"M." di Scurati: il fascino discreto del fascismo (di ieri e
di oggi)
di Andrea Apollonio
Qualcuno ha dubitato che "M. Il
figlio del secolo", di Antonio Scurati (Bompiani, 2018) potesse
rappresentare un fenomeno letterario, essenzialmente per tre ragioni: per
l'oggetto, per l'ampiezza, per l'epoca. Ci si è detti: è un libro su Mussolini,
l'ennesimo, cosa avrà di nuovo da dire? Si è aggiunto: è un libro che si
avvicina pericolosamente alle mille pagine, roba da romanzo russo ottocentesco.
Infine: i fenomeni letterari (che involgono la parte pensante del Paese, la
orientano e la dividono con la sola forza della scrittura) non possono
appartenere ad un tempo che sta osservando senza reagire il crollo verticale
dei lettori: perché molti di loro, abbandonati i libri, si sentono già
abbondantemente appagati dal flusso ininterrotto dei "post" e delle
"stories" sulle piattaforme social, mentre i più giovani, i c.d.
"nativi digitali", neppure hanno fatto in tempo a diventare
lettori.
E invece, "M" rappresenta, nonostante i tempi, un fenomeno letterario (le copie vendute, i premi vinti, i dibattiti aperti, lo dimostrano); ma è sopratutto una pagina di storia che viene travasata nel presente, raccontata con una certa spregiudicatezza. Si vuol dire che, sotto l'aspetto della tecnica narrativa, l'opera di Scurati è - in superficie - un'apologia del fascismo. E' il fascismo raccontato dai suoi protagonisti, dall'interno, dal ventre tumultuoso e anarchico della classe reietta - che sarebbe diventata il nocciolo duro del fascismo - degli ex combattenti che si rifiutano di tornare ad essere semplici cittadini: di sbandati, disperati, violenti, fanatici incendiari, psicopatici e galeotti, reduci votati alla morte anche in tempo di pace. E', sopratutto, Benito Mussolini - l'incarnazione del nuovo corso politico che, prima ancora di farsi partito, scaturisce da una nuova concezione di essere italiano: intrepido e violento, ancora in preda alle sbornie di una "vittoria mutilata" - a raccontare se stesso. I prodromi del regime liberticida che verrà, e della tragedia mondiale che verrà, sono in fondo tutti qui: nella miserevole eppure sfrenata ambizione di un uomo ipocondriaco, impunito razziatore di giovani donne, che, nato socialista, pur di prevalere nel panorama politico non disdegna alleanze con la più grezza violenza squadrista in funzione anti-socialista, e si autoproclama duce del fascismo creando dal nulla un'ideologia farlocca della vita vissuta appieno col manganello in mano, abietta al punto da sdoganare la morte, l'eccidio, il sangue dei lavoratori inermi e delle loro famiglie quale fatto storico "morale" e "necessario".
E' lo stesso Mussolini a raccontarsi così com'è, senza diaframmi, davanti allo specchio della storia implacabile come ogni superficie riflessa. Sono infatti le fonti di prima battuta (telegrammi, dispacci, brandelli di diario, e tanti articoli di giornale del Mussolini giornalista e direttore de "Il popolo d'Italia") a parlarci del fascismo, prima cucite assieme dentro una trama narrativa accattivante e sincopata per raggiungere il giusto livello di tensione, poi "svelate" alla fine di ogni capitolo, riportate con distacco archivistico; frasi e parole abnormi (che pure all'epoca non hanno impedito l'ascesa delle camicie nere) messe a nudo come capodogli spiaggiati sulla riva, accerchiati da una folla di bagnanti incuriositi. Quella folla siamo noi, lì a chiederci come sia potuto accadere.
E' accaduto anche perché l'epopea al contrario del fascismo ha incontrato il favore del destino (Mussolini nel 1921 precipita durante una lezione di volo con il suo apparecchio, caduto da 40 metri di altezza senza causare gravi conseguenze per l'aviatore: un miracolo) e l'ignavia di un regnante che l'anno dopo, nonostante il pericolo per l'integrità dello Stato costituito da colonne armate e violente pronte ad entrare nella capitale, si rifiuta inspiegabilmente di firmare lo stato di assedio: la marcia su Roma fu così trasformata nella parata vittoriosa dei protervi sugli ingenui. "A volte può bastare un banale incidente a deviare il corso della storia. E tutto finisce in una lamiera contorta ai bordi di un campo di verze", scrive Scurati a proposito del primo episodio; inutile chiedersi perché il re non firmò il decreto, scrive rispetto al secondo: "Le ragioni sono tante e nessuna. La sfinge della storia siede muta, inamovibile, su ciò che è stato, che sarà, che avrebbe potuto essere e che invece resterà per sempre increato".
In questo far intendere che l'attimo insignificante in cui tutto può finire in realtà tutto ha inizio, nel modo con cui racconta la vita di un uomo trascesa senza resistenze esterne a vicenda storica universale, nell'incastro reticolare tra decisioni prese e rinviate, tra concessioni e indulgenze di uno Stato liberale agonizzante che, come in un giallo di Agatha Christie, firma inconsapevolmente la propria condanna a morte senza che l'assassino si individui mai (Giolitti? Croce? Il re? Le opposizioni?), Scurati si rivela un grande maestro della scrittura, dal piglio accattivante e dal carattere documentaristico, che la innalza - sciascianamente - al rango di saggio storico pur dentro un impianto narrativo: l'intreccio delle fonti è sapiente, la linea del racconto segue percorsi intriganti, sebbene rimanga un semplice, obiettivo, "diario di bordo" del fascismo degli esordi. In superficie, si diceva, è un apologo, concedendosi ai Mussolini, ai Farinacci, ai Balbo, diritto di tribuna senza contraddittorio; sottopelle, assimilato come un enzima necessario all'organismo, diventa una grande, definitiva lezione di antifascismo, antico e moderno.
Questa operazione narrativa è infatti di cruciale importanza per comprendere le similitudini con le subdole forme di fascismo che oggi si registrano. Scurati (finalmente) sgombra il campo da ogni equivoco: parlare di fascismo, oggi, non vuol dire tanto riferirsi al ventennio fascista, alla costituzionale privazione o menomazione delle libertà, alla persecuzione prevista dalla legge: allo Stato che si fa Tiranno. Quello fascista è un esperimento politico-governativo irreplicabile, nell'ambito del costituzionalismo moderno occidentale, con i suoi bilanciamenti e i suoi anticorpi. E' invece al fascismo degli anni 20-22 che più correttamente occorre riferirsi, a quel fenomeno di violenza fisica e morale diffusa eppure tollerata, ad un certo punto voluta e apprezzata dalle classi borghesi, dai liberali e persino dal re, terrorizzati tutti da un eventuale socialismo di governo. E' allora che scopriremmo con orrore la quantità di fascismo di cui è iniettato il nostro tempo.
Non è fascismo quello che ha condotto al brutale - e senza ragione alcuna - pestaggio di Willy, il ragazzo ucciso a pugni a Colleferro? (è così che i fascisti della prima ora annientavano gli avversari, a pugni e bastonate). E per venire a temi più vicini: non è fascismo minacciare di morte un pm che indaga su reati commessi da esponenti di estrema destra e che, "addirittura", si dichiara partigiano? (è così che i fascisti screditavano gli avversari, con il sovvertimento della realtà). Certo, non ci sono più gli assalti alle Case del popolo (anche perché non ci sono più le Case del popolo), ma c'è, un esempio tra tanti, quel fenomeno diffuso e tollerato che è l'odio social: gli attacchi sistematici, virtuali, dei "leoni da tastiera", che vengono scagliati, per puro gusto di farlo, per una sorda necessità, nei confronti di tutti coloro che non la pensano allo stesso modo - o che, semplicemente, pensano. Non è forse la cerchia sempre più ampia, ormai incensibile, degli odiatori seriali, fascismo?
L'aspetto tragico di questo fenomeno e che molti di questi "hater" pensano di fare opinione, credono di essere co-protagonisti della contemporaneità semplicemente sfogando una rabbia primitiva: sono tra quelli (cfr. sopra) che hanno deciso di abbandonare il libro per dedicarsi ad una forma di racconto ben più semplificata: quella dei social, appunto; sono tra quelli (cfr. sopra) che, nativi digitali, non sono mai diventati lettori. In entrambi i casi, il modello è quello fascista: "La storia si fa con la bomba a mano e con l'aratro, e non coi volumi di Salvemini; si vive, non si legge. Se mi bocci me ne frego" (la citazione è, ancora, tra quelle preziose che riporta Scurati: questa è tratta da una rivista fascista). La realtà semplificata, primitiva, la ricerca dell'ignoranza quale forma di protezione, il digrossamento dei problemi trasformati in contenitori d'odio e di intolleranza di cui coprire chi la pensa diversamente. E' la rivolta dell'io contro la coscienza collettiva, del popolo senza ragione contro gli steccati del diritto e della morale. "Il popolo... oggi si orienta a masse sempre più folte verso di noi, perché sente, nel suo oscuro ma infallibile istinto, che nel fascismo c'è la vita con tutte le sue possibilità" (lettera di Mussolini a Farinacci). E' il fascino discreto del fascismo che attira i più fragili: ieri come oggi. Antonio Scurati l'ha reso palese.
Al seguito - "M. L'uomo della provvidenza" (Bompiani, 2020) - si può accennare solo in funzione di stimolo, per ulteriori spunti e considerazioni. Il delitto Matteotti quale anello di congiunzione tra il primo e il secondo volume, quale momento cruciale di passaggio dalla finzione democratica all'effettività di una dittatura. Il sipario si apre qui su di uno scenario narrativo ben diverso: un Mussolini sempre piiù bestialmente uomo e il fascismo di governo, che si avvia verso il regime abbandonando ogni incertezza, disinvoltamente, dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, superata con la (dolosa) benedizione del re, l'inerzia (colpevole) delle forze di opposizione e lo smarrimento (obiettivo) dell'opinione pubblica. Si generano adesso nuovi temi, nuove questioni (tra le quali, l'atteggiamento della magistratura di fronte al regime): e un fenomeno letterario in grado di indicarci i problemi, vecchi e nuovi (la genesi del nostro spirito nazionale; l'origine delle nostre peggiori pulsioni), dopo anni di stasi culturale, merita l'avvio di un dibattito.