La natura della cessione di cubatura e dei diritti edificatori al vaglio delle Sezioni Unite
di Ginevra Iacobelli
Alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è stato chiesto di chiarire la natura della cessione di cubatura, e ancor prima, la natura dei diritti edificatori. La richiesta muove, in entrambi i casi, da questioni di diritto tributario. Se la previsione della trascrizione dei diritti edificatori ha, infatti, sopito il dibattito civilistico sulla natura di tali diritti, ancora numerosi dubbi residuano, in merito ad essa, in materia fiscale.
Sommario: 1. Ius aedificandi e diritto di proprietà - 2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto - 3.La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020) - 4.La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019).
1. Ius aedificandi e diritto di proprietà
La natura dello ius aedificandi è da sempre al centro di dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Alimentata anche da alcuni interventi legislativi, la questione ruota attorno ai rapporti tra diritto del proprietario ed esigenze della pianificazione urbanistica.
Il diritto di edificare è oggetto del potere di pianificazione dell’amministrazione e per il suo concreto esercizio è necessario il rilascio del titolo abilitativo edilizio da parte della stessa: gli strumenti urbanistici comunali – p.r.g. e piani attuativi – delineano i modi e i limiti di godimento della proprietà edilizia sotto il profilo delle condizioni di esercitabilità di tale diritto.
L’intreccio tra diritto di proprietà e poteri amministrativi, allora, alimenta questioni sulla natura giuridica del diritto di edificare e sulla sua scorporabilità dal diritto di proprietà.
Storicamente, lo ius aedificandi è stato considerato come diritto dominicale, insito nel diritto di proprietà. In tal senso, la legge urbanistica fondamentale (L. 1150/1942) assoggettava l’esercizio del diritto di costruire al rilascio della “licenza edilizia”, provvedimento amministrativo autorizzatorio che consentiva alla parte istante di esercitare un diritto di cui già possedeva la titolarità.
La Corte Costituzionale - chiamata a porre un freno alla reiterazione di vincoli di inedificabilità - con la storica sentenza n. 6 del 1966, ha avallato la concezione tradizionale che qualificava il diritto di edificare quale facoltà connaturale al diritto di proprietà dei suoli, definendo il cd. “contenuto minimo del diritto di proprietà”.
Tuttavia, a lungo la dottrina, propensa a qualificare il diritto come facoltà “concessa” dall’autorità pubblica, ha auspicato un intervento innovativo da parte del legislatore. Basti pensare che Sandulli propose di considerare “la facoltà di costruire non più connaturata al diritto di proprietà, bensì come l’effetto di una concessione pubblica da accompagnare con l’imposizione di un tributo”.
Si evidenzia, più chiaramente, che i suoli non potevano considerarsi naturalmente edificabili, ma, piuttosto, sarebbe stato il potere pubblico ad imprimere tale destinazione.
Su questa scia fu adottata la Legge Bucalossi (L. 10/77), destinata ad alimentare il dibattito sulla natura giuridica dello ius aedificandi.
Essa, infatti, configurava il diritto di edificare come facoltà estranea al diritto di proprietà, “concessa” dalla pubblica amministrazione, titolare del diritto in forza del potere di pianificazione ad essa attribuito. In linea con quanto affermato, veniva modificato il nomen juris e si escludeva il riferimento alla licenza edilizia in favore di quello alla “concessione edilizia”.
Si assiste al passaggio da un sistema fondato su un provvedimento autorizzatorio - finalizzato a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente di cui l’istante è già titolare - ad un sistema incardinato sul rilascio di un provvedimento di natura concessoria, attributivo di un diritto “nuovo”, prima inesistente nel patrimonio giuridico del richiedente. In tal senso, il provvedimento concessorio era inteso a titolo oneroso, in armonia con il principio per cui il richiedente chiede di utilizzare un bene di interesse pubblico.
Attraverso tale modifica legislativa, tutti i fondi acquisivano la medesima natura e l’indennizzo da corrispondere in caso di esproprio era commisurato, per tutti, al valore agricolo medio del terreno, senza distinzione tra fondi edificali e fondi agricolo.
In aggiunta, lo sganciamento del diritto di edificare dalla proprietà risolveva l’annoso problema della reiterazione dei vincoli di inedificabilità, non ponendo, questi, più alcuna lesione del diritto di proprietà.
La Corte Costituzionale, con la nota pronuncia n. 5 del 1980, ha, però, smentito le innovazioni legislative richiamate, confermando l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà e dichiarando la concessione ad edificare quale provvedimento autorizzatorio, non attributivo di nuovi diritti, ma che “presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”.
A completamento, la Corte chiariva che se è “indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l'edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando (mediante programmi pluriennali di attuazione previsti dall'art. 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione”, tuttavia, con riguardo alle aree destinate – secondo gli strumenti urbanistici - alla edilizia residenziale privata, il proprietario delle stesse “ha il diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell'area ed è irrevocabile, fatti salvi casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977)”; “da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Taluna dottrina, nell’immediato, ha letto nella decisione richiamata una soluzione limitata a garantire tutela al privato avverso i numerosi provvedimenti di esproprio, ma ha sottolineato il ruolo della pubblica autorità alla quale “si demanda ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando della edificazione” che svuota, in parte, il diritto del proprietario del suolo.
La questione, in vero mai sopita, è ritornata in luce con lo svilupparsi dei cd. “trasferimenti di volumetria”, definizione sotto cui possono ricondursi fenomeni eterogenei e molto differenti tra loro, che vanno dalla cessione di cubatura tra fondi contigui od omogenei, alle redistribuzioni fondiarie che si attuano nei piani perequativi, fino ai trasferimenti di diritti edificatori sotto la forma di crediti compensativi e premiali.
2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto
In urbanistica, per cubatura si intende la volumetria edificabile di un suolo, in conformità a quanto previsto dagli strumenti di pianificazione.
I vincoli relativi all’edificazione di un’area sono indicati dagli standard edilizi, limiti inderogabili all’edificabilità, introdotti per la prima volta dalla legge Ponte del’67 e finalizzati ad un razionale sfruttamento edilizio del suolo che garantisca e tuteli la salute dei cittadini e la salvaguardia del territorio, nel rispetto della nostra carta costituzionale. Lo standard edilizio è, nel dettaglio, indice di densità edilizia, ricavato dal rapporto tra superficie utilizzabile e volumetria (i.e. cubatura) che una costruzione può assumere.
Per superare i limiti inderogabili alla cubatura realizzabile si sono sviluppate, nella prassi, modalità di “micropianificazione ad iniziativa privata” (in tal senso Gambaro) con cui il proprietario di un’area edificabile trasferisce, in tutto o in parte, al proprietario di una zona finitima, la potenzialità edificatoria del proprio terreno o la cubatura del proprio suolo. Il proprietario dell’area, cessionario, potrà cosi incrementare la volumetria edificatoria del proprio terreno, ottenendo dal Comune un permesso di costruire di volume maggiore, comprensivo anche di quello ceduto.
Si evidenzia, del resto, che la possibilità di cedere la cubatura non è osteggiata dalla pianificazione, già realizzata a monte dall’amministrazione. Gli standard edilizi, infatti, individuano indici edilizi per “zone” e non per singole aree: ciò permette la circolazione della volumetria, nella stessa zona, senza la modifica dell’indice edilizio già definito.
La cessione è considerata ammissibile poiché il trasferimento della volumetria rispetta i limiti della pianificazione urbanistica; è irrilevante, a tal fine, che la potenzialità edificatoria di una determinata zona del PRG sia utilizzata da un solo soggetto in un punto definito, oppure da più soggetti pro quota.
Più chiaramente, la maggiorazione di volumetria a favore del cessionario della cubatura trova bilanciamento nella riduzione della volumetria del cedente, senza che ciò comporti alcuna modifica del rapporto di densità abitativa (stabilito dagli standard edilizi).
La divisione del terreno in zone, però, è oggi superata dalla ricerca di soluzioni volte a favorire la compresenza di strumenti che meglio permettano la realizzazione dei diritti della collettività.
La questione muove dalle nuove tecniche di pianificazione urbanistica che abbandonano lo schema classico delle zonizzazioni e si esprimono attraverso gli strumenti della perequazione, della compensazione e dell’incentivazione, oggetto di ampi dibattiti dottrinari, nonché di incerte e contrastanti decisioni da parte della giurisprudenza di merito.
La perequazione, nel dettaglio, consiste nell’attribuire anche ad aree qualificate dal piano come non edificabili una cubatura potenziale da realizzare altrove, cioè su aree qualificate come edificabili. È una tecnica urbanistica tendente all’uguale distribuzione dei valori e degli oneri della trasformazione urbanistica del territorio tra tutti i proprietari interessati. Ed infatti, la c.d. zonizzazione - con la distinzione tra aree edificabili e non edificabili - porta inevitabilmente a sperequazioni tra i diversi proprietari.
La compensazione rappresenta uno strumento che svolge una piena funzione di ristoro rispetto alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’imposizione dei vincoli stessi o rispetto agli oneri sostenuti per il facere sopportato, mirando a ridurne gli effetti sfavorevoli e negativi.
Scopo della compensazione è quello di consentire alle amministrazioni comunali di espropriare le aree soggette a vincolo urbanistico, senza l’esborso di un indennizzo.
Si tratta, in buona sostanza, di una soluzione alternativa all’espropriazione, in quanto, in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area.
La stessa Corte costituzionale, del resto, ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica in alternativa all’indennizzo espropriativo monetario, previa cessione del bene, attraverso l’attribuzione di quote di edificabilità o di recupero di cubature in altre aree (C. Cost. 179/99).
Le incentivazioni, infine, sono strumenti applicativi della cd. “premialità urbanistica”. Quest’ultima consiste nell’attribuzione di un diritto edificatorio aggiuntivo, rispetto a quello previsto in via ordinaria dagli strumenti urbanistici, come premio per il raggiungimento di determinati obiettivi pubblici.
In maggior sintesi, i diritti edificatori perequativi vengono assegnati direttamente in seguito alla formazione del piano e sono commerciabili nel momento stesso in cui questo viene approvato ed il terreno - oggetto di trasferimento alla P.A. - viene dotato di una propria volumetria realizzabile, tuttavia, solo sulle aree di concentrazione; i diritti compensativi sono attribuiti, invece, in seguito alla cessione all’Amministrazione comunale del fondo sorgente e non hanno limiti spaziali; i diritti incentivanti o premiali sono, infine, attribuiti in seguito all’intervento di riqualificazione urbanistica e/o ambientale.
Dal ricorso a queste nuove forme di pianificazione territoriale è evidente come possano scaturire altrettanto nuove situazioni giuridiche soggettive a favore dei soggetti coinvolti nelle operazioni perequative, compensative o incentivanti e che dette situazioni possano essere soggette ad ulteriore circolazione nell'ambito di un vero e proprio 'mercato volumetrico' attraverso le fasi del distacco dalle proprietà originarie (cd. 'decollo' dal fondo 'sorgente'), del successivo 'volo' (e quindi del 'transito' della capacità edificatoria connessa a quelle situazioni, anche a favore di soggetti non necessariamente proprietari di alcun lotto) e infine dell’atterraggio della potenzialità edificatoria su di un fondo diverso da quello di originario 'decollo', detto 'accipiente', e che si estingue al momento del rilascio del permesso di costruire.
Così chiarito, è possibile evidenziare le differenze tra i due istituti richiamati: nella cessione di cubatura è fortemente accentuato il carattere della realità poiché il “decollo” e “l’atterraggio” del diritto riguardano aree ben identificate, anche se non necessariamente confinanti, ma comunque contigue o radicate nella stessa zona. Invece, nel trasferimento dei diritti edificatori il medesimo carattere è attenuato, in quanto è possibile la negoziazione di questi diritti persino a prescindere dalla presenza di un’area cedente e di un’area cessionaria. Più chiaramente, il trasferimento si può realizzare quando il diritto è “in volo”, a prescindere dal decollo e l’atterraggio, traendo origine da qui l’espressione, largamente usata, di “crediti edilizi”.
La linea di discontinuità della circolazione dei diritti previsti dai modelli di pianificazione urbanistica rispetto alla cessione di cubatura si coglie proprio nella capacità circolatoria dei primi, svincolata dall’attuale proprietà di un fondo edificabile, là dove elemento qualificante della cessione di cubatura è la sussistenza e l’individuazione di due fondi, “cedente” e “cessionario”, posti all’interno della medesima zona urbanistica o aventi almeno la stessa destinazione.
La cessione di cubatura, allora, è stata definita correttamente figura diversa dai diritti edificatori, quasi “prodromo” della categoria generale di tali diritti.
3. La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020)
Da sempre sono state sollevate forti perplessità sulla natura della cessione di cubatura (o di volumetria).
La cessione di cubatura è un negozio in virtù del quale il proprietario di una determinata area edificabile non sfrutta per sé la cubatura realizzabile sul proprio terreno, ma la cede - totalmente o parzialmente - ad altro soggetto, di solito proprietario di un fondo finitimo, affinché quest’ultimo possa servirsi della volumetria ulteriore acquisita per ottenere dal Comune il permesso di costruire per una volumetria complessiva maggiorata rispetto a quella prevista per il fondo di sua proprietà.
Il trasferimento si articola in due momenti: il primo, privatistico, tra due privati (cedente e cessionario); il secondo, pubblicistico, che attribuisce in capo alla pubblica amministrazione il rilascio del permesso di costruire per una volumetria maggiorata.
In estrema sintesi, l'efficacia del negozio traslativo è subordinata al rilascio del permesso di costruire cd. maggiorato: ciò ha creato numerosi dubbi in ordine alla ricostruzione della natura giuridica.
Volendo provare a sintetizzare le numerose tesi prospettate nel corso del tempo è possibile distinguere tra gli orientamenti “a base negoziale”, che valorizzano l’autonomia negoziale, e quelli “a base amministrativa”, caratterizzati dalla centralità del provvedimento amministrativo.
Nell’ambito degli orientamenti a base amministrativa si distinguono due filoni: in forza del primo (tesi del negozio ad effetti obbligatori), la cessione di cubatura integrerebbe un procedimento a formazione progressiva il cui fulcro si individua nel provvedimento con il quale il Comune rilascia il permesso di costruire cd. “maggiorato”.
Il trasferimento di cubatura sarebbe determinato, dunque, da un provvedimento discrezionale, non vincolato all'assetto negoziale configurato dalle parti, ed emanato in esito a una valutazione dei molteplici e rilevanti interessi pubblici.
Così facendo, si nega un ruolo principale all’autonomia privata nella vicenda complessiva e si inquadra l’accordo nella tipologia dei contratti ad effetti obbligatori.
La critica maggiore mossa all’orientamento de quo è la scarsa tutela degli interessi delle parti: il negozio di cessione di cubatura, ad effetti meramente obbligatori, non avrebbe potuto essere trascritto e, quindi, non sarebbe risultato opponibile ai terzi.
Diversamente, la giurisprudenza amministrativa, ha prospettato la tesi dell’autosufficienza del provvedimento amministrativo: in base a tale impostazione, per la cessione di cubatura, da un proprietario ad un altro, non sarebbe necessario un atto negoziale privato diretto alla creazione di un vincolo giuridico tra le parti, in quanto tale cessione si realizzerebbe per mezzo del solo provvedimento amministrativo, avente effetto tra le parti e verso i terzi.
L’adesione del cedente potrebbe essere espressa in vari modi: da un atto di rinuncia, ad una dichiarazione. Si superava così il problema dell’opponibilità ai terzi, a danno, però, della sicurezza dei traffici.
Un orientamento opposto valorizza, invece, il rilievo negoziale della cessione.
All’interno della teoria a base negoziale, poi, si rilevano diversi tentativi di soluzione.
Una teoria inquadra il negozio di cessione di cubatura nell’ambito del diritto di superficie (atipico). Si afferma che così come può costituirsi il diritto di superficie mediante l’alienazione separata di un immobile già esistente, lo stesso può accadere con l’alienazione separata di una costruzione non ancora edificata
La tesi, tuttavia, non convince dal momento che il cessionario del diritto di cubatura non acquisisce un diritto di edificare su cosa altrui - così come avviene nel caso del diritto di superficie - ma incrementa la facoltà di esercizio del diritto su una cosa che è ed era propria.
È inoltre da escludere la creazione di un diritto reale atipico per il principio di tipicità e tassatività dei diritti reali.
Un’ulteriore ricostruzione considera la cessione di volumetria come un vincolo unilaterale nei confronti della P.A.: mediante il c.d. “atto di asservimento”, infatti, il proprietario di un fondo si impegna a non richiedere il permesso di costruire per edificare sul fondo medesimo; a tale rinuncia deve far seguito il rilascio ad altro soggetto di un permesso di costruire per una volumetria superiore a quella relativa al suo terreno. Si discorre, in tal senso, di rinuncia abdicativa
Si obietta, tuttavia, che la rinuncia non sarebbe stata opponibile ai terzi; non potrebbe configurarsi una rinuncia in senso tecnico: se, infatti, è concepibile la rinuncia ad un diritto soggettivo, non lo è la rinuncia ad una delle facoltà in esse ricomprese, dal momento che le facoltà costituenti il contenuto del diritto di proprietà non possono estinguersi se non con l’estinzione del diritto. Inoltre, è difficile spiegare come, con la semplice rinunzia, proprio il cessionario abbia "acquistato" la cubatura.
Al fine di superare gli inconvenienti derivanti dalla mancata opponibilità del negozio di cessione di cubatura sono state elaborate, sempre nell’ambito delle teorie “a base negoziale”, altre tesi che ricostruiscono la cessione di volumetria ora alla stregua di un negozio costitutivo di servitù di non edificare, ora alla stregua di un negozio di destinazione, ora come negozio traslativo di un diritto reale.
Il più noto è sicuramente il riferimento alla servitù di non edificare, che da una parte permetterebbe il rispetto del principio di tipicità dei diritti reali, dall’altra la possibilità di procedere con pubblicità immobiliare per rendere il trasferimento opponibile ai terzi.
In particolare, nell’ipotesi in cui il cedente spogli integralmente della capacità edificatoria il fondo servente, in modo tale che non possa esser più realizzato alcun manufatto, lo schema legale sarà quello della servitù di non edificare; qualora, piuttosto, le parti intendano realizzare un “parziale” trasferimento della cubatura, il meccanismo tipico di riferimento potrà essere quello della servitus altius non tollendi, in modo tale che il cedente possa utilizzare egli stesso sul proprio lotto un manufatto che impieghi la residua cubatura oppure possa cederla a terzi; la servitù resterebbe in ogni caso soggetta alla condizione risolutiva (condicio iuris) rappresentata dal rifiuto del permesso di costruire maggiorato da parte del Comune in favore del proprietario del fondo dominante.
Si obietta, però, che il ricorso al meccanismo legale delle servitù non aedificandi o altius non tollendi offrirebbe una spiegazione chiara alla nascita del vincolo sul fondo appartenente al cedente, ma non permetterebbe di comprendere come si verifica tecnicamente il corrispondente incremento della volumetria in capo al cessionario. Inoltre, si è osservato come, per quanto atipico possa essere il contenuto della servitù, esso sia pur sempre collegato ad una utilitas che, nel caso di specie, potrebbe configurarsi, però, solo a seguito del rilascio del provvedimento amministrativo concessorio.
La questione, in materia di diritto civile, riguardava prevalentemente la trascrivibilità del diritto ed è, pertanto, in parte stata sopita dall’introduzione dell’art. 2643 n. 2 bis c.c. che rende trascrivibili “i contratti che costituiscono, trasferiscono, o modificano i diritti edificatori comunque denominati…”.
Tuttavia, la natura giuridica della cessione di cubatura è ancora discussa nell’ambito del diritto tributario e non è un caso che la rimessione sia sorta in ambito tributario.
Nel dettaglio, la questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite muove dalla necessità di definire l’imposta di registro in relazione ad un atto di cessione di cubatura.
Le disposizioni tributarie, infatti, sottopongono ad aliquota diversa i contratti onerosi traslativi di diritti reali ed i contratti obbligatori. Nel dettaglio, l’art. 1, Tariffa Parte I del D.P.R. 131/86 stabilisce che “gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi, sono assoggettati ad aliquota fissa pari all’8%”. Diversamente, ai sensi dell’art. 9, gli atti aventi contenuto patrimoniale sono assoggettati al pagamento dell’imposta dovuta con applicazione dell’aliquota del 3%.
La sezione rimettente ripercorre le teorie richiamate e individua, ai fini fiscali, un orientamento che definisce la cessione di cubatura quale diritto reale o diritto assimilabile ad un diritto reale e assoggetta l’atto ad imposta di registro con aliquota fissa all’8% e un orientamento opposto che qualifica la natura dell’atto di cessione come meramente obbligatoria con applicazione dell’aliquota del 3%. A questi orientamenti si affianca, poi, un terzo che attribuisce alla cessione di cubatura natura poliedrica, rilevando di volta in volta le diverse normative riguardanti i singoli tributi.
L’adesione ad una teoria, piuttosto che ad un’altra, ha allora evidenti ricadute sul piano fiscale e ciò richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
4. La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019)
L’art. 2643, co.1, n. 2 bis, c.c. si propone, per stessa dichiarazione del legislatore, di “garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori”.
Sul piano della circolazione, le vicende traslative dei titoli volumetrici in assenza di fondi contigui o, comunque, ben determinati, sollevano diversi profili critici e, ancora una volta, hanno dato adito a dibattito quanto alla natura giuridica di tali diritti.
Taluni, richiamando la disciplina legislativa, hanno fatto derivare da questa previsione la realità del diritto, salvo poi dover verificare se si tratti di diritti “in re propria” o “in re aliena”.
Si obietta correttamente, però, che la mera collocazione del nuovo n. 2-bis nell’alveo dell’art. 2643 c.c. non possa costituire prova e fondamento della realità di tali diritti, in quanto l’ordinamento conosce ipotesi di trascrizione di contratti sicuramente con efficacia obbligatoria o dubbiosamente reale (si veda, a titolo esemplificativo, le ipotesi di cui ai nn. 8 e 12 del medesimo art. 2643 c.c., come pure quella del contratto preliminare ex art. 2645-bis c.c.).
Inoltre, a tale tesi si è replicato che i diritti in questione non sarebbero riconducibili nei diritti reali tipici, non potendo neppure inquadrarsi nella categoria delle servitù in quanto, una volta sorto, il diritto edificatorio (e la volumetria edificabile che lo stesso rappresenta), perde ogni collegamento con l’immobile di partenza, potendo lo stesso circolare ed essere negoziato in maniera autonoma.
I dubbi sulla natura reale hanno spinto a qualificare il diritto come un “bene”, in sé apprezzabile sul piano economico e giuridico: si qualifica il diritto edificatorio come bene immateriale (di origine immobiliare) similmente a quanto si era fatto per le “quote latte” (che spettano al conduttore dell'azienda agricola, ma possono essere alienate separatamente dall’azione) o per il “diritto al riempimento del vitigno” (alienabile a favore di altri viticoltori).
Altra dottrina, esaltando il ruolo della pubblica amministrazione che conclude il procedimento, evoca il concetto di “chance edificatoria” richiamando una situazione di interesse legittimo pretensivo in capo al titolare del diritto edificatorio poiché è necessaria un’attività adesiva dell’amministrazione per l’esercizio di tale diritto.
La negoziazione della chance, allora, realizzerebbe la circolazione di un’aspettativa di diritto.
Tale teoria, tuttavia, è stata criticata osservando che non si tratta sic et simpliciter di un diritto di natura obbligatoria, poiché presenta evidenti profili di realità in quanto, da un lato, il titolare di detto diritto non può che essere il proprietario di un immobile interessato da una perequazione, incentivazione o compensazione e, dall’altro lato, il diritto edificatorio per la sua realizzazione presuppone la titolarità di un immobile nel quale riversare la “quantità volumetrica” spettante.
Tutte le teorie riportate sono richiamate dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da parte della sezione tributaria al fine di chiarire “se un’area, prima edificabile e poi assoggettata con legge regionale ad un vincolo di inedificabilità assoluta, sia da considerare edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma di cd. compensazione urbanistica adottato dal Comune, ancorché il procedimento compensatorio non si sia ancora concluso, non essendo stata specificamente individuata ed assegnata al proprietario la cd. area “di atterraggio”, ossia l’area sulla quale deve essere trasferita l’edificabilità già cessata sull’area cd. “di decollo.
L’ICI (imposta comunale sugli immobili) è stata sostituita dall’IMU (imposta municipale sugli immobili), tradizionalmente riservata gli enti locali. La questione ha ad oggetto l’ICI, ratione temporis, ma rileva ugualmente ai fini dell’imposizione dell’IMU (attualmente vigente).
Ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 504/92 presupposto dell’ICI è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa. L’art. 36, co.2, D.L. 223/2006, convertito in L. 248/2006 ha stabilito che “un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo”.
Tirando le fila, il reticolo di norme richiamato prevede il pagamento di un’imposta anche per terreni edificabili, di qui l’esigenza di chiarire se l’imposta è dovuta anche in fase di “volo” del diritto edificatorio. La risoluzione della questione passa evidentemente – ancora una volta - per l’esatta individuazione della natura del diritto: ove si qualificasse il diritto di edificare come obbligatorio difetterebbe, infatti, il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perchè il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario
L’ordinanza di rimessione pare propendere per la natura obbligatoria dei diritti edificatori. L’estensore afferma, in tal senso, che “se, come sembra preferibile, si qualifica tale diritto come di natura obbligatoria (quantomeno con riferimento al “credito compensativo” promesso al proprietario con lo strumento della compensazione urbanistica), ancorché con profili di realità, difetterebbe il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perché il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario.
Analoga conclusione ove si accedesse alla configurazione dei crediti edilizi in termini di “frutto” del bene, come pure è stato prospettato, laddove il frutto sarebbe la capacità edificatoria espressa dal bene stesso ma da quest’ultimo destinata a staccarsi”.
Infatti, è vero che il diritto edificatorio necessariamente “decolla” da un fondo e, infine, “atterra” su un altro fondo, nel quale viene materialmente sfruttato, ma è altresì vero che la volumetria può restare per lungo tempo “in volo”, completamente staccata sia dal fondo di decollo (che la genera) sia da quello di atterraggio (che è destinato a riceverla), potendo nel frattempo essere liberamente ceduta a fronte di un prezzo: insomma, si tratta di un diritto che non presenta quei caratteri di immediatezza e di inerenza che connotano qualsiasi diritto reale.
Per la sezione rimettente per tutto il tempo del “volo”, dunque, il proprietario o il titolare di altro diritto reale non ha il possesso di alcuna area fabbricabile sita nel territorio comunale, ma resta titolare e possessore di un area gravata da un vincolo di inedificabilità assoluta, nella specie in virtù della pianificazione paesaggistica regionale (strumento sovraordinato al piano urbanistico comunale), e vanta una mera aspettativa di divenire titolare di altra area edificabile, sita altrove, ma della quale non conosce neppure gli estremi catastali, in quanto ancora non specificamente individuata e, conseguentemente, non ne ha neppure il possesso. In conclusione, secondo l’ordinanza di rimessione, non appaiono sussistere i due presupposti richiesti dalla normativa ICI per l’applicazione dell’imposta: non sembra, infatti, ravvisabile né il presupposto oggettivo, costituito dal possesso di un’area fabbricabile ancorché solo potenzialmente), e neppure il presupposto soggettivo, ossia la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un’area fabbricabile.
“La mera promessa di assegnazione di un’area edificabile in compensazione di quella di partenza, infatti, non appare idonea a conferire alcun diritto al privato, ma solo una legittima aspettativa, soggetta a una ampia discrezionalità dell’Amministrazione ed incerta nell’an, nel modus e nel tempus”.
Il rilievo della questione richiede l’intervento delle Sezioni Unite.