di iniziativa economica privata di cui all’ art. 41 Cost., in modo che alle decisioni di investimento corrisponda il potere di disegnare i luoghi di lavoro e la assegnazione ad essi dei singoli lavoratori: principio utile quanto meno nei casi di delocalizzazione degli impianti sul territorio e anche di riorganizzazione logistica o in attuazione di policies di HRM che comportino il mutamento del luogo di lavoro anche in linea con eventuali modifiche delle mansioni.
Ora come allora la disposizione dell’art. 2103 c.c. vale ad impedire i trasferimenti disciplinari, discriminatori e comunque arbitrari, col richiedere le “comprovate ragioni” per l’esercizio del potere di variazione del luogo di lavoro senza il consenso del lavoratore, ma di un potere da intendersi limitato agli spostamenti decisi all’interno dei luoghi aziendali (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, secondo la definizione di unità produttiva di cui all’art. 35 dello Statuto dei lavoratori), non arrivando a permettere il potere unilaterale di variazione della modalità di lavoro da quella in presenza a quella a distanza, intesa come da svolgersi in un luogo di disponibilità del lavoratore. Lo conferma la legge 81/2017 che per tale passaggio impone che al contratto di lavoro sia annessa una specifica clausola individuale pattuita tra le parti, che è appunto il “patto di lavoro agile”.
5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
Le origini della legislazione italiana sul lavoro a distanza affondano le radici nel lavoro a domicilio. Ancora diffuso nel manifatturiero si tratta di una modalità di svolgimento a distanza dell’attività lavorativa senza quel collegamento telematico che invece caratterizza il telelavoro e il lavoro agile. Per esso la nozione di subordinazione fu corretta, in deroga all’art. 2094 c.c., dalla legge 877/1973, che la limitò a “quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione e le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione oggetto dell’attività dell’imprenditore committente” (art. 1, comma 2).
Nel lavoro a distanza (telelavoro o lavoro agile, ovvero smart working nel lessico comune) la subordinazione può riconoscersi normalmente, poiché il collegamento telematico compensa la distanza fisica permettendo l’interazione costante tra il datore di lavoro e il lavoratore e quindi l’esercizio dei poteri datoriali che qualificano la sub-ordinazione, intesa come etero-direzione (potere direttivo e di riflesso potere di controllo e disciplinare) e la dipendenza di cui all’art. 2094 c.c. Fuori dalla nozione normale di subordinazione e quindi fuori dall’esercizio dei poteri datoriali, sono solo i collaboratori coordinati e continuativi, cd. co.co.co. (per i quali la legge 81/2017 ha integrato la nozione dell’art. 409, n. 3, c.p.c. aggiungendo che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”) cui, in presenza o a distanza, normalmente le tutele della subordinazione non sono riconosciute, per la naturale differenza tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo.
Poiché la diffusione dello smart working, da un lato, e la reciproca diffusione delle co.co.co. che si svolgono nei locali aziendali sono due fenomeni che hanno posto al centro dell’attenzione la questione del luogo di lavoro in modo diverso dal passato (subordinati in azienda vs. autonomi altrove), nel riaffermare che lo smart workging appartiene all’area del lavoro subordinato per completezza va ricordato che un giudizio di equivalenza del pari bisogno di tutela è stato alla base della disposizione che (art. 2, d. lgs. 81/2015) per cui “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” (ovvero ai co.co.co. cd. etero-organizzati), aggiungendosi che “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
Il collegamento a distanza e la modalità telematica di esecuzione del lavoro, lungi dall’attrarre nella subordinazione casi che di per loro non lo sarebbero (e quindi restando autonome le collaborazioni non caratterizzate dagli indici della subordinazione né considerate equivalenti per meritevolezza delle tutele in quanto etero-organizzate ai sensi dell’art. 2 d. lgs. 81/2015), diventa una modalità alternativa alla presenza del lavoratore nella sede aziendale e rappresenta un carattere modale della prestazione di lavoro che circa il luogo, e quindi anche il tempo, viene considerata compatibile con la fattispecie e gli effetti della subordinazione, con le varianti specificamente previste dalla legge.
L’indicazione del legislatore sarebbe proprio quella di ammettere una subordinazione a distanza caratterizzata dall’allentamento del legame temporale e spaziale della prestazione di lavoro e tuttavia, espressamente, riconducibile alla nozione dell’art. 2094 c.c., di subordinazione a tutti gli effetti, con la precisa intenzione di trattenere i lavoratori agili all’interno dello schema del lavoro subordinato e pertanto garantendo loro la conservazione delle tutele tipiche della subordinazione, in un certo senso, per questa via, rafforzando la loro posizione, e non il suo contrario. In tale scenario lo smart working, riferendosi a fattispecie sicure di subordinazione del tipo del telelavoro e del lavoro agile, può contribuire ad un possibile ripensamento delle categorie fondamentali del diritto del lavoro, che si è costruito in un periodo storico dove era netta la distinzione tra il bisogno di tutela di chi svolge la propria attività lavorativa all’interno dell’azienda, in condizioni classiche di subordinazione ai poteri datoriali, e di chi lavora in luoghi di propria disponibilità, in condizioni classiche di autonomia, sebbene non solo occasionalmente ma anche con una certa continuità.
L’emergenza in quanto tale non modifica la struttura normativa del diritto dei rapporti di lavoro, ma offre certamente elementi normativi e fattuali che sollecitano una riflessione a partire dagli attuali “campi” di applicazione delle tutele, i quali in misura piena riguardano sia i lavoratori subordinati, anche se a distanza, sia gli autonomi continuativi etero-organizzati, non gli altri co.co.co. né gli autonomi occasionali. Se la subordinazione a distanza sembra attenuata, tanto quanto l’autonomia in presenza, il tema della coerenza complessiva tra fattispecie astratte e bisogni concreti apre ad una riflessione ampia sul riassetto delle tutele che non potrà non tener conto, nel quadro dei fenomeni economici e sociali del tempo, della importante diffusione dello smart working (rectius telelavoro e ora lavoro agile) che è già in atto e che si annuncia in espansione nel breve, medio e forse anche lungo periodo.
Diritto e sentimento: le ragioni di un ritorno al principio di effettività.
di Paolo Spaziani
Al mio caro Maestro, il Prof. Cesare Massimo Bianca, da cui ho appreso che il diritto, nella sua dimensione effettiva e vivente, trova fondamento nei valori eterni espressi dal sentimento umano.
La sensazione che la normativa emergenziale, resa necessaria dall’esigenza di contenere la diffusione della pandemia, abbia determinato una incolmabile cesura tra le norme giuridiche e i valori morali del sentimento umano socialmente avvertiti, costituisce la ragione di una rinnovata indagine sui rapporti tra sentimento e diritto, che devono essere analizzati, con metodo dogmatico, sia con riguardo al diritto oggettivo che con riguardo al diritto in senso soggettivo. L’indagine muove dalla considerazione del principio di effettività che, in quanto principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità, ne costituisce il connotato essenziale. Accedendo dunque ad una concezione del diritto nella sua dimensione effettiva, quale diritto socialmente accettato ed applicato, si evidenzia la rilevanza giuridica del sentimento nel momento in cui da coscienza di un valore (o disvalore) meramente individuale si trasforma in coscienza di un valore (o disvalore) sociale. Quale valore (o disvalore) sociale il sentimento diviene possibile oggetto di interesse meritevole di tutela nell’ambito del diritto in senso soggettivo e costituisce il fondamento ultimo legittimante del diritto in senso oggettivo.
SOMMARIO: 1. Diritto e sentimento: le ragioni di una rinnovata indagine. - 2. I rapporti tra diritto e sentimento con riguardo al diritto in senso oggettivo. Il principio di effettività nelle dottrine sociologiche ed istituzionali. - 3. Limiti concettuali dell’effettività sociologica e di quella istituzionale. - 4. Il principio di effettività quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità. - 5. L’effettività quale connotato essenziale della giuridicità. Nozione del diritto effettivo come diritto socialmente accettato ed applicato. - 6. L’incidenza del sentimento della società sul diritto effettivo. Il problema della rilevanza giuridica del sentimento. - 7. Sentimento e diritto in senso soggettivo. Ordinaria irrilevanza giuridica del sentimento sia come fatto giuridico sia come interesse giuridicamente rilevante. - 8. Eccezionale rilevanza del sentimento quale interesse tutelato dal diritto in senso soggettivo. Il sentimento come fondamento del diritto oggettivo effettivo.
1. Diritto e sentimento: le ragioni di una rinnovata indagine.
La ragione - direi quasi la necessità - di tornare ad indagare sui rapporti tra diritto e sentimento[1] è data dal tempo in cui si scrivono queste brevi pagine.
In questo tempo, che le cronache giornaliere, con espressione efficacemente evocativa, indicano come “il tempo della pandemia”, è rapidamente sorto e altrettanto rapidamente (e confusamente) si è sviluppato il c.d. diritto dell’emergenza: una congerie di norme poste attraverso alcuni decreti-legge (in parte convertiti in parte in corso di conversione in parte persino abrogati), numerosi DPCM, e una serie indefinita di ordinanze regionali e comunali.
L’affastellarsi di questi provvedimenti d’urgenza, giustificati dall’esigenza di prevenire o mitigare il contagio, ha ripresentato all’attenzione dei giuristi, oltre ai ricorrenti problemi del coordinamento di fonti distinte per posizione gerarchica e competenza, anche il tema fondamentale del rapporto tra autorità e libertà.
La limitazione operata con questi provvedimenti a talune libertà costituzionalmente garantite, come quelle di riunione e di circolazione, ha riproposto la questione della possibilità dello Stato-apparato di conculcare alcune basilari garanzie dello Stato-comunità; dei confini entro i quali i cittadini, anche in funzione della tutela di interessi preminenti di rilievo costituzionale come quello alla salute, possono vedere compressi i loro diritti fondamentali; delle modalità con cui tale costrizione, nei limiti in cui dovesse reputarsi possibile, possa in concreto essere attuata; della legittimità o meno di una limitazione dei diritti fondamentali operata quasi esclusivamente dal potere esecutivo, attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza o addirittura a fonti di rango secondario, e con una sostanziale marginalizzazione del ruolo del Parlamento.
Su un piano più generale, l’esigenza di fronteggiare la pandemia con strumenti normativi straordinari di carattere emergenziale, ha indotto nuovamente i giuristi ad interrogarsi sul ‹‹volto violento›› del diritto e, direi, sulla cinica disumanità che anima la produzione giuridica, la quale proprio nei momenti di massima afflizione dei consociati, rivela il suo lato oscuro, trasformandosi da strumento di garanzia dei diritti a strumento di sospensione degli stessi[2].
Su queste questioni, che sono state già trattate in numerosi scritti e hanno suscitato una rosa variegata di opinioni, come sempre accade sulle tematiche giuridiche[3], chi scrive non ha intenzione di ritornare, non possedendo gli strumenti del costituzionalista[4].
In questa sede, si vuole invece prendere le mosse da una specifica sensazione, ridestata dal diritto dell’emergenza nei cittadini che sono chiamati ad osservarlo.
La sensazione è che la normativa emergenziale, pur perseguendo, con tutti i limiti della fallace azione umana, le finalità, corrispondenti all’‹‹intima essenza›› della Costituzione, di ‹‹assicurare la vita, la salute e la dignità delle persone››[5], non sfugga, a prescindere dal giudizio di legittimità formale, a quello di arbitrarietà di fronte alle incomprimibili esigenze morali dell’individuo.
L’esigenza, manifestata da più parti, di un allentamento dei vincoli apposti dai pubblici poteri al normale svolgimento della vita di relazione, sembra trovare fondamento, più che in convinte ragioni di illegittimità costituzionale della normativa emergenziale, nel rinnovato conflitto tra la legge umana e la coscienza morale.
Uno degli esempi più rilevanti e umanamente toccanti, in tal senso, è dato dalla norma che ha vietato, durante l’emergenza pandemica, la celebrazione dei funerali, privando le vittime, destinate alla cremazione, dell’ultimo saluto dei parenti, del calore delle lacrime dei familiari, della vicinanza delle loro preghiere.
Dinanzi alle tristi immagini, diffuse attraverso i telegiornali, delle lunghe file di convogli militari incaricati del trasporto delle bare, la coscienza sociale ha rivissuto, anche visivamente, la crisi antigoniana dello Stato che sacrifica irragionevolmente l’interesse morale espresso dal sentimento umano della pietà per i defunti all’arbitrio della legge positiva.
Non si tratta, propriamente, di un contrasto tra norme giuridiche e norme morali, quanto piuttosto di un visibile scollamento delle prime dal tessuto morale della società, dal sentimento collettivo di questa.
Risuona, questa sensazione, nelle denunce provenienti da diversi esponenti della cultura e della società, anche molto eterogenei tra loro.
In un recente articolo[6], Giorgio Agamben si è chiesto come fosse potuto avvenire il crollo etico e politico di un intero paese di fronte a una malattia, indicando un aspetto (‹‹forse il più grave››) dell’abdicazione dello Stato ‹‹ai propri principi etici e politici›› proprio nel destino riservato dalla legge dell’emergenza ai corpi delle persone morte.
‹‹Come abbiamo potuto accettare - si è chiesto Agamben - che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma anche - cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi - che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?››.
Non è una recriminazione contro l’illegittimità formale di una norma giuridica né, più in generale, il rilievo della mancanza di un fondamento costituzionale del diritto dell’emergenza. È, piuttosto, la denuncia di una cesura incolmabile tra il diritto positivo e i valori irrinunciabili del sentimento umano.
Negli stessi giorni dell’emergenza sanitaria, il cantautore americano Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, ha pubblicato, dopo diversi anni di silenzio artistico, due nuove canzoni, l’una dedicata alla rievocazione narrativa dell’assassinio di Kennedy[7], l’altra ad una riflessione introspettiva sull’animo umano[8].
La meditata scelta poetica di mettere in posizione di simmetria ortogonale la dimensione descrittiva e quella espressiva, il racconto e la lirica, il foro interno e il foro esterno, appare in perfetta sintonia con le istanze esistenziali sollecitate dalla legislazione emergenziale in tempi di pandemia.
Con questa scelta, ponendo in relazione una delle vicende in cui la storia, secondo l’autore, ha registrato la sconfitta della verità e della giustizia (e dunque il naufragio delle ragioni del diritto) con la varietà delle forme in cui la realtà esterna, introiettata nella profondità della coscienza individuale, viene da questa riconosciuta e valutata attraverso la moltitudine dei processi emozionali, il poeta di Duluth ha manifestato l’esigenza umana di ricercare, nel diritto, la proiezione del sentimento.
Un sentimento che, lasciando la coscienza individuale per entrare in quella collettiva, assume dimensione sociale e diviene, tecnicamente, interesse.
Un interesse il quale, come individuo vivo, nello specchio di se stesso invoca la presenza dell’altro; e nella ricerca della tutela giuridica, richiama all’infinita e infungibile solidarietà umana.
2. I rapporti tra diritto e sentimento con riguardo al diritto in senso oggettivo. Il principio di effettività nelle dottrine sociologiche ed istituzionali.
I rapporti tra sentimento e diritto vanno indagati sia con riguardo al diritto in senso oggettivo sia con riguardo al diritto in senso soggettivo.
Nel diritto in senso obiettivo, inteso come insieme di norme giuridiche (ordinamento giuridico) avente la funzione di regolare i rapporti tra soggetti portatori di interessi potenzialmente confliggenti nell’ambito di un gruppo sociale[9], si soleva tradizionalmente distinguere un profilo formale da uno sostanziale.
Per il Frosini, tali distinti profili corrispondevano, rispettivamente, alla lettera e allo spirito della legge[10].
Lo spirito della legge era ravvisabile nell’intenzione (voluntas o mens) del legislatore. Esso andava ricercato, peraltro, non nell’intenzione storica del legislatore, ma nella sua volontà attuale, nello ‹‹spirito vivente dell’ordinamento››[11].
L’aspetto sostanziale del diritto obiettivo aveva avuto il sopravvento sull’aspetto formale nelle dottrine sociologiche e in quelle istituzionali.
Nelle dottrine sociologiche aveva assunto per la prima volta rilevanza semantica l’espressione, oggi di diffuso e talora abusato utilizzo, ‹‹diritto vivente››[12].
Il diritto vivente - si diceva - va identificato in quello che, non positivizzato in proposizioni normative, regola tuttavia la vita sociale[13].
Si riconosceva, in tal modo, la possibilità che il diritto prendesse forma dalla realtà sociale, vale a dire che fatti o rapporti socialmente rilevanti potessero assumere valore normativo, cioè determinare la nascita di norme giuridiche socialmente riconosciute come tali, ancorché prive di validità formale, in quanto non introdotte da fonti di produzione legalmente istituite o riconosciute.
Si rivestiva, allo stesso modo, di nuovi e più moderni significati l’antico aforisma ex facto oritur ius[14].
L’origine del diritto obiettivo, nel suo aspetto sostanziale, veniva individuata nel fatto, ma questo fatto non era il fatto (comprensivo degli atti) che l’ordinamento qualificava formalmente come fonte del diritto (fonti-atto o fonti-atto), bensì il fatto materiale, inteso come ‹‹realtà viva dei rapporti e dei comportamenti umani››[15].
In questa concezione, l’effetto regolatorio non costituiva il risultato della validità formale della norma giuridica, quale introdotta dalla fonte di produzione, ma la conseguenza del sommarsi di una serie di fatti materiali, percepiti a livello sociale (leggi, sentenze, provvedimenti), di cui il giurista doveva cogliere, non la regolazione positiva, ma il rapporto di causa e ed effetto tra loro intercorrente[16].
Oltre che dalla dottrina sull’effettività sociologica, il sopravvento del profilo sostanziale sul profilo formale del diritto obiettivo era stato affermato da quella sull’effettività istituzionale.
Secondo questa dottrina, un ordinamento giuridico o, più precisamente, un’istituzione assumeva connotati di giuridica validità nel momento in cui si fosse affermato come effettivamente esistente ed avesse svolto in concreto le sue funzioni. La legittimità dell’istituzione - si diceva - non dipende da un giudizio di conformità della stessa ad un modello etico o giuridico predefinito, ma dalla effettività del suo funzionamento[17].
3. Limiti concettuali dell’effettività sociologica e di quella istituzionale.
L’effettività istituzionale non ha incontrato significativi dissensi nell’elaborazione dottrinale, poiché risultava fondata su un presupposto difficilmente contestabile: il presupposto per cui l’istituzione statale effettivamente e stabilmente affermatasi in un dato territorio trova la propria legittimazione proprio in tale stabilità ed effettività. Si tratta - come rilevava Santi Romano - di ‹‹autolegittimazione››, in quanto l’origine dell’istituzione statale non è un procedimento regolato da una norma giuridica; lo Stato ‹‹esiste perché esiste e dal momento in cui ha vita››[18]. La nascita coincide con l’effettività dell’istituzione e la sua vita dura finché dura tale effettività.
I limiti dell’effettività istituzionale sono tuttavia emersi proprio dalla sua esclusiva riferibilità all’istituzione, e cioè all’ordinamento nel suo complesso.
Se l’ordinamento ripete la propria legittimazione dalla sua affermazione effettiva, ciò non vale per le singole norme le quali, al contrario, proprio nelle fonti di produzione istituite da quell’ordinamento autolegittimantesi, trovano la loro validità formale.
Il giuspubblicista può muovere dal dato di esperienza tratto dai rapporti costituzionali e internazionali che riconosce autolegittimazione all’istituzione statale la quale abbia la forza di affermarsi stabilmente nel governo di un certo territorio.
Ma le singole norme che regolano la vita dei consociati in quel territorio traggono la loro validità formale dalle fonti di produzione che quello stesso ordinamento, nel momento in cui si autolegittima, istituisce e riconosce.
L’effettività, in una parola, vale per l’ordinamento nel suo complesso, inteso come istituzione, non per le singole norme[19], ed in particolare per quelle volte a regolare i rapporti tra privati[20].
Diversamente che nella dottrina istituzionale, in quella sociologica il principio di effettività era riferito ad ogni singola norma giuridica.
L’effettività sociologica ha peraltro trovato il suo limite nell’estremizzazione della materialità del fatto, ridotto a fenomeno naturale governato dalla legge di causalità.
Questa estremizzazione era infatti tale da escludere l’in sé della giuridicità poiché l’effetto giuridico del fatto non veniva fatto dipendere da una scelta ordinamentale fondata su un giudizio di valutazione e di contemperamento di interessi, ma da una concatenazione meramente meccanicistica di fenomeni naturali.
In questo ordine di fenomeni naturali non trovava più posto la norma giuridica, intesa come effetto regolatorio dipendente da un giudizio, ma soltanto la conseguenza necessitata di una premessa causale materiale, che si traduceva nella negazione dell’esistenza stessa del diritto[21].
L’elaborazione dell’effettività sociologica ha pertanto incontrato il dissenso sia delle dottrine normativistiche che di quelle giusnaturalistiche, non potendo essere ammessa dalle prime l’idea di una riduzione dell’ordine giuridico ad ordine naturale[22] e non essendo concepibile dalle seconde una regolazione dei rapporti sociali fondata su una meccanicistica ripetizione di fenomeni naturali causalmente collegati, indipendentemente dal giudizio di conformità a principi sovraordinati.
4. Il principio di effettività quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità.
I limiti concettuali delle dottrine che hanno individuato sul piano sociologico ed istituzionale il fondamento del principio di effettività non minano tuttavia l’ontologica fondatezza del principio medesimo, quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità.
Tale fenomenologia dimostra che nella concreta applicazione giurisprudenziale le norme giuridiche assumono un significato di volta in volta diverso e che tale significato non coincide con quello ad esse originariamente attribuito dal legislatore storico, dal quale anzi tende a differenziarsi progressivamente nel corso del tempo.
La continua evoluzione degli istituti giuridici nel corso del tempo, attraverso l’applicazione giudiziale delle norme scritte, non incide sulle esigenze di uniformità e certezza del diritto, in quanto, per ripetere le parole di Piero Calamandrei, «uniformità del diritto non vuol dire immobilità del diritto, il quale, come tutte le manifestazioni dello spirito umano, si svolge ininterrottamente attraverso un continuo divenire»[23].
La cangiante evoluzione del significato della norma, resa evidente dall’esperienza applicativa, non può essere accettata dalla dottrina del normativismo puro: secondo questa dottrina, infatti, il significato della norma giuridica non può variare nel corso del tempo, dovendo essere identificato, sino all’eventuale sua abrogazione ad opera di una norma successiva, con quello attribuitole dall’organo legislativo da cui ha tratto validità formale, fondamento, a propria volta, del suo carattere giuridico.
Dinanzi all’inconciliabilità del dato derivante dalla esperienza applicativa con il sistema kelseniano che vuole la norma sempre eguale a sé medesima[24], il normativista è costretto, alternativamente, a fingere che l’evoluzione del diritto non è altro che manifestazione tardiva del suo (unico) significato, reso perspicuo dall’operazione interpretativa[25], oppure a qualificare come arbitraria tale ultima operazione, anche quando si consolidi nell’applicazione giurisprudenziale generalizzata, e conseguentemente ritenere viziate da violazione o falsa applicazione di legge tutte le sentenze che ne costituiscono il prodotto.
Poiché infatti il significato della norma non può essere mutato dal fatto della sua interpretazione, quest’ultima deve limitarsi a disvelarne il contenuto autentico, già ricompreso nella formulazione positiva ed in essa cristallizzato una volta per sempre; ove invece si ritenga che il significato della norma accolto nell’applicazione generalizzata non ne rispetti il precetto originario, si deve escludere la validità formale di tale applicazione, poiché viziata dall’abuso dell’interprete.
5. L’effettività quale connotato essenziale della giuridicità. Nozione del diritto effettivo come diritto socialmente accettato ed applicato.
L’alternativa tra la fictio della negazione della vicenda modificativa della norma e l’idea dell’abusività dell’applicazione generalizzata della stessa secondo nuovi significati, può essere superata se si accede all’idea che il significato della norma giuridica non si identifica con quello risultante dalla disposizione scritta ma con quello che essa assume nella coscienza sociale in un determinato momento storico.
L’operazione interpretativa, quando si consolida nell’applicazione generalizzata della giurisprudenza, non può essere qualificata né alla stregua di un atto arbitrariamente creativo o modificativo del contenuto autentico e invariabile della norma scritta né alla stregua di atto “neutro”, meramente disvelatore di tale contenuto, rimasto sinora miracolosamente celato.
Essa operazione, piuttosto, proprio in quanto non isolata ma generalmente condivisa, consente di individuare il contenuto che la norma assume in un certo momento storico in una data società, perché consente di circoscrivere il significato, la misura e i limiti con cui la coscienza sociale, in quel preciso momento, è disposta ad accettarla ed eventualmente il significato la misura e i limiti in cui, al contrario, la rifiuta.
Dalla misura e i limiti di tale accettazione sociale deriva lo stesso attributo della giuridicità: la norma, infatti, è giuridica se viene accettata ed applicata come tale dal corpo sociale, il quale può respingerla (facendola cadere in desuetudine), accettarla nella sua totalità oppure recepirla in un’accezione differente da quella corrispondente alla disposizione scritta, un’accezione che può anche mutare nel corso del tempo, assumendo significati nuovi e diversi.
In questa prospettiva il carattere di effettività non ha bisogno di essere giustificato sul piano sociologico o istituzionale poiché costituisce connotato essenziale della giuridicità[26].
Esulano, dunque, dalla nozione stessa di diritto, perché prive di effettività, le norme che il corpo sociale non accetta e non applica come tali, quand’anche formalmente valide.
Alla prevedibile obiezione che l’inosservanza delle norme non ne esclude la giuridicità poiché la violazione del diritto è un dato esperienziale non meno notorio della sua evoluzione nel tempo, può altrettanto agevolmente replicarsi che l’accettazione e l’applicazione sociale della norma non ne presuppone necessariamente la diuturna e irrefutabile osservanza da parte di tutti i consociati: perché la norma cessi di essere giuridica non basta infatti che uno o più consociati omettano di osservarla (giacché la conseguente reintegrazione del diritto leso nei confronti di chi se ne è reso responsabile è una modalità della sua accettazione ed applicazione sociale) ma occorre che tale inosservanza non sia socialmente valutata come violazione del diritto, talché la coscienza sociale, cessando di pretendere l’applicazione delle sanzioni per essa previste, sancisca la cessazione della concreta vigenza della norma, come regola effettiva dei rapporti sociali[27].
Esula dal diritto effettivo anche il significato originario attribuito alla norma dal legislatore quando essa, nell’accettazione del corpo sociale, ne abbia assunto uno diverso, al quale soltanto deve aversi riguardo per ricostruirne il contenuto giuridico, sebbene non coincida con quello desumibile dal testo scritto.
Questo diritto effettivo - o, come anche si suole chiamarlo, diritto «vivente» - può desumersi in primo luogo dagli orientamenti giurisprudenziali consolidati e particolarmente dalle massime della giurisprudenza di legittimità, in quanto la concreta applicazione giudiziale della norma costituisce indice della sua accettazione sociale e in quanto la massima giurisprudenziale riflette il significato dalla stessa assunto nella coscienza sociale[28].
6. L’incidenza del sentimento della società sul diritto effettivo. Il problema della rilevanza giuridica del sentimento.
Il rilievo che il contenuto della norma giuridica non coincide con quello risultante dal testo scritto posto dalla fonte di produzione ma con quello socialmente accettato ed applicato, di cui sono indici gli orientamenti giurisprudenziali consolidati, induce ad indagare sui criteri in ragione dei quali avviene tale accettazione sociale.
Il giurista, precisamente, deve chiedersi in base a quali principi e valori la coscienza sociale attribuisca alla norma giuridica un certo significato, eventualmente diverso rispetto a quello che il legislatore aveva voluto imprimerle, o comunque non coincidente con quello desumibile dalla sua originaria formulazione; o, addirittura, cessi di riconoscere come tali una o più norme giuridiche, privandole di effettiva efficacia regolatrice sebbene le stesse non vengano abrogate e mantengano inalterata la loro validità formale.
La risposta a questa questione consente, ad un tempo, di individuare le ragioni per le quali gli istituti giuridici si evolvono continuamente nel corso del tempo ed il senso di tale evoluzione, cioè di identificare la direzione di tale continuo mutamento, la linea di tendenza dell’ordinamento.
Se il significato della norma giuridica non coincide con quello, immutabile, espresso dalla disposizione scritta ma con quello, mutevole, attribuitole dalla coscienza sociale, vuol dire che il diritto si muove con la società[29] ed è animata dallo spirito di questa.
Si torna, dunque, alla terminologia di Vittorio Frosini: esiste, nell’ordinamento, uno spirito vivente rinvenibile nella voluntas del legislatore attuale, che si distacca dalla lettera della legge, scolpita nella proposizione normativa dal legislatore storico[30].
Il contenuto effettivo della norma è dato dal suo spirito, non dalla sua lettera, e questo spirito che anima la norma è lo stesso che anima la società e si evolve con essa.
Di spirito animante ebbe a parlare anche Lodovico Mortara, nella sua più famosa sentenza, con la quale fu attribuito alle donne il diritto di elettorato politico con quaranta anni di anticipo sul suo espresso riconoscimento legislativo[31].
«La legge - scrisse il Mortara - è formula di precetto generale destinato a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, adattandosi alla loro variabilità in modo da rispondere sempre al suo alto fine di tutela dell’ordinamento civile. Essa non si cristallizza in una forma iniziale per sempre irriducibile ma vive la vita stessa della civiltà, ed è animata dallo spirito di questa (il corsivo è nostro)».
Il riferimento allo spirito della civiltà che impedisce la cristallizzazione del significato della legge, adeguandone il contenuto alle istanze della vita sociale, consentì al Mortara di superare la tradizionale interpretazione della legge elettorale in vigore (l. n. 999 del 1882) che attribuiva il diritto di voto politico ai soli uomini.
Il contenuto effettivo della norma, secondo Mortara, doveva infatti essere ricostruito tenendo conto del sentimento che anima e vivifica la coscienza dei popoli civili, tradottosi in un principio di tensione ideale proprio degli ordinamenti moderni: il principio di uguaglianza[32].
Interpretata in conformità a tale principio, incompatibile con il mantenimento della discriminazione di genere tradizionalmente desunta dal suo disposto testuale, la norma giuridica si evolveva così verso nuovi contenuti, nei quali venivano riflessi i valori espressi dal sentimento della società.
Dunque, nell’applicazione pratica mortariana come nella terminologia frosiniana, la norma giuridica, nella sua dimensione vivente, è la regola che recepisce il sentimento della società assumendo il significato dettato dallo spirito di questa.
Sulla base di tali indicazioni il contenuto del diritto effettivo dovrebbe essere ricondotto al sentimento: un sentimento penetrato a tal punto nella coscienza sociale da essersi tradotto in un preciso interesse che l’ordinamento, inteso nella sua dimensione effettiva, individua come meritevole di tutela e qualifica come suo fine.
La continua evoluzione del significato delle norme giuridiche nella coscienza sociale si spiegherebbe, dunque, in funzione della necessità della loro diuturna conformazione al sentimento di questa.
La possibilità della riconduzione del contenuto del diritto effettivo al sentimento prevalso nel corpo sociale va tuttavia verificata, sul piano dogmatico, alla stregua del problema della rilevanza giuridica del sentimento. Se, infatti, il sentimento è estraneo al diritto, non ne può costituire il contenuto[33].
7. Sentimento e diritto in senso soggettivo. Ordinaria irrilevanza giuridica del sentimento sia come fatto giuridico sia come interesse giuridicamente rilevante.
Occorre allora spostare l’indagine dal diritto in senso obiettivo al diritto in senso soggettivo.
Inteso in senso soggettivo, il diritto è una posizione giuridica di vantaggio, e cioè una situazione soggettiva attribuita dall’ordinamento ad un soggetto per la protezione di un interesse ritenuto meritevole di tutela[34].
Il sentimento è un processo emozionale interno della psiche umana in cui si riflette il valore attribuito dalla coscienza individuale alla realtà esterna, sia essa realtà naturale (ad es. l’amore per gli animali, la paura dei temporali), sia essa realtà sociale (ad es. l’amore per una persona; l’orrore per la guerra)[35].
Tanto il diritto quanto il sentimento si rapportano ad un interesse[36], ma il diritto si rapporta ad un interesse corrispondente ad un valore di rilevanza superindividuale (come tale degno di essere tutelato dall’ordinamento, eventualmente anche mediante la coercizione, sanzionando le condotte lesive dell’interesse medesimo), mentre il sentimento si rapporta ad un interesse corrispondente ad un valore meramente individuale, come tale giuridicamente irrilevante.
L’assunto della irrilevanza giuridica del sentimento va verificato sia sotto il profilo della teoria del fatto giuridico che sotto il profilo della teoria dell’interesse.
Sotto il primo profilo, l’assunto trova agevole conferma in quanto si tende ad escludere che il sentimento costituisca ex se un fatto produttivo di effetti giuridici, e cioè un fatto che determina modificazioni sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, attive o passive, delle persone interessate dal fatto stesso. Si evidenzia, infatti, che, se il sentimento rimane un fatto interno alla psiche della persona, non interferisce nei rapporti intersoggettivi e non si traduce in una modificazione della realtà materiale e di quella giuridica[37]. Se invece il sentimento si esteriorizzi al di fuori della psiche umana, traducendosi in una precisa condotta (attiva od omissiva), gli eventuali effetti giuridici prodottisi nella sfera giuridica dell’autore o del destinatario di essa (e consistenti nella nascita di nuove situazioni soggettive o nella estinzione o modificazione di quelle preesistenti), vanno ricondotti a tale condotta e non al sentimento che l’ha ispirata[38].
Sotto il secondo profilo, escluso che il sentimento possa costituire presupposto della nascita di situazioni giuridiche soggettive, ci si deve chiedere se possa peraltro integrarne l’oggetto, e cioè se possa essere qualificato come punto di riferimento oggettivo di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Sotto tale specifico profilo, il sentimento va considerato come un bene della vita idoneo a soddisfare un bisogno umano e il problema che si pone al giurista è se l’interesse ad ottenere questo bene della vita sia – o possa essere, al verificarsi di determinate condizioni – un interesse giuridicamente protetto, e cioè un interesse per la cui tutela l’ordinamento attribuisce al titolare una specifica situazione giuridica soggettiva attiva, eventualmente consistente in un vero e proprio diritto soggettivo.
Per essere tutelato dal diritto l’interesse, si è detto, deve corrispondere ad un valore non meramente individuale, e cioè ad un valore socialmente rilevante.
Così, ad es., l’interesse del proprietario a godere dei propri beni al riparo da indebite ingerenze altrui è un interesse socialmente rilevante e l’ordinamento lo protegge nella misura massima consentita, attraverso l’attribuzione di un diritto soggettivo assoluto (art.832 c.c.); al contrario, l’interesse a divenire milionario non è avvertito socialmente come valore da tutelare e resta dunque un mero interesse di fatto, giuridicamente non protetto, la cui realizzazione non è influenzata dall’ordinamento ma esclusivamente da fattori extragiuridici (caso, fortuna, abilità individuale, ecc.).
Il sentimento, quale processo emozionale interno con cui la coscienza individuale attribuisce un valore ai fenomeni della realtà esterna, riflette, di norma, un valore meramente individuale.
Ciò accade anche nelle ipotesi in cui il fenomeno esterno valutato dalla coscienza individuale abbia natura sociale, attribuendosi un valore ad una relazione intersoggettiva e, quindi, al terminale umano di tale relazione, costituito dall’altrui persona[39].
Il valore attribuito attraverso il sentimento all’altrui persona (e alla relazione intersoggettiva con essa) non supera, infatti, i confini della coscienza individuale e non diviene valore socialmente apprezzabile.
Esso, dunque, non è preso in considerazione dal diritto, non solo quando si tratti di valore negativo (antipatia, avversione, odio) ma anche quando si tratti di valore positivo (interesse, simpatia, amore).
La conferma di ciò si trova se si prenda ad esempio il sentimento di amore, con cui viene attribuito il massimo valore positivo possibile ad una relazione umana.
L’interesse ad amare una persona e ad essere da essa riamata non si traduce, infatti, di norma, in un interesse giuridicamente protetto e non può dar luogo all’attribuzione di una situazione soggettiva di vantaggio, tanto meno di quella che assicura la massima forma di tutela, vale a dire il diritto soggettivo.
Nelle relazioni d’amore, il sentimento non impegna né positivamente (come valore) né negativamente (come disvalore) il sistema di valori elaborato dalla coscienza comune e recepito dall’ordinamento giuridico, il quale resta del tutto indifferente rispetto all’ interesse del singolo ad amare una persona e ad essere amato da essa.
L’analisi del diritto vivente conferma l’insussistenza del riconoscimento, in generale, di un diritto soggettivo all’amore.
Nella relazione tra fidanzati, l’interesse dell’una persona alla continuazione del rapporto affettivo è soddisfatto unicamente nei limiti in cui vi sia - e per il tempo in cui permanga - l’omologo interesse dell’altra, e non è coperto, ovviamente, da alcuna forma di tutela giuridica.
L’ordinamento giuridico resta del tutto indifferente rispetto all’ interesse del singolo ad amare una persona e ad essere amato da essa, senza che assuma rilevanza la circostanza, pur socialmente frequente, in cui l’innamoramento e la disponibilità a proseguire nel rapporto affettivo sia stata formalizzata in una dichiarazione d’amore.
In tale ipotesi, infatti, la dichiarazione può bensì determinare, nella sfera psichica del destinatario, l’insorgenza di stati d’animo ed aspettative, ma deve escludersi che ad essa possano ricollegarsi effetti propriamente giuridici, in assenza del compimento di atti ulteriori, leciti od illeciti (es.: donazioni, promessa di matrimonio, molestie ecc.)[40].
L’interesse all’amore, isolatamente considerato, non assume giuridica rilevanza neppure nella relazione tra coniugi o conviventi.
La comunione morale e spirituale dei coniugi (c.d. affectio coniugalis) trova ovviamente il suo ultimo fondamento nell’amore reciproco, ma la persistenza nel tempo di tale comunione non è tutelata dal diritto.
Al contrario, il venir meno di essa, ove si traduca in una disaffezione tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza anche rispetto ad un solo coniuge, determina la nascita del diritto di quest’ultimo alla separazione personale, pur a prescindere da elementi di addebitabilità all’altro coniuge[41].
La mancanza di amore, la carenza affettiva, la freddezza sentimentale del coniuge non assumono ex se alcuna rilevanza giuridica, né all’interno del diritto di famiglia (eventualmente ai fini dell’addebito della separazione), né nel più generale ambito del diritto della responsabilità (ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale subìto dall’altro coniuge in seguito al pregiudizio del suo interesse ad essere amato), occorrendo, ad entrambi i fini, un quid pluris consistente nella lesione di altri beni e valori distintamente tutelati come oggetto di autonomi diritti soggettivi (ad es. la dignità, l’onore, il decoro, la personalità morale del coniuge)[42].
L’irrilevanza della cessazione dell’apporto affettivo, ai fini di eventuali sanzioni, si dsvela anche nella relazione tra conviventi, oggi tutelata, unitamente all’unione civile tra persone dello stesso sesso, dalla l. n. 76 del 2016: in questa relazione, tra l’altro, l’assistenza morale e materiale costituisce un elemento fattuale costitutivo della fattispecie della convivenza e non un obbligo nascente da essa[43].
L’interesse all’affetto coniugale (o familiare tra prossimi congiunti adulti) non è tutelato giuridicamente neppure nella vita di relazione, in quanto la lesione di tale interesse a causa di un fatto dannoso imputabile ad un terzo non costituisce danno ingiusto ai sensi dell’art.2043 c.c., se non nell’ipotesi estrema dell’uccisione del coniuge o del familiare. In questa ipotesi estrema, peraltro, il danno ingiusto non è ravvisabile nella lesione dell’interesse alla prestazione affettiva ma piuttosto nella violazione del vincolo familiare[44] o, secondo una terminologia ormai tralatizia nelle massime giurisprudenziali, nella perdita del rapporto matrimoniale o parentale, secondo che la lesione concerna il rapporto con il coniuge o con i prossimi congiunti[45].
8. Eccezionale rilevanza del sentimento quale interesse tutelato dal diritto in senso soggettivo. Il sentimento come fondamento del diritto oggettivo effettivo.
Vi sono tuttavia dei casi in cui il sentimento non rimane soltanto coscienza di un valore meramente individuale ma diviene coscienza di un valore sociale.
Ciò accade allorché la valutazione della realtà, compiuta attraverso il sentimento dalla coscienza individuale, formi oggetto di un’ulteriore valutazione da parte della coscienza comune ad una pluralità di persone o all’intera collettività[46].
In questa ipotesi, il sistema di valori elaborato dalla coscienza sociale e recepito nell’ordinamento giuridico non resta indifferente ai valori espressi nel sentimento, il quale, varcando i confini della coscienza individuale per assurgere a valore o disvalore sociale – e, quindi, a valore o disvalore sanzionato dal diritto –, diviene oggetto di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Per continuare nell’esempio del sentimento di amore, si può notare una peculiare relazione intersoggettiva in cui la valutazione positiva attribuita all’altrui persona dalla coscienza individuale viene replicata da un’analoga valutazione compiuta dalla coscienza sociale: si tratta della relazione di filiazione e, più precisamente, del rapporto tra genitore e figlio minore.
In questo rapporto l’interesse del figlio ad essere amato dal genitore non resta confinato nel campo del “giuridicamente irrilevante”, in quanto alla valutazione positiva compiuta con il sentimento di amore da parte della coscienza individuale si sovrappone un’ulteriore valutazione formulata dalla coscienza sociale, per effetto della quale il sentimento medesimo cessa di essere un valore puramente interno per inserirsi nel sistema dei valori dell’ordinamento giuridico.
Il sistema dei valori elaborati dalla coscienza sociale e recepiti nell’ordinamento giuridico esprime infatti l’esigenza che la persona umana trascorra la delicata fase della sua crescita all’interno della propria famiglia e riceva da questa - ed in particolare dai propri genitori - l’apporto affettivo indispensabile ai fini della propria maturazione.
L’interesse del figlio all’amore del genitore assume allora rilevanza per il diritto in quanto questo prende atto dell’irrinunciabilità della prestazione affettiva genitoriale ai fini della crescita del figlio, la quale deve essere intesa non solo come sviluppo fisico ma anche come maturazione psichica e come formazione morale, spirituale e culturale della persona.
L’esigenza, socialmente avvertita, di tutelare adeguatamente, sotto il profilo giuridico, l’interesse del figlio minore alla prestazione affettiva da parte dei genitori si è tradotta nell’attribuzione di uno specifico diritto soggettivo, già previsto in fonti settoriali (art.2, comma 1; art.6, comma 2; art.8, comma 1, della legge n.184/1983 sull’adozione), e di recente proclamato in via generale nell’ambito del nuovo statuto dei diritti del figlio, enunciato nell’art.315-bis c.c., inserito dalla legge n.219/2012.
Si tratta del diritto che la legge ha codificato come diritto all’assistenza morale, ma che la più autorevole dottrina ha incisivamente denominato diritto all’amore, dando enfasi al sentimento umano che ne costituisce il fondamento[47].
L’esempio del rapporto di filiazione consente, in generale, di concludere che, in riferimento al diritto in senso soggettivo, il sentimento può eccezionalmente uscire dall’ambito del “giuridicamente irrilevante” per assurgere ad interesse tutelato mediante l’attribuzione di una situazione soggettiva di vantaggio, allorché i valori da esso espressi vengano riconosciuti e positivamente valutati, oltre che dalla coscienza individuale, anche dalla coscienza sociale.
Tale conclusione permette, peraltro, un ulteriore rilievo, che riconduce ai rapporti tra sentimento e diritto in senso oggettivo, nella sua accezione di diritto effettivo, e cioè di diritto socialmente accettato ed applicato.
Se, infatti, la tutela giuridica del sentimento ne presuppone la necessaria sua approvazione sociale in aggiunta a quella individuale, deve ammettersi, in senso inverso che, nell’ipotesi in cui alla valutazione individuale segua invece una disapprovazione sociale, dovrà trovare giuridica tutela l’interesse opposto alla repressione del sentimento socialmente disapprovato.
Il sistema di valori elaborato dalla coscienza sociale, in altre parole, può restare indifferente ai valori espressi nel sentimento oppure può approvarli o riprovarli.
Nella prima ipotesi il sentimento resta un fatto meramente soggettivo e non si traduce in un valore oggettivo dell’ordinamento.
Nella seconda ipotesi il sentimento trascende la subiettività della coscienza individuale per divenire un valore positivo o negativo dell’ordinamento, per assurgere a valore o disvalore sociale.
Il sentimento, allora, diviene oggetto di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, interesse che può avere contenuto positivo (ad es: l’interesse alla protezione del sentimento del pudore: artt.527 e 528 c.p.; l’interesse alla protezione del sentimento dell’onore: artt.594 e 595 c.p.) o negativo (ad es.: l’interesse alla repressione del sentimento di disprezzo per le istituzioni: art.290 c.p.; l’interesse alla repressione del sentimento dell’odio tra le classi sociali: art.415 c.p.).
Tanto l’approvazione sociale del sentimento (che sfocia nella tutela giuridica dell’interesse alla protezione del sentimento) quanto la disapprovazione sociale (che sfocia nella tutela giuridica dell’interesse alla repressione dello stesso) si traducono in norme giuridiche.
Ma l’approvazione o la disapprovazione sociale, sia quando si appuntino su sentimenti individuali, come replica al moto emozionale interno della coscienza della singola persona, sia quando riguardino sentimenti generati da eventi emozionali collettivi (guerre, calamità, pandemie) che impegnino le coscienze di tutti o di gran parte degli appartenenti ad un gruppo sociale, sono processi emozionali collettivi enormemente più rapidi ed incisivi delle procedure formalmente deputate alla produzione normativa.
Tali processi emozionali incidono dunque, in via effettiva, sul contenuto delle norme giuridiche, il cui significato si conforma al sentimento della società, divaricandosi, anche sensibilmente, da quello loro impresso dal legislatore storico.
Il riferimento alla coscienza sociale quale elemento capace di plasmare il diritto positivo, va allora precisato nel senso che il fondamento della continua evoluzione degli istituti e delle norme giuridiche, nella loro dimensione effettiva, è costituito dal sentimento della società, e cioè dal risultato di quel processo emozionale collettivo con cui il corpo sociale riconosce i valori positivi e i valori negativi, rispettivamente da tutelare o da reprimere, attraverso il diritto.
In tale accezione il sentimento costituisce il fondamento del diritto oggettivo, inteso nella sua dimensione di diritto effettivo.
Questo fondamento, oggi più che mai, è costituito dal riconoscimento del valore assoluto della persona e dei suoi diritti fondamentali, dal rilievo dei principi di uguaglianza, di solidarietà, di reciproco riconoscimento e rispetto, e della pari dignità di tutti gli esseri umani.
Si tratta di quell’insieme sentimenti che, ‹‹instillati nelle coscienze dei popoli civili››, per ripetere le incisive parole di Lodovico Mortara, non solo si sono tradotti in valori formalmente espressi dalle carte costituzionali e sovranazionali, ma costituiscono la bussola ordinamentale e la guida morale nell’incessante opera di costruzione di un diritto vivente più giusto e umano.
[1] Sul problema della rilevanza giuridica dei sentimenti, v., in generale, A. FALZEA, Fatto di sentimento, in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, pp. 539 e ss.; M. PARADISO, La comunità familiare, Milano, 1984; F. GAZZONI, Amore e diritto, ovverosia i diritti dell’amore, Napoli, 1994.
[2] Sul tema si veda, ad es., il saggio di amplissimo respiro culturale di M. DELL’UTRI, Saepe in periculis. Note in tema di persona e comunità, in www.giustiziainsieme.it.
[3] Queste opinioni oscillano tra le due tesi contrapposte di chi ha evocato lo schmittiano “stato d’eccezione” (tra gli altri, G. AGAMBEN, Una domanda, in www.quodlibet.it), sia pure “in senso debole” (T. EPIDENDIO, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, in www.giustiziainsieme.it), e chi ha invece sottolineato la piena conformità a Costituzione dell’operato del governo (M. BIGNAMI, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, in www.questionegiustizia.it).
[4] Oltre agli scritti citati alle note precedenti, si veda, con particolare riguardo alla compatibilità degli interventi normativi emergenziali con l’art. 16 della Costituzione, che tutela la libertà di circolazione, l’ampio e rigoroso studio di S.G. GUIZZI, Stato costituzionale di diritto ed emergenza COVID-19: note minime, in www.dirittovivente.it.
[5] Così, M. BIGNAMI, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, cit..
[6] G. AGAMBEN, Una domanda, cit..
[7] B. DYLAN, Murder Most Foul. Il brano può essere ascoltato accedendo ad uno dei link indicati nel sito ufficiale del cantautore americano: www.bobdylan.com.
[8] B. DYLAN, I Contain Moltitudes. Anche questo brano può essere ascoltato accedendo ad uno dei link indicati nel sito ufficiale del cantautore americano: www.bobdylan.com.
[9] H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, (trad. it.), Milano, 1959, 4; N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958 e Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino 1960; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma 1951, 69; F. MODUGNO, Norma (teoria generale), in Enc. dir., XXVIII, 328; M. MAZZIOTTI di CELSO; Norma giuridica, in Enc. giur. Treccani, XXI.
[10] V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1994, 3 ss., 137 ss..
[11] V. Frosini, ult. cit..
[12] E. EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto (trad it.), Milano, 1976, 53, 585.
[13] E. EHRLICH, ult. cit..
[14] Cfr. C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, in Riv. dir. civ., 1995, 787 ss., particolarmente 789, secondo cui, a prescindere dalle origini dell’aforisma - che, sebbene reso famoso da Baldo degli Ubaldi nella Glossa al passo di Alfeno in D. 9.2.5.52, deve la sua prima formulazione a giuristi di epoca ancora precedente, verosimilmente Guglielmo da Cugno o Guglielmo Durante -, nel diritto moderno ‹‹particolarmente suggestivo appare il detto per esprimere il principio di effettività››.
[15] Così già L. PROSDOCIMI, Ex facto oritur ius, in Studi senesi, LXVI-VII (1954-55), 808.
[16] E. EHRLICH, cit., 572.
[17] Santi ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1962, 49 ss., secondo cui l’origine dell’istituzione, ed in particolare dello Stato, non è determinata da una norma preesistente, ma dal fatto stesso di esistere e di esercitare effettivamente il proprio potere. L’effettività istituzionale veniva particolarmente notata a livello degli ordinamenti statuali e, in genere, degli ordinamenti dotati di personalità giuridica di diritto internazionale, con riguardo ai quali era agevole ritenere che anche i governi autoritari fossero tuttavia governi legittimi, traendo tale legittimità dall’effettività del potere e conservandola sino al momento in cui, con il loro rovesciamento, tale effettività fosse andata perduta: sul punto, v. C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, cit., 792.
[18] Santi ROMANO, ult. cit..
[19] P. PIOVANI, Effettività (principio di), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 430.
[20] Sul principio di effettività, riferito alla norma di diritto privato, v. invece C.M. BIANCA, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo, in Estudios Castan Tobeñas, II, Pamplona, 1969, nonché C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, cit., 787 ss., particolarmente 792, secondo cui la norma, al pari dell’istituzione, deve «avere un connotato di effettività per potere essere qualificata come norma di diritto privato».
[21] La negazione dell’esistenza stessa del diritto è riconosciuta dallo stesso E. EHRLICH, cit., 106, con l’affermazione che esso esiste ‹‹solo nelle menti degli uomini››.
[22] H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, (trad. it.) Torino, 1952, 51: ‹‹La norma è una categoria che non trova applicazione nel campo della natura››.
[23] P. CALAMANDREI, La Cassazione civile. Parte seconda, Milano – Torino – Roma, 1920, ora in Opere giuridiche, VII, Roma, 2019, 60.
[24] Se la norma coincide con il comando introdotto (positum) dalla fonte di produzione (la legge) - la quale trae validità dalla norma costituzionale, a sua volta legittimata da ‹‹una costituzione più antica›› sino a risalire a ‹‹quella storicamente originaria che fu promulgata da un singolo usurpatore o da un’assemblea formatasi in un modo qualsiasi›› (così H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 97) - è evidente che tutto ciò che è al di fuori di questo comando, compresa l’interpretazione giudiziale compiuta nella sentenza, appartiene alla sfera del fatto e, restando giuridicamente irrilevante, non può modificare il contenuto della norma, che rimane dunque invariabile.
[25] Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), Milano, 1949, 3 ss., 47 ss., il quale, pur dovendo riconoscere il dato esperienziale della continua evoluzione del diritto grazie all’opera assidua dell’interprete, afferma recisamente che in ragione di tale evoluzione non si crea tuttavia una nuova norma giuridica, poiché l’interpretazione, per quanto attività creativa (‹‹come ogni attività spirituale che, pur riferendosi ad un atto precedente, non ne è una semplice ricezione passiva››), non modifica il contenuto originario dell’atto a cui si riferisce: l’evoluzione del diritto, piuttosto, risponde ad un processo di ‹‹autointegrazione›› e il diritto ‹‹evoluto›› non è altro che esplicitazione di un contenuto giuridico già ricompreso nella legge originaria. La caparbia difesa dell’invariabilità del contenuto della norma da parte della dottrina normativista pur dinanzi all’incontestabilità dell’evoluzione degli istituti giuridici nella loro concreta applicazione, ha suscitato la rispettosa ironia di Cesare Massimo Bianca (Ex facto oritur ius, cit., 794, nota 32): ‹‹Questa norma che conserva la propria identità pur crescendo sino al punto da divenire irriconoscibile, richiama alla mente l’analoga vicenda del capretto di pirandelliana memoria, che rimane il medesimo oggetto di proprietà dell’ingenua turista pur essendosi trasformato in un villoso animale (“un mostruoso caprone”) in cui la proprietaria non ravvisa più la gentile creatura a suo tempo comprata›› (il riferimento del mio Maestro è a L. PIRANDELLO, Il capretto nero, in Novelle per un anno, II, ed. Mondadori, Milano, 1943).
[26] V. C.M. BIANCA, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo, cit., 61 ss., il quale individua la realtà sociale della norma giuridica nel suo essere effettivamente regolatrice dei rapporti dei consociati. Cfr. anche C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 796, 798, 799: ‹‹L’effettività è il momento essenziale della giuridicità in quanto le norme che sono effettivamente applicate possono dirsi ordinatrici di rapporti sociali, mentre le norme generalmente disapplicate non regolano i rapporti sociali e possono quindi avere solo l’apparenza di norme giuridiche›› Ed ancora: ‹‹il diritto effettivo … deve … essere colto nel fatto obiettivo che la norma viene socialmente accettata come norma giuridica secondo determinati significati e contenuti, cioè nel fatto della sua reale operatività. L’accettazione sociale della norma è il fatto dal quale scaturisce il diritto (corsivo dell’autore)››.
[27] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 796-797: ‹‹l’effettività della norna non è data dalla misura della sua osservanza, ma dalla sua accettazione da parte del corpo sociale come norma giuridica: accettazione che si evidenzia nella valutazione sociale della sua inosservanza come violazione del diritto, e nell’applicazione delle sanzioni da parte degli organi costituiti per applicarle. Se però la norma è generalmente inosservata senza che ciò dia luogo a sanzioni, se le posizioni di vantaggio che essa nominalmente conferisce non sono più riconosciute come tali nella vita di relazione e non trovano tutela presso le istituzioni, quella norna non è più regola giuridica di rapporti sociali››.
[28] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 799, 802, ove si rileva che l’importanza del diritto vivente giurisprudenziale emerge anche dai giudizi di costituzionalità, i quali assumono ad oggetto le norme ordinarie così come interpretate dalla giurisprudenza.
[29] C.M. BIANCA, ult. cit., 803: ‹‹A chi afferma l’immutabilità del diritto, fissato nel testo scritto, deve invece dirsi che esso “si muove”, che esso è nella realtà della sua esistenza e questa realtà trascende i testi di legge per immedesimarsi nella vita dell’ordinamento che si evolve nella società e con la società››.
[30] V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, cit., 137.
[31] App. Ancona, 25 luglio 1906, in Foro it., 1906, I, 1060 e in Giur. it., 1906, III, 389.
[32] Nel gennaio del 1889, proludendo dalla cattedra di diritto costituzionale della facoltà giuridica di Pisa, Mortara aveva affermato che le rivoluzioni francese e americana, pur non avendolo creato, avevano reso perspicuo, alla coscienza dei popoli civili, un nuovo principio: il principio dell’uguaglianza di diritto tra gli uomini. Questo nuovo principio, fondamento indispensabile al progressivo consolidarsi del dominio della forza intellettuale su quella materiale, non conteneva l’uguaglianza di fatto, anzi aveva valore pratico solo in quanto ne supponeva necessariamente la mancanza. Ma il principio dell’uguaglianza di diritto, applicato ad uno stato di disuguaglianza di fatto, avrebbe stabilito una ineluttabile tendenza alla diminuzione di quest’ultima e un’ineluttabile aspirazione al suo cancellamento. In questa tendenza e in questa aspirazione era il fine ultimo di giustizia che l’ordinamento persegue con tutti i suoi istituti e le sue norme. Le norme giuridiche, siano esse quelle costituzionali siano esse quelle legislative - aveva affermato Mortara -, vanno quindi lette, interpretate ed applicate alla luce di questo principio che è penetrato nelle società civili e le sta guidando dal dominio della forza materiale («signora del passato») a quello della forza intellettuale (che «dominerà l’avvenire»). Poiché «con l’impronta del nuovo principio» la «Costituzione», «tutta la legislazione» e persino l’attività esecutiva («l’opera governativa») riceveranno «indirizzi nuovi per le vie della civiltà e del progresso» (cfr. L. MORTARA, La lotta per l’uguaglianza (1889), in Quaderni fiorentini, 19, Milano, 145 ss., particolarmente, 160-161).
[33] Sul problema della rilevanza giuridica del sentimento, oltre agli autori già citati alla nota 1, si veda, con particolare riguardo al sentimento d’amore, S. RODOTA’, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, ove si rileva che tale sentimento, non solo nella dimensione relazionale ma anche nei rapporti con l’autorità, tende a diffondersi oltre il suo perimetro tradizionale, per richiamare i principi della dignità e dell’uguaglianza tra le persone.
[34] C.M. BIANCA, Diritto civile, 1, La norma giuridica. I soggetti, Milano, 2002, 4; C.M. BIANCA, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1 e ss.; W. CESARINI SFORZA, Diritto soggettivo, in Enc. dir., XII, 1964, 659 e ss.; V. FROSINI, Diritto soggettivo, in Nuov. dig. it., V, 1047 e ss.. C. MAIORCA, Diritto soggettivo, in Enc. giur. Treccani, XI, 1989; P.G. MONATERI, Diritto soggettivo, in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, VI, 1990, 411 e ss.
[35] A. FALZEA, cit., 545 e ss., definisce, precisamente, il sentimento come fatto di coscienza, e, più precisamente, come fatto o processo attuale della coscienza valutante, la quale, attraverso il sentimento, guarda il mondo esterno e prende posizione rispetto ad esso. Nel sentimento, dunque, vi è il dispiegarsi di un processo consapevole con cui la coscienza offre una valutazione della realtà esterna ad essa. Secondo il F., cit., 545, «il sentimento è … l’organo attraverso cui la coscienza individuale si mette in rapporto con i valori»; E ancora, cit., 548-549: «ogni processo attuale della nostra vita interiore cosciente è un sentimento … e lo è, ancora più caratteristicamente, nella misura in cui riflette la polarizzazione della nostra coscienza valutante tra valori positivi e valori negativi, tra beni e mali della esistenza».
[36] In teoria generale la nozione di valore e quella di interesse sono intimamente legate: l’interesse è infatti la manifestazione di un bisogno della persona in relazione ad un bene della vita, ma tale bisogno sorge soltanto se a quel bene viene attribuito un certo valore e varia al variare del valore riconosciuto al bene medesimo.
[37] Cfr. Mir. BIANCA, Il diritto del minore all’ «amore» dei nonni, in Riv. dir. civ., 2006, 2, 155: «La quasi totale irrilevanza giuridica dei sentimenti deve attribuirsi in primo luogo alla considerazione degli stessi quali elementi interni della psiche umana e come tali inafferrabili».
[38] Così, ad es., se il sentimento di amore provato per una persona ha ispirato un atto di liberalità nei suoi confronti, gli effetti giuridici vanno ricondotti a tale comportamento, che concreta un vero e proprio negozio giuridico di donazione (art. 769 c.c.) e non al sentimento positivo provato per il donatario; allo stesso modo, se il sentimento di odio provato per una persona ha ispirato un atto di danneggiamento di un bene di sua proprietà, gli effetti giuridici vanno ricondotti a tale comportamento, che concreta un atto illecito (art.2043 c.c.) e non al sentimento negativo provato per il danneggiato. Sul tema cfr., in via generale, A. FALZEA, cit., 627: «Il sentimento non emerge al livello del diritto se non in virtù della sua esteriorizzazione e questa, a sua volta, avviene, se non esclusivamente, di prevalenza mediante il comportamento».
[39] Per il FALZEA, cit., p.556, «il mondo reale esterno a cui la coscienza guarda attraverso il sentimento comprende ogni tipo di realtà: realtà naturale e realtà sociale», ma «dal punto di vista delle scienze umane, psicologiche, politiche e giuridiche, … il piano di riferimento più frequente e caratteristico è proprio la realtà sociale, in primo luogo la specifica realtà delle relazioni dirette tra persone umane». In queste relazioni, prosegue il F., «i due sentimenti fondamentali in cui si riflette la presa di posizione emotiva di una persona verso un’altra persona sono senza dubbio l’amore e l’odio», il primo quale sentimento del valore positivo attribuito alla persona altrui, il secondo quale sentimento del valore negativo attribuito alla medesima persona. È peraltro evidente che tra questi due sentimenti estremi ve ne possono essere diversi intermedi, che possono consistere, a loro volta, in sentimenti di valori positivi o in sentimenti di valori negativi.
[40] L’irrilevanza giuridica della dichiarazione di amore, sia sul piano del diritto civile che su quello del diritto penale, è affermata da Cass, sez. lav., 8 agosto 1997, n.7380, in Riv. dir. lav., 1998, II, 795, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta da una segretaria nei confronti del datore di lavoro, e fondata sull’asserito carattere molesto del comportamento da lui tenuto in occasione di una trasferta lavorativa, durante la quale egli l’aveva invitata a cena, le aveva dichiarato il proprio innamoramento e le aveva regalato un anello, ottenendo peraltro il rifiuto della donna, rifiuto perdurato successivamente al rientro dalla trasferta, allorché egli le aveva consegnato una lettera in cui aveva nuovamente esternato i propri sentimenti. La Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la pronuncia del giudice del merito il quale - esclusa la prova degli ulteriori episodi denunciati dalla lavoratrice (in particolare di un tentativo di bacio contestuale alla dichiarazione di amore, nonché di ulteriori e non meglio precisate richieste che l’uomo le avrebbe rivolto dopo il rientro) - aveva ritenuto l’inesistenza di «condotte illecite dal punto di vista penale o civilistico, riconducibili alla sfera sessuale o comunque esulanti dal rapporto di lavoro», non essendo connotata la condotta dell’uomo «da violenza, da petulanza, da maleducazione o superficialità», ed essendosi anzi questa esaurita in atteggiamenti tipici di una persona innamorata, quali l’interessamento affettivo e il conseguente corteggiamento; atteggiamenti confinati di norma nel giuridicamente irrilevante, i quali non possono essere reputati illeciti (e non si traducono automaticamente in una molestia sessuale) per il solo fatto di essere attuati sul luogo di lavoro o tra persone legate da vincolo di lavoro.
[41] Cfr. già Cass., Sez. I, 14 febbraio 2007, n.3356, in Foro it., 2008, I, 128; v, anche Cass., Sez. I, 29 marzo 2011 n.7125 e Cass., Sez. I, 21 gennaio 2014 n.1164.
[42] Cfr. Cass., Sez. I, 23 marzo 2005, n.6276, in Giust. civ., 2006, I, 2910, la quale ha ritenuto integrata la violazione del dovere di assistenza morale sancito dall’art.143 c.c., ai fini dell’addebito della separazione, nel persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge, rifiuto che, «provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psico-fisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner». Cfr., inoltre, Cass., Sez. I, 12 giugno 2006 n.13592, in Italgiure Web - Corte di Cassazione, la quale, sempre ai fini dell’addebito della separazione, ha attribuito rilevanza alla sistematica violazione del dovere di fedeltà, attuata «attraverso una stabile relazione extraconiugale». Con riguardo all’ordinamento antecedente alla Riforma del 1975, cfr. Cass., Sez. I, 10 ottobre 1974 n.2759, la quale aveva ritenuto causa di separazione personale per ingiuria grave, ai sensi dell’art.151 c.c. nella sua formulazione originaria, la coltivazione di relazioni omosessuali «in modo continuativo e pubblico» da parte di uno dei coniugi. Ai fini del giudizio di addebito della separazione personale – e delle conseguenze giuridiche sfavorevoli ad esso connesse – non è dunque sufficiente, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il dato negativo del difetto di slancio amoroso, del distacco sentimentale, della disaffezione, ma occorre che si integri uno specifico comportamento positivo (sistematica infedeltà, ostentata coltivazione di relazioni extraconiugali, continuato rifiuto di intrattenere rapporti sessuali) che, trascendendo l’aspetto puramente affettivo, si traduce nell’offesa alla dignità, all’onore, alla personalità del coniuge.
[43] M. TRIMARCHI, Unioni civili e convivenze, in Fam. e dir., 2016, 10, 859.
[44] C.M. BIANCA, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 1994, 608.
[45] Cfr. già Cass., Sez. III, 1° dicembre 2004 n.22593, in Mass. giust. civ., 2005, 1 e Cass., Sez. III, 15 luglio 2005 n.15022, in Dir. e giust., 2005, fasc. 40, 43; v. anche Cass., Sez. III, 16 marzo 2012 n.4253, in Giur.it., 2012, 2519 e Cass., Sez. III, 17 aprile 2013 n.9231, in Danno e resp., 2013, 595.
[46] Questa ulteriore valutazione è qualificata dal FALZEA, cit., 559, come «valutazione di secondo grado»: in forza di questa ulteriore valutazione «ogni sentimento (con tutti i suoi valori interni) è suscettibile di essere valutato (ab extra) in funzione di quel sistema di valori che è un ordinamento giuridico».
[47] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014, 335. Per il B., enunciando il diritto all’assistenza morale, il legislatore ‹‹ha inteso sancire il diritto del figlio ad essere amato dai suoi genitori›› poiché ‹‹assistere moralmente il figlio significa … averne cura amorevole››. Il diritto all’amore - precisa l’insigne Maestro - è un diritto fondamentale del minore. Con riguardo all’ordinamento vigente prima della riforma della disciplina della filiazione, v. C.M. BIANCA, Commento all’art.1, commi 1°, 2° e 4°, della l. 28 marzo 2001, n.149, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n.184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, in NLCC, 2002, 909, ove, per un verso, si evidenzia il legame strumentale esistente tra il diritto del minore alla propria famiglia, proclamato dall’art.1 della legge sull’adozione - ed oggi ribadito dal secondo comma dell’art.315-bis c.c. - e il diritto dello stesso minore all’assistenza morale («il minore ha diritto di crescere nella sua famiglia in quanto riceva da questa l’assistenza morale necessaria per la serena ed equilibrata formazione») e, per altro verso, incisivamente si identifica il diritto del minore all’assistenza morale con il diritto all’amore, sul presupposto che «la principale componente dell’assistenza morale è costituita dal rapporto di affetto che deve instaurarsi tra genitori e figli».
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