ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria
di Federico Russo
Sommario: 1. Un breve quadro storico: l’estinzione per confusione dei giudici onorari di tribunale coi giudici di pace nel giudice onorario di pace - 2. Le modifiche proposte nel D.D.L.: a) le criticità irrisolte in tema di carattere “part time”, di autoorganizzazione dell’attività, e di accesso alla funzione. Le modifiche alla dotazione organica - 3. Le modifiche proposte nel D.D.L.: b) le criticità irrisolte in tema di incompatibilità (e i correlati divieti di esercizio della professione forense a danno di soggetti estranei al rapporto di “servizio” onorario), astensione e ricusazione - 4. Le modifiche proposte nel D.D.L.: c) la (menomata) reintroduzione del vice coordinatore dei giudici di pace e altre modifiche minori all’art. 3 d.lgs. - 5. Le modifiche proposte nel D.D.L.: d) la mancata modifica degli artt. 10-17 del d.lgs. 116/2017 - 6. Le modifiche proposte nel D.D.L.: e) la (migliorabile) “gradazione” delle sanzioni disciplinari applicabili al magistrato onorario - 7. Le modifiche proposte nel D.D.L.: f) la mancata riscrittura delle norme su maternità e malattia (la strana idea secondo cui la maternità non debba essere tutelata). La corresponsione bimestrale dell’indennità - 8. Le modifiche proposte nel D.D.L.: g) l’opportuna (ancorché, forse, eccessivamente draconiana) abrogazione delle farraginose norme sull’ampliamento della competenza del giudice di pace - 9. Le modifiche proposte nel D.D.L.: h) il regime transitorio applicabile ai “vecchi” magistrati onorari in servizio - 9.1. Il rinnovo dell’incarico fino al compimento del settantesimo anno di età - 9.2. … e i suoi effetti collaterali: il divieto perenne di lasciare l’ufficio del processo - 9.3. L’abolizione del periodo finale di “fuori ruolo” - 9.4. Il miglioramento del regime retributivo per i vecchi giudici di pace e il peggioramento di quello dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari - 10. Tabelle.
1. Un breve quadro storico: l’estinzione per confusione dei giudici onorari di tribunale coi giudici di pace nel giudice onorario di pace
In un mio recente scritto, nel tentativo di individuare una ricostruzione storico – sistematica alla magistratura onoraria, feci ricorso al termine “extranei” della magistratura. Con tale definizione volevo delineare i confini una categoria di soggetti - in primis, ma non in via esclusiva, i magistrati onorari – che hanno fatto ingresso nella magistratura, o per lo meno nelle funzioni da essa esercitate, attraverso una via eccentrica rispetto a quella porta ordinaria che definisce oggi, in modo ben chiaro, i confini dell’intraneità, i.e.: il concorso teorico con esame scritto e orale[1].
Avevo evidenziato come, in effetti, le figure fatte confluire dal d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, in modo forzato e senza una vera ragione di ordine storico – sistematico, nell’unica categoria dei Giudici onorari di pace, avessero molto poco in comune.
I giudici di pace, eredi dei vecchi conciliatori del Regno delle due Sicilie, erano sempre stati un’entità ben distinta dai magistrati togati, e solo un’evoluzione normativa poco coerente li aveva progressivamente trasformati dai bonari compositori – mediatori, se vogliamo – che erano, con limitate e residuali funzioni decidenti, in giudici bagatellari, con oggi quasi vestigiale vocazione a conciliare[2].
I Giudici Onorari di Tribunale (come i Vice Procuratori Onorari), invece, discendono dai Vice Giudici di Mandamento del Regno di Sardegna (Ord. Giud. Sardo 1859), divenuti poi Vice-pretori mandamentali (Ord. Giud. 1865), denominazione mantenuta (salvo piccole variazioni ortografiche) con il R.D. 14 dicembre 1921, n. 1978 (Ord. Giud. 1921) e fino al R.D. 30 dicembre 1923, n. 2786 (Ord. Giud. 1923) quando assunsero quella di Vice Pretori Onorari. Tale ultima denominazione fu mantenuta anche con il R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ord. Giud. 1941, poi modificato con d. lgs. 28 luglio 1989, n. 273 che vi affiancò i “Vice Procuratori”), fino al d.lgs 19 febbraio 1998, n.51 che soppresse le preture, e quindi i Vice Pretori Onorari introducendo, però, appunto i Giudici Onorari di Tribunale e i Vice Procuratori Onorari (che sostituirono i Vice Procuratori) [3].
Essi hanno non hanno mai avuto una competenza esclusiva, distinta da quella dei magistrati togati, ma hanno, al contrario, esercitato funzioni di integrazione e supplenza di questi e, per lungo tempo, l’esercizio della loro funzione costituì una delle porte per accedere ai primi gradi della magistratura ordinaria in senso stretto[4].
Le ragioni della fusione forzata tra giudici onorari di tribunale da una parte e giudici di pace dall’altra, allora, non trovano alcun appiglio nella storia, e neanche nelle funzioni esercitate che, come detto, sono sempre state ben distinte tra i primi e i secondi.
Neppure pare avere reale consistenza la supposta esigenza di disciplinare in modo unitario sul piano ordinamentale tutte le categorie di magistrati onorari esistenti in Italia: a tacer d’altro la riforma del 2017 non riguarda i Giudici Ausiliari di Appello, introdotti con d.l. 21 giugno 2013, n. 69. Eppure, sia sul piano funzionale che su quello ordinamentale, tali magistrati onorari sono assolutamente affini ai vecchi giudici onorari di tribunale; e di ciò il legislatore sembra essere stato consapevole, tant’è che ad esempio la disciplina in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione, dei Giudici Ausiliari d’Appello ha costituito l’archetipo delle improvvide scelte del legislatore del 2017 e del progetto di riforma in commento.
Anche l’aumento di competenza dei Giudici di pace, disposto dagli artt. 27 e 28 del d.lgs. 28/2010, non pare essere una giustificazione plausibile per la scelta del legislatore. Invero l’aumento delle competenze del giudice di pace sarebbe stata, in astratto, un’idea valida ed interessante[5]; essa però è stata attuata in concreto, inseguendo criteri contorti, farraginosi, di complessa applicazione e dunque di incerta interpretazione.
In effetti l’impressione è che il legislatore, anziché aumentare le competenze dei giudici di pace e, a causa di questo, pensare a un allargamento dei magistrati addetti a questo ufficio, facendovi confluire i vecchi giudici onorari di tribunale, abbia seguito una logica diametralmente opposta. In particolare, abbia deciso preliminarmente di unificare le due categorie e, per sostenere tale decisione, abbia allargato la competenza dei giudici di pace, facendovi confluire (buona parte delle) controversie verosimilmente già trattate, in tribunale, dai vecchi G.O.T.[6]. Che siffatto modo di procedere sia gravemente irrazionale e pericoloso sul piano delle conseguenze processuali pare piuttosto evidente. Trasformare in veri e proprie regole di competenza quelle che erano vecchie prassi interne è un’idea improvvida. In pratica si riversa sulle parti l’onere di individuare la sfuggente competenza del nuovo giudice di pace, attribuendo a criteri – prima di valenza meramente interna – valore di regole di competenza, come tali soggette alla specifica disciplina processuale, incluso il regime impugnatorio! Di più, dal momento che, come detto, questi criteri appaiono tutt’altro che lineari - scivolosi, sono stati definiti – le probabilità di errore, delle parti, dei difensori e dei giudizi, saranno elevatissime, con conseguente avvio di interminabili e frequentissimi contenziosi proprio sulle regole di competenza che finiranno con l’ingolfare i tribunali prima e la Corte di Cassazione poi[7].
Le ragioni della fusione, allora, non paiono di ordine giuridico ma, semplicemente, politico (in senso deteriore). Invero, come è stato sostenuto, in Italia si sia sempre fatto ricorso alla magistratura onoraria in chiave deflattiva e non alternativa (recte: alternativa solo sul piano finanziario): non «per porre le basi di una giustizia diversa in settori diversi», ma per consentire la sopravvivenza del sistema giustizia, immettendo nelle funzioni giurisdizionali personale a basso costo, sgravando di lavoro i giudici professionali[8].
L’utilizzo massiccio e intensivo negli Uffici giudiziari dei magistrati onorari, ai quali è stato molto spesso assegnato un ruolo autonomo e tutt’altro che irrilevante sul piano quantitativo e qualitativo[9], unito allo stillicidio di proroghe alla scadenza del loro incarico[10], aveva inevitabilmente finito con l’ingenerare nei magistrati onorari l’aspirazione a una certa stabilizzazione, oltre che al riconoscimento di talune garanzie basilari, come la maternità, la malattia, etc.[11].
Tale aspirazione dei magistrati onorari si è tradotta, come noto, in diverse iniziative, anche giudiziarie, condotte in varie sedi, e aveva trovato anche un suo parziale avallo da parte del Consiglio di Stato, il quale con parere n. 854/2017 del 7 aprile 2017, aveva aperto le porte a una possibile semi-stabilizzazione, sulla falsariga delle precedenti effettuate con legge 18 maggio 1974, n. 217 e con legge 4 agosto 1977, n. 516. Una soluzione, va detto, forse non pienamente soddisfacente per le aspettative dei magistrati onorari in servizio, ma sicuramente accettabile in una prospettiva di compromesso, tenuto anche conto della congiuntura economica.
Forse proprio talune iniziative, però (e davvero desidererei sul punto essere smentito[12]), hanno finito per innescare, sul piano delle scelte legislative, un effetto contrario[13].
Invero, il d.lgs. 116/2017 appare, più che una soluzione ai problemi esistenti, un – absit iniuria verbis: improbabile – tentativo di conciliare l’impossibile. Da un lato, si è cercato di mantenere, sul piano quantitativo, l’apporto lavorativo della magistratura onoraria a fini deflattivi, nel senso sopra indicato; dall’altro si è cercato di caratterizzare una differenza i magistrati onorari dai magistrati togati, provando a contornarne un ruolo unico, che ricomprendesse tanto le vecchie attribuzioni del giudice di pace (che è stato, però menomato nell’autonomia organizzativa), quanto i vaporosi e ancillari compiti preparatori, delegati e di supplenza da svolgere, privi di ogni reale autonomia funzionale, nell’ufficio per il processo.
Un testo normativo così mal concepito non può che presentare numerose criticità. Erano state, pertanto, da più parti invocate la necessità e l’urgenza[14] di apportare al d.lgs. 116/2017 modifiche incisive e profonde, se non proprio di rivalutarne ex novo l’impianto concettuale. Tale risultato, però, non può considerarsi raggiunto dal D.D.L. in commento. Si proceda con ordine.
2. Le modifiche proposte nel D.D.L.: a) le criticità irrisolte in tema di carattere “part time”, di autoorganizzazione dell’attività, e di accesso alla funzione. Le modifiche alla dotazione organica
L’art.1 del testo unificato del D.D.L. propone di incrementare l’impegno lavorativo esigibile dai magistrati onorari da due a tre giorni a settimana. L’incremento è riservato ai “nuovi”, ossia ai magistrati onorari assunti successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 116/2017. Non sembra però esservi un adeguato coordinamento con l’art. 31 del d.lgs. 116/2017, il quale, per il caso di opzione per i “vecchi” magistrati onorari del regime aggravato di svolgimento cumulativo delle funzioni pregresse con quelle dell’ufficio per il processo (o con l’ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica) continua a prevedere che “in tal caso quanto previsto dall’articolo 1, comma 3, secondo e terzo periodo, si applica in relazione a tre, invece che a due, giorni a settimana”.
Il D.D.L., a me pare, mira a difendere a oltranza il carattere part time dell’incarico di magistrato onorario, limitando il lavoro di questo a tre giorni a settimana, sia pure con un’interpretazione del “giorno” in senso solare e non lavorativo: ampiamente superiore alle otto ore lavorative[15].
Per il resto, viene mantenuto l’impianto del d.lgs. 116/2017: dalla labiale affermazione della “autoorganizzazione dell’attività” del magistrato onorario (art. 1 d.lgs.; invero ampiamente smentito dall’inserimento nell’Ufficio per il Processo e nell’Ufficio di Collaborazione e con i poteri direttivi, di controllo che incidono financo sul rinnovo, attribuiti al magistrato professionale) alla previsione (anche questa smentita dall’inopinatamente rigoroso regime delle incompatibilità) che l’incarico deve svolgersi in modo da “assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali” del magistrato onorario, per finire alla perentoria affermazione che l’incarico “non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego”.
Gli artt. 2 e 3 del d.lgs. non vengono esplicitamente modificati; tuttavia l’art. 15 del D.D.L. interviene direttamente sulle dotazioni organiche dei magistrati onorari di cui agli articoli 1 e 2 del D.M. 27 febbraio 2018, riducendole rispettivamente da 6.000 a 3.500 per i giudici di onorari pace e da 2.000 a 1.800 per i vice procuratori onorari. A parte l’anomalia di una legge che modifica un decreto ministeriale, la riforma pare volere adeguare la dotazione organica al numero di magistrati onorari ad oggi esistenti[16]. La previsione, però, va letta unitamente al già citato art. 10 del D.D.L. che, proponendo di modificare l’art. 30 del d.lgs., impedisce de facto ai vecchi GOT e VPO di essere assegnati all’Ufficio del giudice di pace. Facendo due rapidi conti, se l’organico dei Giudici onorari di pace è stato quasi dimezzato, tale riduzione riguarda in via esclusiva i posti in organico precedentemente previsti per i giudici di pace (tant’è che l’organico dei Vice procuratori onorari è rimasto pressoché identico e coincide quasi esattamente con i posti allo stato coperti)[17].
Non viene modificato l’art. 4 del d.lgs., concernente i requisiti per l’accesso alla funzione onoraria. Sulle scelte normative operate, in parte qua, dal legislatore, ribadisco le riserve già espresse in passato[18]. Al di là dello scarsissimo rilievo attribuito dal legislatore al conseguimento del dottorato di ricerca in materie giuridiche, massimo titolo di istruzione rilasciato dalle università italiane, resta l’incomprensibile previsione del comma 3, lett. a, secondo cui costituisce titolo di preferenza (al primo posto nell’ordine gerarchico), “l’esercizio pregresso delle funzioni giudiziarie, comprese quelle onorarie, fermo quanto disposto dal comma 2 lettera e”.
Ho già evidenziato che tale norma pare scarsamente applicabile, se non in ipotesi residuali, ai magistrati onorari in servizio (dal momento che, giusta il richiamo al comma 2 lett. e, il pregresso svolgimento di funzioni giudiziarie onorarie disciplinate dal d.lgs. 116/2017, per quattro anni anche non consecutivi, preclude il conferimento dell’incarico). Di contro, la locuzione “comprese” potrebbe consentire un indesiderabile campo di applicazione a quei magistrati non onorari (professionali) che avessero lasciato volontariamente la magistratura prima dell’età pensionabile (nel migliore dei casi, per svolgere altra professione).
3. Le modifiche proposte nel D.D.L.: b) le criticità irrisolte in tema di incompatibilità (e i correlati divieti di esercizio della professione forense a danno di soggetti estranei al rapporto di “servizio” onorario), astensione e ricusazione
Salvo che per modifiche secondarie, è stato mantenuto l’inopinatamente rigoroso regime di incompatibilità previsto dall’art. 5 del d.lgs. con l’esercizio della professione forense. Il novellando testo prevede che “Gli avvocati e i praticanti abilitati non possono esercitare le funzioni di magistrato onorario in uffici giudiziari compresi nel circondario del tribunale nel quale esercitano la professione forense, ovvero nel quale esercitano la professione forense i loro associati di studio, i membri dell'associazione professionale, i soci della società tra professionisti. I magistrati onorari non possono essere assegnati a uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, gli affini in primo grado, il coniuge, il convivente o la parte dell'unione civile esercitano la professione di avvocato”.
Come già segnalato[19], l’estensione ai soci di studio etc. pare eccessivamente penalizzante per i neo-magistrati onorari che esercitassero la professione nei c.d. grandi studi legali, con centinaia di soci e sedi sparse su tutto il territorio nazionale. Quantomeno sarebbe opportuno prevedere espressamente la possibilità del neo-magistrato onorario di assumere l’incarico, condizionatamente al recesso dall’associazione, etc.
Ben più irrazionale pare, poi, la previsione del comma 3 del d.lgs, che, nel testo novellando dal D.D.L. (art.2), prevede un divieto per associati di studio etc. del magistrato onorario, nonché per il coniuge, il convivente di fatto, i parenti entro il secondo grado, gli affini entro il primo grado di questo di esercitare la professione dove il magistrato onorario svolge la sua funzione, e di rappresentare, assistere o difendere o difendere, anche in successivi gradi di giudizio, le parti di procedimenti svolti nel medesimo luogo (non: nelle cause trattate o decise dal magistrato onorario)[20].
Il D.D.L. sembra prevedere una gradazione, nel senso che mentre il divieto, per la macrocategoria degli associati etc., riguarda l’intero circondario, per quella dei parenti etc. esso è limitato alla “sede”[21]. Più in generale, sembra che il D.D.L. voglia applicare alla prima macrocategoria la medesima disciplina prevista per il magistrato onorario, introducendo qualche lieve temperamento, invece, per quella dei parenti etc.
Pur con i miglioramenti introdotti, mi pare che il sistema nel suo complesso risulti inaccettabile. Oltre alla – a mio avviso di dubbia legittimità – limitazione nell’esercizio della professione (un conto è prevedere, in questi casi, il trasferimento del magistrato onorario, un conto è prevedere, in capo a soggetti terzi, un divieto di esercizio della professione forense), le conseguenze processuali dell’eventuale violazione del divieto sono abbastanza incerte. Invero, per come è formulata la norma, essa non sembra avere un rilievo meramente disciplinare, bensì anche civilistico. Sicché potrebbe sostenersi che, in caso di violazione, l’avvocato sarebbe privo dello ius postulandi, con conseguente invalidità degli atti compiuti da questo (a mio giudizio sanabili tuttavia, nel processo civile, ai sensi dell’art. 182 c.p.c.[22]).
Il D.D.L. introduce, infine, un temperamento alla disciplina, scil: il rinvio, per l’accertamento in concreto della ricorrenza delle incompatibilità, ai criteri di cui agli artt. 18 e 19 Ord. Giud[23]. Tale ammorbidimento, tuttavia, viene espressamente limitato alle sole incompatibilità derivanti dai soli rapporti di parentela etc., e non anche quelle legate ai rapporti di associazione professionale (e simili). Il che sembra troncare a monte ogni possibilità di applicare analogicamente o in via estensiva i criteri di gradazione anzidetti alle incompatibilità di tale macrocategoria. Come detto, il socio di studio viene considerato ad ogni effetto un alter ego del magistrato onorario.
Sotto altro profilo, poi, dal momento che l’introducendo comma 5 bis fa esplicito riferimento alle “incompatibilità del magistrato onorario”, non sembra affatto scontata l’applicabilità dei criteri di gradazione di cui agli artt. 18 e 19 Ord. Giud. anche agli extranei (stavolta, in senso proprio) rispetto alla funzione onoraria, ossia in favore di quei soggetti terzi, rientranti nelle macrocategorie, sopra definite, di soci e parenti (ambedue, in senso lato).
Ritengo, al riguardo, che, sulla scorta del testo del D.D.L., le regole di cui agli artt. 18 e 19 Ord. Giud. debbano considerarsi comunque applicabili ai parenti, coniugi, conviventi, parti dell’unione civile, affini. Invero, in caso contrario, si determinerebbe una forte irrazionalità del sistema, dal momento che, ad esempio, un esercizio, da parte dell’avvocato, sporadico e marginale della professione, magari anche in un settore (civile – penale) diverso da quello del magistrato onorario, risulterebbe irrilevante per quest’ultimo, consentendogli di essere nominato nella sede e mantenere l’incarico, ma non per il primo, che incorrerebbe nel divieto di esercizio della professione.
Al contrario, per come detto supra, i temperamenti de quibus non sembrano applicabili ai rapporti tra magistrato onorario e quei soggetti rientranti nella macrocategoria dei soci di studio in senso lato. E ciò, ovviamente, vale in ambedue le direzioni: sia con riferimento alla verifica dell’incompatibilità del magistrato onorario, sia con riferimento al divieto di esercizio della professione per soci etc.
Per tutto quant’altro, l’art. 5 d.lgs. non viene modificato; rinvio, pertanto, a quanto ho già sostenuto in passato[24].
Aggiungo che la norma in questione (come il successivo art. 19, Astensione e ricusazione) andrebbe integralmente abrogato, e che ai magistrati onorari dovrebbero trovare applicazione le regole comuni, o almeno le regole previste dalla legge 374/1991 sui giudici di pace, nel testo anteriore alle modifiche del 2006.
Esso, inoltre, ha una rubrica per lo meno fuorviante, dal momento che, dietro il laconico vocabolo “incompatibilità”, come visto, si celano divieti e vincoli particolarmente insidiosi, di cui sono destinatari, in realtà, non solo il magistrato onorario, ma anche soggetti terzi, e in particolare avvocati, cui viene menomato l’esercizio di quello che è sempre stato – indiscutibilmente – un lavoro (ancorché autonomo).
Ad analoghe critiche si espone il testo dell’art. 19 del D.lgs., non modificato dal D.D.L., in tema di astensione obbligatoria. Come già evidenziato, si tratta di limitazioni particolarmente penetranti e dai contorni poco chiari: “Ha altresì l’obbligo di astenersi quando egli o il coniuge o la parte dell'unione civile, il convivente, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado, sono stati associati o in qualunque modo collegati con lo studio professionale di cui ha fatto o fa parte il difensore di una delle parti”.
Al di là dell’ipotesi - invero un po’ sfuggente - del “collegamento” con lo studio di cui fa parte il difensore di una delle parti, risulta di difficile comprensione la coniugazione dei verbi al tempo passato (passato prossimo, per l’esattezza, utilizzato per due volte: “sono stati associati o in qualunque modo collegati” e “di cui ha fatto parte il difensore”). Si tratta di una disposizione di difficile applicazione e scarsamente ragionevole, qualora il giudice onorario stesso o il suo congiunto avessero, nel tempo, prestato attività in diversi studi legali, specialmente se di grandi dimensioni, con decine di avvocati (ciascuno dei quali con una pregressa storia di studi legali alle spalle). Ritengo che, al più, talune fattispecie limite – le più ambigue - avrebbero potuto tranquillamente continuare ad essere ricondotte alle “gravi ragioni di convenienza”, che consentono l’astensione facoltativa ai sensi dell’art. 51 comma secondo c.p.c.[25].
4. Le modifiche proposte nel D.D.L.: c) la (menomata) reintroduzione del vice coordinatore dei giudici di pace e altre modifiche minori all’art. 3 d.lgs.
L’art. 3 del D.D.L. reintroduce, ai commi 3 e 4, una sorta di limitata autonomia all’ufficio del giudice di pace, istituendo la figura del vice coordinatore, “individuato tra i giudici onorari che esercitano le funzioni nel medesimo ufficio del giudice di pace”. L’innovazione, ancorché da salutare con favore nella sua idea di fondo, appare eccessivamente tiepida; e ciò sia sul piano semantico (la corrispondente figura prevista dall’art. 15 della legge 374/1991 era un “coordinatore” e non un “vice” di sciasciana memoria) che dei poteri effettivi, che non sono autonomi né di concerto, ma di mero “ausilio” del presidente del tribunale.
Segnalo, peraltro, nell’art. 3 del D.D.L., talune incongruenze, al limite dell’ameno.
In primo luogo, al comma 3 della disposizione in parola, la locuzione: “Nello svolgimento dei compiti di cui all’articolo 1” pare piuttosto dovere essere riferita al “comma 1 dell’art. 8 d.lgs.” (ossia, ai poteri di coordinamento, distribuzione del lavoro, vigilanza, sorveglianza della cancelleria, direzione; non all’art. 1, che definisce in generale la magistratura onoraria).
Analogamente, al comma 4, la locuzione: “l’incarico di cui al comma 1 non dà diritto al riconoscimento di alcuna indennità o emolumento” pare ragionevolmente dovere essere riferita all’incarico “di cui al comma 3” dell’art. 8. d.lgs. (la disposizione rinviata si trova sì al comma 1, ma dell’art. 3 del D.D.L. e non dell’art. 8 d.lgs.). Per come è scritta, la norma sembra affermare un principio talmente lapalissiano che non avrebbe meritato, probabilmente, neppure di essere affermato; ossia che al presidente del tribunale non spetti alcun emolumento per le funzioni di coordinamento dell’Ufficio del giudice di pace.
Ritengo, invece, che il legislatore volesse affermare la gratuità dell’incarico di vice coordinatore (tant’è che l’art. 15 della legge 374/1991, che prevedeva appunto un’indennità per le funzioni di coordinatore e che era stata abrogata dall’art. 33 d.lgs. 116/2017, non è stato ripristinato). La previsione è comunque inopportuna, dal momento che il vice coordinatore potrebbe essere, in concreto (ma a discrezione del presidente del tribunale), chiamato a svolgere un impegno tutt’altro che trascurabile, specialmente negli uffici di maggiori dimensioni. Non si comprende, pertanto, perché tale incarico non debba essere, neppur in modo modesto, retribuito.
L’introduzione della nuova figura, poi, implicherebbe la necessità di coordinare meglio talune altre disposizioni previste dal d.lgs. Meramente a titolo di esempio, si pensi all’art. 18, comma 5, lett. a), che prevede un “rapporto… del coordinatore dell’ufficio del giudice di pace”. Non appare chiaro se tale rapporto possa essere redatto dal nuovo vice coordinatore, ovvero se rientri tra le prerogative salvo delega (rimessa, dunque, alla discrezionalità del presidente del tribunale), del capo dell’ufficio.
Più in generale, poi, ritengo che sia stato alquanto inopportuno, sotto il profilo dell’indipendenza dei magistrati assegnati all’ufficio del giudice di pace, avere attribuito il potere di coordinamento (incluse le assegnazioni degli incarichi, il potere di vigilanza e “ogni altra funzione che di direzione che la legge attribuisce al dirigente dell’ufficio giudiziario”) al presidente del tribunale. Invero, il tribunale è proprio l’organo preposto alla decisione degli appelli avverso le sentenze del giudice di pace (per il civile, art. 341 c.p.c); sicché non sembra davvero ragionevole la scelta di unificare nella stessa persona la direzione di ambedue gli uffici.
L’art. 4 del D.D.L. propone di abrogare il comma 3 dell’art. 9 d.lgs. 116/2017, nella parte in cui prevede il divieto per i giudici onorari assegnati all’ufficio del processo di esercitare la giurisdizione civile e penale presso l’ufficio del giudice di pace. La disposizione è, tuttavia, applicabile esclusivamente ai nuovi magistrati onorari, assunti dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 116/2017. Invero, per quanto riguarda i vecchi giudici onorari di tribunale, l’art. 10 del D.D.L., novellando l’art. 30 d.lgs., giusta il complicato e tortuoso meccanismo di rinvii contenuti nell’articolo, dà luogo a una conseguenza peculiare. Fino al raggiungimento del settantesimo anno di età è preclusa ai giudici onorari di pace assegnati all’ufficio del processo la possibilità di avere assegnati nuovi procedimenti civili e penali di competenza del giudice di pace.
5. Le modifiche proposte nel D.D.L.: d) la mancata modifica degli artt. 10-17 del d.lgs. 116/2017
Gli articoli da 10 a 17 del D.lgs. 116/2017 sono rimasti invariati. Si tratta, invece, di norme tra le più critiche dell’intero testo normativo[26], e che avrebbero meritato un deciso ripensamento. Mi riferisco, in particolar modo:
- all’inutile trasformazione del magistrato togato in una sorta di dirigente (ma dirigente continua a non essere e a non dover essere) dell’ufficio per il processo o dell’ufficio di collaborazione (art. 10 e artt. 15-17)[27];
- alla conseguente attribuzione al giudice professionale del potere discrezionale di delegare al giudice onorario addetto all’ufficio la predisposizione (art. 10 comma 10) delle minute dei provvedimenti (sic!)[28];
- all’ulteriore possibilità, per il giudice titolare dell’ufficio, di delegare al giudice onorario i “provvedimenti che risolvono questioni semplici e ripetitive” (art. 11, comma 11), ivi compresi i provvedimenti definitori (quindi non più le semplici minute) in determinate materie o di valore non superiore ad euro 50.000,00, (art. 11, comma 12);
- all’esplicita subordinazione gerarchica e funzionale del magistrato onorario addetto all’ufficio al giudice professionale, con obbligo per il giudice onorario (art. 10, comma 13) di attenersi nelle attività delegate “alle direttive vincolanti “concordate” con il giudice professionale titolare del procedimento” (le quali, secondo una possibile interpretazione che è però decisamente da respingere, potrebbero riguardare anche i provvedimenti decisori)[29];
- alla possibilità, però, (art. 11) di attribuire ai giudici onorari ruoli propri, in fattispecie tutt’altro che eccezionali e dai contorni poco definiti, relativamente a “procedimenti pendenti”[30];
- alla possibilità di attribuire ai giudici onorari funzioni di “supplenza” (artt. 13 e 14), anche fuori dai già di per sé vaghi criteri di cui all’art. 11.
Il D.D.L., in conclusione, sembra preludere, sul punto, a un’occasione mancata di ripensamento radicale.
6. Le modifiche proposte nel D.D.L.: e) la (migliorabile) “gradazione” delle sanzioni disciplinari applicabili al magistrato onorario
L’art. 6 del D.D.L. introduce modifiche all’art. 21 del d.lgs. L’idea di fondo, anche se non a fondo perseguita, è quella, corretta, di introdurre una graduazione nelle sanzioni disciplinari applicabili al magistrato onorario. Vengono così introdotti i provvedimenti disciplinari del richiamo, della sospensione da tre a sei mesi, e della revoca (già presente nel testo oggi vigente, ma ridefinita). Viene anche introdotta una sorta di recidiva, che comporta l’applicazione della sanzione di grado superiore nei confronti del magistrato onorario che sia stato già oggetto di richiamo o di sospensione[31].
Sebbene l’idea non sia da respingere a priori, sarebbe opportuno prevedere una maggiore delimitazione delle ipotesi di tale recidiva, fissando, per un verso, un limite temporale (es.: “che, entro tre anni”) all’applicazione del regime aggravato.
Con riguardo al regime generale, trovo personalmente assai discutibile l’applicazione della revoca, per il caso in cui il magistrato onorario (sia pur “senza giustificato motivo”), abbia “conseguito risultati che si discostano gravemente dagli obiettivi prestabiliti dal presidente del tribunale o dal procuratore della Repubblica a norma dell'articolo 23”. Mi pare che la norma attribuisca al capo dell’ufficio un potere normativo francamente eccessivo circa la definizione degli obiettivi da raggiungere; tanto più che detto provvedimento deve essere semplicemente “comunicato” alla sezione autonoma per i magistrati onorari del consiglio giudiziario, e che questa non sembra avere – se intendo correttamente - alcun reale potere di controllo o di interlocuzione nella sua redazione[32].
Un giudizio ancora più negativo va dato alla previsione della revoca, qualora, nel caso di assegnazione di procedimenti civili o penali a norma dell'articolo 11, il magistrato onorario non abbia definito, “nel termine di tre anni dall'assegnazione, un numero significativo di procedimenti, secondo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura”. Nonostante l’ambiguità del dato letterale, ritengo, innanzitutto, che anche in questo caso la revoca possa essere disposta solamente in assenza di “giustificato motivo”. Trovo, comunque, inopportuno e lesivo dei diritti dei cittadini l’avere ancorato un provvedimento grave come la revoca (senza alcuna possibilità di gradazione) a un parametro di mera celerità nella definizione. Invero, il pericolo della revoca potrebbe indurre il giudice onorario a decidere comunque la causa, anche qualora si rendesse conto dell’opportunità, se non proprio della necessità di un supplemento di istruttoria[33]. Il rischio di incorrere nella revoca potrebbe costituire un pericoloso deterrente per il giudice, che potrebbe essere portato a decidere comunque la causa, anche a costo di emettere una decisione che egli sapesse essere ingiusta, o quantomeno dubbia.
7. Le modifiche proposte nel D.D.L.: f) la mancata riscrittura delle norme su maternità e malattia (la strana idea secondo cui la maternità non debba essere tutelata). La corresponsione bimestrale dell’indennità
Il D.D.L. di legge non modifica, ancora, le disposizioni in materia di previdenza, malattia, infortunio e gravidanza. Non vengono modificate, in particolare, le incredibili previsioni secondo cui la malattia e perfino la gravidanza darebbero luogo a semplice una sospensione dall’incarico “senza diritto all’indennità”[34] (salva la decadenza dall’incarico se la malattia, al pari di ogni altro impedimento, si protraesse per oltre sei mesi)[35]; e ciò nonostante il recente arresto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[36], la contingenza legata all’epidemia di Sars-CoV-2 e – si dica francamente – le elementari regole di civiltà (anche) giuridica[37].
Positivo, ancorché di modesta importanza, è il disposto dell’art. 7 del D.D.L., che trasforma da trimestrale a bimestrale l’indennità percepita dal magistrato onorario[38], come pure l’art. 4, che prevede (oltre al mutamento della rubrica del Capo V) l’applicabilità in favore dei magistrati onorari di talune delle disposizioni di garanzia previste dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 e segnatamente quelle previste dall’art. 33 comma 5.
8. Le modifiche proposte nel D.D.L.: g) l’opportuna (ancorché, forse, eccessivamente draconiana) abrogazione delle farraginose norme sull’ampliamento della competenza del giudice di pace
Da guardare positivamente è l’abrogazione, prevista dall’art. 8 del D.D.L., dell’art. 27 e dell’art. 28 del D.lgs. 116/2017, circa l’ampliamento della competenza del giudice di pace.
Come si è già detto supra, i criteri concretamente seguiti dal Decreto del 2017 sono infatti irrazionali, contorti, di difficilissima applicazione e potenzialmente idonei a investire i tribunali e la Corte di cassazione di numerose questioni di competenza.
Tuttavia, si ribadisce, l’idea di allargare la competenza del giudice di pace non deve essere necessariamente scartata. In questo caso non era l’idea in sé ad essere sbagliata, ma solo la sua concreta attuazione pratica. Si potrebbe, invero, procedere (nel settore civile) a semplici aumenti lineari della competenza per valore di cui all’art. 7 c.p.c. e all’introduzione di poche e ben circoscritte e delimitate ipotesi di competenza per materia (o per materia e valore).
9. Le modifiche proposte nel D.D.L.: h) il regime transitorio applicabile ai “vecchi” magistrati onorari in servizio
Qualche riflessione a parte richiedono gli artt. 9 ss del D.D.L., riservate ai magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. 116/2017.
9.1. Il rinnovo dell’incarico fino al compimento del settantesimo anno di età
Le prime disposizioni riguardano la durata dell’incarico, che viene assicurata fino al compimento del settantesimo anno di età (art. 9 del D.D.L.). La norma va sicuramente guardata con favore, per le ragioni che ho esposto prima.
L’intento, però, apprezzabile, di riconoscere in una certa misura il ruolo svolto in questi decenni da tali magistrati onorari e garantire loro una forma di stabilizzazione, avrebbe potuto essere attuato avanti in modo assai più semplice, lineare e coerente con l’autonomia della funzione che i magistrati onorari sono chiamati a esercitare: prevedendo, anche con modalità analoghe a quelle utilizzate con le leggi 18 maggio 1974, n. 217 e 4 agosto 1977, n. 516, la loro proroga, salvo dispensa o revoca disciplinari, fino al compimento del settantesimo anno di età. Il meccanismo del rinnovo, al riguardo, appare un’inutile superfetazione, che appesantirà il lavoro di questi magistrati e dei Consigli giudiziari di attività che, a tutto concedere, avrebbero potuto essere riservate ai nuovi (e per un unico rinnovo; nella speranza che, ovviamente, essi non vengano a loro volta prorogati o ulteriormente rinnovati per altri vent’anni).
Ribadisco poi, in linea generale, che risulta a mio giudizio molto più pericoloso e lesivo dell’indipendenza della funzione giurisdizionale l’avere introdotto (e mantenuto) nell’ordinamento un giudice (ma il medesimo problema si pone per i vice procuratori onorari) precario, soggetto a periodici rinnovi e, per di più, sottoposto ad una sorta di potere direttivo che può incidere sulla sua revoca, di un soggetto terzo, sia pure esso il magistrato togato. L’essere dipendenti da un organo indipendente non garantisce, per proprietà transitiva, l’indipendenza; allo stesso modo in cui i vassalli del sovrano sono e restano vassalli, e non diventano a loro volta sovrani.
Del resto, il pericolo di un giudice sottoposto alla pressione di periodici rinnovi (quale è stata ed è tuttora la sorte dei magistrati onorari entrati in servizio a far data dal d.lgs. 51/1998) era stata avvertita, in passato, dalla Corte Costituzionale, che aveva, ad esempio, dichiarato, proprio sotto il profilo dell’incompatibilità dell’indipendenza della funzione con il meccanismo del rinnovo, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (che aveva istituito la sezione del Tribunale amministrativo per il contenzioso elettorale)[39].
Ribadisco, infine, che[40] l’art. 106 Cost. avrebbe precluso, probabilmente, esclusivamente l’immissione, sic et simpliciter dei vecchi magistrati onorari nei ruoli della magistratura di ruolo. Non avrebbe, di contro impedito, una quasi completa stabilizzazione di tali soggetti, analoga a quelle utilizzate negli anni ’70, né a una loro immissione nei ruoli della magistratura, previo superamento di uno speciale, serio concorso[41]
9.2. … e i suoi effetti collaterali: il divieto perenne di lasciare l’ufficio del processo
La modifica operata, poi, al solo primo comma dell’art. 30 comma 1, d.lgs. (salvo piccole modifiche alla lett. b e quanto si dirà tra breve circa l’ultimo quadriennio), comporta un delicato effetto collaterale. In particolare, il disposto di cui alle lettere a, b e c del medesimo comma, impedisce, di fatto, ai vecchi giudici onorari di tribunale di avere assegnati, fino al raggiungimento del limite di età, “procedimenti civili e penali di nuova iscrizione e di competenza dell’ufficio del giudice di pace”.
In pratica viene sancita un’assegnazione coatta e vitalizia dei vecchi GOT all’ufficio per il processo[42], senza possibilità di assumere le funzioni di giudici di pace. Questa previsione è appena bilanciata dalla corrispondente proroga, sempre fino al raggiungimento del settantesimo anno di età del giudice onorario (nel testo vigente: fino al 15 agosto 2025), della facoltà prevista dalla lettera b). Ci si riferisce alla possibilità (rimessa, comunque, alla discrezionalità del capo dell’Ufficio), di potere assegnare “nuovi procedimenti civili e penali di competenza del tribunale” ai vecchi GOT; e ciò anche in assenza dei complessi presupposti di cui all’art. 11 comma 1[43].
9.3. L’abolizione del periodo finale di “fuori ruolo”
Da valutare positivamente è l’abolizione (art. 10 D.D.L.) del mortificante periodo di fuori ruolo (art. 30 commi 9, 10 e 11 d.lgs.), cui dovrebbero essere sottoposti, nel corso dell’ultimo quadriennio, i vecchi magistrati onorari[44]. Essi, nel testo oggi vigente, potrebbero svolgere solamente compiti ancillari presso l’Ufficio per il processo (o l’Ufficio di collaborazione), con esclusione dei compiti di supplenza ai sensi degli artt. 11-14 (e, per i vice procuratori, dei compiti di cui agli artt. 16 lett. b e 17), fatta salva la possibilità di svolgere i compiti di delega ai sensi dell’art, 10 e dell’art. 16[45]. Al di là dei rilievi circa l’inutile mortificazione a danno di magistrati onorari ormai anziani e l’inopportunità di privare gli uffici dell’apporto professionale proprio di quei magistrati maggiormente esperti, la disposizione pare, in effetti, fondata su un travisamento concettuale: che l’esclusione del rinnovo possa ridurre (anziché aumentare) l’autonomia e l’indipendenza del magistrato onorario.
9.4. Il miglioramento del regime retributivo per i vecchi giudici di pace e il peggioramento di quello dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari
Un giudizio negativo va, invece, espresso con riguardo alle modifiche proposte (art.11 e art. 14 D.D.L.) all’art. 31 del d.lgs. e all’art. 4 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 273 in tema di indennità spettanti ai magistrati onorari in servizio.
Viene, invero, per un verso prevista la reintroduzione del vecchio regime indennitario per i giudici di pace (cosa in sé positiva, dal momento che non appare eticamente accettabile ricavare risparmi di spesa, addossandone i costi su chi svolge da anni un lavoro insostituibile), ma al contempo viene – nei fatti – aggravato il regime previsto per i vecchi GOT e VPO.
Va, preliminarmente, ribadito che, contrariamente a quanto è stato sostenuto[46], il d.lgs. 116/2017 non ha affatto aumentato le retribuzioni dei vecchi GOT – VPO, abbassando quelle dei giudici di pace. Solo la seconda parte dell’affermazione, infatti, è (con molta probabilità) vera.
Invero, ho già espresso forti riserve sulla completezza (se non proprio sulla correttezza) dei dati contenuti nella Relazione tecnica di accompagnamento al D.D.L. “Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace”[47]; dati che, con riguardo ai Giudici onorari di tribunale, espongono la sola media (scil: la somma di tutte le retribuzioni, diviso il numero dei magistrati) senza riportare i campi di dispersione[48]. La Relazione, come detto, riconduce ad un unico valore medio le retribuzioni tanto di quei magistrati onorari che svolgono effettivamente un altro lavoro (e si trovano, pertanto, a svolgere la funzione solo in modo saltuario, con una due udienze al mese) che di quelli che, invece, hanno nell’attività onoraria l’unica fonte di sostentamento, e la svolgono, pertanto, in modo esclusivo (con 12-16 udienze al mese). Il risultato che ne viene fuori, pertanto, non risulta adeguatamente rappresentativo dell’eterogenea popolazione dei vecchi giudici onorari di tribunale (come, del resto, dei vice procuratori onorari).
In apparenza, allora, il D.D.L. propone di eliminare, per i vecchi magistrati onorari, il meccanismo composito di indennità di base – quota premiale, che viene mantenuto invece per i nuovi dall’art. 23[49]. Ai vecchi viene proposta un’indennità omnicomprensiva fissa di euro 31.473,00 annui al lordo degli oneri previdenziali e assistenziali, ridotta a 25.178,00 per i magistrati onorari inseriti nell’Ufficio per il processo e all’Ufficio di Collaborazione[50]. Viene, ancora, opportunamente chiarito che tale regime agevolato si applicherà fino alla cessazione dell’incarico e non esclusivamente per la durata del secondo quadriennio[51].
Viene prevista, anche, la possibilità, per i vecchi magistrati onorari che ne facessero richiesta, di potere essere inseriti nell’ufficio per il processo e nell’ufficio di collaborazione, come lavoro “straordinario”, per così dire: ossia congiuntamente alle funzioni giudiziarie esercitate. In tal caso, l’indennità viene rideterminata in € 38.000,00, al lordo degli oneri previdenziali e assistenziali.
L’indennità maggiorata sostituisce, dunque, il criterio della prevalenza delle funzioni giudiziarie di cui all’art. 23 comma 5 d.lgs., che costituisce ancora, per i nuovi, il criterio discriminante per l’applicazione dell’indennità ordinaria (per i nuovi: € 16.140,00) anziché ribassata all’80%.
Sebbene, dunque, il testo sia in apparenza migliorativo per vecchi giudici onorari di pace (specie per quelli di provenienza GOT o VPO) vi sono alcune criticità nel D.D.L. che vanificano, di fatto, la portata delle innovazioni.
In particolare, il passaggio al nuovo regime retributivo viene subordinato – si perdoni la battuta – non più a un termine, bensì a una condizione (la quale peraltro, come si vedrà, pare avere tutti i requisiti di una condizione meramente potestativa). Mentre, infatti, il vigente art. 31 d.lgs., sia pure con una formulazione particolarmente tortuosa, fissava una data certa per l’entrata in vigore del nuovo regime retributivo “fisso”[52], il D.D.L. prevede che ai vecchi magistrati onorari continuino ad applicarsi, fino alla cessazione del servizio per quiescenza, le vecchie regole retributive (rispettivamente disciplinate dalla legge 374/1991 per i giudici di pace e dal d.lgs. 273/1989 per GOT e VPO). Il transito al nuovo fisso (ordinario o maggiorato, come sopra illustrato) viene, invece, subordinato alla pubblicazione di un futuro, incerto nel quando se non proprio nell’an, Decreto del Ministro della Giustizia “che ne definisce le modalità e i limiti” [53].
Come se non bastasse, nelle more dell’emissione del predetto decreto (e stavolta con entrata in vigore immediata, salvo i quindici giorni di vacatio legis, stante il disposto dell’art. 17 D.D.L.), viene disposta una contestuale incisiva modifica (peggiorativa) al regime di indennità previsto dal d.lgs. 273/1989 (dunque, solo per i vecchi GOT e VPO; mentre per i vecchi giudici di pace, come visto, viene giustamente ripristinato il previgente regime retributivo).
Va ricordato che il sistema attuale prevede che ai Giudici onorari di tribunale e ai Vice procuratori onorari venga riconosciuta, nonostante il sensibile aumento di attribuzioni intervenuto a valle della circolare CSM del 3 dicembre 2003, n. 23497, una semplice indennità “di euro 98 per le attività di udienza svolte nello stesso giorno” (o, nel caso dei VPO, per la partecipazione ad una o più udienze o per ogni altra attività delegata), oltre a “un'ulteriore indennità di euro 98 ove il complessivo impegno lavorativo” per le attività precedenti superi le cinque ore giornaliere (art. 4, commi 1, 1 bis, 2 e 2 bis del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 273).
Il sistema, come ho avuto modo di sostenere, era già fortemente critico, dal momento che non prevedeva alcuna retribuzione per i provvedimenti emessi, financo le sentenze, ed aveva dato luogo a numerosi problemi applicativi e a bizzarre interpretazioni restrittive da parte degli uffici, soprattutto relativamente alla nozione di “udienza” e al “computo” delle ore di attività ai fini del riconoscimento della c.d. doppia indennità[54].
L’art. 14 del D.D.L. interviene sull’art. 4 del d.lgs., prevedendo un regime differenziato, sotto diversi profili penalizzante e peggiorativo del regime precedente.
Per quanto riguarda i vecchi giudici onorari di tribunale è previsto un regime alquanto farraginoso.
La prima ipotesi è che il magistrato onorario svolga, nella giornata, attività di udienza. In questo caso gli viene riconosciuta un’indennità di € 98,00 per giornata, indipendentemente dal numero delle ore e senza alcuna “doppia” correlata alla durata delle udienze.
La doppia viene, però, prevista se, nella stessa giornata delle udienze ma “in orario pomeridiano[55], il magistrato onorario dovesse svolgere anche i compiti previsti (ritengo, diversi dalle udienze, eventualmente delegate, che rientrerebbero nell’ipotesi precedente) nell’ambito dell’Ufficio per il processo (dunque: redazione minute, studio dei procedimenti, redazione dei provvedimenti, etc.), “per almeno tre ore”.
Vi è poi l’ipotesi che il giudice onorario, nella giornata, svolga solamente attività dell’Ufficio per il processo, diverse dalle udienze. In questo caso spetta un’indennità di € 98,00, cui si aggiunge un’ulteriore indennità di altri € 98,00 se l’impegno lavorativo superasse le otto ore.
La criticità di tale sistema, oltre all’istituzionalizzazione de facto delle otto ore lavorative e della necessità del loro superamento per ottenere la c.d. doppia (in luogo delle vecchie cinque)[56], sta nel fatto che il comma 2 ter novellando sembra offrire eccessivi margini di discrezionalità al capo dell’ufficio nel quantificare le ore di impegno giornaliero. Come si è detto non è previsto un registro delle attività svolte dal magistrato onorario, sicché la verifica in concreto della sussistenza dei presupposti per la doppia indennità finirà con l’essere, appunto, ampiamente discrezionale.
Peraltro, in modo non del tutto chiaro, il medesimo comma 2 ter sembra subordinare il riconoscimento del tempo di lavoro alla “permanenza in ufficio” del magistrato onorario (con esclusione, dunque, di ogni rilevanza all’eventuale lavoro svolto a casa; circostanza, questa, scarsamente comprensibile, tenuto conto che in tali attività rientrano anche quelle preparatorie, e.g., di studio, etc., perfettamente compatibili con un loro svolgimento fuori dai – si dica francamente - non sempre adeguati locali esistenti negli uffici giudiziari italiani).
Infine, la norma subordine il pagamento della “doppia” allo svolgimento di compiti nell’ufficio per il processo (esclusivi o suppletivi rispetto alle udienze); il che pare un ulteriore aggravamento del già critico regime retributivo previgente[57].
Per i vecchi vice procuratori onorari viene invece prevista un’indennità di € 98,00 giornaliera per la partecipazione alle udienze delegate. Anche in questo caso, è riconosciuta un’indennità supplementare di € 98,00, in caso di svolgimento cumulativo, nella medesima giornata, di udienze e di altre attività (e.g., studio dei fascicoli, predisposizione delle minute, etc.).
Per il caso che il magistrato onorario svolgesse, nella giornata, solamente attività inerenti l’Ufficio di collaborazione, diverse dalle udienze, è prevista anche qui un’indennità di € 98,00, con diritto alla “doppia” se il complessivo impegno lavorativo si protraesse oltre le otto ore.
Nel complesso la modifica al regime retributivo sembra penalizzare, soprattutto, la componente più debole del nuovo magistrato onorario, ossia i vecchi GOT e VPO. Il che rischia di indurre, nei fatti, una guerra tra poveri tra le due macrocategorie: è prevedibile che i giudici di pace (o, almeno, una parte di essi) si dichiarino favorevoli alla riforma, mentre i giudici onorari di tribunale (come i vice procuratori onorari) rimangano fortemente critici. Il che non pare di buon auspicio per la creazione di quello che, sia pur labialmente e in modo confuso e vaporoso, si afferma dover essere un’unica nuova figura che, per le funzioni giudicanti, è stata individuata, sia pure con molte differenziazioni, diversità di trattamento e distinzione, appunto nel giudice onorario di pace.
10. Tabelle
Tabella 1: dotazione organica magistratura onoraria (fonte: http://appinter.csm.it/situffgiud/situffgiud.dll/EXEC/0/94F70403BEBF7C7C8C8BE540?A&B] - accesso 20 ottobre 2020)
QUALIFICA | POSTI IN ORGANICO | POSTI COPERTI | ###b#< dell’organico | ###b#< dei posti coperti |
Giudice di pace | 3.512 | 1.174 | 42,2826872140621% | 23,7603723942522% |
Giudice onorario di tribunale | 2.714 | 2.041 | 32,6751745725981% | 41,3074276462255% |
Vice procuratore onorario | 2.080 | 1.726 | 25,0421382133398% | 34,9321999595224% |
SOMMA | 8.306 | 4.941 | 100% | 100% |
Tabella 2: incidenza dell’art. 15 D.D.L. sui posti in organico coperti (fonte: http://appinter.csm.it/situffgiud/situffgiud.dll/EXEC/0/94F70403BEBF7C7C8C8BE540?A&B] - accesso 20 ottobre 2020)
QUALIFICA | POSTI IN ORGANICO AD OGGI | POSTI IN ORGANICO EX ART. 15 D.D.L. | POSTI COPERTI AD OGGI | RAPPORTO POSTI COPERTI - POSTI IN ORGANICO OGGI | RAPPORTO POSTI COPERTI - POSTI IN ORGANICO SECONDO IL D.D.L. |
Giudice onorario di pace (GOT + GDP) | 6.226 | 3.500 | 3.215 | 51,6382910375843% | 91,8571428571429% |
Vice procuratore onorario | 2.080 | 2.000 | 1.726 | 82,9807692307692% | 86,3% |
[1] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana. Giudici onorari, avvocati e professori universitari immessi nella magistratura dall’Unità d’Italia al d.lgs. 12 luglio 2017, n. 116, Roma, 2019, 9 ss.
[2] Per una trattazione più completa della figura del giudice di pace, v. per tutti R. Caponi, Giudice di pace e conciliazione in sede non contenziosa (art. 322 c.p.c.), in Foro it., 2005, V. 193 ss.; B. Capponi, Il giudice di pace dopo la L. 28 aprile 2016, n. 57, in Corr. giur. 2017, p. 101 ss.; M. Acone, B. Capponi, C. Cecchella, G. Manzo, Il giudice di pace, Napoli, 1992; M. Acone, Il giudice di pace, in Riv. dir. proc., 1992, 1096 ss; S. Chiarloni, Giudice di pace, in Dig. civ., IX, Torino, 1993, 63 ss.; N. Picardi, Il giudice di pace in Italia alla ricerca di un modello, in Riv. dir. proc., 1993, 656 ss.; A. Bonsignori, A. Levoni, G. F. Ricci, Il giudice di pace, Torino, 1995; A. Carratta, Giudice di pace, in Enc. giur. (aggiornamento), 1995, 1 ss.; A. Proto Pisani, L’istituzione del giudice di pace, in Foro it., 1991, V, 581 ss.; F. Rota, (voce) Giudice di pace (dir. proc. civ.), in Enc. dir. (Annali), 2007, 291 ss.; A. Tedoldi, Giudice di pace, in Dig. civ., (aggiornamento), II, 2003, 732 ss.
Sulla modesta incidenza statistica – tra l’altro progressivamente erosasi nel tempo – delle conciliazioni c.d. “non contenziose” rese davanti al Giudice di pace, v. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 33-39, con relative tavole.
[3] V. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 41 ss.
[4] La possibilità per i vice-pretori mandamentali di essere nominati dopo alcuni anni e previo esame di abilitazione, pretori era originariamente prevista dall’art. 39 Ord. Giud (1865), ed era stata confermata (anzi, nei fatti, estesa) dalla c.d. “Riforma Vigliani”, approvata con Legge 23 dicembre 1875. Cfr., per i dati statistici, P. Saraceno, Il reclutamento dei magistrati italiani dall’Unità al 1890, in A. Mazzacane - C. Vano (a cura di) Università e professioni giuridiche nell’età liberale, Napoli, 1994, in part. 566-567). Questa possibilità fu, infine, preclusa (e mai più ripristinata) dalla c.d. “Riforma Zanardelli” (Secondo Governo Crispi), legge 8 giugno 1890, n. 6878 e R.D. 10 novembre 1890, n. 7279, attuativo del precedente, che tentarono anche di trasformare i vice-pretori mandamentali in una sorta di ruolo a esaurimento (Art. 17 legge 6878/1890). Ai vice-pretori mandamentali in servizio che non avessero compiuto i quaranta anni di età, fu riservata una quota di centoventi posti (condivisa, però, con avvocati, procuratori e notai che avessero già superato l’esame pratico per la nomina a pretore) in un concorso per pretore che avrebbe dovuto essere bandito entro il 1891.
A partire da questo momento si ebbero tre gruppi di immissioni straordinarie di vice pretori onorari nel ruolo della magistratura.
Il primo gruppo di immissioni straordinarie fu quello dei c.d. Mortarini con R.D. 21 settembre 1919, n. 1747, e R.D. 21 dicembre 1919, n. 2488, nell’immediato dopoguerra da parte dell’allora Ministro Mortara (che pure, in passato, si era espresso in modo assolutamente critico contro le norme del previgente Ordinamento giudiziario che consentivano l’immissione dei vice-pretori mandamentali nel ruolo di pretori (cfr. L. Mortara, Istituzioni di ordinamento giudiziario, Firenze, 1896, 177).
Il secondo fu quello dei c.d. Togliattini (dal nome del Guardasigilli, appunto Palmiro Togliatti; così come i precedenti erano stati per le medesime ragioni definiti “Mortarini”), immessi nei ruoli della magistratura in forza del d.lgs. luog. 30 aprile 1946, n. 352, e di alcuni provvedimenti successivi (d. lgs. del Capo provvisorio dello Stato, 11 gennaio 1947, n.6; d. lgs. del Capo provvisorio dello Stato, 23 dicembre 1947, n.1601 e, infine, attuata con Legge 29 aprile 1950, n. 210). Per i “togliattini” era prevista l’immissione in magistratura, dopo un certo periodo di servizio, previo superamento di uno speciale concorso per aggiunto giudiziario. Si trattava del medesimo concorso che dovevano sostenere gli uditori giudiziari, per il passaggio di ruolo: tre prove scritte consistenti nello svolgimento in forma di sentenza di tre tesi rispettivamente di diritto e procedura civile, di diritto e procedura penale e di diritto amministrativo e di tre prove orali sulle stesse materie: artt. 133, 134 e 135 Ord. giud., nel testo in vigore fino al 2 luglio 1970. Interessante, sul punto, notare come, con riguardo alla legge del 1950, il Presidente della Repubblica Einaudi avesse rinviato alle Camere il relativo D.D.L. di legge (C-627-B), per un nuovo esame, rilevando una possibile violazione del principio del concorso, sancito dall’art. 106 della Costituzione. Il testo, ridiscusso, fu però nuovamente approvato e infine promulgato da Einaudi, sul rilievo che comunque vi sarebbe stato sia un concorso, ancorché per titoli, all’accesso, che, soprattutto, un successivo esame-concorso (come detto, la prova teorico-pratica per aggiunto giudiziario); in caso di mancato superamento di tale prova, infatti, i “togliattini” sarebbero decaduti, salvo diritto a una sorta di indennità di fine rapporto (Camera dei Deputati, A.P. Camera dei Deputati, Discussioni - Seduta del 16 febbraio 1950, 15469 -15503 ed in part. 15474 ss.).
Il terzo e ultimo gruppo di stabilizzazioni è il più peculiare; esso risale, infine, negli anni ’70 e riguardò, rispettivamente, i vice pretori onorari incaricati di funzioni giudiziarie ai sensi dell’art. 32 Ord. giud. (legge 18 maggio 1974, n. 217) e i vice pretori onorari reggenti di preture (legge 4 agosto 1977, n. 516).
Contrariamente a quanto era accaduto con i c.d. togliattini, i magistrati onorari beneficiari dei provvedimenti del 1974 e del 1977 non furono immessi nei ruoli effettivi della magistratura - neanche previo superamento di un concorso - ma semplicemente prorogati fino alla pensione. Per tali categorie, contrariamente a quanto era accaduto fino a quel momento con gli extranei di origine vicepretorile - mortarini e togliattini - fu netta e definita la loro posizione di alterità rispetto alla vera magistratura: essi avrebbero potuto continuare a svolgere le funzioni di magistrati, senza però esserlo mai fino in fondo. Ad essi sembra attagliarsi la definizione di “paria della magistratura”, utilizzata da Saraceno con riferimento ai pretori di origine vicepretorile del XIX secolo (P. Saraceno, Il reclutamento dei magistrati., cit., 566).
[5] V., in passato, F. Cipriani, Il problema dell’arretrato, in Foro it., 1995, V, 283; F. Cipriani, Giudici di pace e riparto della competenza (ovvero: come distribuire quattro milioni di procedimenti civili all’anno) in Foro it., 1995, I, 3020.
[6] Tale interpretazione, del resto, pare confermata dall’esame del D.D.L. di legge in commento, il quale per un verso mira ad abrogare (il che è opportuno) gli artt. 27 (la cui entrata in vigore è stata già posticipata al 31 ottobre 2025 dal d.l. dicembre 2019, n. 162 ss.mm.ii.) e 28 (relativo all’ampliamento delle competenze del giudice di pace in materia tavolare) del d.lgs. 116/2017, per altro impone una sorta di esclusiva in favore dei vecchi giudici di pace per l’assegnazione delle nuove controversie di competenza del giudice di pace. In pratica si vuole precludere ai vecchi GOT di transitare, fino al raggiungimento del limite di età (sic!) all’Ufficio del giudice di pace (Art. 10 del D.D.L., nella parte in cui propone di modificare l’art. 30 del D.lgs.), incatenandoli a vita all’Ufficio per il processo.
[7] Li definisce “scivolosi” G. Reali, Il nuovo giudice di pace., cit., 451 e passim.
[8] Cfr. G. Scarselli, Ordinamento giudiziario forense, Milano, 2013, 259 ss.; nello stesso senso G. Reali, Il nuovo giudice onorario di pace, in Il giusto proc. civ., 2018, 417 ss. e in part. 421 ss.
[9] Si vedano l’analisi e i dati riportati da D. Sciortino, La figura del giudice onorario nell’esperienza palermitana, in M. Venuti (a cura di), L’Ordinamento giudiziario. Ciclo di seminari, Palermo, 2019, 255-282.
[10] Secondo l’art. 42 quinquies Ord. Giud. (come modificato dal d.lgs 19 febbraio 1998, n.51, e come richiamato, per i vice procuratori onorari dal successivo art.71 Ord. giud) la nomina a magistrato onorario avrebbe avuto durata di tre anni, prorogabile alla scadenza, per una sola volta, per altri tre anni. Con d.l. 30 giugno 2005, n. 115, tale termine (art. 9 comma 2 bis) fu, «In attesa della riforma organica della magistratura onoraria di tribunale e in deroga a quanto previsto dall'articolo 42-quinquies, primo comma, dell'ordinamento giudiziario», prorogato, per i giudici onorari di tribunale e i vice procuratori onorari già confermati e ancora in servizio «per altri due anni dopo il termine dell’incarico». Si ebbero, quindi, con cadenza poco più che annuale, altre proroghe del termine improrogabile: al 31 dicembre 2008 (art. d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, il termine fu poi prorogato ancora al 31 dicembre 2009 in sede di conversione); al 31 dicembre 2010 (con d.l. 29 dicembre 2009, n. 193); al 31 dicembre 2011 (con il d.l. 29 dicembre 2010, n. 225); al 31 dicembre 2012 (con il d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, art. 15); al 31 dicembre 2013 (con legge 24 dicembre 2012, n. 228, art.1 comma 395); al 31 dicembre 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1 comma 290); al 31 dicembre 2015 (d.l. 30 dicembre 2013, n. 150 come modificato dalla legge di conversione 30 dicembre 2013, n. 150); al 31 maggio 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 2018, art.1 comma 610); per altri quattro anni, previo giudizio di idoneità, ma con cessazione in ogni caso al compimento del sessantottesimo anno di età (d.lgs. 31 maggio 2016, n. 92, art.1); per altri tre quadrienni ulteriori (d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, art. 29). In pratica, al netto degli ultrasessantottenni e dei decessi nelle more intervenuti, i magistrati onorari “della prima ora” dovrebbero potere mantenere l’incarico, anche se con le “tutele decrescenti” previste dal d.lgs. 116/2017 fino al 31 maggio 2032 (o, più verosimilmente, qualche mese dopo tale data, e precisamente dalla data del primo giudizio di conferma successivo al 31 maggio 2016). Come si vedrà il progetto di riforma in commento semplifica in parte la contorta disciplina del d.lgs. del 2016, prevedendo la proroga (sempre con cadenza quadriennale) fino al termine finale del compimento del settantesimo anno di età (novellandi artt. 29 e 30 del d.lgs. 116/2017).
[11] Si dica francamente: più che legittima, considerato che, in pratica, buona parte di essi svolgono questa funzione in via esclusiva da circa vent’anni e, molto spesso, il carico di lavoro assegnato e il regime di incompatibilità sono tali da rendere assai arduo (se non proprio virtualmente impossibile) l’esercizio di un’altra professione “principale”. Si rinvia nuovamente a D. Sciortino, La figura del giudice onorario nell’esperienza palermitana., cit., ibidem.
[12] Sarebbe, invero, semplicemente inimmaginabile in uno Stato di diritto doversi convincere, o anche potere solamente pensare, che a fronte di alcuni rilievi sulla legittimità del sistema (pre)esistente, soprattutto da parte dell’Unione Europea, il legislatore interno avesse deciso non di prendere atto di questi e di correggere il tiro, ma di tentare di difendere a oltranza lo stato di fatto esistente, creando ad arte una disciplina, al fine adeguarsi alla forma dei rilievi, tradendone però la sostanza.
[13] Oltre alla procedura EU-Pilot 7779/15/EMPL - Rigetto della risposta delle autorità nazionali (su cui v. per tutti A. Proto Pisani, La magistratura onoraria tra commissione europea e (tentata) furbizia italiana, in Foro it., 2018, V, 42 ss., il quale ne pubblica anche il testo), che costituì probabilmente la causa scatenante della riforma del 2017 e della sua linea ispiratrice, si veda, di recente, CGUE sent. 16 luglio 2020, C-658/18, che ha affermato il principio, difficilmente contestabile, che, ai fini del riconoscimento delle correlate tutele, il concetto di “rapporto di lavoro” prescinda dalla presenza o meno di un concorso all’accesso e più in generale dal suo inquadramento giuridico – formale secondo la normativa nazionale, ma sia correlato alle funzioni concretamente svolte. Con ciò incrinando profondamente la tradizionale, consolidata – ancorché dai contorni evanescenti – affermazione che i magistrati onorari non avrebbero avuto diritto ad alcuna tutela, perché il loro rapporto sarebbe stato di mero “servizio” e non di “impiego” (v., anche per riferimenti bibliografici, F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., in part. 10 ss.).
[14] Cfr., ex plurimis, A. PROTO PISANI, La magistratura onoraria, cit., 43; D. Dalfino, L’ultima riforma della magistratura onoraria, tra aspirazioni insoddisfatte e velleità di sistema, ibidem, 3 ss.; G. Scarselli, Note critiche sul disegno di legge per la riforma organica della magistratura onoraria, in Foro it., 2015, V. 369 ss.
[15] V. infra, sul meccanismo delle c.d. “doppie indennità” per i vecchi magistrati onorari.
[16] Da una breve verifica sul sito del Consiglio Superiore della Magistratura - http://appinter.csm.it/situffgiud/situffgiud.dll/EXEC/0/94F70403BEBF7C7C8C8BE540?A&B] (accesso 20 ottobre 2020) - risulta che, ad oggi, i posti in organico sarebbero pari a 6.226 per i giudici onorari di pace (3.512 giudici di pace + 2.714 giudici onorari di tribunale), di cui ne sarebbero coperti 3.215 (1.174 giudici di pace e 2.041 giudici onorari di tribunale) e 2.080 per i vice procuratori onorari (di cui ne sarebbero coperti 1.726). v. Tabella 1.
[17] V. Tabella 2.
[18] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit, 150 ss.
[19] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit, 186 ss.
[20] La norma, va aggiunto, ha un suo antecedente nell’art. 8 comma 1 ter della legge 21 novembre 1991, n. 374, Istituzione del giudice di pace, e nel testo novellato nel 2006, e nell’art.69 comma 4 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, in materia di giudici ausiliari di corte d’appello, su cui v. le esatte osservazioni di I. COPPOLA, Il Giudice Ausiliario di Corte di Appello, una nuova figura di magistrato reclutato con pubblico concorso., in www.judicium.it, (13 novembre 2017).
[21] Dunque, se si intende correttamente, se il magistrato fosse assegnato, e.g., all’ufficio del giudice di pace di Palermo, i suoi eventuali soci di studio etc. non potrebbero esercitare la professione in tutti gli uffici compresi nel circondario. Di contro, i parenti (in senso lato) incorrerebbero in un divieto più circoscritto: limitato all’ufficio del giudice di pace medesimo (con esclusione degli altri uffici del giudice di pace esistenti nella circoscrizione e con esclusione anche del tribunale; eccezion fatta che per le cause di appello avverso decisioni del giudice di pace di Palermo).
[22] Un’interpretazione meno rigorosa, nel senso del rilievo meramente disciplinare dell’eventuale violazione in parola da parte del difensore, potrebbe essere sostenuta sulla scorta di quanto affermato dalla Cassazione in tema di violazione, da parte del difensore regolarmente iscritto all’albo, delle regole di incompatibilità derivanti dalla sua qualità di lavoratore subordinato: Cfr. Cass. 7 dicembre 2017, n. 29462 (la quale ha confermato la validità degli atti processuali posti in essere). La soluzione non pare, tuttavia, scontata considerata la formulazione della norma che delega, nella sostanza, alla giurisprudenza il compito di individuare le conseguenze della violazione. Nel senso della non sanabilità degli atti compiuti dal praticante avvocato non iscritto all’albo, v. Cass. 5 luglio 2019, n. 18047.
[23] Essenzialmente, dunque, la “rilevanza” della professione forense svolta da tali soggetti, la dimensione dell’ufficio e l’eventuale organizzazione tabellare, le materie trattate in concreto da professionista e magistrato onorario (ma con irrigidimento per il caso di tribunale con unica sezione).
[24] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit, 186 ss.
[25] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit, 189 ss. Si pensi ad alcune fattispecie che potrebbero perfino fare sorridere, se non ricadessero nella lettera dell’art. 19: nel 2020 il giudice onorario si trova a dover trattare una causa in cui una delle parti è difesa dall’avv. Tizio. Il magistrato non conosce (se non per averlo incrociato qualche volta in tribunale) il predetto difensore; tuttavia, l’avv. Tizio nel lontano 2000 (ai primi anni della sua carriera) aveva lavorato nello Studio Alfa. Il giudice onorario non ha neppure avuto rapporti con lo studio Alfa; ma suo fratello (che egli non frequenta ormai se non nelle ricorrenze canoniche e in poche altre occasioni), nel 1995 aveva lavorato nello stesso Studio Alfa (senza mai intersecare, nella sua permanenza, l’avv. Tizio). Ammesso e non concesso che il giudice onorario, che conosce l’avv. Tizio solo sommariamente, possa essere edotto del trascorso di questo nello Studio Alfa e ricollegare questo studio al proprio fratello (che svolge da decenni la professione in altro studio), è davvero razionale imporre in questo caso l’astensione obbligatoria?
[26] F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 149 ss. e 153 ss.
[27] Con riferimento all’ufficio per il processo e all’ufficio di collaborazione, ribadisco che essi costituiscano un’inutile superfetazione. Ad ogni modo, essi potrebbero essere mantenuti, assegnandovi tirocinanti, giudici di pace nel primo anno di incarico e, su richiesta, praticanti avvocati, specializzandi delle Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali, Dottorandi di ricerca in materie giuridiche e altre categorie che potrebbero essere interessate a svolgere un’esperienza professionalizzante. Assegnarvi, invece, anche i vecchi magistrati onorari che svolgono da vent’anni funzioni giudiziarie se che hanno maturato, col tempo, una certa esperienza sul campo, appare un inutile spreco delle professionalità esistenti.
[28] Senza che, peraltro, sia espressamente previsto, neppure in linea di principio, un registro delle attività svolte dal magistrato onorario nell’Ufficio per il processo (analogo al registro delle lezioni e al prospetto delle attività didattiche in uso presso le Università). In pratica, la rendicontazione del reale apporto del magistrato onorario nell’Ufficio per il processo viene unilateralmente affidato alla buona volontà del magistrato togato. Ciò appare particolarmente grave, tenuto conto che, come si vedrà, il D.D.L. propone di subordinare la c.d. doppia indennità per i vecchi Giudici onorari di tribunale allo svolgimento di un certo numero di ore nell’Ufficio per il processo medesimo (ma una regola analoga vale per l’Ufficio di collaborazione).
[29] Come ho già sostenuto, se considerata applicabile anche al caso di provvedimenti decisori, la previsione di una direttiva vincolante da parte del giudice professionale risulterebbe, a mio avviso, assai pericolosa, oltre che di legittimità costituzionale assai dubbia. Essa, a ben vedere, introdurrebbe nei fatti una anomala quanto pericolosa scissione tra soggetto che impartisce le direttive vincolanti (il giudice professionale, che non avrà realisticamente studiato la causa) e soggetto chiamato a decidere. La decisione, infatti, sarebbe affidata ad un organo - il giudice onorario - che non sarebbe però, soggetto soltanto alla legge, ma anche, appunto, alle direttive del giudice professionale.
Come se ciò non fosse già abbastanza, ai sensi del comma 14, il giudice onorario, in questo caso, potrebbe decidere di non seguire le direttive solamente “in considerazione delle specificità del caso concreto” (escludendo, pertanto, a priori la possibilità che egli, studiando la questione, trovasse errata l’interpretazione giuridica del giudice professionale…). Ma anche in questo caso, il giudice onorario non potrebbe comunque decidere in modo difforme, ma dovrebbe restituire il fascicolo al giudice togato, che dovrebbe quindi compiere egli stesso le attività “già oggetto di delega” (senza considerare, poi, che il giudice titolare dell’ufficio è il medesimo organo che sarà preposto, al momento della riconferma del giudice onorario, a predisporre la relazione: art. 18, comma 4);
La norma - se intesa, come detto, nel senso di permettere al giudice “togato” di emanare direttive anche per l’emissione delle sentenze - sarebbe, a nostro giudizio, di dubbia costituzionalità, sotto il duplice profilo dell’indipendenza della funzione giudiziaria decidente e di quello della necessaria correlazione tra funzione svolta e responsabilità dell’organo che emette il provvedimento. Per un verso, infatti, attribuirebbe il compito di decidere materialmente la causa a un organo – il giudice onorario – che autonomo non sarebbe, dal momento deve seguire le direttive del giudice professionale; per altro verso attribuirebbe il potere di stabilire come decidere una causa a un giudice professionale, che sarebbe, però, autorizzato a farlo senza aver letto le argomentazioni giuridiche addotte dai difensori, etc. La decisione delle questioni giuridiche è stata, si fas est, intesa come una sorta di lavoro meramente meccanico, in cui il lavoro del difensore viene mortificato nella sua fondamentale componente creativa dell’interpretazione giuridica, e il giudice professionale viene esplicitamente autorizzato a determinare a monte l’esito dei giudizi prima ancora di aver letto quello che le parti hanno da dire sul punto.
Si rinvia, anche per riferimenti bibliografici, a F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 157 ss.
[30] Come si vedrà, addirittura, il D.D.L. attribuisce al giudice onorario una sorta di obbligazione di risultato di definire, entro tre anni dall’assegnazione, i procedimenti medesimi. Il novellando art. 21 d.lgs. (art. 6 del D.D.L.) prevede infatti la “revoca” del magistrato onorario che, in caso di assegnazione, appunto, di procedimenti civili ex art. 11 non abbia “definito, nel termine di tre anni dall’assegnazione, un numero significativo di procedimenti, secondo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura. Diffusamente, infra
[31] Così il testo del novellando comma 5 dell’art. 21: “La sospensione dal servizio è altresì disposta quando il magistrato onorario nei cui confronti è già stato disposto il provvedimento del richiamo a norma del comma 3, lettera a), viene nuovamente riconosciuto responsabile dell'adozione di una delle condotte per cui è previsto il richiamo. La revoca è altresì disposta quando il magistrato onorario nei cui confronti è già stata disposta la sospensione dal servizio a norma del comma 3, lettera b), viene nuovamente riconosciuto responsabile dell'adozione di una delle condotte per cui è prevista la sospensione dal servizio".
[32] Se non “a valle”, ossia (art. 21, comma 9) quando sarà chiamata a verificare la fondatezza della proposta di provvedimento disciplinare e a trasmettere gli atti al Consiglio superiore della magistratura.
[33] Si pensi all’ipotesi che il giudice onorario ravvisasse una contraddittorietà nella consulenza tecnica di ufficio o ravvisasse l’opportunità di ammettere un teste di riferimento o ancora, ad es. nel processo del lavoro, mezzi di prova d’ufficio.
[34] Art. 25; che pure, con riferimento alla maternità, aveva trovato ingresso all’art. 5 del Disegno di Legge AS. N. 945 “Modifiche alla legge 28 aprile 2016, n. 57, e al decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116, in materia di tutele dei magistrati onorari ed efficienza degli uffici giudiziari del giudice di pace e del tribunale”.
[35] Art. 21, comma 2.
[36] CGUE sent. 16 luglio 2020, C-658/18, cit.
[37] Si rinvia alle considerazioni già svolte in F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 148 ss.
[38] Segnalo, però, la repulsione del legislatore nel prevedere una comune corresponsione mensile; evidentemente l’idea (ingenua) è che, in questo modo, possa diventare più facile sostenere la tesi che quello del magistrato onorario non sia un rapporto di lavoro.
[39] Corte Cost. 9 maggio 1968, n. 49, secondo cui “(…) l'indipendenza degli «estranei» designati dai consigli provinciali non è del tutto assicurata dall'art. 2 della legge 1966 n. 1147 (…) perché, al cessare del quinquennio, la designazione può essere rinnovata: la sola prospettiva del reincarico basta a escludere l'indipendenza di costoro dai consigli provinciali o regionali. Come dire che la legge, pur volendoli normalmente inamovibili, è in contrasto con l'art.108 e 101 della Costituzione”. Si rinvia sul punto al mio F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 9 ss. e 130 ss.
[40] V. supra, nota 4, per la vicenda dei c.d. togliattini, i cui sospetti di incostituzionalità furono superati mediante l’adozione del bilanciato meccanismo del concorso per l’accesso alla funzione di aggiunto giudiziario.
[41] E.g., con prove pratiche, in luogo dei tradizionali temi, costituite dalla redazione di una sentenza su temi di diritto civile e diritto processuale civile e di diritto penale e diritto processuale penale, e una prova orale, analoga a quella prevista per il concorso in magistratura.
[42] Il divieto corrispondente per i giudici di pace di avere assegnati nuovi procedimenti di tribunale in supplenza non pare, francamente, avere effetti paragonabili. Non credo, senza timore di essere smentito, che tanti vecchi giudici di pace ambiscano ad essere assegnati all’Ufficio per il processo.
Si segnala, peraltro, la veramente cattiva fattura della lettera c) del d.lgs. 116/2017. Per come è formulata, la norma potrebbe essere letta nel senso di escludere l’assegnazione di nuovi procedimenti civili e penali di competenza del giudice di pace anche ai nuovi giudici onorari di pace, non assegnati all’Ufficio per il processo (e dunque assegnati esclusivamente all’Ufficio del giudice di pace). La novellazione dell’art. 30 comma 1, comunque, riduce di molto le possibilità che una simile interpretazione possa realmente avere seguito: avrebbe davvero poco senso avere assegnato, a una categoria a esaurimento (quali i vecchi giudici onorari di pace) una esclusiva assoluta e perpetua su tutte le nuove assegnazioni (di cause niente affatto ad esaurimento). Dopo il pensionamento dell’ultimo vecchio giudice di pace, a tacer d’altro, i nuovi procedimenti non potrebbero essere assegnati ad alcuno. L’interpretazione in parola, invece, potrebbe avere maggior fortuna se venisse mantenuto il testo attuale “fino al 15 agosto 2025”.
Si noti che il corrispondente pericolo non sussiste per i nuovi giudici onorari assegnati all’Ufficio per il processo. Invero, per costoro, è lo stesso art. 11 comma 7 d.lgs. a chiarire che le assegnazioni (per i nuovi, non come visto anche per i vecchi) possono riguardare esclusivamente procedimenti già pendenti.
[43] Ma sempre nel rispetto di quanto previsto dal comma 6; con divieto, dunque, di avere assegnati, rispettivamente, “a) per il settore civile: 1) i procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito e del giudizio petitorio nonché dei procedimenti di competenza del giudice dell'esecuzione nei casi previsti dal secondo comma dell'articolo 615 del codice di procedura civile e dal secondo comma dell'articolo 617 del medesimo codice nei limiti della fase cautelare; 2) i procedimenti di impugnazione avverso i provvedimenti del giudice di pace; 3) i procedimenti in materia di rapporti di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie; 4) i procedimenti in materia societaria e fallimentare; 5) i procedimenti in materia di famiglia; b) per il settore penale: 1) i procedimenti diversi da quelli previsti dall'articolo 550 del codice di procedura penale; 2) le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell'udienza preliminare; 3) i giudizi di appello avverso i provvedimenti emessi dal giudice di pace; 4) i procedimenti di cui all'articolo 558 del codice di procedura penale e il conseguente giudizio”. Sulle conseguenze della nuova formulazione cogente del comma 6 citato, v. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 169 ss.
[44] La cui ratio è veramente difficile da comprendere (v. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 192 ss.).
[45] Divieti, peraltro, derogabili, sia pure a certe condizioni, dal capo dell’ufficio: cfr. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., ibidem).
[46] Così. G. Reali, Il nuovo giudice onorario di pace., cit., 428-429.
[47] SENATO DELLA REPUBBLICA, A.S. 1738, XVII Legislatura, disponibile su http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00902379.pdf, p. 19, secondo cui la retribuzione media mensile dei GOT, nel 2012 (Bilancio 2013), sarebbe stata pari a euro 686,00 lordi al mese (7.546,00 annui), corrispondente a un carico medio pari a cinque udienze al mese e due doppie indennità (udienze protrattesi oltre le cinque ore). L’indennità dei giudici di pace, invece, per l’anno 2012 sarebbe stata pari ad euro 47.895,98, pari a una retribuzione media mensile (lorda) di euro 4.354,18. V. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 135 ss.
[48] Per i concetti elementari di “dispersione” (statistica), v. per tutti D. J. HAND, Statistica, Torino, 2012, in part. cap.2, 59 ss.
[49] Sulle molteplici criticità, sia sul piano ideologico – concettuale che attuativo della previsione del meccanismo premiale, rinvio a quanto già sostenuto in F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 137 ss. Tra l’altro il D.M. 22 febbraio 2018 “Determinazione della dotazione organica dei giudici onorari di pace e dei vice procuratori onorari”, all’art. 3 comma 2, prevede che “Nel secondo quadriennio successivo all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, il numero dei magistrati onorari cui spetta l'indennità prevista dall'art. 23, comma 2, nonché dall'art. 31, comma 2, non potrà essere superiore al 60% della dotazione organica complessiva”. A mio giudizio la previsione è in evidente violazione di legge, dal momento che tanto il diritto dei nuovi magistrati onorari alla retribuzione premiale, che quello dei vecchi alla retribuzione fissa è e dovrebbe essere configurato come un vero e proprio diritto soggettivo (sia pur compreso in uno spazio edittale), e non come una semplice, eventuale concessione. È vero, del resto, che – ammesso che la Relazione tecnica sopracitata sia, in parte qua, completa e corretta - i vecchi giudici di pace opterebbero, verosimilmente, per il regime di cui alla legge 21 novembre 1991; ma la somma complessiva dei giudici di pace (vecchi e nuovi assunti fin oggi), facendo due rapidi conti, pesa sull’organico complessivo per poco più del 23,76% (v. Tabella 1). Sicché anche ipotizzando che tutti i vecchi giudici di pace optassero per il previgente regime, una cospicua quota di magistrati onorari, vecchi e nuovi, sarebbe comunque esclusa rispettivamente dalla prospettiva di un’indennità fissa (i primi) e dalla possibilità di ricevere la quota premiale (i secondi).
[50] Il valore, in pratica, corrisponde esattamente alla somma tra l’indennità di base e il massimo della quota premiale, originariamente previsto dall’art. 31 del D.lgs. per i vecchi magistrati onorari. V. F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 135 ss. anche per riferimenti bibliografici.
[51] Soluzione cui era, comunque, già possibile arrivare pure sulla base del poco lineare testo del d.lgs. 116/2017, come ho sostenuto nel mio F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 141 ss. Vista l’ambiguità della norma, comunque, la precisazione del D.D.L. (che novella il comma 1 dell’art. 31 d.lgs., inserendo le parole: “sino al raggiungimento del limite di età di cui all’articolo 29”) è quantomai opportuna.
[52] Ossia: fino alla scadenza del quarto anno successivo all’entrata in vigore del d.lgs. Il medesimo testo, lasciando impregiudicato il passaggio al fisso, consentiva ai vecchi magistrati onorari di ottenere, aumentando il loro impegno lavorativo, una indennità maggiorata (sia pure passando per un meccanismo di termini perentori alquanto farraginoso).
[53] Ai sensi dell’introducendo comma 3 bis, il D.M. de quo dovrà essere, pertanto, emanato “successivamente ai decreti di cui all’articolo 32, comma 2, che ne definisce modalità e limiti”. Dunque, si tratta di un terzo decreto, in ordine cronologico, da emettere dopo i due rispettivamente previsti (se non commetto errori nel leggere il complicato meccanismo a incastro di rinvii) dal d.lgs. 116/2017, art. 3 comma 1, primo periodo (dotazione organica della pianta organica dei magistrati onorari; per la verità come visto già emesso, sia pure con a mio giudizio eccesso di potere, con D.M. 22 febbraio 2018; v. supra) e secondo periodo (determinazione della pianta organica degli uffici del giudice di pace). Con tale decreto, inoltre, il legislatore si riserva di limitare ulteriormente l’applicabilità del nuovo regime retributivo, definendone “portata e limiti”. E si è già visto supra come tale facoltà sia stata intesa dal D.M. 22 febbraio 2018 citato in modo assai estensivo: comprensiva del potere di limitare l’opzione per il nuovo regime a una limitata percentuale di magistrati onorari.
[54] (Talune delle) criticità di tale sistema sono state da me già evidenziate in F. Russo, Breve storia degli extranei nella magistratura italiana., cit., 42 e 197. Esse sono state ulteriormente amplificate durante il, purtroppo attuale, periodo di epidemia da Sars-Cov-2, dal momento che genera incertezze applicative per il caso di sostituzione delle attività di udienza con scambi di note in cancelleria. In pratica per siffatte giornate di attività i giudici onorari rischiano di non potere percepire alcuna indennità.
[55] Secondo il linguaggio comune, dunque, dopo le 12.01 in poi. Non vedo, francamente, motivi per accogliere una nozione di “orario pomeridiano” differente (e.g., ancorando la nozione alle ore di svolgimento delle udienze, come fissate dal decreto del presidente del tribunale ex art. 80 disp. att. c.p.c., etc.).
[56] Istituzionalizzazione che, peraltro, risulta alquanto unidirezionale e dalle conseguenze bizzarre. Invero non si comprende perché le otto ore lavorative facciano conseguire il diritto a una doppia indennità, solo se composte, per almeno tre ore, da attività diverse dall’udienza (e non anche da otto, o cinque ore, di sola udienza). Per essere più chiari, un’udienza particolarmente complessa, nel civile come soprattutto nel penale, che si protraesse, poniamo, fino alle 17.00 costringerebbe il magistrato onorario a permanere in ufficio fino alle 20.00 per ottenere la doppia indennità. Di contro, una giornata lavorativa composta da udienze (fino alle 12.00) e da attività successive di studio (fino alle 15.01) la consentirebbe.
[57] V. nota precedente.
Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU.Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera)
di Marina Castellaneta
Con la sentenza depositata il 6 ottobre 2020 nella causa Jecker c. Svizzera (ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato un ulteriore tassello per rafforzare la libertà di stampa, questa volta attraverso la protezione della confidenzialità delle fonti. Con la pronuncia in esame, infatti, la Corte ha accolto il ricorso di una giornalista stabilendo che, in via generale, l’articolo 10 della Convenzione europea, che assicura la libertà di espressione[1], compresa, quindi, la libertà di stampa, include la protezione del giornalista in ogni fase della sua attività e con riguardo agli strumenti che servono a garantire l’effettivo esercizio della libertà di stampa, come la tutela della segretezza delle fonti, che svelano notizie al giornalista con garanzia dell’anonimato[2]. Per la Corte, inoltre, gli Stati non possono obbligare un giornalista a rivelare la fonte malgrado ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato.
Prima di passare ad esaminare le questioni giuridiche affrontate dalla Corte, è utile ricostruire brevemente la vicenda che ha portato alla pronuncia in esame.
Una giornalista aveva pubblicato un articolo sulla vendita non autorizzata di droghe leggere. Nell’articolo, la cronista aveva fornito notizie esclusive avvalendosi delle informazioni reperite da una fonte che aveva accettato di svelare alcuni retroscena a condizione che la sua identità non fosse svelata. Le autorità inquirenti svizzere, che stavano conducendo un’indagine sulla vendita illecita di droghe leggere, avevano convocato e interrogato la giornalista, ordinandole di fornire il nome dell’informatore. La giornalista si era rifiutata: il Tribunale cantonale di Basilea aveva dato ragione alla cronista ritenendo che l’interesse allo svolgimento dell’inchiesta non doveva prevalere sul diritto alla protezione delle fonti, ma il Tribunale federale svizzero aveva ribaltato il verdetto. Per detto Tribunale, infatti, in base alla legislazione interna, nei casi in cui sussiste un interesse pubblico rilevante come è quello dell’accertamento di un reato, un giornalista non può invocare la segretezza delle fonti (che viene, tra l’altro, classificata come un interesse privato della ricorrente). E’ opportuno ricordare che l’art. 28a del codice penale svizzero, relativo alla protezione delle fonti dei giornalisti, stabilisce che in caso di rifiuto del giornalista di testimoniare sull’identità o sul contenuto delle fonti di informazione, il cronista non può essere punito ad eccezione del caso in cui la testimonianza sia necessaria per prevenire un attentato imminente alla vita o all’integrità fisica di una persona o nel caso in cui detta testimonianza serva per accertare alcuni reati indicati, al par. 2, lett. b) di detta norma. Il diritto di rifiutarsi di testimoniare è indicato anche all’art. 172 c.p.p.
Il ricorso della giornalista a Strasburgo ha permesso alla Corte europea di chiarire fino a che punto si spinge la tutela delle fonti dei giornalisti nel contesto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sin dal leading case sul diritto alla segretezza delle fonti rappresentato dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito del 27 marzo 1996, la Corte europea ha riconosciuto che, proprio per il ruolo di watchdog svolto dal giornalista, centrale in una democrazia, gli Stati devono garantire alcuni “privilegi” ai reporter. Ed invero, poiché per informare su notizie di interesse pubblico, il giornalista deve cercare notizie e deve farlo anche – e diremmo soprattutto – ricorrendo a fonti non ufficiali, la segretezza delle fonti è un elemento essenziale per lo svolgimento dell’attività giornalistica. Se informatori e fonti non ufficiali che si rivolgono al cronista, fornendo notizie e documenti, non fossero protetti dalla segretezza e dall’obbligo, anche deontologico, del giornalista di non svelare l’identità delle stesse fonti, esse non comunicherebbero notizie di interesse generale, con la conseguenza che l’intera collettività sarebbe privata di informazioni necessarie all’esercizio, non solo del diritto di ricevere informazioni, ma anche di altri diritti essenziali per la democrazia. La mancata protezione dell’anonimato potrebbe spingere il giornalista a non divulgare fatti danneggiando l’intera collettività e impedendo al singolo di ricevere informazioni, finanche utili per esercitare le proprie scelte politiche (il principio è stato confermato in diverse occasioni, anche dalla Grande Camera, con la sentenza del 14 settembre 2010, nel caso Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, ricorso n. 38224/03)[3].
Nel caso Jecker, la Corte ha confermato questa conclusione: l’ingerenza era prevista dalla legge, in linea con quanto richiesto dal par. 2 dell’art. 10 della Convenzione, ma non necessaria in una società democratica. La Corte, infatti, ha ribadito l’importanza della tutela della confidenzialità delle fonti per i giornalisti e, di conseguenza, per la collettività: obbligare un giornalista a rivelare l’identità della sua fonte ha un effetto negativo non solo sul singolo cronista, al quale altre ulteriori fonti potrebbero non rivolgersi più per comunicare fatti di interesse generale, ma anche per le future potenziali fonti del quotidiano e di altri giornalisti, con un effetto negativo diretto sull’interesse del pubblico a ricevere informazioni di interesse generale e un sicuro vantaggio per coloro che intendono nascondere attività illecite. La Corte ammette che la ricorrente poteva essere particolarmente utile per individuare l’autore dell’illecito e che proprio quest’ultimo aveva fornito le informazioni alla cronista, con la conseguenza che il fine perseguito dalle autorità nazionali era senza dubbio legittimo (punire la commercializzazione di droghe leggere, obiettivo perseguito dal legislatore), ma questo doveva essere rapportato al contenuto dell’articolo che riguardava fatti di interesse pubblico. Inoltre – precisa la Corte europea – le autorità nazionali non hanno dimostrato il preponderante interesse pubblico alla divulgazione della fonte. Non basta, infatti, che il legislatore consideri alcuni reati particolarmente pericolosi per la collettività poiché è necessario, nel caso specifico, giustificare l’esito del bilanciamento tra i diritti in gioco perché la sola circostanza che l’ordine di divulgazione della fonte serva per individuare l’autore del reato non può giustificare la mancata protezione delle fonti, essenziale per la libertà di stampa. Così, constatato l’interesse pubblico della notizia al centro dell’articolo e che se la giornalista avesse svelato l’identità della fonte avrebbe compromesso anche la reputazione del giornale, la Corte ha accertato la violazione dell’art. 10 da parte della Svizzera. “Considerata l’importanza che ha la protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica – osserva la Corte europea – l’obbligo imposto al giornalista di rivelare l’identità della sua fonte non si potrebbe conciliare con l’articolo 10 della Convenzione”, salvo nei casi in cui non sussista un preponderante imperativo di interesse pubblico. Che, però, non deve essere considerato in astratto e neanche sulla base delle sole scelte effettuate dal legislatore, ma con riferimento al singolo caso concreto, con un obbligo del tribunale competente di indicare le ragioni per imporre la divulgazione della fonte in rapporto all’altro diritto in gioco.
La tutela delle fonti assicurata sentenza dopo sentenza dalla Corte europea e ribadita da ultimo nella sentenza Jecker, dovrebbe avere, a nostro avviso, una ricaduta anche nell’ordinamento italiano e in particolare sull’art. 200 c.p.p. in base al quale i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale non possono essere obbligati a deporre “relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione”[4]. Tuttavia, la norma prevede, aprendo il varco ad attenuazioni nella garanzia del diritto, che se le notizie sono indispensabili per la prova del reato e la loro “veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice può ordinare di indicare le fonti delle sue informazioni”[5]. La formulazione della norma, alla luce delle pronunce della Corte, non sembra del tutto compatibile con l’art. 10 della Convenzione, sia sul piano soggettivo sia su quello oggettivo. Sotto il primo profilo, perché il diritto alla protezione delle fonti è limitato unicamente ai giornalisti professionisti, così escludendo i praticanti e i pubblicisti (tenuti, però, a non svelare la fonte in base alla legge n. 69/1963). Sotto il secondo profilo perché, a differenza di quanto previsto per gli altri professionisti, il segreto è limitato ai soli nomi. Se la Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha interpretato la norma nel senso che la tutela deve ritenersi necessariamente estesa a tutte le indicazioni che possono condurre all'identificazione di coloro che hanno fornito fiduciariamente le notizie[6], ci sembra, in ogni caso, necessaria una modifica legislativa. Tuttavia, il disegno di legge n. 812 (approvato dalla Commissione giustizia del Senato il 25 giugno 2020), d’iniziativa del senatore Giacomo Caliendo, contenente “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato” non sembra andare nella giusta direzione perché l’art. 4 del disegno di legge include i pubblicisti tra coloro che possono avvalersi del segreto (ma sono ancora esclusi i praticanti), ma la tutela è comunque limitata al nome della fonte (a differenza degli altri professionisti) ed è mantenuto l’ordine dei giudici di divulgazione della fonte qualora ciò possa servire come prova del reato, malgrado ciò non sia in linea con diverse sentenze della Corte europea.
Pertanto, la modifica dovrebbe essere ripensata e inclusa nel nuovo, necessario, testo di legge sulla diffamazione che è stato richiesto dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 132 del 9 giugno 2020, con la quale la Consulta, invece di pronunciarsi immediatamente sulla contrarietà della legge italiana in materia di diffamazione a mezzo stampa all’art. 117 della Costituzione (e al suo parametro interposto di cui all’art. 10 della Convenzione), ha dato tempo al legislatore, fino al 22 giugno 2021, per procedere all’adozione di una nuova disciplina conforme ai principi costituzionali e convenzionali. In questo nuovo testo, anche se l’ordinanza della Corte costituzionale riguarda solo la questione dell’incompatibilità con la Convenzione europea del carcere nei casi di diffamazione a mezzo stampa, dovrebbe rientrare anche la tutela delle fonti.
[1] Cfr. G.E. Vigevani, La libertà di manifestazione del pensiero, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, p. 3 ss.; Id., L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, ivi, p. 25 ss.; R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 2017, n. 3, p. 37 ss., reperibile nel sito http:///www.penalecontemporaneo.it; M. Oetheimer, A. Cardone, Articolo 10, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 397 ss.; G. Resta, Trial by Media as a Legal Problem, Napoli, 2009; M. Lemonde, Justice and the media, in European Criminal Procedures, a cura di M. Delmas-Marty, J.R. Spencer, Cambridge, 2002, p. 688 ss.
[2] Sulla protezione delle fonti si veda D. Banisar, Silencing Sources: an International Survey of Protections and Threats to Journalists’ Sources, reperibile nel sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1706688; G. Resta, La giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla libertà d’informazione e la sua rilevanza per il diritto interno: il caso dei processi mediatici, in Dir. inf. e inf., 2012, p. 163 ss.
[3] Si veda anche la sentenza Görmüs e altri contro Turchia, depositata il 19 gennaio 2016. In quell’occasione, la Corte ha stabilito l’incompatibilità con la Convenzione di misure come le perquisizioni nelle redazioni dei giornali e il sequestro di materiale cartaceo e informatico, disposte dall’autorità giudiziaria, funzionali a individuare la fonte che ha svelato al giornalista fatti scottanti. Per la Corte, anche quando è certo che le notizie arrivano al giornalista da documenti confidenziali che non possono essere diffusi, la tutela delle fonti va assicurata. Tra la numerosa giurisprudenza. cfr. la sentenza del 22 novembre 2007, Voskuil contro Paesi Bassi, ricorso n. 64752/01; la sentenza del 15 dicembre 2009, Financial Times Ltd e altri contro Regno Unito, ricorso n. 821/03; Becker contro Norvegia, sentenza del 5 ottobre 2017, ricorso n. 21272/12 (sulla quale si veda G. De Gregorio, Disclosing journalistic sources already revealed. The Becker v. Norway case, in mediaLaws, 2018, n. 3, p. 386 ss.). Per un esame delle sentenze della Corte di Strasburgo rinviamo a M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012.
[4] Cfr. C. Melzi d’Eril, G.E. Vigevani, Informazione e giustizia, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 65 ss.; C. Malavenda, C. Melzi d’Eril, G.E. Vigevani, Le regole dei giornalisti, Bologna, 2012;
P.P. Rivello P.P., Segreto (profili processuali), in Dig. pen., Torino, 1997, vol. XII, p. 93 ss.; G. Spangher, Art. 200 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, Torino, 1990, II, p. 464 ss.; A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, parte speciale, Padova, 1982, p. 386 ss.; F. Abruzzo, Il diritto di cronaca e il segreto professionale dei giornalisti alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione della Repubblica italiana, reperibile nel sito http://www.francoabruzzo.it; A. Chelo Manchia, Segreto giornalistico: un segreto tutelato davvero?, in Cass. pen., 2005, n. 5, p. 1544 ss.
[5] P. Spagnolo, Il segreto giornalistico nel processo penale, Milano, 2014, p. 29 ss.; A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, Padova, 2012, p. 28 ss.
[6] Si veda, tra le altre, la sentenza del 29 dicembre 2011, seconda sezione penale, n. 48587/11.
La riforma della magistratura onoraria: forum
Giustizia Insieme apre un forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria.
Oggi l'introduzione alla quale seguiranno i primi interventi al forum : "Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari" del Prof. Giualiano Scarselli, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1374-brevissime-note-sulle-ultime-proposte-di-riforma-della-normativa-sui-giudici-onorari
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
Introduzione del Prof. Bruno Capponi
1. Qualsiasi discorso sulla magistratura onoraria muove dall’art. 106 Cost., secondo cui la legge sull’ordinamento giudiziario (trasparente il riferimento alla giurisdizione ordinaria: art. 1 c.p.c.) può ammettere la nomina […] di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli».
La norma è da sempre oggetto di vari fraintendimenti. Alcuni vi ravvisano talune caratteristiche della magistratura onoraria – la gratuità, la temporaneità, l’impiego a tempo parziale, il carattere non professionale e non continuativo dell’attività prestata, il conseguente regime indennitario e pensionistico etc. – che sono piuttosto lo specchio di come la previsione costituzionale è stata in concreto attuata (o, addirittura, di come la magistratura onoraria venisse impiegata anche prima dell’approvazione della Carta)[1].
Stranamente, al tempo stesso, la norma viene malintesa nella sua diretta portata testuale: chiarissima nel vietare l’impiego, specie nei gradi di impugnazione, dei magistrati onorari quali componenti di collegi decidenti (così come nelle magistrature speciali); il malinteso ha reso possibile, col decreto c.d. “del fare” (DL 69/2013, convertito dalla legge 98/2013), inserire un congruo numero di giudici “ausiliari” nei collegi delle corti d’appello (400), mentre in occasione della presentazione del successivo DL 168/2016 (convertito, con modificazioni, dalla legge 197/2016) s’è discussa la possibilità di inserire gli “ausiliari” addirittura nei collegi della sezione tributaria della Suprema Corte (scegliendoli tra i magistrati ordinari a riposo). Nel testo finale, approvato in Consiglio dei Ministri, la proposta è stata poi stralciata, ma il fatto stesso che essa sia stata concepita nei gabinetti ministeriali offre seria materia di riflessione. Ora, l’utilizzo dei giudici “ausiliari” nei collegi d’appello è andato sotto la lente della stessa Cassazione, che ha interrogato la Consulta [2] «vista la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 62-72 della legge 9 agosto 2013 n. 98 in riferimento all’art. 106, secondo comma, Cost.».
Quale significato ha, nella norma costituzionale, il riferimento ai giudici singoli e, prima, all’ordinamento giudiziario? La risposta sembra di immediata evidenza: s’è inteso limitare l’utilizzo della magistratura onoraria all’interno della giurisdizione ordinaria e per le sole funzioni che, nel 1948, erano proprie dei giudici singoli di primo grado, il giudice conciliatore e il pretore (uffici entrambi consegnati, ora, alla memoria storica). Ciò equivale, relativizzando la questione, ad affermare che l’àmbito elettivo della giustizia onoraria è lo stesso della giustizia c.d. minore: quella cioè che, allora, non attingeva in primo grado la competenza del tribunale (in quanto) giudice collegiale. Ritengo quindi che, per la corretta interpretazione della norma costituzionale, non occorra guardare (sarebbe anzi fuorviante) all’attuale competenza del giudice monocratico di tribunale, bensì a quella che era la competenza propria dei giudici singoli quando la Carta è stata redatta ([3]).
Si dirà che con ciò il problema è soltanto altrimenti collocato, o rimandato: dovendosi poi stabilire – e non si tratta di operazione facile – cosa sia, allora come ora, la c.d. giustizia minore. Il punto può essere discusso a lungo, coinvolgendo questioni non soltanto giuridiche. Tuttavia, sembra importante riaffermare che, nelle chiare intenzioni del costituente, l’utilizzo della magistratura onoraria non poteva essere indiscriminato, come attualmente si tende invece a ritenere [4].
Sembra anzi questa la giusta base di partenza per ogni discorso ulteriore: nel disegno del costituente, il giudice onorario era soltanto monocratico e poteva conoscere delle controversie civili di modesta entità, esclusivamente in primo grado [5].
2. Prendere atto della portata del testo costituzionale non significa, però, disattendere la qualifica di “ordinario” che certamente compete al magistrato onorario, con tutto quanto ne consegue. Va distinta la questione dello stato giuridico dalle funzioni in concreto esercitate: perché i provvedimenti del giudice onorario non sono strutturalmente diversi da quelli del giudice professionale, né è diverso il “potere” esercitato [6].
Sullo stato giuridico, in passato gli equivoci non sono stati pochi. Il GOT è stato visto come un magistrato a tempo parziale, che svolgeva o poteva svolgere un’altra attività (anche la professione forense, con le relative incompatibilità), che percepiva non uno stipendio ma un’indennità, che non aveva lo stato giuridico del lavoratore “dipendente” e che soprattutto aveva un impiego temporaneo. Un giudice “di complemento”, al quale tuttavia poteva essere affidato un intero ruolo decisorio: all’atto pratico, il suo impegno poteva non distinguersi da quello di un giudice professionale che operasse all’interno della stessa sezione del tribunale.
La realtà è che l’impiego a tempo parziale e la temporaneità delle funzioni sono spesso rimaste sulla carta e dunque, di proroga in proroga, è frequente trovarsi oggi di fronte a magistrati onorari che garantiscono da più di vent’anni lo stesso impegno di lavoro del giudice professionale, senza però avere in cambio nessuno dei diritti del lavoratore dipendente: ferie, malattia, maternità, pensione ed elettorato sono rimasti lontane chimere.
Alle domande di queste figure di giudici “minori”, quantomeno per il passato, il legislatore deve dare una risposta che rispetti la dignità e l’indipendenza delle funzioni svolte non occasionalmente né temporaneamente.
3. Il futuro non è chiaro, ed è soprattutto di questo che dobbiamo preoccuparci.
A far tempo dalla riforma sul giudice unico di tribunale (processo a tappe, concluso dal d.lgs. 51/1998) si sono moltiplicate le figure di giudice onorario, passando dalla legge sulle sezioni stralcio (n. 276/1997) e la connessa creazione dei GOA. Gli acronimi si sono moltiplicati (GOT, VPO, GACA), e con essi i problemi legati alle disparità di trattamento, retributivo e previdenziale. La legge delega sulla riforma organica della magistratura onoraria (la n. 57/2016) ha previsto, a regime, un’unica figura di magistrato onorario (almeno in primo grado), che viene denominato «giudice onorario di pace» (una sorta di catarsi delle sigle ora esistenti: GOP) e che dovrà essere inserito, con funzioni varie, in un unico ufficio di pace non più autonomo, com’è stato sinora, ma alle strette dipendenze del tribunale.
L’art. 5 della legge n. 57 assegna il coordinamento dell’ufficio del giudice di pace al presidente del tribunale.
La legge delega parla senza mezzi termini di «superare la distinzione tra giudici onorari di tribunale e giudici di pace facendoli confluire tutti nell’ufficio del giudice di pace» [art. 2, comma 1, lett. a)]. Tutti saranno poi destinati a confluire anche nell’ufficio per il processo costituito presso il tribunale ordinario (art. 50 DL 90/2014, convertito dalla legge 114/2014) per svolgere compiti di ausilio del giudice professionale: atti preparatori [lett. a) n. 1), che il legislatore delegato dovrà dettagliare]; atti delegati sulla base di direttive generali impartite dal «giudice professionale titolare del procedimento» (che non potrà quindi essere lo stesso giudice onorario) [n. 2)]; atti definitivi del procedimento, purché “semplici” [n. 3)]; applicazione al collegio giudicante civile e penale, in caso di significativa scopertura degli organici dei giudici professionali, ma con esclusione delle sezioni specializzate [lett. b)]; applicazione per la trattazione di procedimenti civili e penali, con esclusione delle materie di cui all’art. 43 bis dell’ord. giud., già in vigore quanto ai GOT, e per la materia del lavoro e previdenziale [lett. c)].
Lasciando da parte gli aspetti ordinamentali, che sono diretta conseguenza del maggior impegno richiesto ai GOP, la conclusione che se ne trae è che i giudici onorari di pace costituiranno l’ufficio del giudice di pace, e in più saranno addetti all’ufficio per il processo del tribunale ordinario. Vengono dunque meno, sempre più, le caratteristiche di “onorarietà” come tradizionalmente concepite (almeno quanto ai giudici di pace), per fare sempre più dell’onorario un giudice semi-professionale, vera “stampella” del magistrato di carriera e “costola” del tribunale. Del resto, i giudici onorari di ultima generazione saranno più tecnici del diritto, che cittadini esperti e saggi destinati a raccogliere il consenso della comunità: essi saranno reclutati preferibilmente tra magistrati anche onorari, avvocati, notai e docenti universitari (art. 2, comma 3, legge 57).
Insomma, sempre più aderente alla realtà è il gioco di parole che faceva del giudice di pace, quando ancora non era il giudice onorario di pace, un giudice istituito “per la pace dei giudici”[7].
Come sarà possibile realizzare questa “piccola” rivoluzione, che, d’altra parte, per gli aspetti strettamente legati allo stato giuridico dei magistrati onorari continua a perpetrare l’equivoco della temporaneità e sostanziale gratuità delle funzioni?
[1] Per tutti, Picardi, voce Conciliatore, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, vol. VII.
[2] Ord. della Sez. III del 9 dicembre 2019, pres. Amendola, est. Graziosi (GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n.34 del 19-8-2020).
[3] Per più ampio discorso v. Capponi – Tiscini, Introduzione al diritto processuale civile, Torino, 2014, 68 ss.
[4] V. il recente volume di Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Aracne, Canterano (RM), 2019, che parla della magistratura onoraria come del bubbone che sta per esplodere, evidenziando il problema di fondo che è l’inadeguatezza e la scopertura degli organici.
[5] Cfr. Luiso, La magistratura onoraria, in Riv. dir. proc., 2008, 355 ss.
[6] «Il potere giurisdizionale esercitato da un magistrato onorario non è in alcun modo diverso da quello esercitato da un magistrato di carriera»: così Luiso, op. cit., 362.
[7] Chiarloni, in Il giudice di pace, cit.
La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus
Il quotidiano La Stampa il 24 ottobre 2020 ha dato notizia del protocollo adottato dalla Svizzera per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive che “ha messo nero su bianco” i criteri da seguire in caso di insufficienza delle risorse disponibili.
La scelta elvetica riaccende l’attenzione sul tema drammatico della possibilità di limitazione o bilanciamento con altri diritti del diritto fondamentale alla vita umana.
Il tema è stato seguito con attenzione da GiustiziaInsieme nei mesi scorsi, ripubblicando l’intervista al filosofo Jürgen Habermas e al teorico del diritto Klaus Günther apparsa sul settimanale Die Zeit il 9 maggio 2020, seguita dalla sua rilettura da parte della cultura giuridica italiana, sia sotto il profilo gius-pubblicistico, che civilistico e penalistico, con altrettante interviste curate da Roberto Conti, Fabio Francario, Vincenzo Militello e Roberto Natoli.
Per gentile concessione dell’Editore, riproduciamo di seguito l’articolo a firma di Fabio Poletti pubblicato su La Stampa il 24 ottobre 2020 e, a seguire, il link alle interviste già ospitate da GiustiziaInsieme sul tema.
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La Stampa, 24 ottobre 2020, Fabio Poletti
La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus
Protocollo per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive. Il presidente dei medici: «È pesantissimo, ma così le regole sono chiare»
MILANO. Ben 6.592 contagi e 10 morti solo ieri. Con un rapporto di 494,9 casi ogni 100 mila abitanti. Il doppio che in Italia e in Austria, cinque volte più che in Germania. La Svizzera sta per essere travolta dal picco della pandemia e corre ai ripari. Il documento elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva è in vigore dal 20 marzo, anche se ufficialmente non è stato ancora adottato. Il titolo è preciso: «Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse». Ad una domanda che si stanno facendo in tutti gli ospedali del mondo, la Svizzera mette nero su bianco una risposta: «Al livello B, indisponibilità di letti in terapia intensiva, non andrebbe fatta alcuna rianimazione cardiopolmonare».
I limiti di età per le cure
A pagina 5 del documento sono indicate le tipologie di pazienti destinati a non essere ricoverati in Terapia Intensiva: «Età superiore a 85 anni. Età superiore a 75 anni accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi». A livello A, letti in Terapia Intensiva disponibili ma risorse limitate, i criteri per non essere ammessi alla rianimazione sono più gravi. Tra gli altri: «Arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a 12 mesi, demenza grave, insufficienza cardiaca di classe NYHA IV, malattia degenerativa allo stadio finale».
Come in guerra
Essere curati o meno, sarà prerogativa dei medici. O piuttosto dal numero di letti ospedalieri. A lunedì scorso, ultimo dato disponibile, in Svizzera c’erano 22 mila 301 posti letto, di cui 6 mila e 353 ancora liberi. Con 586 pazienti ricoverati per Covid-19, di cui 97 in terapia intensiva e 29 intubati. Ma la progressione del virus è veloce. Le decisioni che potrebbero prendere a breve i medici svizzeri, sono le stesse con cui si sono confrontati a marzo i medici di Bergamo, travolti dalla prima ondata di pandemia. Tredici di loro avevano scritto una lettera al New England Journal of Medicine che aveva fatto il giro del mondo: «I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative».
In Svizzera, lo stesso problema diventa criterio medico. Con una premessa scritta dagli stessi accademici e rianimatori: «Le decisioni vanno prese nell’ottica di contenere il più possibile il numero di malati gravi e morti». Eppure, anche nella pragmatica Svizzera, la cosa ha destato molta impressione, ammette Franco Denti, il presidente dell’Ordine dei Medici del Canton Ticino: «Quando è uscita questa direttiva siamo saltati sulla sedia. Decidere chi rianimare e chi no è pesante, pesantissimo per qualsiasi medico. Ma questo documento, che è pubblico, è a garanzia dei medici e degli stessi pazienti che potrebbero non aver voglia di essere sottoposti a ulteriori cure».
Nel comunicato di presentazione del protocollo, gli accademici parlano della necessità di «prendere decisioni di razionamento». Un termine militare che riporta alla medicina di guerra. Inevitabile secondo il presidente dei medici del Ticino: «Ogni decisione spetta ai comitati etici degli ospedali. Non mi risulta che sia già successo, ma siamo molto preoccupati».
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Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza. (note a Consiglio di Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485) di Esper Tedeschi
Sommario: 1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.; 2. La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata; 3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5485/2020 offre l’occasione di riflettere in ordine alla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 113, co. 1, c.p.a.
Come noto, la disposizione in parola individua il giudice dell’ottemperanza, attribuendone la competenza funzionale all’autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, con la precisazione, tuttavia, nel secondo periodo, che “la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Nella pronuncia in commento, il Consiglio di Stato ha fatto applicazione della regola processuale da ultimo richiamata, declinando la propria competenza a decidere, per avere individuato nel T.A.R. che aveva pronunciato la sentenza di primo grado il giudice competente, in quanto la sentenza di appello non ne aveva modificato il contenuto dispositivo e conformativo, sebbene avesse motivato in modo parzialmente diverso su un aspetto della controversia.
La vicenda deve essere inquadrata nell’ambito della regola processuale della quale è stata fatta applicazione.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. non introduce novità nel panorama processuale amministrativo.
Già l’art. 37 della legge T.A.R. – che per la prima volta ha normato l’assoggettabilità a giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice amministrativo[1] – aveva individuato, quale giudice dell’ottemperanza, l’organo della giustizia amministrativa che ha emesso la decisione di cui si chiedeva l’adempimento e, del pari, aveva introdotto una disposizione apparentemente derogatoria (rispetto alla appellabilità delle sentenze T.A.R., emesse nei giudizi di ottemperanza ex art. 37, co. 1) sostanzialmente coincidente con la disposizione ora contenuta nel co. 1, secondo periodo, dell’art. 113, c.p.a.[2].
Tuttavia – mentre l’art. 37 della legge T.A.R., si limitava a dire, al co. 4, che “la competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello” – l’art. 113, co. 1, secondo periodo, c.p.a. si esprime precisando che, affinché la competenza resti radicata nel primo giudice, occorre anche che la pronuncia confermativa del giudice di appello “abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Quella che potrebbe apparire soltanto una precisazione grammaticale, costituisce, invero, il “valore aggiunto” della disposizione codicistica (corrispondente alle indicazioni interpretative nel frattempo formatesi in materia[3]), in quanto chiarisce la volontà del legislatore, di modellare la ripartizione della competenza funzionale, fra Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato (nella rispettiva veste di giudici di primo e di secondo grado), sulla “paternità” del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale della cui ottemperanza si tratta, incardinandola nel Consiglio di Stato ogni qual volta, ancorché confermato il contenuto dispositivo della sentenza di accoglimento di primo grado, ne diverga il contenuto conformativo[4].
Quest’ultimo, si concreta in quel vincolo comportamentale che, sulla base delle argomentazioni che sorreggono il contenuto dispositivo, incombe sull’Amministrazione soccombente, la quale – come sarà chiarito da recente giurisprudenza[5] – finisce con l’esserne astretta anche oltre i limiti temporali e processuali di esecutibilità della pronuncia giurisdizionale, nel senso che “il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto”. Il che è quanto dire che il provvedimento che l’Amministrazione adotta in contrasto con la pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata resta operante alla stregua di “misura ideale” del corretto e legittimo uso del potere discrezionale tipico, così che la sua violazione è idonea ad emergere sub specie di “eccesso di potere”, quale vizio del successivo provvedimento, in qualunque ragionevole tempo.
La correlazione della competenza funzionale alla paternità del contenuto “dispositivo” e “conformativo” delle pronunce giurisdizionali affonda le proprie radici nel coessenziale “pre-giudizio” legislativo che, nelle materie appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo, nessuno meglio del giudice al quale deve farsi risalire lo iussus conformativo è in condizione di individuarne il significato e la portata, nell’esercizio di quella particolare cognizione estesa al merito che è propria del giudizio di ottemperanza e alla quale si correla anche il potere sostitutivo, esercitabile, se occorre, mediante la nomina di un commissario ad acta (art. 114, co. 4. lett. d)) quale ausiliario del giudice (art. 21) che tenga le veci dell’amministrazione reiteratamente inottemperante[6].
Riflettendo su tale aspetto, ci si avvede che il criterio adoperato dal codice del processo si muove nell’ottica della valorizzazione la nozione di “giudice naturale”[7] e le esigenze di tutela che vi sono sottese, e che hanno fatto dire, ai costituenti, che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”[8].
Peraltro, è stata rinvenuta, in tale opzione, una deroga alla regola del doppio grado[9], ora espressamente fissata, per il giudizio di ottemperanza, in linea generale, dall’art. 114, co. 8 e 9, c.p.a., idonea a ingenerare, per tale profilo, disparità di trattamento fra quanti possono avvalersi del doppio grado e quanti, invece, sono costretti a subire l’inappellabilità delle pronunce del Consiglio di Stato, operante, nel caso, in qualità di giudice di unico grado[10].
La questione non è di poco momento.
Se pure è vero, infatti che la garanzia del doppio grado della giurisdizione fissata nell’art. 125 Cost. opera soltanto nel senso della appellabilità delle sentenze T.A.R.[11] – senza che dall’anzidetta disposizione, o dagli artt. 100 e 111, o da altra disposizione della Carta fondamentale possa desumersi che (nell’ambito della funzione giurisdizionale propria) il Consiglio di Stato non possa mai essere investito di competenza di unico grado – altri principi, altrettanto vincolanti, operano nel senso che, anche in tale ipotesi, l’ordinamento debba individuare misure idonee a garantire l’effettività della tutela della parte soccombente, attuativa di diritti costituzionali (artt.24, 111 e 113 Cost.) e di principi sovranazionali[12].
Tuttavia, l’osservanza di tali principi, ora scolpiti positivamente nell’art. 1 c.p.a., non vincola il legislatore nazionale nella individuazione dello strumento processuale con il quale perseguirli, purché esso sussista e si riveli efficace[13].
2. La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata.
Venendo, ora, all’esame della sentenza in commento, occorre muovere dal “caso”, che, sebbene non scevro di complessità, può essere sintetizzato come segue.
Il T.A.R. per il Molise, con sentenza n. 448 del 2016, ha accolto il ricorso per risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, instaurato dall’ex presidente del comitato dei revisori dei conti di un I.A.C.P. molisano, con ricorso notificato alla Regione Molise e all’I.A.C.P. entro il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del medesimo T.A.R.
Nell’accogliere la domanda risarcitoria (con condanna in solido delle amministrazione intimate sulla base di puntuali criteri di liquidazione anche relativi alle spettanze accessorie), il T.A.R. molisano ha, previamente, dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione dell’azione, proposta dall’I.A.C.P., in quanto tardiva, e ha respinto la coincidente eccezione della Regione Molise, basando il proprio convincimento sull’assunto che il termine quinquennale opposto dalla Regione a fondamento della propria deduzione, dovesse farsi decorrere dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, al quale il suddetto giudice ha fatto risalire la giuridica azionabilità, in sede giurisdizionale, dell’autonoma pretesa risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
La Sez. V del Consiglio di Stato – investita dell’appello principale dello I.A.C.P. e di quello incidentale autonomo della Regione Molise, entrambi volti a sindacare le conclusioni alle quali era pervenuto il T.A.R. in ordine alla decorrenza del termine per la proposizione l’azione risarcitoria (mentre il solo appello principale dello lo I.A.C.P. era anche volto caducare la condanna in solido a suo carico, sull’assunto della esclusiva responsabilità della Regione per il danno provocato all’interessato dai provvedimenti illegittimi del Commissario straordinario dell’Istituto) – ha respinto entrambi gli appelli con sentenza n. 1496 del 2018, nel cui contesto era, peraltro, precisato che “la sentenza di primo grado deve […] essere confermata, sia pure sulla base di una motivazione in parte diversa da quella contenuta nella sentenza appellata”.
Per la precisone, il giudice di appello, esaminando la riproposta eccezione di prescrizione (ed espressamente prescindendo dalla tardività riguardante la sola deduzione dell’I.A.C.P.), ha ritenuto erroneo il procedimento logico-giuridico attraverso cui il T.A.R. era pervenuto al convincimento della tempestività della proposizione dell’azione, sulla considerazione che “l’azione risarcitoria autonoma era già esperibile [prima dell’entrata in vigore del c.p.a.] e ad essa si applicava il termine di prescrizione quinquennale (come definitivamente chiarito anche da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3/2011)”. Ciò malgrado, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sostanziale irrilevanza dell’errore del primo giudice, nella individuazione della norma applicabile nella specie, stante, di fatto, la tempestività dell’azione risarcitoria alla stregua del principio in forza del quale “la domanda, proposta al giudice amministrativo, di annullamento del provvedimento lesivo è idonea, per la durata del processo amministrativo, ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, con la conseguenza che la prescrizione già interrotta può iniziare a decorrere nel giudizio risarcitorio dal passaggio in giudicato della statuizione del giudice amministrativo (cfr., ex multis, Cass. 10395/2012; Cass. 4874/2011”.
Nelle specie, e sulla base dell’intervallo temporale fra passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dei provvedimenti lesivi e la proposizione della domanda risarcitoria (con riferimento alla notificazione del ricorso, poi successivamente ritualmente e tempestivamente depositato), doveva comunque escludersi il compimento del temine prescrizionale.
Successivamente al deposito della sentenza in parola e alla sua notificazione a cura dell’interessato, persistendo l’inerzia dei coobbligati in solido, quest’ultimo ha proposto ricorso per l’ottemperanza dell’anzidetta sentenza del medesimo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1496 del 2018, nel convincimento che il giudice di appello – pur avendo lasciato invariato il contenuto dispositivo del provvedimento decisorio del primo giudice – ne avesse modificato, ampliandolo, il decisum sostanziale, dichiarandosi confortato, in tale convincimento, dalla statuizione con la quale, in appello, il Consiglio di Stato aveva compensato le spese del giudizio.
Con la sentenza n. 5485 del 2020 in discorso, la Sez. V del Consiglio di Stato (fra l’altro espressamente accogliendo, sul punto, l’eccezione della Regione Molise, costituitasi in giudizio) ha declinato la propria competenza in favore del T.A.R. per il Molise, con concisa, ma lodevole esposizione delle conclusioni esegetiche in tema di individuazione del giudice funzionalmente competente alla stregua del disposto dell’art. 113, co. 1, del codice del processo amministrativo.
Osserva sostanzialmente il Consiglio – nell’indicare le tappe del percorso interpretativo da compiere per l’individuare il giudice competente in materia – che la giurisprudenza ha ormai sviscerato (da tempo, in un decennio dalla entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, e della operatività del suo art. 113, co. 1) le linee guida da seguire, ovvero:
a) esame del “contenuto dispositivo” (o anche dell’“indice testuale (reso) nel dispositivo della sentenza “, per usare una espressione adoperata dallo stesso Consiglio, nella sentenza della Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612);
b) ciò fatto, l’approccio successivo sarebbe nel senso che “la competenza funzionale è del Tribunale amministrativo regionale” ove vi si ravvisi “identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado”, il che si verifica nell’ipotesi di “dispositivo di mero rigetto dell’appello principale o incidentale (così Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489)”;
c) operare – peraltro – il confronto richiesto dallo stesso art. 113, co. 1, del “contenuto conformativo” dei provvedimenti giurisdizionali di primo e di secondo grado, rinvenendone la sede nella motivazione, e dal cui esame può conseguire che:
c.1) la competenza del Consiglio di Stato se la motivazione della sentenza d’appello rechi una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, in senso (variamente) ampliativo o restrittivo della condotta richiesta per dar attuazione alla pretesa, così da incidere sull’obbligo conformativo dell’Amministrazione soccombente (Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871) o, anche, quando si ravvisi “un quid novi sul piano del giudicato” (Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2051);
c.2) (oppure, al contrario) la competenza resta radicata nel primo giudice (il T.A.R. di provenienza), nel caso in cui la differente motivazione si concreti nel “mero arricchimento della motivazione a supporto di un medesimo decisum”.
L’avvertimento che la sentenza in esame sente, a questo punto, di dover dare all’interprete (nel caso, la parte vittoriosa dell’esecutando provvedimento giurisdizionale) è nel senso di una particolare cautela nella individuazione del “contenuto conformativo”, nelle maglie della motivazione della sentenza d’appello e nel confrontarlo con il dictum di prime cure, in quanto una sentenza di appello non può mai riproporre un percorso motivazionale identico (ovvero addirittura ripetitivo) a quello della sentenza impugnata, “non foss’altro per la necessità di confrontarsi con censure differenti da quelle proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (in tal senso già Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2183)”.
La controprova è nella constatazione che un differente modo di procedere finirebbe a riconoscere sempre competenza funzionale del giudice di appello, perché si finirebbe per attribuire al differente percorso argomentativo “(sempre) un contenuto conformativo diverso”.
Il vero, per i fini che interessano il corretto confronto dei “contenuti conformativi” dei due provvedimenti appartenenti a giudici di differente grado è nel modus operandi che si richiede all’Amministrazione per dare effettiva e concreta attuazione al comando giuridico, cosicché, in conclusione, al cospetto di un identico contenuto dispositivo, l’indagine sul contenuto conformativo consiste nel chiedersi se le due pronunce (di primo e di secondo grado) abbiano posto all’Amministrazione vincoli operativi identici o differenti.
Per venire al caso concreto, la sostanza della vicenda sulla quale è intervenuta la differente motivazione della sentenza di appello (inoperatività della prescrizione opposta) era del tutto “pre-giudiziale” rispetto alla questione di merito, da cui doveva farsi dipendere (con l’effetto dispositivo), l’effetto conformativo della pronuncia giurisdizionale. Sicché, una volta accertato che il termine prescrizionale non era decorso al tempo della proposizione della domanda risarcitoria e che, dunque, il giudice era legittimato a “entrare nel merito” della pretesa risarcitoria, era da ritenere del tutto irrilevante il differente percorso normativo attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alle medesime conclusioni del primo giudice, in ordine alla inoperatività della prescrizione.
Infatti, la correzione, sul punto, della motivazione della sentenza di primo grado non ha minimamente intaccato il decisum sul merito della domanda risarcitoria, né in ordine alla sussistenza del danno, alla taxatio o alla aestimazio dell’obbligazione relativa, né per ciò che riguarda le indicazioni operative espressamente rivolte alle Amministrazioni soccombenti, né, infine, circa gli impliciti e residui doveri conformativi (quali, in ipotesi, quello di correttamente attenersi ai criteri di liquidazione indicati dal primo giudice, di adoperarsi per rendere disponibili i fondi necessari per l’erogazione degli importi dovuti e, infine, di emettere, il mandato di pagamento necessario alla riscossione del dovuto). Ciò in quanto, fra l’altro, è stato respinto l’appello proposto dall’I.A.C.P. avverso la condanna in solido, con totale conferma, sul punto, della sentenza T.A.R.
In conclusione, la sentenza in commento appare apprezzabile per aver messo a fuoco orientamenti consolidati con costruzione logica chiarificatrice (ancorché sintetica), così da fornire anche un input di tipo didattico per la comprensione della materia.
Probabilmente, uno sforzo ulteriore poteva essere compiuto, per chiarire, anche brevemente, l’ininfluenza della statuizione sulle spese del giudizio, posto che, per espressa ammissione dell’interessato, l’equivoco del ricorrente era stato alimentato proprio dalla suddetta compensazione[14].
3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
Ciò detto, un qualche chiarimento richiedono ancora la nozione di “contenuto dispositivo” e “contenuto conformativo” (la legge propriamente parla di “effetti”, dispositivo e conformativo) il più delle volte non espressamente enunciato, che dalla sentenza del giudice amministrativo deriva (o può derivare) in capo all’Amministrazione soccombente.
L’idea di un “contenuto conformativo”, ulteriore rispetto a quello dispositivo, afferisce alla sentenza amministrativa di accoglimento di un ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e lesivo della sfera giuridica del ricorrente[15].
È, d’altronde, manualistico l’insegnamento secondo cui l’effetto (o contenuto) conformativo costituirebbe un elemento “tipico” di tali decisioni (ancorché eventuale), in quanto presuppone che, dopo l’annullamento giurisdizionale residuerebbe, in capo all’Amministrazione soccombente “il potere” (o, a seconda dei casi e sulla base di quanto dispone il diritto sostanziale, “il dovere”) di provvedere in ordine alla fattispecie che ha costituito oggetto del giudizio,, con un nuovo atto[16].
L’effetto conformativo si concreterebbe nell’obbligo, per l’Amministrazione soccombente, di tenere conto, nella sua azione, delle indicazioni e dei limiti desumibili dall’accertamento giurisdizionale, come esplicitati nella motivazione del provvedimento giurisdizionale del quale di stratta[17].
In tale ottica, l’effetto conformativo rinverrebbe la sua tipicità nel meccanismo impugnatorio, che definisce anche i limiti del contenuto conformativo della pronuncia giurisdizionale, in quanto esige la specificazione dei motivi di impugnazione da parte del ricorrente e non consente al giudice di spingere il suo potere di controllo giurisdizionale oltre i limiti delle censure dedotte.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato[18] ha, pressocché testualmente, ribadito i superiori concetti[19].
Se ne potrebbe dedurre che di contenuto conformativo possa, ancora oggi, parlarsi soltanto con riguardo alle sentenze di merito emesse nel tipico giudizio di legittimità e che, solo con riferimento alle anzidette sentenze di accoglimento, esso debba ricercarsi nelle maglie della motivazione, della pronuncia favorevole,
Sennonché, rispetto al suo atto di nascita, potrebbe dirsi, oggi, che il giudizio di ottemperanza ha cambiato pelle.
Già l’art. 33, della l. n. 1034 del 1071, con il comma 4 (aggiunto dall’art. 10, l. 21 luglio 2000 n. 205), ne ha ammesso l’esperibilità per le sentenze T.A.R. non ancora passate in cosa giudicata e non sospese dal Consiglio di Stato; sulla base del combinato disposto degli artt. 112, co. 5 e 114, co.7, il giudizio di ottemperanza può essere proposto per fornire chiarimenti sulle modalità di esecuzione, anche da parte dello stesso commissario ad acta; l’art. 112. co. 1 e 2, c.p.a, ha notevolmente ampliato l’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza, in correlazione anche alla pluralità di azioni che possono essere proposte davanti al giudice amministrativo e il successivo co. 3 dello stesso articolo, modificato dal primo correttivo di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, ha reso possibile la proposizione “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza” dell’azione “di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza”, oltre che di quella “di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”[20].
Inoltre, il “nuovo” codice del processo amministrativo (con le modificazioni apportate, all’originario d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, dai correttivi di cui ai d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e 14 settembre 2012, n. 160, ma anche per effetto di successivi aggiustamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni) sembra propendere, non soltanto verso una più puntuale ed esplicita enunciazione del contenuto conformativo dei provvedimenti giurisdizionali, anche con riferimento a pronunce con oggetto differente dal tipico sindacato di legittimità[21].
In tale contesto, la formula dell’art. 113, comma 1, c.p.a., in tema di giudizio di ottemperanza, induce a interrogarsi sulla possibilità che il legislatore abbia anche intenzionalmente ritenuto di dover accedere a una nozione di “contenuto conformativo” non rigorosamente ancorata ai soli effetti ulteriori della pronuncia definitiva di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, nella parte in cui, nel recepire interamente il riparto di competenza funzionale fra T.A.R. e Consiglio di Stato (nella funzione giurisdizionale di giudice di appello) già fissata nell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971 (istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), ha valorizzato la rilevanza processuale del “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”, senza tenere in alcun conto la pluralità di azioni previste dal codice e dell’altrettanto variegata tipologia di “provvedimenti” giurisdizionali finali, suscettibili di ottemperanza.
Tale convincimento è avvalorato dal comma 1 dell’art. 112 c.p.a.
Il contenuto conformativo delle pronunce amministrative, che aveva fatto dire “il sindacato di legittimità diventa una misura di giustizia in senso distributivo nei rapporti intersoggettivi”[22], nel nuovo assetto del processo amministrativo, sembra dunque emergere, a tutto tondo, nella generalità delle statuizioni di merito del giudice amministrativo, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, co. 1, Cost.[23].
Esso è da considerarsi di tale rilevanza che, secondo l’orientamento recentemente messo a fuoco dal Consiglio di Stato[24], l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Verrebbero così a scindersi, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’Amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
Detto questo, deve darsi atto che, ai fini e per gli effetti del giudizio di cui all’art. 113 c.p.a. - al cospetto di una decisione di appello che confermi il contenuto dispositivo della sentenza di primo grado con motivazione non del tutto conforme alla pronuncia di prime cure - l’individuazione del giudice al quale fare risalire la paternità del contenuto conformativo può essere complicato dallo sviluppo argomentativo della pronuncia, la cui complessità affonda le proprie radici nelle connotazioni stessa del giudizio di appello, nel contempo impugnatorio e devolutivo (nei limiti di quanto dedotto nel giudizio di primo grado ed oggetto di gravame in appello).
La vicenda che è alla base della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3485/2020 (oggetto di esame nel paragrafo che precede) costituisce un esempio tipico di “equivoco”, nel quale non sarebbe dato incorrere, se soltanto si tenesse conto che il differente percorso argomentativo - che si sostanzi in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado - non modifica, di per sé, né il contenuto dispositivo né quello conformativo della sentenza di primo grado[25], per di più nel caso in cui investa un profilo pregiudiziale (di rito o di merito) rivelatosi poi ininfluente sulla cognizione di merito richiesta al giudice dell’ottemperanza, in ordine alla pronuncia favorevole.
Altra cosa è che il giudice di appello ampli il contenuto conformativo della pronuncia di primo grado o vi imprima una differente portata: è solo in tal caso che può parlarsi di un contenuto conformativo proprio della sentenza di appello, idoneo a incardinare nel Consiglio di Stato la competenza funzionale ai fini del giudizio di ottemperanza, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, c.p.a., che individua nel giudice che ha posto l’obbligo conformativo, quello naturalmente idoneo a garantire il corretto collegamento tra cognizione ed esecuzione, attraverso l’interpretazione della portata effettiva del proprio dictum[26].
La conclusione parrebbe semplice, se non fosse che su tale argomento sono scorsi fiumi di inchiostro[27].
* * *
[1] Quasi sottovoce – con la l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali – il legislatore nazionale ha implicitamente conferito dignità normativa all’applicazione pretoria dell’istituto processuale di cui all’art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa. Ciò ha fatto con disposizioni (contenute nell’art. 37, co. 3 e 4, della legge citata) aventi a oggetto la distribuzione della competenza funzionale fra giudice di primo e di secondo grado (rispettivamente i T.A.R. di nuova istituzione e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale) che, implicitamente, danno per acquisito all’ordinamento l’istituto processuale, con l’anzidetta funzione espansiva (rispetto alla formula contenuta nel T.U.). E invece – sebbene al tempo della emanazione del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, fosse superata (anche a livello legislativo) la vexata questio della natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dagli interessati per l’annullamento dei provvedimenti definitivi viziati da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere – nell’art. 27 del T.U. fu trasfuso l’originario art. 4, co. 4 della c.d. legge Crispi, senza ampliarne la portata applicativa. O. Quarta, Discorso del procuratore generale della Corte di cassazione di Roma, del 4 gennaio 1910, nel quale si rinviene (pp. 46 e ss.) un’ampia ed argomentata prolusione a sostegno della natura giurisdizionale delle decisioni della Sez. IV del Consiglio di Stato, dà conto di quanto fosse sentito, al tempo, il problema. Alla fine fu la storica sentenza del Consiglio di Stato, n. 181 del 2 marzo 1928, che per la prima volta estese il rimedio di cui all’art. 27 del T.U., anche alle sentenze amministrative, dando avvio a quella che – a distanza di anni – fu tacciata di essere una “bruta normazione giurisprudenziale” (M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Milano 1983, p. 65).
[2] Art. 37, co. 4. l. n. 1034 del 1971.
[3] Fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6767; sez. VI, 20 luglio 2009, n. 4554, nelle quali si rinviene il principio (poi confermato da Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2011, n. 3316) secondo cui la competenza del T.A.R., in sede di ottemperanza al giudicato, resta sempre preclusa quando la pronuncia del Giudice di appello ha diversamente definito una questione di natura cognitoria, ovvero ha diversamente connotato l’esatto significato e la portata della sentenza da eseguire, modificando quindi l’assetto degli interessi definiti in primo grado.
[4] Il che si verifica, come sarà meglio precisato oltre, quando il percorso decisionale attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alla conferma del contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale di primo grado, sulla base di un di percorso argomentativo che si discosta significativamente da quello seguito dal giudice di primo grado. Si veda sul punto Cons. di Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489, citata nella sentenza in commento.
[5] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[6] Per un approfondimento in ordine alla figura del commissario ad acta, V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Milano, 2002, Agg. VI, pp. 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001, pp. 1 e ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, Roma, 2001, Fasc. 1, II, pp. 1 e ss.
[7] V. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2017, n. 5058, punto 2.5 del “diritto”, in cui si afferma che il giudice amministrativo in sede di ottemperanza è il “giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 6 novembre 2017, n. 26259, ma, ancor prima, Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, punto 2 del “diritto”. Sul punto si veda l’approfondimento di F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, in particolare pp. 208 e ss.
[8] Art. 25, co. 1, Cost.
[9] Il problema era emerso già in vigenza della l. n. 1034 del 1971 in assenza, ivi, di regole procedurali sul giudizio di ottemperanza. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 23 del 14 luglio 1978 (su ordinanza di remissione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana), aveva affermato il principio della inappellabilità dei “provvedimenti” emessi dal T.A.R. nell’ipotesi di cui all’art. 37, co. 1, l. n. 1034, desunto, oltre che dalla coordinata lettura delle regole procedimentali di cui all’art. 90 del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907 n. 642, dalle finalità proprie della misura e dal criterio di ripartizione funzionale della giurisdizione fra T.A.R. e Consiglio di Stato, che vedeva, appunto quest’ultimo giudice operare come giudice unico nei giudizi attribuiti alla sua competenza in base ai commi 3 e 4 del medesimo art. 37. Tale rigida impostazione incontrò critiche della dottrina (per tutti, F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, pp. 4 e ss. e, più recentemente, C. E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1264) e ripensamenti giurisprudenziali. Il medesimo Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 2 del 1980, ebbe a precisare che le sentenze dei T.A.R. emesse ai sensi dell’art. 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 non sono appellabili là dove contengono mere misure attuative del preesistente giudicato, sempre che queste ultime non si sostanzino in statuizioni aberranti o comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza; mentre l’appello contro le dette sentenze è consentito là dove il T.A.R. abbia pronunciato – ovvero abbia illegittimamente omesso di pronunciarsi – sulla regolarità del giudizio di ottemperanza, sulla ammissibilità dell’azione esperita, nonché sulla fondatezza della pretesa azionata: dunque, l’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del T.A.R. era ammissibile, ma solo quando questa non si limitava a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell’azione e sulla fondatezza della pretesa azionata. A sua volta le S.U. della Suprema Corte di Cassazione, con sent. 24 novembre 1986, n. 6895 – ribadito l’orientamento espresso nelle sent. nn. 175 del 1984 e 648 del 1982 – ha alfine sciolto ogni dubbio, con articolata motivazione che ha valorizzato, innanzitutto, la natura pienamente giurisdizionale delle sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza e l’applicazione alle medesime della ordinaria appellabilità contemplata per le sentenze T.A.R., indipendentemente dalla circostanza che l’art. 37 della l. T.A.R. demandasse il giudizio di ottemperanza ai T.A.R. solo per talune specifiche ipotesi, affidando le altre ipotesi direttamente al Consiglio di Stato, in unico grado.
[10] È il caso di ricordare, al riguardo, che la Corte Costituzionale, con sentenza 31 dicembre 1986 n. 301, ha affermato che “le garanzie del doppio grado di giurisdizione assurgono ad oggetto di norma costituzionale soltanto nell'area dell'art. 125 Cost. riflettente l’appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze dei tribunali amministrativi di primo grado”.
[11] V. nota che precede.
[12] Ci si riferisce ai principi euro-unitari e a quelli CEDU e alla loro vincolatività nell’ordinamento interno. Sul tema, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 17 novembre 2015, n. 35532, sulle quali pone anche l’accento C. Deodato, I possibili rimedi avverso la sentenza di ottemperanza contrastante con il giudicato, in giustizia-amministrativa.it, 2017, note 8 e 9. Ma è di chiovendiana provenienza il principio della effettività della tutela giurisdizionale, dovuto proprio ai lungimiranti insegnamenti di cui siamo debitori all’illustre Maestro della processualistica italiana, che l’elaborò, ben prima che divenisse “valore” di portata costituzionale. Sul punto, G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1930, Vol. I, pp.101 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, ora Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 81, dove si legge che “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire”.
[13] Il pensiero sembra condiviso da C. Deodato, (op. cit. nella nota che precede, pp. 7 e ss.), nell’individuare “i possibili rimedi” avverso le sentenze pronunciate dal Consiglio di Stato, in unico grado, implicante anche il convincimento della sostanziale equivalenza di tali rimedi. Per la precisone, pur non nascondendo l’esistenza di criticità, l’Autore individua come utilizzabili nella fattispecie considerata il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione per contrasto con un precedente giudicato, fornendone poi illustrazione sufficientemente convincente.
[14] Soltanto incidentalmente, si ricordano in questa sede gli interessanti contributi, in tema di spese del giudizio, di M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574; nonché, Corte Cost. sent. n. 77 del 2018.
[15] G. Barbagallo, Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, p. 233 fa un dettagliato excursus su stile e funzioni delle decisioni del Consiglio di Stato italiano, indicando (come connotazione tipica delle argomentazioni contenute nella “sentenza amministrativa” la funzione “di conformare il futuro comportamento della Pubblica Amministrazione”, con evidente riferimento alle decisioni di accoglimento dei ricorsi giurisdizionali volti all’annullamento del provvedimento lesivo.
[16] C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), VII, Torino, 2017, p. 611.
[17] Vd. nota che precede.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[19] Testualmente, la sentenza citata nella nota che precede precisa che “il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce, normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione”.
[20] Per una visione panoramica dei processi evolutivi, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, in particolare pp. 287 e ss.; F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, pp. 171 e ss.; Id., Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, pp. 52 e ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 976 e ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, pp. 226 e ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, pp. 369 e ss.
[21] Vd., al riguardo, art. 34, c.p.a.
[22] A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. Amm., 2003, p. 757, con particolare riferimento alla nota n. 63.
[23] Al riguardo, su tutti, si veda M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, pp. 280 e ss.
Una singolare corrente di pensiero, sostenuta dalla Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana (pareristica a cura dell'Avvocatura generale dello Stato), ha propugnato la necessità di codificare una sorta di c.d. “schema conformativo” delle pronunce giurisdizionali di merito, corrispondente a quello inaugurato dal T.A.R. Piemonte, nel periodo 2010/2011 (si vedano le sentt. T.A.R. Piemonte, Sez. I, nn. 1488/2010, 385/2011,785/2011). Eloquente, al riguardo, E. Michetti, Una nuova prospettiva per la giustizia amministrativa – Lo schema conformativo, Montecompatri, 2012, nel cui ambito in particolare si segnalano, F. Bianchi, Prefazione, pp. 2 e ss.; del medesimo Autore, E. Michetti, Prefazione, pp. 6 e sss, nonché, nel volume, Conclusioni – Sperimentazione schema conformativo: obiettivi e finalità per una giustizia “misura”, pp. 151 e ss.
[24] Cons. Stato, Sez. V, 11marzo 2020, n. 1738, cit.
[25] In questo senso, si vedano, fra i più recenti precedenti giurisprudenziali, Cons. di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2017 e Sez. IV, 1° febbraio 2017, n. 409 e 2 luglio 2014, n. 3331.
[26] Oltre le sentenze citate nella nota che precede, e la stessa sentenza Cons. di Stato, Sez. VI, n. 5485 del 2020 che ha ispirato il presente contributo, v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612 e A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
[27] Vanno infatti ad intersecarsi, con la questione in esame, problematiche di più ampio respiro, quali derivanti dalla natura mista del giudizio di ottemperanza, di cognizione ed esecuzione, che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva. Il giudizio di ottemperanza si caratterizza in modo diverso a seconda della tipologia di provvedimento di cui si chiede l’attuazione e del peculiare contenuto dello stesso. Ad esempio, ove il contenuto conformativo investa il comportamento che l’amministrazione dovrà tenere in seguito ad una sentenza emessa sul silenzio serbato dall’amministrazione in relazione a un’istanza sulla quale il giudice amministrativo ha riconosciuta la sussistenza dell’obbligo di provvedere, lo iussus conformativo deve essere relazionato al tipo di azione e di tutela che l’ordinamento ha consentito di apprestare con tale azione con necessario adattamento degli insegnamenti dottrinali in ordine alla funzione tipica del giudizio di ottemperanza, come. d es., fra gli altri, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, pp. 1025 e ss.
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