ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story
di Rita Russo
Sommario: 1. Premessa - 2. La protezione umanitaria e i casi speciali - 3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il 18 dicembre 2020 il Parlamento, dopo un aspro dibattito, ha convertito in legge (n. 173) con talune modifiche, il decreto legge del 21 ottobre 2020 n. 130, in materia di immigrazione.
Non poche le novità introdotte con l’intento, non particolarmente celato, di rimediare ai vulnera arrecati al sistema costituzionale dal precedente decreto sicurezza (D.L. 4 ottobre 2018, convertito in legge 132/2018). Ad esempio, si è intervenuti sulla disciplina della iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, riconducendola nell’ambito dei principi generali previgenti, dopo che la Corte costituzionale con sentenza del 31 luglio 2020 n. 186 ha dichiarato illegittima la disposizione dell’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2) del suddetto decreto legge, nella parte in cui stabiliva che il permesso di soggiorno “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”.
La Corte, in questa occasione, ha ricordato al legislatore che non può̀ porre gli stranieri in una condizione di minorazione sociale senza idonea giustificazione, e ciò̀ per la decisiva ragione che lo status di straniero non può̀ essere di per sé considerato “come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”. Di conseguenza, privare i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti incide irragionevolmente sulla “pari dignità̀ sociale, riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano”. Sebbene limitata ad una disposizione molto specifica, già in parte disattesa dai Sindaci dei Comuni italiani e talora disapplicata dalla giurisprudenza di merito, la sentenza della Corte ha una sua valenza generale, in quanto rimarca i confini entro i quali deve muoversi la discrezionalità del legislatore nazionale nel disciplinare la materia della immigrazione, ove peraltro egli è anche tenuto a rispettare la normativa eurounitaria.
In questi ultimi anni i paesi europei si sono trovati di fronte ad un fenomeno dirompente, denominato mixed migration, o flussi migratori misti: ondate di persone in fuga dalle persecuzioni individuali, da pratiche sociali opprimenti e lesive delle dignità personale, ma anche dalla guerra, dalle calamità naturali, da condizioni di povertà; ed ancora familiari al seguito di chi, per una ragione o l’altra, decide di migrare.
Si tratta di un fenomeno di particolare complessità che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte.
Le linee guida sulle quali si muove l’Europa sono quelle del rafforzamento della politica comune dell’asilo, ma anche di affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e forzata direttamente nei paesi terzi al fine di contenere la migrazione economica[1].
Questi sono distinguo concettuali, la cui applicazione pratica non è però semplice: quando nel paese di origine vi sono condizioni di criticità sociopolitica, che rifluiscono sull’individuo non solo comprimendone i diritti politici, ma anche ed in primo luogo provocando disagio economico, le ragioni “miste” di migrazione si fondono in una unica vicenda individuale e la spinta alla migrazione è forte, anche se non determinata da una persecuzione rilavante ai fini della Convenzione di Ginevra, o da condizioni di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.
L’effetto finale che viene poi portato alla attenzione del giudice dell’asilo è quello del radicamento sul territorio nazionale del migrante, talora con famiglia al seguito, o che ha formato famiglia in Italia, che non può allegare ragioni di persecuzione individuale ma che spesso giunge sul territorio nazionale dopo un viaggio durante il quale ha subito detenzione, torture, stupri e il cui rientro in patria potrebbe determinare comunque una lesione o esposizione a rischio dei diritti fondamentali.
Fenomeni complessi e di grande impatto sociale e politico: si evidenza in essi quella “enorme virulenza dei fatti, che hanno la vigorìa di condizionare il diritto e di plasmarlo”[2] e che spiega in parte la ragione per la quale le norme di chiusura del sistema ed in particolare quelle che riguardano il permesso di soggiorno per casi speciali e per motivi umanitari hanno tormentosamente impegnato il legislatore nazionale in questi anni, producendo norme talora molto discusse, in una storia che sembra non avere mai fine.
L’intervento operato con il D.L. 130/2020, da ultimo, ha ulteriormente rimaneggiato la materia e posto alla attenzione dell’interprete alcuni passaggi che riscrivono i testi, dopo il discusso intervento normativo del D.L. 113/2018, e tra questi due novità che meritano particolare attenzione sono le modifiche agli artt. 5 e 19 del D.lgs. 286/1998 (in acronimo T.U.I, testo unico dell’immigrazione).
2. La protezione umanitaria e i casi speciali
La prima novità saliente del decreto legge è il ripristino, nel testo dell’art. 5, comma 6, T.U.I., dell’inciso “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” ma non anche dell’inciso “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario” già previsto nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.L. 113/2018.
Le ragioni di questo parziale ripristino sono collegate alle osservazioni rese dal Presidente della Repubblica che, nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza del 2018, ha autorevolmente notato che il decreto non può far venire meno “gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”.
Ma, solo per attenersi a queste qualificate indicazioni, l’inserimento normativo sarebbe in verità inutile, poiché come ricorda il Presidente, gli obblighi costituzionali e quelli internazionali sussistono comunque, a prescindere dal richiamo nel testo legislativo.
La posta in gioco sembra quindi essere un’altra, e riguardare la tassatività delle misure di protezione e l’applicazione diretta dell’art. 10 comma 3 della Costituzione.
La legislazione italiana in materia di asilo si è evoluta rapidamente nell’ultimo ventennio e nel tempo si è affermata l’idea che il diritto di asilo di cui all’art. 10 della nostra Costituzione non coincide con il riconoscimento dello status di rifugiato, introdotto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 722 del 1954 e dagli artt. 7, 8 del D.lgs. 251/2007, e rappresenta un ombrello protettivo più ampio anche rispetto alla misura della protezione sussidiaria disciplinata dalle direttive qualifiche (2004/83/CE e 2011/95/UE) e dall’art. 14 del D.lgs. 251/2007[3].
La norma costituzionale infatti estende il diritto di asilo ai richiedenti che provengono da paesi che negano le libertà fondamentali, e prescinde quindi dal requisito del pericolo di una persecuzione individuale, alla base del sistema della Convenzione di Ginevra[4], così come prescinde dal requisito della sussistenza di uno stato di conflitto armato o del rischio di pena di morte e trattamenti inumani e degradanti.
La giurisprudenza italiana, prima che la legislazione nazionale si evolvesse sotto la spinta delle direttive europee, si era pronunciata per la immediata portata precettiva del diritto di asilo costituzionale, anche in mancanza di una legge che ne specificasse le condizioni di esercizio e le modalità di godimento[5]. Soltanto dopo l’introduzione del comma 6 dell’art 5 del T.U.I. dei “seri motivi” di carattere umanitario la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, data la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale, non trovava più una autonoma diretta applicazione l’art. 10 Cost.[6]
É bene però chiarire che la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una mera misura caritevole, rimessa alla discrezionalità dello Stato [7], ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale[8].
Si è quindi affermato che questa misura è (era) una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale[9], intesa come un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria[10].
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso forse più discusso, e cioè l'inserimento sociale e lavorativo in Italia e l’inevitabile regresso socioeconomico che comporterebbe il rimpatrio, ha fatto riferimento alla dignità, quale parametro essenziale di valutazione; si è cosi affermato che il giudice deve operare una valutazione effettiva al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[11].
Da qui in poi il principio si è consolidato, pur con qualche difficoltà, fino alla affermazione definitiva della regola del giudizio comparativo, sempre su base individuale, enunciata dalle sezioni unite, secondo le quali “la orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione di integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza”[12].
Nonostante questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.
Le sezioni unite, con la sentenza sopra citata, hanno precisato che la novella del 2018 non ha portata retroattiva, affermando che le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 continuano ad essere scrutinate secondo la norma previgente al D.L. 113/2018, ma il permesso di soggiorno eventualmente rilasciato è nominato “per casi speciali” e non più per motivi umanitari.
Questo porta con sé almeno due interrogativi: stat rosa pristina nomine? e ancora, quid iuris per le domande successive?
Parte della dottrina, in ciò confortata anche da un autorevole parere del Consiglio Superiore della Magistratura, ha ipotizzato che dopo il D.L. 113/2018 rientrasse in gioco la immediata applicazione dell’art. 10 Cost., evidenziando criticamente che la scelta di tipizzare le misure di protezione e configurare un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non sarebbe interamente attuativo dei principi costituzionali[13].
L’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., non ripristinando quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto” sembra confermare la scelta della tipizzazione[14], ma al tempo stesso chiama l’interprete a verificare se si tratta di una tipizzazione delimitata strettamente dalle ipotesi legislative, ovvero dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie e dal paramento interposto CEDU.
Gli obblighi costituzionali ed internazionali, infatti, impongono in primo luogo il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali e pertanto è da capire se il legislatore ha inteso semplicemente dare un chiarimento formale, oppure riconoscere che l’attuazione del diritto di asilo costituzionale non può essere affidato ai soli istituti dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e la necessità, dunque, che questi vengano integrati da altri istituti[15].
E, soprattutto, verificare se questi “istituti” possono essere solo i casi di permesso speciale elencati dalla legge, e cioè se è in potere del legislatore compilare un elenco tassativo e non meramente esemplificativo di casi cui riconoscere protezione, quando sono in gioco i diritti fondamentali.
Se si muove dall’idea che i diritti fondamentali ruotano introno al concetto di pari dignità riconosciuta agli esseri umani in quanto tali, la risposta dovrebbe essere negativa.
Il giudice dell’asilo dovrebbe avere la possibilità di stabilire, su base rigorosamente individuale, rifuggendo dal giudizio standardizzato, quando la negazione di un permesso di soggiorno comporta violazione degli obblighi costituzionali e internazionali, cagionando una lesione della dignità umana e della libertà morale e materiale dell’individuo: ad esempio, quando il trattamento inumano o degradante cui resterebbe esposta la persona in caso di rimpatrio non è diretto (il che comporta l’attivazione del principio di non refoulement) ma conseguenza di una estrema deprivazione materiale[16]. Lo stesso dovrebbe dirsi per quelle accertate situazioni di grave vulnerabilità, anche se determinate dalle violenze subite nei paesi di transito, che rendono intollerabilmente traumatico il ritorno nel paese di origine [17].
La valutazione delle ragioni di protezione è infatti operata su base individuale e da ciò discende non soltanto che non possono predeterminarsi con rigore i casi di protezione complementare, ma anche che non si può essere certi che in un determinato paese il rischio è per definizione escluso; diversamente la CGUE non avrebbe affermato che pure nei paesi della UE possono aversi casi di “gravi carenze sistemiche” che espongono a rischio alcune categorie di persone[18].
3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare
Altra rilevante modifica è quella intervenuta sul non respingimento.
Nell’art. 19 T.U.I. tra le cause di non respingimento, allargate oggi anche ai casi di trattamenti inumani e degradanti, sono state comprese anche quelle determinate da motivi familiari o comunque legati al rispetto della vita privata e familiare.
La nuova norma così recita: “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.
Il comma 1.1. dell’art 19 oggi descrive quindi due diverse ipotesi di non respingimento, che presentano una sostanziale e differenza.
La regola di cui al primo inciso corrisponde al divieto di respingimento o non refoulement enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “Le espulsioni collettive sono vietate. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Questa norma fonde ed armonizza i principi enunciati dalla CEDU rispettivamente nell’art. 4 prot. 4 (divieto di espulsioni collettive) e negli artt. 2 e 3 (diritto alla vita; divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). La regola è quindi imperativa e non consente il bilanciamento con altre esigenze: può infatti venire in applicazione anche qualora sussistano cause di esclusione del riconoscimento della protezione internazionale, previste dagli artt. 10 e 16 del D.lgs. 251/2007 ed è applicabile non soltanto ai rifugiati o ai richiedenti asilo, ma anche a coloro che non hanno avuto ancora la possibilità di fare domanda per ottenere lo status, ovvero non hanno intenzione di presentarla[19].
Il divieto è rigoroso, e non va incontro ad eccezioni[20]; tuttavia non comporta l’obbligo per lo Stato di accogliere nel proprio territorio la persona, dal momento che lo Stato interessato può optare per la soluzione dell’avvio verso un paese terzo sicuro, cioè un paese dove il soggetto non corre il rischio di pena di morte, tortura o trattamenti degradanti o di un respingimento verso paesi ove è esposto a tale rischio.
Di contro, il (nuovo) non respingimento per motivi di rispetto della vita privata e familiare prevede espressamente un bilanciamento con le “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.
Si tratta di una norma ibrida, di difficile inquadramento; non ha riscontro nell’art. 19 della Carta di Nizza e nonostante l’uso dell’endiadi “vita privata e familiare” di cui all’art 8 CEDU, neppure la coincidenza con questa ultima norma è perfetta. La norma CEDU, infatti, consente agli Stati di ingerirsi nella vita privata o familiare del cittadino o dello straniero sottoposto alla sua autorità in presenza di esigenze molto più ampie e composite[21]: l’ingerenza è consentita, sotto riserva di legge, nel rispetto del principio di proporzionalità quando “costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Di contro il divieto di cui l’art. 19 nel testo odierno consente il bilanciamento del diritto alla vita privata e familiare solo per “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. Il campo di applicazione della norma è quindi piuttosto ampio e sembra comprendere tutti quei casi di radicamento sul suolo nazionale, quale che sia la ragione della migrazione, in cui il rimpatrio può compromettere la vita privata e familiare.
Questo pone un problema di coordinamento con altre norme che tutelano, e in limiti più definiti, il diritto al permesso di soggiorno in deroga per motivi familiari (art. 31 T.U.I.), nonché con il testo dell’art 13 dello stesso T.U.I., laddove è previsto che il Ministro dell’Interno (e per lui il Prefetto) nell'adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, debba “tenere conto” della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine. Tenere conto dei legami familiari è qualcosa di meno di un divieto di respingimento, sia pure bilanciabile, perché impone una verifica connotata da un margine di discrezionalità, nel valutare la natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, l'esistenza dei legami con il Paese di origine [22]. Infine e non ultimo, si dovrà definire esattamente il portato del diritto alla vita privata qui rilevante, poiché anche il radicamento sul territorio italiano, il lavoro dignitoso, la socialità conseguita, sono degli elementi indicatori di una “vita privata” che in ipotesi potrebbe essere lesa dal rimpatrio.
4. Considerazioni conclusive
È una sfida complessa quella che attende l’interprete sulle misure complementari della protezione internazionale. E’ complessa per la necessità di individuare il regime normativo applicabile alle domande che sono state proposte dopo il 5 ottobre 2018, parzialmente aiutato in questo dall’art. 15 del D.L. 130/2020 che prevede un regime transitorio, ed è complessa perché la portata applicativa della riforma dell’art. 5 e dell’art. 19 del T.U.I. non è del tutto chiara.
Si potrebbe infatti pensare che il legislatore, pur non esplicitamente impegnandosi nel ripristino del “catalogo aperto”, abbia riaffermato la possibilità di un’applicazione diretta dell’art. 10, comma 3, Cost., per le ipotesi residuali, affidata all’opera giurisprudenziale e dottrinale; se così è potrebbero essere recuperati gli arresti giurisprudenziali sulla “vecchia” protezione umanitaria, riconoscendo un permesso di soggiorno per casi speciali in relazione agli obblighi costituzionali e internazionali in quelle stesse ipotesi in cui in precedenza si riconosceva il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Così impostata le lettura del quadro normativo, non vi sarebbe sostanziale differenza tra il trattamento dei migranti che hanno proposto domanda prima del 5 ottobre 2018 e coloro che l’hanno inoltrata in un momento successivo.
Potrebbe anche sostenersi che il richiamo agli obblighi costituzionali e internazionali sia una norma di principio, che ha il compito esclusivo di porre le premesse per l’allargamento dell’art. 19 T.U.I. In questo modo, pur non accogliendosi pienamente la tesi della tassatività stabilita per via legislativa, la conclusione sarebbe che il legislatore avrebbe posto una “tassatività relativa”, poiché il nuovo comma 1.1. dell’art. 19 contiene un richiamo molto ampio al diritto al rispetto della vita privata e familiare, consentendo di “riempirlo” con ipotesi molto variegate[23].
Qui però, come si è detto, si tratta di definire bene non soltanto il concetto di vita familiare, ma anche quello di vita privata.
Sul punto non può che ricordarsi come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia già offerto degli spunti in merito, perché nell’esplicitare, in tema di protezione umanitaria, il principio della comparazione tra le condizioni di vita ottenute in Italia e quelle cui il soggetto andrebbe come conseguenza di un rimpatrio nel paese di origine, ha fatto espresso riferimento all’art. 8 CEDU, inteso come diritto alla tutela della vita privata[24]. Seguendo questa linea interpretativa si potrebbe anche affermare che il comma 1.1. dell’art. 19 nella parte in cui introduce il permesso di soggiorno per divieto di respingimento ai sensi dell’art. 8 CEDU, altro non sarebbe che una riedizione della previgente protezione umanitaria, sottoposta però ad una doppia verifica dei presupposti, in positivo e negativo: la sussistenza di una condizione di vulnerabilità individuale, intesa nei termini già sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità, e la assenza di “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. In altre parole, una rosa che pur privata del nome mantiene lo stesso profumo, ma che richiede procedure molto più scrupolose per assicurarne la fioritura.
E’ quindi una strada non priva di asperità quella si presenta all’interprete, perché è necessario comunque assicurare, pur nel rispetto della vicenda individuale, una certa omogeneità oggettiva di trattamento per casi simili, e svincolarsi definitivamente dall’idea che i permessi di soggiorno per casi speciali abbiano a che vedere con motivi “caritatevoli” o con quella ricerca della felicità che fa parte del sistema costituzionale nordamericano e che invece non è accolta né dalla Costituzione italiana, né dalla comune cultura europea.
Al tempo stesso sarà necessario definire i confini tra la protezione complementare non nominata, derivante dagli obblighi costituzionali ed internazionali, e il divieto di respingimento, e sempre che si accetti l’idea che le due fattispecie non sono coincidenti, posto che anche il divieto di respingimento ruota intorno al rispetto della dignità umana, al divieto di trattamenti inumani e degradanti e -da oggi- anche al rispetto della vita privata e familiare.
[1] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[2] P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, in Giustizia civile, 2014, 1
[3] si veda P. Bonetti, Il diritto d'asilo in Italia dopo l'attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Dir. immig. cittad., 2008, 99 ss. G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, Jovene, 2007, 174 ss.
[4] R. Finocchi Ghersi, Il diritto di asilo in Italia e in Europa Riv. trim. dir. pubbl., fasc.4, 2011
[5] Cass.,sez. un., n. 4674/1997
[6] Cass.n.10686/2012; Cass.n.16362/2016; Cass.n. 11110/2019
[7] La direttiva qualifiche 2011/95/UE del 13 dicembre 2011 precisa, al considerando 15, che essa non si applica ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale. La direttiva 115/2008/CE, all’art. 6, par. 4, ha separatamente previsto che gli Stati possano rilasciare il permesso di soggiorno “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”
[8] Cass., sez. un., n. 19393/2009
[9] Cass., sez. un. n. 19393/2009 cit. ; Cass. civ. n. 4139/2011; Cass.n. 15466/2014; Cass.n. 15466/2014
[10] Cass., n. 23604/2017; Cass.n. 28990/2018; Cass.n. 13096/2019, Cass.n. 1104/2020
[11] Cass., n. 4455/2018
[12] Cass., sez. un. n. 29459/2019. Per approfondimenti v. E. CASTRONUOVO, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455/2018, in Diritto, immigrazione e cittadinanza on line, 2018, n. 3; M. BENVENUTI, La forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, P. MOROZZO DELLA ROCCA, Protezione umanitaria una e trina, pubblicati in Questione giustizia, 2018, n. 2
[13] Si rinvia anche per i richiami di dottrina a R. Russo, I diritti fondamentali sono diritti di tutti?, in questa Rivista 10.1.2020
[14] M.C. Contini Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, in Il Foro Italiano (foronews), 2.11.2020
[15] C. De Chiara, Il diritto di asilo e il d.l. 130/2020: progressi e occasioni mancate, in Questione Giustizia, 9.12.2020
[16] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre
[17] Cass.n. 1104/2020
[18] CGUE, sentt. del 19.3.2019, cit.
[19] Corte EDU, 21.10.2014, Sharifi and Others v. Italy and Greece.
[20] CGUE, Grande sezione, cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, 14.5.2019.
[21] M. C. Contini, Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, cit.
[22] Cass., n.18608/2014
[23] Relazione del Massimario della Corte di Cassazione n. 94 del 20.11.2020
[24] Cass. n. 4455/2018 cit. “il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Con riferimento al caso di specie, il parametro di riferimento non può che cogliersi, oltre che nell’art. 2 Cost., nel diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia
Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Seconda: L’Avvocatura alla prova dello stato di emergenza
Sommario: 1. Lo stato di emergenza, i decreti emergenziali e le “purghe” - 2. L’impatto sociale dei decreti emergenziali e la normalizzazione dell’emergenza - 3. La riforma presidenziale in Turchia - 4. La persecuzione dell’avvocatura in Turchia durante e dopo lo stato di emergenza.
(Qui il link alla parte prima del reportage)
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli Parte Prima: Essere giovani avvocate/i in Turchia
https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/1476-in-memoria-di-ebru-timtik-la-resistenza-dell-avvocatura-in-turchia-un-reportage-di-barbara-spinelli-parte-i-essere-giovani-avvocate-i-in-turchia
1. Lo stato di emergenza, i decreti emergenziali e le “purghe”
Forse quanto fin qui condiviso è sufficiente ad esprimere la difficoltà di essere avvocati e di scegliere di difendere “il nemico” nella Turchia di Erdoğan.
Ma per certo è insufficiente a rendere idea della paranoia che ha caratterizzato la produzione legale emergenziale, e di conseguenza la difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa e della professione legale dopo il “fallito colpo di Stato” del 15 luglio 2016.
Il 21 luglio si è riunito il Consiglio di Sicurezza, che ha dichiarato lo stato di emergenza, ai sensi degli articoli 15 e 120 della Costituzione Turca, ed il giorno stesso ha comunicato al Segretario Generale del Consiglio d’Europa di avvalersi della facoltà di sospendere gli obblighi derivanti dalla Convenzione europea per i diritti umani (CEDU) facendo ricorso alla clausola derogatoria contenuta nell’art. 15 della Convenzione stessa, ed altresì ha comunicato all’Ufficio OHCHR delle Nazioni Unite la deroga a numerosi articoli ICCPR[1].
La proclamazione dello stato di emergenza ha consentito l’estensione del “trattamento speciale” prima riservato agli avvocati di Ocalan e dei terroristi di sinistra, a tutta la categoria dell’avvocatura indipendente, identificata con il “nemico” di volta in volta difeso, e per ciò solo perseguitata. Si è registrato un vero e proprio passaggio da un utilizzo indiscriminato del diritto penale del nemico alla società del controllo totale.
Le parole migliori per descriverla sono quelle di un avvocato turco intervistato da HRW nel luglio 2018: “For courts to see no distance between a lawyer and their client is a new development. If a lawyer defends a Kurd these days that makes him a Kurdish nationalist. If he defends a FETÖ suspect he is a FETÖ member. As a lawyer you meet your client in prison and you have no possibility of confidential communication since there’s a prison guard present, a microphone, and a camera. In court, the judges accept none of your requests, such as hearing independent expert witnesses. We are seeing eight-hour trial hearings which are purely symbolic and in which nothing is taken seriously. The courts are completely unresponsive to lawyers. There is no equality of arms left, no possibility of being able to look the judge in the eye.”[2]
Vale la pena tuttavia ricordare sinteticamente in ordine cronologico tutti i provvedimenti che hanno colpito l’avvocatura durante lo stato di emergenza, che, ricordiamo, è stato prorogato in Turchia per sette volte, e cioè per due anni dopo il fallito colpo di stato, fino al 19 luglio 2018[3].
I 31 decreti emergenziali che si sono susseguiti dal 2016 al 2018[4], emessi ai sensi dell’art. 121 della Costituzione turca[5], oltre ad aver disposto le famigerate “purghe”, hanno introdotto fortissime compressioni al diritto di difesa. Qui sinteticamente si citano solo alcune delle disposizioni principali, al fine di intellegibile la portata della normazione emergenziale, sia per il numero di persone raggiunte da misure limitative della propria libertà personale e comunque incidenti sui propri diritti fondamentali in maniera significativa, sia per la compressione del diritto alla difesa ed al giusto processo.
Con il decreto emergenziale (d.e.) n. 667 del luglio 2016, è stata disposta l’estensione del fermo di polizia e la videoregistrazione e limitazione dei colloqui tra indagato/imputato e difensore. Sono state introdotte deroghe al diritto dell’imputato di comparire in udienza, anche se si tratta di udienza di convalida di misura cautelare personale. E’ stato imposto di omissare i nomi della polizia giudiziaria in tutti gli atti. Il Pubblico Ministero è stato autorizzato a presentare in udienza un capo di imputazione provvisorio. E’ stata estesa la possibilità di cancellazione del passaporto anche al coniuge della persona che sia licenziata o indagata per presunti legami terroristici.
Con il d.e. 668 del luglio 2016 sono stati chiusi 45 giornali, 16 televisioni, 15 riviste, 3 agenzie stampa, 23 radio e 29 editori, ed è statat autorizzata la polizia ad interrogare ed arrestare le persone senza previa delega della magistratura.
Con il d.e. 669 dello stesso mese sono stati licenziati oltre 2000 tra militari e poliziotti, e scarcerati 38mila detenuti.
Con i d.e. 670 e 671 dell’agosto 2016 sono state chiuse tutte le scuole militari e riordinato il sistema scolastico militare. Tutte le compagnie di telecomunicazioni sono state obbligate a provvedere entro due ore agli ordini che, in esecuzione dei d.e., dispongano intercettazioni e controllo di internet, con immediato trasferimento dei dati all’autorità richiedente.
Nel settembre 2016 sono stati emanati i d.e. n. 672, 673 e 674, con i quali sono stati imposti il rientro di giudici e pubblici ministero andati spontaneamente in pensione (672) ed il riassetto dell’organizzazione penitenziaria (673). E’ stato disposto il commissariamento delle municipalità i cui membri fossero stati indagati, il che potrebbe apparire una disposizione secondaria, ma non lo è se si considera che Erdoğan ha costruito il suo consenso interno identificando il partito filo-curdo di opposizione HDP come “braccio politico” del PKK, sicché il numero di sindaci[6], assessori e consiglieri delle municipalità a guida HDP indagati per terrorismo e rimossi dal loro incarico già prima del decreto, nel corso delle operazioni antiterrorismo del 2015, è impressionante. Per non parlare poi degli attacchi alle sedi del partito HDP, successivi alle elezioni del 7 giugno 2015[7], e che si sono susseguiti in tutto il Paese per mesi: ben 105 solo tra il 6 e l’8 settembre 2015[8], cioè una settimana dopo l’entrata in vigore del decreto emergenziale 672, con cui il governo turco ha commissariato tra il 2016 ed il 2018, 95 Comuni di 102 a guida curda (HDP), ed arrestato 93 sindaci. 15 di loro sono stati già condannati. La maggior parte di loro è ancora dietro le sbarre[9]. In totale, quasi 15'000 membri e rappresentanti eletti del partito HDP membri e rappresentanti eletti sono stati arrestati. 5'000 di loro sono ancora detenuti. In una conferenza stampa del 7 gennaio 2020, l'HDP ha dichiarato che nel solo 2019 ci sono stati 4567 arresti e 797 detenzioni. Cioè il governo turco ha continuato ad utilizzare i decreti emergenziali per perseguitare i politici curdi anche dopo la fine dello stato di emergenza, senza sottoporre le disposizioni emergenziali al vaglio del parlamento come prescritto dalla legge. Ad oggi, 20 co-sindaci HDP eletti nel marzo 2019 e almeno 27 sindaci curdi eletti alle elezioni amministrative del 2014 restano dietro le sbarre. Decine di altri sindaci eletti nel 2014 e nel 2019 hanno trascorso anni ìnteri in prigione prima di essere rilasciati, senza aver potuto assumere la loro carica.
Va poi osservato che da tale persecuzione non sono rimasti indenni i vertici nazionali del partito. Infatti prima ancora dell’adozione di tale decreto emergenziale, e prima ancora del colpo di stato, a maggio del 2016 era già stata approvata la riforma costituzionale che modificava l’art. 83 della Costituzione, prevedendo l’abolizione dell’immunità parlamentare nei confronti dei parlamentari indagati. A seguito di questo emendamento, il numero di procedimenti aperti nei confronti dei parlamentari di opposizione è aumentato del 200%. I co-presidenti del partito HDP e parlamentari Selahattin Demirtaş e Figen Yuksekdag sono stati arrestati il successivo novembre insieme ad altri 11 deputati HDP. Ad oggi, solo quattro di loro sono stati rilasciati. Nel settembre 2018 Demirtaş è stato condannato a quattro anni e otto mesi di carcere per aver diffuso propaganda terroristica, guidato un gruppo terroristico e incitato all'odio e all'ostilità del pubblico[10]. Tra dicembre 2015 ed aprile 2016, sono stati aperti 510 fascicoli di indagine nei confronti dei parlamentari curdi dell’HDP, la maggior parte dei quali per reati di opinione[11] collegati ai fatti occorsi durante i coprifuoco, per i quali è stata rimossa l’immunità. L’HDP ha commentato affermando che “Revocando le immunità dei deputati HDP il regime di Erdoğan ha ottenuto qualcosa che non avrebbe potuto raggiungere in precedenza tramite i mezzi legali e paralegali a sua disposizione: e cioè l’esclusione dell’opposizione dei curdi e dei loro alleati, che è basata su una piattaforma democratica, attraverso un colpo amministrativo ben architettato”. La portata della persecuzione è stata così significativa da venire criticata anche dall’IPU[12] e dalla Commissione Venezia del Consiglio d’Europa, che, con l’opinione del 14.10.2016 ha affermato che “L'attuale situazione nella magistratura turca rende questo il momento peggiore possibile per abolire l'inviolabilità” e che “L'emendamento costituzionale del 12 aprile 2016 è stato una misura ad hoc, un provvedimento “one shot”, ad homines, diretto nei confronti di 139 singoli deputati per cause già pendenti prima della costituzione del Parlamento. Agendo come potere costituente, la Grande Assemblea Nazionale ha mantenuto il regime di immunità come stabilito negli articoli 83 e 85 della Costituzione per il futuro, ma ha disposto la deroga a questo regime per casi specifici riguardanti persone identificabili, sebbene mediante l’utilizzo di un linguaggio generico. Si tratta di un uso improprio della procedura di modifica costituzionale.” [13]
Significative in tal senso le due pronunce della Corte Europea per i diritti umani relative al “caso Demirtaş”, che hanno confermato la natura strumentale e persecutoria della riforma costituzionale. Con la prima pronuncia del 20 novembre 2018, nel procedimento Selahattin Demirtaş c. Turchia, la Corte ha accertato la violazione degli articoli 5, par. 3, 18 e 3 del Protocollo n. 1 alla Cedu stabilendo che la detenzione di Selahattin Demirtaş doveva cessare, in quanto perseguiva il secondo fine predominante di reprimere il pluralismo e limitare la libertà del dibattito politico. Nello specifico la Corte aveva dichiarato all'unanimità, che ci era stata violazione dell'articolo 5 § 3 della Convenzione, e 5 § 4 perché, sebbene egli fosse stato arrestato e detenuto con "ragionevole sospetto" di aver commesso un reato, visti i motivi addotti dai tribunali nazionali, ha ritenuto che le autorità giudiziarie abbiano ingiustificatamente prolungato la durata della misura cautelare in carcere. La Camera ha inoltre ritenuto, all'unanimità, che vi era stata violazione dell'articolo 3 del Protocollo N. 1 (diritto a libere elezioni) della Convenzione in quanto, sebbene il signor Demirtaş avesse mantenuto il suo status di membro del parlamento per tutta la durata del suo mandato, ha riscontrato che la sua incapacità di prendere parte alle attività dell'Assemblea Nazionale a seguito della sua custodia cautelare avevano costituito un’ingiustificata ingerenza con la libera espressione dell'opinione popolare e con il suo diritto ad essere eletto e a sedere in Parlamento. La Camera ha inoltre dichiarato, con sei voti contro uno, che vi era stata violazione dell'articolo 18 (limitazione
sull'uso delle restrizioni sui diritti) in combinato disposto con l'articolo 5 § 3. Ha ritenuto che fosse stato stabilito oltre ogni ragionevole dubbio che il prolungamento della custodia cautelare in carcere del sig. Demirtaş, in particolare durante due campagne cruciali, vale a dire il referendum costituzionale e le elezioni presidenziali, aveva perseguito lo scopo ulteriore predominante di soffocare il pluralismo e limitare la libertà del dibattito politico, che è al centro del concetto di società democratica[14]. La sua avvocata Benan Molu ha affermato che si è trattato della prima volta che la Turchia è stata condannata per violazione dell’Articolo 18, l’unico non approvato all’unanimità. La violazione è stata infatti approvata con 6 voti a favore e uno contrario, dove Işıl Karakaş, la giudice che rappresenta la Turchia, si è dissociata dalla decisione[15]. Il 18.3.2019 la Grande Camera ha accettato di pronunciarsi su ricorso di entrambe le parti. Il 22.12.2020 è stata pubblicata la sentenza nel procedimento Selahattin Demirtaş c. Turchia (2), che è particolarmente significativa e merita in una disamina approfondita in separata sede. Basti qui ricordare che, con riferimento al giudizio circa l’illegittimità della rimozione dell’immunità parlamentare dal quale siamo partiti verso questa digressione, la Corte EDU richiama testualmente l’opinione del 14.10.2016 della Commissione Venezia, affermando che l'emendamento costituzionale del 20 maggio 2016 è un emendamento ad homines una tantum, senza precedenti nella tradizione costituzionale turca, che ha costituito un “uso improprio della procedura di modifica costituzionale”. La Corte ha quindi ritenuto che vi era stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione, perché l'ingerenza nell'esercizio della libertà di espressione del ricorrente non soddisfaceva il requisito della prevedibilità, poiché difendendo un punto di vista politico, il ricorrente avrebbe potuto legittimamente aspettarsi di godere dei benefici del quadro giuridico costituzionale in vigore, e quindi dell'immunità per i discorsi pronunciati nell’esercizio delle sue funzioni, che gli è stata invece negata a seguito della riforma costituzionale. La Grande Camera ha poi confermato anche tutte le altre violazioni già riscontrate nel 2018 dalla Camera. La sentenza della Corte del 2020 può definirsi coraggiosa, in quanto riconosce la natura strumentale alla compressione dei diritti fondamentali del ricorrente del lungo periodo di detenzione, e quanto ciò incida sullo stato di diritto. La Corte ha attribuito un peso considerevole alle osservazioni dei terzi intervenienti, ed in particolare al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, che aveva indicato l’utilizzo strumentale della legislazione nazionale per mettere a tacere le voci dissenzienti. La Corte ha rimarcato che il ricorrente in particolare era stato privato della sua libertà durante due cruciali campagne, quella del referendum del 16 aprile 2017 e quella delle elezioni presidenziali del 24 giugno 2018. A giudizio della Corte, la sua custodia cautelare gli aveva senza dubbio impedito di contribuire efficacemente alla campagna contro l'introduzione di un sistema presidenziale in Turchia. Inoltre, era evidente che gli oppositori politici del ricorrente erano stati avvantaggiati dal fatto che egli avesse dovuto condurre la sua campagna elettorale dal carcere. Secondo la Corte poi il fatto che non solo la voce del ricorrente, ma anche quella degli altri parlamentari HDP e sindaci eletti, fosse stata silenziata attraverso la detenzione cautelare, e per un periodo così lungo, non solo aveva privato migliaia di elettori di rappresentanza in Assemblea Nazionale, ma aveva anche mandato un pericoloso messaggio all'intera popolazione, riducendo sensibilmente l'ambito del libero dibattito democratico.
Ritornando alle misure introdotte con i decreti emergenziali, con i d.e. 675 e 676 dell’ottobre 2016, hanno disposto il licenziamento di oltre 10.000 pubblici impiegati, oltre 2700 impiegati del ministero della salute, ed oltre 1200 del ministero dell'educazione. E’ stata disposta la cancellazione dalle scuole pubbliche turche degli studenti presenti in Gran Bretagna, negli Stati Uniti ed in Canada, ed è stata tagliata la borsa di studio per coloro che si trovavano in programmi di scambio all’estero. C'è stata poi una stretta sul controllo delle università, con il licenziamento di oltre 1200 accademici scomodi e previsione in capo al Presidente della Repubblica del potere di nomina dei rettori. Sotto il profilo del diritto alla difesa, è stata imposta per legge la registrazione e la trasmissione al pubblico ministero dei colloqui tra difensori e detenuti.
Con riferimento al licenziamento degli accademici, vale la pena ricordare la portata massiccia dell’operazione punitiva portata avanti nei confronti dei c.d. “accademici della Pace”. Nel gennaio 2016, molti eminenti docenti di università pubbliche e private (medici, ingegneri, architetti, scienziati, economisti, letterati, giuristi), con una conferenza stampa, resero pubblico un appello dal nome “Non saremo parte di questo crimine” che chiedeva la fine delle operazioni militari dell’esercito turco nel sud est a maggioranza curda. L’appello ebbe 1.128 firmatari, tutti accademici turchi, cui si aggiunsero alcune centinaia di accademici e ricercatori di altre parti del mondo, fra cui intellettuali come Noam Chomsky e David Harvey. Gli accademici denunciavano come dietro la patina delle operazioni antiterrorismo si nascondessero in realtà violenze sproporzionate nei confronti dei civili: città assediate e distrutte, stragi, torture, definendo la violenza in atto “un massacro deliberato e pianificato”. Tutti i firmatari sono stati indagati per propaganda a favore di organizzazioni terroristiche (KCK/PKK) ai sensi dell'articolo 7/2 della legge turca contro il terrorismo e dell'articolo 53 del codice penale turco. Hanno tutti perso il loro lavoro, prelevati dalla polizia negli atenei, professori o all’alba dalle loro case davanti ai familiari, le porte dei loro uffici sigillate e in alcune casi vandalizzate. Alcuni sono stati arrestati, altri hanno “solo” ricevuto il divieto di uscire dal Paese. Nel 1984 il leader della giunta militare Kenan Evren aveva preso di mira gli intellettuali che chiedevano democrazia durante il colpo di stato militare. Kenan aveva definito gli intellettuali “traditori”. Dopo 32 anni il presidente turco Reccep Tayyip Erdoğan ha fatto la stessa dichiarazione affermando: ”Questi intellettuali chiedono a persone di altri paesi di seguire la situazione in Turchia. Sono dei traditori.” Il boss mafioso nazionalista Sedat Peker li ha minacciati con queste parole: "Faremo scorrere il vostro sangue" e "Faremo il bagno nel vostro sangue". Molti di loro oggi sono rifugiati in Europa[16].
Il numero totale di accademici vittime delle purghe in Turchia nel corso dello stato di emergenza è di 6081. 398 di loro erano gli “accademici per la pace”[17].
Molti degli accademici per la pace sono stati condannati a pene detentive comprese tra 15 mesi e 3 anni[18]. E’ stata sospesa l’esecuzione della pena nella maggior parte dei casi, ma per 29 accademici no, in quanto la pena detentiva in questione era superiore a 2 anni. Nel luglio 2019, la Corte costituzionale turca ha stabilito che i diritti di espressione dei firmatari della petizione erano stati violati, e nel settembre 2019 un tribunale turco per la prima volta ha assolto uno degli Accademici per la pace. Grazie all’intervento della Corte Costituzionale 171 accademici per la pace sono stati dichiarati innocenti da 17 tribunali separati a settembre 2019[19].
Con i d.e. 677 e 678 del novembre 2016 sono state chiuse 375 associazioni accusate di mettere in pericolo la sicurezza internazionale. Tra queste numerose associazioni di avvocati, di giudici e fondazioni per i diritti umani, le quali svolgevano una funzione cruciale nella promozione dell’applicazione dei principi del giusto processo, per la protezione dei diritti dei detenuti e nel rapportare sulle violazioni dei diritti umani ( ÖHD, CHD, MHD, IHD, TOHAV, YARSAV).
Con il medesimo decreto è stato previsto che tutti i dipendenti di scuole e istituzioni guleniste licenziati, indagati per presunti legami terroristici, con il passaporto proprio e del coniuge cancellato ed i beni già sequestrati, lasciassero entro 15 giorni gli alloggi pubblici dei quali disponevano e che non potessero mai più a vita avere lavori di pubblico impiego.
Con i d.e. n. 679, 680 e 681, 682 e 683 del gennaio 2017 sono state disposte ulteriori “liste di proscrizione” per pubblici ufficiali ed accademici sospettati di essere in contatto o affiliati di organizzazioni terroristiche, ed è stata disposta la revoca della cittadinanza a chi si trovasse all’estero ed entro 90 giorni non avesse risposto all’avviso a comparire.
Con il d.e. 684 del gennaio 2017 è stato diminuito il periodo di custodia di 30 giorni, a 7 giorni, prendendo in considerazione le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, ed è stata abrogata la disposizione che prescrive che il colloquio con i loro avvocati delle persone arrestate possa essere limitato per un periodo di cinque giorni.
Con i d.e. 686 e 687 del febbraio 2017, sono state previste specifiche relative ai funzionari del pubblico impiego colpiti dalle misure ed alla gestione dei beni congelati durante le operazioni.
Con i d.e. 688 e 689 del marzo 2017 sono state revocate le misure adottate nei confronti di alcuni pubblici ufficiali e studenti che si trovavano all’estero.
Con il d.e. 690 dell’aprile 2017 sono state adottate disposizioni in materia di competenza giudiziaria e per la nomina dei membri della Commissione d'inchiesta sullo stato di emergenza.
Con il d.e. 691 del giugno 2017 vengono introdotte ulteriori misure accessorie alla legislazione antiterrorismo. Con il d.e. 692 del luglio 2017 sono state disposte nuove “purghe” e con i d.e. 693 e 694 dell’agosto 2017 sono continuate le “purghe” e sono state disposte nuove chiusure di associazioni ed agenzie stampa. Il periodo massimo di detenzione preventiva per i reati in materia di terrorismo è stato aumentato da tre a cinque anni. E’ stato introdotto il diritto all’esame in forma protetta degli investigatori. Si è prevista la possibilità di riservare la decisione e dare lettura del dispositivo della sentenza anche nelle ipotesi in cui l’avvocato difensore dell’imputato non sia in udienza e non abbia rassegnato le proprie conclusioni. Con il d.e. 695 del dicembre 2017 sono stati licenziati altri 115 pubblici ufficiali. Con il d.e. 696 dello stesso mese sono state introdotte modifiche al codice di procedura penale lesive del diritto alla difesa, come la previsione che è consentito il proseguimento del processo anche quando neppure l’avvocato d’ufficio si presenti in udienza senza giustificato motivo, o come l’introduzione per il pubblico ministero della possibilità di ricorrere avverso le decisioni che dispongano il rilascio del sospettato o dell’accusato. In materia di esecuzione della pena, è stato introdotto l’obbligo di indossare le divise fornite dall’amministrazione penitenziaria, a pena di sanzione disciplinare. E’ stata poi disposta l’immunità totale per tutte quelle azioni compiute dai civili “che hanno agito per proteggere la democrazia durante il tentativo di colpo di stato terroristico”. Con il d.e. 697 del gennaio 2018, è stata chiusa una radio e sono continuate le “purghe”. Alcuni pubblici ufficiali con gli ultimi decreti sono stati reimmessi nel loro impiego.
Si tenga conto che dei pubblici ufficiali vittime delle purghe, stando ai numeri ufficiali, il numero di giudici e pubblici ministeri licenziati ed indagati è stato di 3926, cioè il 30% circa dei magistrati in carica all’epoca in Turchia[20].
2. L’impatto sociale dei decreti emergenziali e la normalizzazione dell’emergenza
L’impatto dei decreti emergenziali sull’accesso alla giustizia, di sopra accennato, non può essere letto disgiuntamente all’impatto socio-economico delle misure disposte dai medesimi decreti: i decreti emergenziali hanno costituito uno strumento sistematico di
oppressione contro persone di tutte le età, generi, religioni, in generale per tutte/i coloro che non si adattavano all'ideologia, alle politiche, alle pratiche o all'agenda del governo, che per questo motivo sono state etichettate, accusate di coinvolgimento nella trama del colpo di stato o di essere nemici dello stato con vari pretesti. Per la loro “neutralizzazione” sono stati utilizzati i poteri di emergenza, associate alle già esistenti leggi sul terrorismo formulate in modo vago. Di conseguenza, le autorità governative sono state in grado di sospendere, licenziare ed eliminare più di 250.000 persone con posizioni nel settore pubblico e arrestare o detenere più di 130.000 di loro in un breve lasso di tempo. Inoltre centinaia di istituzioni del settore privato, imprese, associazioni, fondazioni, media, canali televisivi sono stati chiusi, persino confiscando alcuni dei loro beni o facendole rilevare da amministratori nominati dal governo. Azioni di questo tipo hanno creato danni incommensurabili e immense vittimizzazioni di uomini d'affari e lavoratori anche nel settore privato. Quindi, migliaia di persone che lavoravano nel settore pubblico, privato e volontario venivano arrestate, detenute o imprigionato in quei processi. Di conseguenza, volendo fare una stima delle vittime primarie e secondarie dell’abuso dei poteri emergenziali da parte del governo, il numero supera 1.200.000 persone[21].
Il governo ha goduto così tanto dei poteri dello stato di emergenza che lo ha prorogato più e più volte, avvicinando la sua durata di applicazione a due anni.
Finito lo stato di emergenza, le disposizioni liberticide introdotte con i decreti emergenziali sono state riassorbite nella legislazione ordinaria, normalizzando l’eccezione. Infatti, con le nuove leggi introdotte nel luglio 2018, ed in particolare con la legge n. 7145, è stato consentito al Presidente ed all'esecutivo di mantenere i poteri conferiti loro nel quadro dello stato di emergenza, che pertanto di fatto prosegue con tutte le limitazioni che ciò comporta per la compromissione definitiva della situazione dello Stato di diritto e dei diritti umani in Turchia, considerato che molte delle procedure in vigore durante lo stato di emergenza ancora oggi sono applicate dalle forze di polizia e dai funzionari locali.
3. La riforma presidenziale in Turchia
Non si deve poi dimenticare che medio tempore, ad un anno dal fallito colpo di stato, tra un decreto emergenziale e l’altro, con il leader dell’opposizione in carcere, si è tenuto, durante lo stato di emergenza, nell’aprile 2017, il referendum costituzionale che ha introdotto il sistema presidenziale in Turchia. Il giudizio che, a tre anni di distanza, è pervenuto da parte della Corte EDU nell’ambito del caso Demirtaş, è stato tranchant, circa la sua illegittimità. Infatti questa riforma elettorale è stata votata durante lo Stato di Emergenza, da un Parlamento in cui il leader dell’opposizione democratica Selahattin Demirtaş , la copresidente del partito HDP Figen Yüksekdağ e numerosi parlamentari si trovavano all’epoca (e si trovano tuttora) in custodia cautelare in carcere, in conseguenza dell’emendamento costituzionale votato il 20.5.2016 che aveva rimosso l’immunità per i parlamentari indagati. Sicché il Parlamento (monco) aveva iniziato a discutere la riforma costituzionale il 9 gennaio 2017. Quel giorno, una manifestazione pacifica di protesta davanti al Parlamento è stata dispersa dalla Polizia con la violenza. Il dibattito parlamentare è stato contrassegnato da episodi di violenza fisica tra i parlamentari del partito di maggioranza AKP e quelli del partito CHP. Sono state mosse accuse di violazione della segretezza del voto. Il Parlamento ha adottato la riforma costituzionale il 21 Gennaio 2017, con 339 voti a favore, 142 voti contrari, 5 voti bianchi e 2 voti nulli. Il Presidente ha firmato il testo della riforma il 10 febbraio 2017 e fissato il referendum elettorale il 16 aprile 2017. Molte fonti autorevoli ed istituzionali hanno evidenziato che nel merito la riforma costituzionale mira ad introdurre un “sistema presidenziale alla turca” irrispettoso del principio democratico fondamentale della divisione dei poteri e del bilanciamento dei poteri tra gli organi costituzionali. Numerose sono state le censure di illegittimità segnalate in particolare dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, con l’opinione 875/2017[22]. E’ stata censurata in primo luogo la tempistica e la regolarità della procedura costituzionale. La Commissione sul punto ha affermato senza mezzi termini che “se una riforma costituzionale deve essere necessariamente approvata durante uno stato di emergenza, devono essere rimosse tutte le restrizioni alle libertà politiche oppure il referendum deve essere rimandato dopo il termine dello stato di emergenza”. Infatti, sebbene la Costituzione turca non impedisca l’adozione di riforme costituzionali durante lo Stato di emergenza, a differenza di numerose altre costituzioni, è evidente che nessuna riforma elettorale può dirsi democratica se avviene in un contesto dove non è assicurata la libertà di espressione del pensiero e di manifestazione, in assenza della possibilità di un discorso democratico sul testo della riforma. La Commissione ha rilevato che con oltre 150 media chiusi per decreto emergenziale, è palese che i pochi altri rimasti aperti adotteranno una sorta di autocensura preventiva su un tema così scottante, con l’esito di una probabile campagna elettorale monolaterale. A ciò si aggiunga che la regolarità della procedura parlamentare è stata minata da molteplici fattori ed in particolare dalla sua breve durata, dall’assenza di 11 deputati di opposizione al momento del dibattito e della votazione, in quanto detenuti in custodia cautelare in carcere a seguito dell’eliminazione dell’immunità parlamentare (nonostante la Commissione di Venezia avesse già con sua precedente nota chiesto il ripristino dell’immunità parlamentare), dalla violazione del voto segreto, addirittura attraverso la videoregistrazione e la diffusione televisiva della procedura in forma integrale, che ha consentito di identificare gli astenuti dal voto e di mostrare deliberatamente il proprio voto ad altri parlamentari, ed è stata mandata in onda televisivamente. La Commissione di Venezia inoltre ritiene che il regime presidenziale “alla turca”, ben lontano dal sistema presidenziale statunitense, poiché attribuisce enormi poteri al Presidente, senza prevedere un idoneo sistema di contropoteri, rischia piuttosto di assomigliare a uno dei tanti regimi autoritari asiatici, africani o latinoamericani che hanno tratto solo ispirazione dal sistema statunitense, senza riproporre le medesime garanzie di separazione dei poteri, in particolare per quanto riguarda il controllo dell’operato del Presidente. Davanti all’impressionante numero di nuovi poteri attribuiti al Presidente, i contropoteri attribuiti al Parlamento sono stati ritenuti del tutto insufficienti. Anche per quanto riguarda l’indipendenza del potere giudiziario, la Commissione di Venezia ha ritenuto gli emendamenti costituzionali sottoposti al referendum si pongono in contrasto con gli standard europei in quanto riducono l'indipendenza del potere giudiziario nei confronti del presidente. Senza mezzi termini, la Commissione di Venezia ha rilevato che “le modifiche costituzionali rappresentano un pericoloso passo indietro nella tradizione costituzionale democratica della Turchia”, ed ha voluto sottolineare “i pericoli di degenerazione del sistema proposto verso un regime autoritario e personalistico”, rimarcando che “l’attuale stato di emergenza non garantisce il setting democratico dovuto per l’esercizio di un referendum costituzionale”. La campagna elettorale infatti è stata caratterizzata da incidenti diplomatici all’estero da parte dell’AKP, ed all’interno del Paese da numerosi episodi di repressione di ogni tentativo di campagna elettorale per il no. Basti pensare al licenziamento di Irfan Degirmenci, storico conduttore di programmi di in-formazione sull'emittente nazionale Kanal D, licenziato per aver dichiarato su Twitter il suo 'no' al referendum. O all’arresto del 21enne studente universitario Ali Gül, per essere comparso in un video - diventato virale in rete - in cui promuove il “No” al referendum. Un rapporto pubblicato dal quotidiano Cumhuriyet, che ha monitorato i passaggi televisivi e radiofonici dei vari partiti del panorama politico nazionale, riporta che in 22 giorni la tv e radio di stato turche hanno concesso al partito AKP 4.113 minuti, di cui solo ad Erdoğan 1309, al CHP 216 minuti, al Movimento nazionalista 48 minuti, all’HDP 1 minuto. Fanatici dell’AKP hanno colpito anche in Europa, con un’aggressione in danno di curdi che si recavano a Brussels in consolato turco per registrarsi per il voto. Tre sono le persone che hanno riportato conseguenze dall’aggressione, una donna in particolare è stata ferita al collo.
Il referendum costituzionale del 16 aprile 2017 ha costituito uno spartiacque storico in grado di segnare le sorti della democrazia in un importante Paese membro del Consiglio d'Europa e della NATO. Ha costituito l’occasione per Erdoğan di monopolizzare tutte le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie.
Volendo spiegare in maniera elementare ed in pochi passaggi il contenuto della riforma in senso presidenziale[23], si può illustrare il venir meno della separazione dei poteri sintetizzando come segue: Il Presidente della Repubblica ha assunto i poteri del presidente del Consiglio dei ministri e del Consiglio dei ministri, e queste cariche sono state abolite. E’ il Presidente della Repubblica che indica il Parlamento una rosa dei ministri tra cui scegliere. Il Parlamento non ha più il potere di controllare o di istituire i ministri, e non ha più il potere di sfiducia nei confronti del Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può essere anche il capo di un partito, assumendo il potere di scelta della lista dei deputati. Può sciogliere unilateralmente il Parlamento. Può porre il veto sul bilancio. Può emanare decreti anche aventi lo stesso contenuto di una legge respinta dal Parlamento. Il veto del presidente su una legge può essere superato solo da 301 parlamentari su 600. Il Presidente della Repubblica può creare per decreto nuovi ministeri, enti pubblici e paramilitari. Il Presidente della Repubblica elegge 12 dei 15 giudici costituzionali che hanno il potere di controllo sui decreti da lui emessi. Nomina funzionari, burocrati, dirigenti scolastici, rettori ed il Ministro dell’Istruzione. Ha il comando supremo delle forze militari del paese. Può proclamare lo stato di emergenza. Nomina ambasciatori. Nomina il Ministro della Giustizia e sei dei 12 Consiglieri del Consiglio Supremo della Magistratura. Nessuno se non la Corte Costituzionale, per metà da lui nominata, può controllare il suo operato e quello dei suoi eletti.
A mio parere, non sarebbe scorretto parlare di dittatura.
4. La persecuzione degli avvocati in Turchia durante e dopo lo stato di emergenza
Si è già detto della persecuzione subita dagli avvocati in Turchia per aver difeso le vittime dei crimini contro l’umanità e denunciato e perseguito le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze militari turche nel sud-est curdo durante le operazioni anti-terrorismo portate avanti dopo l’interruzione del processo di pace.
Si è già detto anche di come pure durante lo stato di emergenza, dal 2016 al 2018, gli avvocati siano stati in prima linea nella denuncia delle torture, dei trattamenti disumani e degradanti[24] e delle sparizioni forzate[25] di coloro che erano sospettati di legami con le organizzazioni terroristiche.
Se vogliamo invece prendere in esame esclusivamente l’impatto dei decreti emergenziali sulla classe forense, i numeri non sono meno impressionanti di quelli riferiti ad altre categorie: il report del gruppo “Arrested Lawyers Initiative”[26] ha documentato in Turchia tra il 2016 ed il 2020 l’arresto di 14 Presidenti dell’Ordine degli Avvocati, oltre 600 avvocati e l’avvio di indagini per terrorismo nei confronti di oltre 1500 di loro.
Gli avvocati sono stati senza dubbio uno dei gruppi più colpiti, perché colpire loro ha significato ostacolare la difesa dei “nemici” che loro assistevano, e con i quali sono stati indebitamente identificati.
Si è già detto di come i decreti emergenziali abbiano compresso il diritto alla difesa, eliminando la privacy nella relazione tra l’avvocato ed il suo assistito detenuto, e restringendo le possibilità di incontro[27]. Anche le possibilità di accesso al fascicolo di indagine sono state ristrette[28], ed è stato addirittura previsto che l’udienza possa svolgersi anche in assenza del difensore dell’imputato, e che il processo possa concludersi anche senza che egli abbia rassegnato le conclusioni[29]. E’ stato poi previsto che un avvocato indagato per aver fondato un'organizzazione criminale, fondato e guidato un'organizzazione armata e per accuse di terrorismo, possa essere escluso dal suo dovere di avvocato se difende una persona indagata o imputata per le medesime fattispecie[30].
Il rapporto di “The Arrested Lawyers Initiative” ha stimato che il numero di avvocati a cui è stato vietato rappresentare i propri clienti si è ormai avvicinato a 400, e che la maggior parte di questi è stata indagata in quanto membro di una delle associazioni di avvocati chiuse dai decreti emergenziali del novembre 2016[31]. Basti ricordare tra le associazioni chiuse la Progressive Lawyers Association (Çağdaş Hukukçular Derneği) della quale fanno parte Aytaç Ünsal ed Ebru Timtik, e molti membri della quale sono ad oggi ancora in carcere, incluso il Presidente, Selcuk Kozagacli, e la sorella di Ebru, Barkin Timtik, nonché purtroppo di nuovo anche lo stesso Aytaç Ünsal; e la Lawyers for Freedom Association (Özgürlükçü Hukukçular Derneği), della quale fanno parte Ramazan Demir , di cui sopra si è riferito, e Levent Puskin, collega attivo nella difesa dei diritti LGBTQI, di recente assolto dall’accusa a suo carico[32].
Oltre che agli avvocati attivi nelle associazioni forensi impegnati nella tutela dei diritti umani, l’attacco si è rivolto anche nei presidenti degli ordini forensi critici con la politica presidenziale, e numerose indagini sono state avviate anche a partire dalle dichiarazioni pubbliche rilasciate dagli esponenti dell’Ordine. Fatto di cronaca recente è l’apertura di un’indagine nei confronti degli esponenti degli Ordini forensi di Ankara, Izmir e Diyarbakır, per aver criticato una dichiarazione che costituiva un discorso d'odio contro gli omosessuali, pronunciata dal capo della direzione degli affari religiosi. L’indagine per “insulto ai valori religiosi di una parte della popolazione” è partita proprio a seguito della denuncia proposta dal Capo della Direzione Affari Religiosi[33].
Non solo agli avvocati indagati per terrorismo è stato impedito di rappresentare i propri assistiti indagati per la medesima fattispecie ma, cosa ancor più grave, a molti avvocati è stato impedito di raggiungere o mantenere il titolo solo in ragione del fatto di essere sottoposti ad indagini. I numeri, anche in questo caso, sono impressionanti: Secondo le statistiche ottenute dall'UTBA, al 13 agosto 2020, c'erano 1252 casi presentati dal Ministero della Giustizia contro decisioni di ammissione. In 376 casi è stata annullata l’iscrizione. In 175 casi la richiesta del Ministero è stata respinta. 701 casi erano ancora in sospeso[34].
Come evidenziato dai colleghi turchi che hanno denunciato la situazione: “È evidente che l'impossibilità di esercitare la professione di avvocato non riguarda solo il individuo interessato, ma anche altri che hanno bisogno di essere difesi. Laddove gli ordini degli avvocati rischiano la separazione secondo le opinioni politiche nel sistema recentemente modificato (di cui si dirà tra poco), questa ingerenza con la professione di avvocato mira a dissuadere gli studenti dissidenti all’università dall'esercizio dei propri diritti e libertà, ad escludere dalla professione individui che non sono ritenuti "graditi", per "pulire" il futuro della professione di avvocato da persone con determinate opinioni e per lasciare "un certo gruppo di persone" indifeso, senza avvocati”[35].
Ma come se non bastasse l’impatto dei decreti emergenziali sulla già misera vita degli avvocati turchi, altri colpi ulteriori hanno contribuito a smantellare definitivamente la labile parvenza di legalità rimasta, e ad indebolire il ruolo dell’avvocatura mediante ulteriori e gravi interferenze. Infatti con decreto presidenziale n.5/2018, la Presidenza turca si è arrogata l'autorità per ispezionare gli ordini degli avvocati e sospendere il loro presidente e membri del consiglio (articolo 6) 15. E’ chiaro che il potere della Presidenza turca di sospendere i dirigenti eletti di consiglio dell’Ordine ha compromesso in modo significativo la loro indipendenza.
Come se ciò non fosse sufficiente, al termine dello stato di emergenza, il 15 luglio 2020, è entrata in vigore la legge di riforma degli ordini forensi, che prevede che nelle province in cui gli avvocati iscritti agli ordini locali siano più di 5000, sia possibile creare più di un ordine forense, su richiesta di almeno duemila iscritti. Inoltre, aumenta il numero di delegati che ogni ordine può inviare a rappresentarlo all’Unione Turca degli Ordini Forensi (UTBA). La riforma è stata chiaramente pensata per privare di potere e mettere più facilmente a tacere i grandi Ordini forensi (Ankara, Izmir, Diyarbakir…) che si sono rivelati critici nei confronti del regime[36]. E’ evidente infatti che la creazione nella stessa provincia di organi multipli di rappresentanza dell’avvocatura ne favorisce la politicizzazione, e dunque mina l’indipendenza degli iscritti nell’esercizio della professione, introducendo nuovi criteri di scelta dell’Ordine a cui appartenere (come per noi, l’iscrizione è obbligatorio ai fini dell’esercizio della professione) che non siano il criterio “neutro” della competenza territoriale dell’Ordine, dando luogo a possibili discriminazioni. In tal senso si è espressa anche la Commissione Venezia del Consiglio d’Europa con l’opinione n. 991/2020[37] . Gli avvocati hanno protestato con una grande manifestazione nazionale, che è stata attaccata dalla polizia[38].
Alla luce di queste considerazioni sparse, sulle misere sorti riservate alla funzione dell’avvocatura in Turchia dal regime al potere, forse appare più chiaro il significato e la portata simbolica della lotta intrapresa dai due colleghi detenuti, Aytaç Ünsal ed Ebru Timtik.
[1] E di preciso agli articoli 2,3,9,10,12,13,14,17,19,21,25,26,27.
[2] https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey
[3] https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey
[4] https://rm.coe.int/cets-005-tur-decl-annex-list-of-laws-04-05-2018/16807c80de
[5] During the state of emergency, the Council of Ministers, meeting under the chairpersonship of the President of the Republic, may issue decrees having the force of law on matters necessitated by the state of emergency. These decrees shall be published in the Official Gazette, and shall be submitted to the Grand National Assembly of Turkey on the same day for approval; the time limit and procedure for their approval by the Assembly shall be indicated in the Rules of Procedure.
[6] https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_arrested_mayors_in_Turkey
[7] https://www.hdp.org.tr/en/civilian-losses-and-assaults-at-hdp-offices-in-numbers-law-commission-report-17-june-26-august/8919/
[8] https://www.hdp.org.tr/en/attacks-against-the-peoples-democratic-party-since-september-6th-2015/8920/
[9] https://undocs.org/pdf?symbol=en/A/HRC/45/NGO/89
[10]Demirtaş è imputato in vari procedimenti e rischia condanne per un totale di 142 anni di reclusione. L'imputazione a suo carico è stata resa nota solo mesi dopo l'inizio della detenzione. Le accuse includono l'essere tra i fondatori del PKK, sebbene Demirtaş avesse solo cinque anni quando fu fondato il PKK. Le prove a suo carico derivano dai suoi discorsi pubblici, interviste ai media e persino dalla sua partecipazione alle celebrazioni kurde del Newroz. Al processo di Demirtaş è stato impedito a tutti gli osservatori stranieri di entrare nell'edificio del tribunale. Il tribunale si trovava in un edificio appositamente costruito in una prigione ad alta sicurezza ad alcuni chilometri da Ankara, per l'occasione circondato da polizia armata, cannoni ad acqua e con aree riservate ai membri dell'AKP, incoraggiati ad intimidire gli osservatori. Demirtaş ha condotto l'ultima campagna elettorale dal carcere, attraverso messaggi videoregistrati e sottoposti al vaglio della censura, telefonate e lettere.
[11] https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/AnAssessmentReport.pdf
[12] https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/IPUdecision.pdf
[13] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2016)027-e , parr. 78 e 80.
[14] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=003-6255318-8141028
[15] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Sentenza-Cedu-Selahattin-Demirtaş-deve-essere-scarcerato
[16] B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 136. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[17] Human Rights Foundation of Turkey, “Akademisyen İhraçları: Hak İhlalleri, Kayıplar ve
Güçlenme Süreçleri Raporu”, November 2019, https://tihvakademi.org/wp-content/uploads/2020/02/akademisyenihraclariy.pdf .
[18] https://journals.sagepub.com/pb-assets/AcademicsForPeace-March2019%20%281%29.pdf Si veda anche: https://dipec.wp.unisi.it/wp-content/uploads/sites/14/2017/02/GROPPI-Universit%c3%a0-in-Turchia-che-fare-250217.pdf
[19] https://en.wikipedia.org/wiki/Academics_for_Peace
[20] European Commission, 2018 Turkey Report, 17 April 2018, https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/sites/near/files/20180417-turkey-report.pdf , p. 23.
[21] https://drive.google.com/file/d/1OvlRz8Gg5EEFaIUaiP_bJtwzD281X0OT/view , p.1.
[22] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2017)005-e
[23] Per una lettura più approfondita si rimanda a: http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/05/chiappetta.pdf .
[24] Human Rights Foundation of Turkey, Activity Report (June 2017-June 2018), 2 June 2018, https://
tihv.org.tr/wp-content/uploads/2019/07/%C3%87al%C4%B1%C5%9Fma-Raporu-2018_tihv.Pdf , p. 9-12; Human Rights Watch, “In Custody: Police Torture and Abductions in Turkey”, 12
October 2017, https://www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/turkey1017_web_0.pdf.
[25] İnsan Hakları Derneği, “2017 İnsan Hakları İhlalleri Raporu”, https://www.ihd.org.tr/2017-insan-haklari-ihlalleri-raporu-ohal-altinda-gecen-bir-yil/; Human Rights Watch, “In Custody:
Police Torture and Abductions in Turkey”, 12 October 2017, https://www.hrw.org/sites/default/
files/report_pdf/turkey1017_web_0.pdf.
[26] https://www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/688046/Rapporto+febbraio+2020+dell%E2%80%99associazione+Arrested+lawyers+Initiative+sulla+persecuzione+di+massa+degli+Avvocati+in+Turchia+-+INGLESE.pdf/a2253747-2655-44aa-bb5e-2c3a5bd1c64e
[27] Art. 6 d.e. 667.
[28] Art. 3 d.e. 668.
[29] Art. 1 e 5 d.e. 676 e d.e. 696.
[30] Art. 2 d.e. 676.
[31] The Arrested Lawyers Initiative, The Rights to Defense and Fair Trial Under Turkey’s Emergency Rule, https://arrestedlawyers.files.wordpress.com/2018/02/the-rights-to-defense-fair-trialin-turkey.pdf, p. 10.
[32] https://lawyersforlawyers.org/en/levent-piskin-acquitted/
[33] https://www.reuters.com/article/us-turkey-rights-homosexuality-idUSKCN2291LE
[34] Il problema è ampliamente affrontato in questa pubblicazione, p. 23 ss.: https://www.tahirelcivakfi.org/storage/files/ae36e3a1-90bd-44bf-8817-08321ade8533/Ruhsatsiz-Avukatlar---INGILIZCE-(1).pdf
[35] Ibidem, p.70.
[36] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2020/06/30/turchia-in-parlamento-contestata-riforma-di-ordini-avvocati_045bab14-cf6b-43a8-a1e4-57d4eab0488f.html
[37] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2020)029-e
[38] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/06/22/turchia-marcia-di-protesta-degli-avvocati-contro-Erdoğan-bloccata-dalla-polizia-le-immagini/5844030/
L'anno della pandemia e del distanziamento sociale volge al termine.
In Italia un'intera generazione è scomparsa ma quali saranno gli effetti del lutto? Quali saranno gli effetti economici della chiusura protratta delle attività produttive ? Delle scuole e dei luoghi di cultura?
Giustizia Insieme prosegue gli approfondimenti dedicati agli effetti della pandemia per fotografare e stimolare una riflessione comune - come abbiamo scritto ieri- su quell’incredibile esperimento sociale che, tra le altre cose, è stato il lockdown.
Oggi affrontiamo il tema della cultura e della formazione (La formazione ai tempi della pandemia).
Il tema segue gli approfondimenti di ieri su diseguaglianza (Gli effetti della pandemia su diseguglianza e crescita economica) e educazione (Gli effetti del lockdown su bambini e adolescenti).
Effetti della pandemia sulla cultura
Michela Petrini e Laura Reale intervistano lo scrittore ERRI DE LUCA
1.La pandemia in corso ci ha imposto il distanziamento sociale e relazioni virtuali, ma ha anche costituito l’occasione per accelerare processi già in corso, con particolare riferimento alla digitalizzazione avvenuta nel mondo del lavoro. Anche nel settore artistico e culturale sono stati messi a disposizione un’enorme quantità di contenuti in formato digitale enfatizzando l’importanza del web quale spazio civico, piazza ove è possibile trovare l’esperto d’arte ma anche il neofita. Possiamo veramente affermare che, così, la cultura abbia resistito alla crisi in atto e sia oggi più “fruibile” ? Siamo di fronte alla stessa “esperienza sensoriale” oppure si è modificato il rapporto dell’uomo con l’arte? Quale può essere in questo contesto digitale il ruolo nuovo dei luoghi di cultura?
La cultura non ha luoghi, si produce ovunque e di preferenza nelle periferie. Nei periodi di oppressione, di restrizioni, aumenta di valore. Prendo a esempio la prigione, un concentrato di isolamento dal mondo di fuori e di reclusione: la lettura di un libro aumenta di intensità, di protezione. Un libro davanti al naso fa scomparire la cella e permette anche di non sentire il rumore e l’odore intorno. Così fa l’offerta di cultura alle persone in stato di limitazioni, facendo aumentare per esempio la loro richiesta di libri alle biblioteche comunali e alle librerie. Perciò questi luoghi devono restare aperti e omologati alle farmacie.
2.Nel periodo del lockdown abbiamo assistito a flashmob spontanei in cui espressioni artistiche popolari e condivise, come le canzoni cantate dai balconi dei condomini, gli striscioni ed i disegni dei bambini appesi alle finestre, sono diventate il canale per una socializzazione a distanza, capace di ricostruire i rapporti comunitari ed identitari tra la popolazione. Queste sono, a suo avviso, manifestazioni di un processo duraturo, oppure il frutto occasionale di un contesto, al contrario, in cui individualismo ed egoismo stanno avanzando sempre di più?
Sono offerte spontanee di condivisione dalle proprie stanze, balconi. Ho partecipato a un programma dal titolo “The Decameron 2020 “ su canale YouTube, dove degli scrittori di varie parti del mondo offrono gratuitamente una breve storia relativa al loro isolamento e altrettanti attori e attrici la interpretano filmandosi dalle loro abitazioni. Il mio racconto per esempio è stato letto dall’attore inglese a Julian Sands. Tutti i filmati hanno sottotitoli in varie lingue. Dunque una collaborazione spontanea tra varie specialità, comprese quelle dei traduttori, svolte per offrire un intrattenimento alla platea del mondo rinchiuso. Si tratta per me di intensificate e non depotenziate socialità.
3.La scuola può definirsi una grande palestra di democrazia in cui la crescita culturale è costituita da un complesso di fattori, dal saper condividere spazi, luoghi, idee con gli altri, dibatterne e capirle insieme in sorta di grande opera “collettanea” che non annulla ma valorizza l’individuo. Don Milani affermava che la scuola “siede tra il passato ed il futuro e deve averli presenti entrambi”. Le generazioni più sacrificate da questo lockdown sono senza dubbio i più giovani, dai bambini della scuola materna agli adolescenti i cui luoghi di formazione, le scuole, sono stati chiusi per un periodo di tempo prolungato. Ancora oggi si assiste un massiccio ricorso alla didattica a distanza. Tale situazione ha determinato o determinerà secondo lei diseguaglianze sociali o comunque amplificato quelle già esistenti?
La scuola pubblica resta un luogo che, almeno nelle sue aule, cerca di praticare un’uguaglianza. Nelle lezioni a distanza invece l’allievo che si trova in condizioni abitative sovraffollate, risente della differenza con quello che ha migliori condizioni. La scuola ha tutte le possibilità di garantire un controllo sanitario al suo interno, non sono le sue aule a costituire assembramento contagioso, ma i mezzi di trasporto per raggiungerle. Siamo in un tempo sperimentale in cui le misure di contenimento dipendono dagli investimenti per migliorare comunicazioni e loro condizioni sanitarie. In simili periodo bisogna immaginare e credo che la nostra comunità sia attrezzata per adeguarsi alle necessità, per mentalità noi italiani siamo elastici, sopportiamo meglio le tensioni. Su scala di mondo ce la stiamo cavando meglio di altre nazioni.
4. Giovanna Melandri, presidente della fondazione Maxxi, ha lanciato sulle pagine del settimanale “L’Espresso” l’idea di rendere deducibili dalle tasse le spese per cinema, spettacoli teatrali, concerti e musei, come quelle per i farmaci, sulla base della convinzione che “la cultura fa bene” e che l’accentuazione delle disuguaglianze economiche e sociali prodottasi in questa fase storica potrà, in futuro, forse inibire a molti l’accesso alle tradizionali forme di arte. Esiste, secondo lei, un diritto alla cultura? E come andrebbe declinato?
Come chiedere se esiste un diritto alla felicità, che si trova del resto scritto nella costituzione americana. Da parte mia credo che la felicità sia un dovere. Va perseguita con impegno quotidiano, insieme al proprio miglioramento culturale.
5. La cultura diffusa e partecipata e la cultura del territorio. Si vanno diffondendo nel Paese i viaggi della cultura, gli itinerari turistici allietati da lettura di autori che aiutino a comprendere la bellezza del territorio del paesaggio, della storia dei luoghi del passato. Qual è il ruolo della società civile rispetto alla tutela di questo patrimonio culturale? Qual è in questo contesto il ruolo degli artisti?
Siamo il paese che ha in deposito e in consegna il più vasto patrimonio culturale del mondo. La nostra specialità dipende da questo lascito e dalla variegata bellezza del territorio e del clima: questa è la nostra offerta sul mercato del mondo. Il ministero della cultura e del turismo dovrebbe essere il principale destinatario di fondi. Al contrario è l’ultimo, a dimostrazione di incapacità di lungimirante pensiero politico ed economico. L’accesso ai luoghi d’arte, alle manifestazioni culturali dovrebbe essere gratuito, il cinema, il teatro, le librerie dovrebbero essere tutelati come siti d’interesse strategico nazionale
6. L’arte ha sempre rappresentato un avamposto per interpretare la complessità del presente. Quale insegnamento può dunque trarsi dal mondo della cultura, a suo giudizio, da questa esperienza pandemica?
Gertrude Stein diceva di Picasso che l’artista non è un anticipatore di tempi futuri, ma il primo ad accorgersi di quello sta accadendo nella sua generazione. Per ora non mi risulta che si sia manifestata questa specie di personalità individuale o collettiva, riguardo a questa epoca che ha sostituito al vertice gli economisti con i medici.
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia - Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Prima: Essere giovani avvocate in Turchia
Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro.
Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto.
Ma nel cuore/nessuna croce manca.
È il mio cuore/il paese più straziato.
(G.Ungaretti, Porto sepolto)
Ebru ci ha lasciato un’eredità impegnativa, interrogarci sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti e dello stato di diritto.
Per capire il suo gesto, occorre andare indietro nel tempo e capire le radici della scelta di dedicarsi all’avvocatura, in una società in rapido movimento eppure terribilmente statica nelle dinamiche di repressione del dissenso.
Cosa significa essere giovani avvocate/i in Turchia dopo i fatti di Gezi Park? Come ha vissuto l’avvocatura turca l’esperienza dello stato di emergenza dopo il fallito colpo di stato? Perché Ebru ha scelto il digiuno fino alla morte? Il suo gesto ci parla di noi?
Tre approfondimenti con gli occhi di un’avvocata ed osservatrice internazionale, che in Turchia può ritornare solo con la memoria, interdetta dal ritornarvi fisicamente proprio in ragione della sua stretta collaborazione con i colleghi turchi.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il ruolo dell’avvocatura in Turchia - 3. Essere giovani avvocati in Turchia oggi - 3.1. Memorie d’infanzia - 3.2. La ricerca di un riscatto nella difesa degli ideali democratici - 3.3. La persecuzione per la tutela giurisdizionale dei diritti umani.
1. Premessa
Sono stata osservatrice internazionale in Turchia per quattro anni, prima di essere respinta alla frontiera con divieto di reingresso. In quei quattro anni, alle volte anche una o più volte al mese, mi sono recata in Turchia per osservare le udienze di processi in cui i nostri Colleghi erano (e sono) imputati con accuse gravissime, reati di terrorismo o contro l’unità dello stato, per il solo motivo di aver svolto la loro professione di avvocati. Ho conosciuto i colleghi imputati ed i loro difensori, ho partecipato alle riunioni dei collegi difensivi, ho letto capi di imputazione, verbali di udienza, sentenze, ed insieme a loro ho anche attraversato le riforme legislative e quelle politiche che il Paese stava vivendo, osservando il ruolo svolto dall’avvocatura in quella società complessa ed in movimento.
Ho conosciuto avvocati, giudici, giornalisti, parlamentari, sindaci, accademici, attivisti per i diritti umani, insegnanti, gente comune della capitale, dei grandi centri metropolitani e delle cittadine curde, ed anche nostri concittadini expat. Ho imparato qualche parola di turco, e la lingua curda fino al livello A2. Ho osservato elezioni svolte sotto la minaccia armata, e la vita nei villaggi e nei quartieri curdi sopravvissuti al regime di coprifuoco, alla fine del processo di pace, mentre dall’altro lato del confine prima imperversava la resistenza dei curdi a Daesh (Isis), e poi si susseguivano le operazioni militari turche per il controllo e l’occupazione del territorio siriano ed iracheno sottratto dai curdi al controllo dell’Isis (Scudo dell’Eufrate, Peace Spring, Ramoscello d’Ulivo). Ho incontrato le profughe yezide nei campi di accoglienza ufficiali e non ufficiali della Turchia, del Rojava, del Kurdistan iracheno. Ho partecipato a matrimoni, funerali, feste di compleanno, manifestazioni, seminari. Ho partecipato a conferenze nazionali ed internazionali, ho rilasciato interviste e scritto articoli e rapporti che sono finiti sui tavoli dell’ONU e del Parlamento italiano[1].
Ciò di cui sono stata testimone in Turchia, ha segnato indelebilmente la mia vita privata e professionale. Non è facile scriverne, e non è questa la sede dove poterlo fare compiutamente. Ad essere del tutto onesta, parlare e scrivere di Turchia per me significa ogni volta mettere sale su di una ferita ancora aperta. E’ una scelta tanto dolorosa quanto inevitabile, quella di non dimenticare, di non volgere altrove lo sguardo ed anzi puntarlo proprio lì, sempre. Dolorosa perché richiama alla mente l’attualità della sofferenza di molti colleghi conosciuti, stimati professionisti oggi in carcere, o a rischio di detenzione in ragione dei procedimenti pendenti, e per le violenze che continuano indiscriminate nei confronti della popolazione civile curda, delle persone lgbt, dei diversi gruppi religiosi ed etnici presenti nel Paese e più in generale dei gruppi di opposizione al regime attuale.
Dopo il mio respingimento ho preso l’unica decisione per me possibile, quella di mantenere dritto il timore, e continuare a segnare la rotta con direzione Turchia, sebbene non potessi più navigare in quelle acque agitate.
La situazione è peggiorata incredibilmente, e la rete di solidarietà internazionale costruita grazie alle strette relazioni intrecciate con i colleghi turchi, ha consentito di squarciare il velo sulle quotidiane negazioni del diritto alla difesa, sulle violazioni dei diritti dei detenuti, sulle torture e sui crimini contro l’umanità che ad oggi si stanno consumando a casa dei nostri vicini. Rendere queste violazioni di pubblico dominio e non smettere mai di cercare giustizia è stato il mio giuramento. Farlo in quanto avvocata ed insieme alle realtà nazionali ed internazionali dell’avvocatura è stato il mio obiettivo.
Chi era Ebru Timtik, e perché abbia scelto di intraprendere un digiuno fino alla morte, non lo si può capire leggendo la sua biografia su Wikipedia o i coccodrilli sui giornali. Per capire il suo gesto, occorre capire cosa significhi in generale scegliere di essere avvocate/i in Turchia, ed in particolare cosa significhi oggi, per i giovani della mia generazione, indossare la toga in quel Paese. Mi scuserete quindi, se nel ricostruire questi ultimi anni, mi soffermerò sul ruolo dell’avvocatura, lasciando in secondo piano la non meno grave e sistematica persecuzione (e resistenza) di giornaliste/i, magistrate/i, uomini e donne di cultura e della politica.
2. Il ruolo dell’avvocatura in Turchia
L'assenza di separazione tra il potere governativo e quello giudiziario ha sempre costituito un grave vulnus all'indipendenza della magistratura in Turchia ed al rispetto dei principi del giusto processo e del diritto alla difesa.
Nonostante la riforma costituzionale del 2010, e la creazione del Consiglio superiore dei giudici e dei procuratori (HSYK), persistevano criticità strutturali che già furono documentate e censurate dalla Relatrice Speciale dell'ONU per l'indipendenza di giudici e degli avvocati nel suo rapporto sulla missione in Turchia del 2011[2].
Già allora la Relatrice notava che “L'aumento del numero di casi di arresto, detenzione e di avvio di indagini per accuse legate al terrorismo di avvocati che difendono individui accusati di terrorismo è di particolare interesse per lo Special Rapporteur. Il Principio fondamentale n. 18 sul ruolo degli avvocati prevede che gli avvocati non siano identificati con i loro clienti o le cause dei loro clienti come risultato dell'adempimento delle loro funzioni‖ ed il principio n. 20 afferma che gli avvocati godono dell'immunità civile e penale per le dichiarazioni pertinenti rese in buona fede nelle memorie scritte o orali o nelle loro apparizioni professionali dinanzi ad un tribunale, o altra autorità legale o amministrativa. Questi principi sono tra i più violati su base quasi quotidiana, poiché è tutt'altro che raro che vengano avviate indagini contro avvocati sulla base di un loro presunto collegamento o favoreggiamento delle presunte attività criminali dei loro assistiti. Purtroppo ciò sembra che avvenga sempre più spesso in Turchia”[3].
Parole profetiche, in quanto l'utilizzo politico del sistema giudiziario ha reso possibile, specialmente dopo la grande manifestazione popolare di Gezi Park, una serie di indagini che hanno colpito avvocati, difensori di giornalisti e attivisti per i diritti umani, per il solo fatto di avere esercitato le loro funzioni difensive, assimilando il loro ruolo a quello dei propri assistiti, specie quando accusati di reati politici, di attentare all'unità dello stato o di terrorismo.
A partire da Gezi Park, le continue riforme alla legislazione antiterrorismo e l'estensione dei poteri di polizia hanno permesso il perfezionamento di un diritto penale del nemico volto a criminalizzare ogni forma di dissenso.
Ed infatti la persecuzione di giornalisti, attivisti politici e magistrati e la sistematica violazione dei diritti umani delle “minoranze” è iniziata ben prima del colpo di stato del 2015, che ha consentito esclusivamente la legittimazione e l'estensione di tali pratiche attraverso l'imposizione dello stato di emergenza[4].
3. Essere giovani avvocati in Turchia oggi
3.1. Memorie d’infanzia
Per capire quello che è successo ad Ebru Timtik occorre comprendere chi sono le/i giovani avvocati attivi in prima a linea a difesa dei diritti umani in Turchia, e perché hanno scelto di dedicarsi a questa professione.
La Turchia ha attraversato momenti molto bui nella sua storia recente. La violenza di stato è stata rivolta nei confronti delle “minoranze” etniche, religiose, politiche. Una violenza brutale, sproporzionata ed al di fuori della legge, alla quale anche molti bambini hanno assistito, della quale hanno subito le conseguenze, e che ha generato nella memoria collettiva dei traumi trasmessi intergenerazionalmente, ed al contempo la voglia di vivere in una società diversa, di pace, tollerante.
I bambini e le bambine le cui vite sono state segnate da questi traumi[5], crescendo si sono trovati davanti a una scelta, per raggiungere l’obiettivo di una società migliore, e più giusta con i deboli. Questa scelta, come mi è stato riferito in uno dei miei viaggi, per molti è stata tra il diventare avvocato e lottare per la democrazia, o arruolarsi tra le file della lotta armata.
Ho ascoltato molte storie sull’infanzia dei miei colleghi e delle mie colleghe: alcune di discriminazione generale, altre davvero terrificanti. Chi di loro aveva visto da bambino la loro madre o la loro sorella stuprata dai militari davanti agli occhi, chi aveva avuto parenti senza nessuna colpa, se non quella del loro orientamento politico, scomparsi e poi ritrovati dopo giorni e giorni di ricerche torturati nelle stazioni di polizia, e poi detenuti per anni prima di essere assolti, o morti in carcere senza mai uscirne. Chi era stato costretto a seguire la famiglia, esiliati nella grande metropoli, allontanati dai villaggi natii dai famigerati guardiani del villaggio. Quelli come me nati all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, non potevano parlare la loro lingua natale, il curdo. E’ stato vietato dopo colpo di stato del 1980, fino al 1991, così come era vietata qualsiasi “circolazione e pubblicazione di idee” nella stessa lingua. Furono cambiati i nomi dei villaggi e delle città: così Gever divenne Yuksekova, Amed fu ribattezzata Diyarbakir, e così via. Persino i nomi delle persone, dei monti e dei fiumi non potevano più essere in curdo. Alcuni di loro, da adulti, hanno scelto di riappropriarsi delle loro radici, studiando la lingua all’Istituto di cultura curda (chiuso per decreto durante lo stato di emergenza), altri apprendendola in carcere, come una collega, oggi parlamentare, che vi era ingiustamente finita per oltre due anni, per il solo fatto di far parte del team difensivo di Abdullah Ocalan, senza mai averlo incontrato.
Cito le memorie della collega turca in esilio volontario a Vienna, Serife Ceren Uysal: “Almeno per la mia generazione in Turchia, ciò a cui abbiamo dovuto assistere durante la nostra infanzia e la nostra giovinezza ha determinato la posizione che abbiamo preso nella nostra vita professionale.
Immagina un bambino curdo che è stato sottoposto a migrazione forzata, che ha visto suo padre, suo zio o altre persone nel suo villaggio essere giustiziati a colpi di arma da fuoco. Quel bambino curdo aveva bisogno di nascondersi sotto il letto durante le notti per essere protetto dalla caduta dei proiettili ... Quante notti? Non lo so perché questa non è la mia storia, non l'ho mai vissuta. Posso solo immaginare quanto sia doloroso, e posso solo immaginarlo attraverso gli occhi dei miei colleghi che hanno vissuto queste situazioni.
Ad esempio, pensa a un altro bambino. Questo bambino potevo essere io o migliaia di altri avvocati turchi. Suo zio, che era un insegnante, è stato rapito di notte da casa da uomini armati e mascherati. Tutta la famiglia lo ha cercato nelle stazioni di polizia per 10 giorni. Le informazioni ufficiali sono state ottenute dopo 10 giorni. Quando lo hanno visitato dopo 10 giorni, lo zio alto e forte non poteva stare in piedi a causa delle torture a cui era stato sottoposto. Tuo zio, che ti accarezza i capelli e ti abbraccia ogni volta che ti vede, non ha la capacità di alzare la mano. Sono passati dei mesi ... Tuo zio è ancora in prigione. Tutti in famiglia sono infelici. Tuo cugino che è più giovane di te non capisce. Furioso ... Mesi dopo, lo zio fu assolto.
Cosa resta nella memoria di quel bambino? Forse la paura rimane. così come il desiderio di fare qualcosa contro l'ingiustizia. Questo bambino diventerà un avvocato e cercherà di impedire che altri zii vengano torturati. Diamo un nome a questa bambina e chiamiamola Ebru Timtik!”[6].
Sono memorie che lasciano paura, rabbia e sete di giustizia. Erano gli anni Ottanta e Novanta, gli anni delle sparizioni forzate, delle torture di stato e degli omicidi politici nei confronti di chiunque curdo o comunista, giornalista o sindacalista, fosse sospettato di essere entrato in qualsiasi modo in contatto con organizzazioni sovversive, in particolare con il PKK[7].
Human Rights Watch tra il 1992 e il 1996 aveva contato almeno 500 sparizioni forzate[8], 800 secondo il movimento che ancora oggi chiede verità e giustizia, quello delle “madri del sabato”[9]. Circa duemila villaggi curdi in quel periodo furono militarizzati e distrutti, provocando oltre due milioni di rifugiati[10]. La Turchia ha ricevuto 34 condanne dalla CEDU solo per le sparizioni forzate avvenute in quegli anni[11], molte delle quali rimaste ineseguite.
3.2. La ricerca di un riscatto nella difesa degli ideali democratici
I bambini che sono cresciuti con questi ricordi negli occhi, con questo sradicamento, hanno scelto di essere avvocati per farsi agenti di pace, per combattere le ingiustizie con le armi del diritto e dei diritti umani, per difendere gli ultimi dagli abusi di stato, per estirpare i germi del nazionalismo e contribuire a creare, per sé e per gli altri, un Paese democratico, laico, rispettoso delle diversità. Hanno una profonda cultura umanistica ed internazionale, e cercano di attingere all’esperienza di chi altrove nel mondo prima di loro ha usato le armi dei diritti umani per rendere un mondo migliore. Molti di loro sono politicamente impegnati e fanno parte di numerose associazioni a tutela dei diritti umani. Rimasi stupita, alla mia prima osservazione, nel vedere un giovanissimo collega il quale, saputo che ero italiana, si avvicinò a me e mi mostrò raggiante le lettere dal carcere di Gramsci, che stava leggendo con entusiasmo. Rimasi addirittura esterrefatta quando poi sentii un collega turco citare durante un’arringa la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale italiana sul principio di colpevolezza.
Le immagini della loro infanzia che quei bambini, oggi avvocati, hanno conservato nella memoria, con l’interruzione del processo di pace, nel marzo 2015, drammaticamente si sono ripresentate ai loro occhi, dapprima come nefasti presagi e poi come inquietanti realtà. Lo scenario si è ripetuto uguale, con le sparizioni forzate[12] e le operazioni antiterrorismo che dal 2015 al 2016 si sono svolte nel sud-est della Turchia, con l’imposizione in via amministrativa di coprifuoco ed attività armate, e che hanno afflitto tutta la popolazione in 32 distretti (a maggioranza etnica curda, bacino di voto del partito di opposizione HDP, che alle elezioni del 2015, avendo superato la soglia di sbarramento con il 13% dei voti aveva impedito ad Erdoğan di ottenere la maggioranza necessaria a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale)[13]. Secondo l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, queste “operazioni anti-terrorismo” hanno afflitto 1,6 milioni di persone e provocato almeno 355000 profughi interni, in conseguenza della distruzione operata nel corso delle operazioni militari[14]. Oltre 2300 civili sono stati uccisi[15], a parte i combattenti ed i militari morti nel conflitto. Crimini contro l’umanità, che hanno colpito indiscriminatamente i civili, che ho avuto modo di documentare direttamente in diverse missioni di osservazione[16], mio malgrado.
Se si riescono a ricostruire le tappe che hanno portato all’immane tragedia di quegli anni, e le conseguenze del conflitto in termini di perdite di vite umane e di danneggiamento di beni, ciò che non si riesce a spiegare è la profonda tragedia del vedere una popolazione, cittadini di un Paese del Consiglio d’Europa, colpita in maniera sproporzionata, ed illegittimamente, dalle autorità del Paese che dovrebbe proteggerli, con crudeltà, a titolo di punizione collettiva di un intero gruppo sociale, senza ottenere protezione sufficiente dalle autorità sovranazionali, per impedire quello che alcuni hanno definito un vero e proprio tentativo di genocidio culturale dei curdi, ancora in atto[17].
Immaginate voi l’effetto che può fare, vedere i propri concittadini ed i propri famigliari in stato d’assedio, la propria città ed il proprio quartiere rasi al suolo, i propri vicini ammazzati dai cecchini dell’esercito, dai propri connazionali, in nome di una lotta al terrorismo in cui essere curdo equivale ad essere terrorista, sicché la punizione arriva senza processo ed è collettiva, in uno Stato che pure fa parte del Consiglio d’Europa, e che per un simile spargimento di sangue neppure è ricorso alla proclamazione dello stato d’emergenza, assegnando ad una figura prefettizia di diretta nomina governativa il potere di stabilire i limiti temporali e territoriali del coprifuoco, in assenza di qualsiasi base legale[18].
Immaginate voi la responsabilità che ci si deve assumere nei confronti dei propri cari, dei propri compaesani, per cercare la giustizia, in un mondo che non ha nulla di giusto, in un crescendo di disumanità che annulla il confine tra quello che i curdi siriani subiscono dall’Isis a Kobane, e quello che i militari e paramilitari turchi fanno ai curdi di Cizre, Şırnak, Nusaybin, Silvan, Yuksekova...
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo ai vostri colleghi e vicini di casa che vivono con voi a Istanbul o nella capitale, e che non hanno mai messo piede in Bakur (il sud-est della Turchia popolato dai curdi) e non hanno la più pallida idea di quello che là si sta consumando, per via della censura.
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo a colleghi europei che nel frattempo, ignari di ciò, magari pianificano una bella vacanza ad Antalia o una visita all’alba sul monte Nemrut.
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo a un Giudice europeo il quale ritiene insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ovvero umanitaria in favore di un richiedente asilo curdo, perché “nel paese non vi è una situazione oggettiva che mette a rischio i diritti umani”…
Il Governo, nel suo bollettino quotidiano, aggiorna sul numero di “terroristi” che vengono “neutralizzati” nelle operazioni antiterrorismo. Io mi sono sempre espressa pubblicamente affinché i giornalisti italiani non utilizzino questo termine proprio della comunicazione di regime turca. Che cosa significa “neutralizzati”? Significa ammazzati a sangue freddo in operazioni militari. Non arrestati, fermati, detenuti e sottoposti a processo. A questo dovrebbero servire, in uno stato di diritto, le operazioni antiterrorismo. Allora non si utilizzi il termine neutralizzati, ma uccisi, perché è l’unico idoneo a descrivere la realtà.
Chi sono questi “terroristi” “neutralizzati”? C’è da chiederselo. E’ terrorista una donna disarmata, come Shirin Bilgin, di 37 anni, freddata da un cecchino per essere uscita sul balcone durante il coprifuoco[19]? O una donna disarmata come Selamet Yeşilmen, che era incinta, stava male, e mentre provava a raggiungere il giardino dal secondo piano per chiedere aiuto, insieme a due dei suoi cinque figli, di dieci e quattordici anni, è stata freddata da un cecchino sulle scale, davanti ai suoi figli, che, sebbene feriti, si sono salvati scappando di nuovo in casa[20]? Dopo tutti questi anni, il fascicolo relativo alla morte di Selamet si trova ancora in fase di indagini. Il Pubblico Ministero non ha disposto il rinvio a giudizio, perché, nonostante le testimonianze dei presenti, il referto autoptico e le foto del carrarmato sul luogo del delitto, a suo avviso “non ci sono elementi sufficienti per trovare il colpevole”[21]. Purtroppo l’elenco di attacchi deliberati nei confronti di civili, soprattutto donne e bambini[22], è lungo, e non rende onore alle forze armate turche, rimaste impunite per i crimini contro l’umanità commessi nel corso di queste operazioni.
La realtà è che tutto questo non è neanche lontanamente immaginabile, se non lo si vive, se non lo si vede con i propri occhi. L’incubo di subire le conseguenze di una guerra, ma in un paese che è in pace. L’incubo della morte e della distruzione, per mano di quei militari che sono tuoi concittadini, ma che ti vedono come un nemico da annientare senza scrupoli e senza regole, non in Siria, non in Iraq, ma in un paese che fa parte del Consiglio d’Europa…
Ciò che più mi ha colpito, nel visitare le cittadine colpite dal coprifuoco, nel parlare con le persone, nel raccogliere le testimonianze e nel visionare quelle raccolte dai colleghi turchi, non sono solo le torture e le esecuzioni sommarie, quanto la deliberata umiliazione dei civili durante le operazioni di coprifuoco. Le case di quelli che sono stati allontanati sono state violate e saccheggiate. Sono stati lasciati escrementi umani sui letti. Sperma sulla biancheria intima estratta dai cassetti. Preservativi sporchi di sangue. Scritte nazionaliste sui muri delle case. Cimiteri bombardati. Madri che, in un calvario senza fine, giravano di stazione di polizia in obitori per reclamare la restituzione dei corpi dei loro figli, costrette a passare in rassegna i cadaveri mutilati e torturati di quelli caduti durante il coprifuoco.
Non dimenticherò mai il viso di quella madre che a Yuksekova ci raccontava la storia del suo caro figlio, mostrandoci la sua stanza bruciata, e del riconoscimento del suo cadavere a lungo cercato, dopo oltre un mese dalla perdita del contatto con lui, nell’obitorio. Forse un giorno sarà possibile scrivere apertamente di questi orrori rimasti impuniti, e chiederne conto a chi li ha commissionati, a chi non li ha impediti.
Tanta sofferenza è inimmaginabile, in un paese del Consiglio d’Europa, in tempo di pace. Così come è inimmaginabile che siano stati lasciati morire così tanti civili nell’indifferenza generale dei media e delle istituzioni, disattenti e disinteressati a queste notizie, che pure venivano fatte circolare e documentate dai noi osservatori internazionali e dai giornalisti locali, a costo della loro vita e della loro libertà.
Şırnak, dopo 81 giorni di coprifuoco, non era altro che un cumulo di macerie. Io l’avevo visitata pochi mesi prima, come osservatrice alle elezioni del 1 novembre 2015, insieme ai colleghi originari di quella città. Una città di montagna, di una bellezza che affascina, ma irrimediabilmente turbata da un episodio orribile occorso giusto un mese prima delle elezioni: un ragazzo curdo di 28 anni, un attore, Haci Osman Birlik, cognato della deputata HDP Leyla Birlik, era stato ucciso nella città di Şırnak con 28 corpi di arma da fuoco dalle forze armate turche nel corso delle “operazioni antiterrorismo” del 2 ottobre, ed il suo corpo era stato trascinato da un furgoncino dell'esercito per le strade della città, e poi il video era stato postato sui social media[23]. Un episodio orribile che ha segnato la società civile in maniera indelebile, e che ha spinto molti giovani curdi prima non politicizzati ed estranei alla lotta armata ad unirsi in gruppi di autodifesa nelle città sottoposte a coprifuoco, a difesa della popolazione civile dalla violenza militare. Suo padre è stato processato per propaganda terroristica per aver esibito al funerale la foto del figlio con la scritta in curdo “I martiri non muoiono mai”. Era stato assolto dal Tribunale di Diyarbakir, ma a gennaio 2020 la sentenza è stata ribaltata in sede di appello. Gli avvocati della famiglia avevano sporto denuncia contro Hacı Murat Dinçer, l'ufficiale di polizia che aveva ordinato il trascinamento del corpo del ragazzo, con l’accusa di tortura e maltrattamenti, e per insulto alla memoria del defunto, abuso di autorità e omicidio di primo grado, provando che Birlik era ancora vivo quando era stato legato al veicolo. Nei quattro anni e mezzo da allora, il caso ha avuto uno scarso sviluppo, tuttavia l'ufficiale ha partecipato alle elezioni parlamentari del 2018 come candidato del partito al governo per la giustizia e lo sviluppo. Dinçer ha anche ricevuto un premio dal presidente Recep Tayyip Erdoğan per i suoi servizi a Şırnak[24].Ciò è stato possibile perché con un provvedimento del giugno 2016 era stato disposto, al fine di assicurare impunità agli abusi commessi dalle forze di sicurezza nelle operazioni antiterrorismo, che per iniziare un’indagine nei confronti di un militare impegnato in tali operazioni fosse necessario un permesso accordato dal Governo, e che competente per il giudizio fosse il Tribunale militare.
La notte prima delle elezioni del 1 novembre 2015 mi trovavo a Şırnak in delegazione insieme a due parlamentari italiani, una giornalista ed un’altra collega avvocata. Ricordo nitidamente il coprifuoco, il rumore dei carrarmati in movimento nella strada di sotto, e poi l’operazione di polizia con tanto di elicottero, a meno di un chilometro dal nostro albergo. E in un contesto di militarizzazione totale si svolsero quelle elezioni[25]. Mesi dopo, quando in televisione vidi passare le immagini di Şırnak alla fine del coprifuoco, e su Twitter vidi quel cumulo di sassi che era divenuta la casa di famiglia uno dei miei colleghi, il suo intero quartiere, non trovai le parole per lui. E’ in Turchia che per me i versi di Ungaretti hanno acquistato vita e significato.
3.3. La persecuzione per la tutela giurisdizionale dei diritti umani
Oggi come ieri, alcune delle macro-violazioni commesse nei confronti dei civili curdi sono finite davanti alla Corte EDU[26]. Chi ha promosso questi ricorsi, per ciò solo è stato perseguitato. Come d’altronde tutte/i coloro che hanno documentato quanto occorso durante le operazioni antiterrorismo nel corso dei c.d. coprifuochi ad orologeria nelle città del sud-est curdo, tra il 2015 ed il 2016.
Un giovane collega turco, Ramazan Demir, ha ricevuto minacce ed è stato criticato pubblicamente in ragione dei ricorsi che ha presentato alla Corte costituzionale turca e alla Corte europea per i diritti umani in relazione alle pratiche di coprifuoco in corso nel sud-est regione. Il Pubblico Ministero, tra le condotte contestate, ha inserito anche quella di "denigrare la Turchia a causa dei ricorsi presentate alla Corte europea dei diritti dell'uomo e dei contatti che aveva con avvocati stranieri". Ramazan Demir, prima di essere arrestato, aveva fatto in tempo ad iniziare 50 procedimenti davanti alla Corte europea per i diritti umani. Ad Human Rights Watch ha riferito che a suo avviso l'operazione di polizia e l'arresto degli avvocati, ed il suo in particolare, sia stato un tentativo di impedire loro di adempiere ai loro doveri professionali di avvocati e di diffondere informazioni, anche tramite i social media, circa il coprifuoco generale dal 14 dicembre 2015 al 1° marzo 2016 e le operazioni militari e di polizia contro i gruppi affiliati al PKK nella città sudorientale di Cizre[27]. Demir è stato uno degli avvocati che con maggiore frequenza si era rivolto alla Corte europea dei diritti umani nei mesi precedenti la sua detenzione per conto di clienti i cui parenti erano rimasti feriti e intrappolati a Cizre e che avevano urgente bisogno di assistenza medica. Nel gennaio 2016 la Corte europea aveva ordinato "misure provvisorie", in cinque casi che coinvolgevano persone ferite nei quartieri di Cizre, ordinando alle autorità turche di proteggere la loro vita e la loro integrità fisica. Solo uno dei cinque richiedenti a favore dei quali il tribunale aveva emesso una misura urgente è stato sottoposto a cure mediche[28].
L'ex Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, ha proposto un intervento di terzi nella causa in corso presso la Corte europea che esamina la condotta delle forze di sicurezza a Cizre. Nell’atto di intervento, ha sollevato serie preoccupazioni riguardo al procedimento penale contro Demir che, ha suggerito, si è verificato "sia in primo luogo che incidentalmente, in relazione al suo ruolo legittimo di portare i casi alla Corte"[29]. Infatti, il 15 novembre e il 10 dicembre 2018, subito dopo la partecipazione di Demir, il 13 novembre, alle udienze davanti alla Corte Europea di Strasburgo per conto dei suoi clienti, il Ministero della Giustizia, attraverso la sua sezione per i diritti umani e la Direzione Generale del Diritto e della Legislazione, ha scritto al Pubblico Ministero e all'Ordine degli Avvocati di Istanbul per chiedere l'apertura di un'indagine disciplinare nei suoi confronti. In risposta, il 3 gennaio 2019 l'Ordine degli avvocati di Istanbul ha aperto un'indagine che potrebbe portare alla radiazione di Demir dalla professione legale.
Il processo c.d. “ ÖHD2” nei confronti di Ramazan Demir e di altri 11 suoi colleghi e colleghe dell'associazione ÖHD (avvocati curdi libertari), iniziato nel 2017, è ad oggi ancora pendente[30].
Ma più di tutti, ieri come oggi, c’è un uomo, anzi un avvocato, che ha affiancato le famiglie delle vittime nella loro richiesta di giustizia sia a livello nazionale che davanti alla Corte Edu: Tahir Elçi, uno dei fondatori di Amnesty Turchia, nonché Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, ucciso con un colpo alla nuca il 28 novembre 2015, mentre denunciava i crimini contro l’umanità commessi durante le operazioni antiterrorismo avvenute nel corso del coprifuoco proclamato a più riprese nel quartiere di Sur[31], con il danneggiamento anche di monumenti dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Il suo non è stato un omicidio ordinario, quanto piuttosto una pubblica esecuzione. C’erano tantissime telecamere a riprendere la sparatoria nel corso della quale ha perso la vita, perché è avvenuta durante una conferenza stampa all’aperto. La conferenza stampa si è svolta davanti ad uno storico minareto danneggiato dalle operazioni di sicurezza la mattina del 28 novembre 2015. Durante questa conferenza si è svolto un conflitto armato tra due militanti armati del PKK e la polizia, durante il quale è stato ucciso colpito a morte Tahir Elçi. Il Governo inizialmente aveva accusato del suo omicidio due “terroristi curdi” che erano inseguiti dalla polizia. Le indagini, condotte dai colleghi dei poliziotti coinvolti nella sparatoria, dopo tre anni, si trovavano ad un punto di stallo, ancora contro ignoti, ed era scomparso un frammento di un video che riprendeva il momento dell’omicidio. Così l’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir ha incaricato Forensic Architecture di procedere ad una ricostruzione indipendente dei fatti[32], dalla quale è emerso che i colpi sparati a Tahir Elçi provengono dall’arma di uno dei tre poliziotti coinvolti nella sparatoria. La ricostruzione mostra che, quando i militanti erano ormai fuggiti, i poliziotti scaricavano quaranta colpi in nove secondi in direzione di Tahir Elçi, ed uno di questi lo colpiva alla nuca, determinando la sua morte.
La ricostruzione di Forensic Architecture ha consentito il rinvio a giudizio dei tre poliziotti, che tuttavia sono stati imputati per il solo omicidio colposo, essendo stati sparati i colpi che hanno ucciso Elçi, secondo l’accusa, per “neutralizzare” dei “terroristi del PKK”, uno dei quali è stato rinviato a giudizio per omicidio volontario, ciò in palese contrasto con la ricostruzione di Forensic Architecture, che ha dimostrato come nessuno dei quaranta colpi visibili durante le riprese della scena è stato sparato dai “terroristi del PKK”. Secondo il Pubblico Ministero "Dato che ... la posizione di Tahir Elçi al momento della morte non può essere determinata chiaramente, che il proiettile che ha causato la sua morte non può essere recuperato e che non ci sono filmati del momento in cui è stato colpito, lo è possibile che uno dei proiettili di Uğur Yakışır (militante del PKK) e delle pistole [del secondo militante] Mahsum Gürkan possa aver colpito Tahir Elçi".
Al contrario, secondo la ricostruzione di Forensic Architecture, “nessuno dei quaranta colpi di arma da fuoco che sono visibili o udibili durante il periodo delle riprese (durante il quale più telecamere stavano registrando la scena) sono stati sparati dai due militanti del PKK. Piuttosto, gli unici colpi che avrebbero potuto uccidere Elçi, sono stati sparati da uno dei tre ufficiali che abbiamo identificato”.
Numerose associazioni internazionali di giuristi si sono dette preoccupate del fatto che il caso non stia procedendo in conformità ai principi che disciplinano il giusto processo[33].
Fin dalla prima udienza, che si è svolta il 21 ottobre 2020 alle ore 10, davanti alla 10a Corte penale superiore di Diyarbakir, gli avvocati che rappresentano la famiglia Elçi hanno lamentato che l'indagine si è svolta in violazione del Protocollo del Minnesota, tardivamente, determinando la perdita di prove cruciali, incluso il proiettile che ha ucciso Tahir Elçi, e con l’interrogatorio degli agenti di polizia che erano sulla scena e che hanno sparato il colpo letale solo all'inizio del 2020, più di quattro anni dopo l'omicidio. Inoltre, il pubblico ministero ha rifiutato di ascoltare diversi testimoni presentati dagli avvocati della famiglia di Tahir Elçi e non ha convocato gli agenti di polizia responsabili della pianificazione e dell'esecuzione dell'operazione e del monitoraggio della conferenza stampa. Le registrazioni video delle telecamere di sicurezza intorno alla scena e delle telecamere di sicurezza della polizia nell'area sono state manomesse o non sono state acquisite. Diverse registrazioni cruciali erano mancanti o le parti rilevanti che coprivano il tempo dell'omicidio sono state cancellate.
Il processo è stato rinviato al 3 marzo 2021, con grande apprensione da parte degli osservatori internazionali in quanto già l'udienza dinanzi al 10 ° tribunale penale di Diyarbakir il 21 ottobre 2020 è stata molto problematica perché, anche davanti a così gravi rilievi sulle indagini espressi dalla famiglia di Elçi nell’atto di costituzione di parte civile, la Corte ha rifiutato la richiesta degli avvocati della famiglia di essere ascoltati all'inizio dell'udienza, come previsto dal codice di procedura penale, ed ha declinato di ascoltare di persona gli agenti di polizia imputati, insistendo invece per ascoltarli tramite un sistema di videocomunicazione ufficiale, senza che tuttavia fossero visibili alla famiglia di Tahir Elçi o ai suoi avvocati, perché il piccolo schermo era troppo lontano da loro per essere visto, ed in violazione di legge perché non erano in presenza di un giudice designato al momento del loro esame, sicché non è stato possibile garantire il rispetto delle norme procedurali appropriate, compresa l’identificazione degli imputati. Neppure è stato concesso il controesame alle parti civili. C'erano poi diversi problemi tecnici che rendevano difficile ascoltare la dichiarazione degli imputati, e questi problemi tecnici non sono stati risolti dalla Corte, anche su richiesta degli avvocati della famiglia. In quell’occasione il tribunale ha rifiutato più volte di consentire agli avvocati di parlare e presentare le loro richieste. Ha minacciato gli avvocati e la signora Elçi che, se avessero insistito per parlare, sarebbero stati espulsi dall'aula con la forza. Gli avvocati hanno ricusato i giudici sulla base di questi eventi durante l'udienza. Tuttavia, il Tribunale non si è pronunciato su questa richiesta. Secondo il regolamento di procedura, prima di procedere con l'udienza, il giudice avrebbe dovuto preliminarmente decidere sull’istanza di ricusazione. Ci sono insomma gli elementi per temere che il processo non verrà trattato da un tribunale indipendente, imparziale e competente che sia in grado di stabilire i fatti e la verità sull'omicidio di Elçi, nel rispetto degli standard internazionali in materia di diritto ad un equo processo, ed in conformità con gli obblighi internazionali assunti dalla Turchia.
Suonano profetiche le dichiarazioni rilasciate da Demirtaş, co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP), alla morte dell’amico e collega Tahir Elçi: "Dubitiamo che questo omicidio politico sarà completamente risolto. Abbiamo il diritto di essere dubbiosi. Non potremmo dire addio ad altri amici caduti con la tranquillità che gli assassini saranno arrestati. Abbiamo lavorato affinché questo stato fosse di tutti, e ci stiamo ancora lavorando. L'assassino di Tahir non è lo stato, ma la mancanza dello stato"[34].
Ancora oggi l’opinione più diffusa è che quella di Tahir Elçi sia stata una vera e propria esecuzione dimostrativa, per via non solo delle modalità omicidiarie, ma anche del contesto nel quale sono occorse.
Tahir Elçi era noto per il suo impegno prioritario per la ripresa del processo di pace e la ricerca di una soluzione politica al conflitto curdo. Oltre alle sue difese in qualità di avvocato, era parte o in alcuni casi un membro fondatore di alcune tra le più prominenti organizzazioni non-governative turche, inclusa la Fondazione per i Diritti Umani in Turchia ed Amnesty International Turchia. Nel 2013 ha ottenuto la storica condanna della Turchia da parte della CEDU nel caso Benzer e altri v. Turchia[35], per il bombardamento da parte dei militari turchi di due villaggi con un aereo che, nel marzo 1994, che aveva causato la morte di più di 30 dei parenti stretti dei ricorrenti, ed il ferimento di alcuni dei ricorrenti, nonché la distruzione della maggior parte della loro proprietà e del bestiame. Il governo turco aveva ingiustamente incolpato del massacro il PKK. Prima ancora, negli anni ‘90 Elçi aveva difeso a Cizre i diritti dei curdi detenuti, torturati, e cercato giustizia per le vittime di sparizioni forzate, anche rischiando la propria vita per portare avanti queste azioni giudiziarie.
Ma, al momento dell’omicidio, stava ricevendo reiterate minacce di morte perché circa un mese prima, il 12 Ottobre 2015, durante un’intervista televisiva al canale nazionale della CNN Turk, aveva condiviso le sue visioni della questione curda e sulla fine del processo di pace, dichiarando che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) non dovrebbe essere considerato un'organizzazione terroristica, perché quello tra il governo turco ed il PKK è da considerarsi un conflitto armato esteso alla popolazione Kurda che rivendica la propria identità culturale e civile, oltre che politica (“Anche se alcuni degli atti del PKK hanno natura terroristica, il PKK è un movimento politico armato... È un movimento politico con richieste politiche e con un sostegno molto forte nella società”), sostenendo che una risoluzione pacifica del conflitto richiederebbe il riconoscimento del fatto che il PKK, nonostante la sua documentata storia di violenza, è principalmente un'entità politica, con richieste politiche e con un sostegno significativo tra la popolazione civile del paese[36]. Concetto peraltro oggetto di dibattito giuridico a livello internazionale, che pochi mesi dopo il suo omicidio è stato confermato anche da una sentenza del Tribunale di Bruxelles del 3.11.2016, successivamente confermata anche dalla Cassazione belga[37].
A riprova del suo impegno per una soluzione pacifica del conflitto che infiammava il “Bakur”, il fatto che egli, al crescere dell’uccisione di civili nel corso delle operazioni da parte delle autorità turche, mentre la resistenza popolare alle operazioni si intensificava e si creavano i gruppi di autodifesa armata locali, ancora una volta aveva fatto appello alla calma ed al ritorno al processo di pace tra il governo e il PKK, ed insieme ad altri avvocati, aveva chiesto il permesso di visitare il leader imprigionato del PKK, Abdullah Ocalan, nella speranza che avrebbe lanciato un appello affinché i suoi seguaci smettessero di resistere con le armi. Il governo respinse la sua domanda. Ocalan il 28 settembre 2006 Öcalan aveva fatto rilasciare una dichiarazione al suo legale, Ibrahim Bilmez, in cui chiedeva al PKK di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia, sostenendo la teoria del Confederalismo Democratico[38]. Il Comunicato di Öcalan affermava che "Il PKK non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l'intento di annichilimento" e che "è molto importante costruire un'unione democratica tra i Turchi e i Curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta". Per questo da allora aveva preso parte ai colloqui di pace. Il 27 febbraio 2015 le due parti erano pervenute ad un risultato storico, un accordo in 10 punti c.d. “Accordo di Dolmabahçe”, che prevedeva i pilastri per una soluzione democratica del conflitto. La dichiarazione fu presentata alla stampa internazionale dalle due parti coinvolte, che avevano accettato di iniziare i negoziati nella prigione dell'isola di Imrali con la partecipazione di Abdullah Ocalan ed il gruppo di monitoraggio nominato da Erdoğan e Ocalan. Ma, poco prima delle elezioni, il presidente Erdoğan respinse integralmente la dichiarazione e il processo di dialogo, e, dopo le elezioni nel corso delle quali il partito filocurdo di opposizione HDP ottenne brillanti risultati, iniziò la militarizzazione del sud-est curdo del Paese.
Elçi era un lucido analista delle conseguenze nefaste per il Paese dell’interruzione del processo di pace, e cercava una soluzione democratica e definitiva alla questione curda nel Paese, che evitasse il prolungarsi di quelle violenze nei confronti del suo popolo. Questa a suo avviso era possibile solo attraverso la dismissione della logica del nemico interno, mediante un dibattito pubblico onesto su quanto stava accadendo nel sud-est del Paese, sulla pericolosità dell’escalation di violenza che le operazioni militari avevano innescato. Per questo aveva chiesto di poter visitare Ocalan, per questo aveva rilasciato quell’intervista.
All’intervista sono seguiti il linciaggio mediatico, le minacce di morte, ed a distanza di pochi giorni, il 20 ottobre, l’arresto con l’accusa di aver diffuso "propaganda terroristica" a nome del PKK, reato punito con una pena massima di sette anni e mezzo di reclusione. L'Ordine degli avvocati all’epoca accusò le autorità di "criminalizzare la libertà di parola".
In una lettera congiunta alle autorità turche, the Lawyers for Lawyers Foundation (L4L), Fair Trial Watch (FTW) e Lawyers Rights Watch Canada (LRWC), in occasione dell’arresto dichiararono: “Ci opponiamo fermamente al modo in cui viene trattato il signor Elçi. Gli avvocati, come gli altri cittadini, hanno diritto alla libertà di espressione. In particolare, avranno il diritto di prendere parte alla discussione pubblica su questioni riguardanti la legge, l'amministrazione della giustizia e la promozione e protezione dei diritti umani. Il diritto alla libertà di espressione degli avvocati è esplicitamente stabilito nell'articolo 23 dei Principi Fondamentali delle Nazioni Unite sul ruolo degli avvocati.
Gli avvocati in Turchia, compreso il signor Elçi, svolgono un ruolo fondamentale nel documentare gli eventi che si verificano nel conflitto nel sud-est della Turchia e nel sostenere le vittime delle violazioni dei diritti umani. È essenziale che il prezioso ruolo svolto dagli avvocati in una società democratica come la Turchia sia riconosciuto dal governo turco, soprattutto in tempi difficili come questi. La Turchia è obbligata "a garantire che gli avvocati siano in grado di svolgere tutte le loro funzioni professionali senza intimidazioni, impedimenti, molestie o interferenze improprie" e "non subiranno né saranno minacciati di persecuzione di sanzioni amministrative, economiche o di altro tipo per qualsiasi azione intrapresa conformemente a doveri professionali, standard ed etica riconosciuti”(Articoli 16 e 17 dei Principi Fondamentali). Gli avvocati devono essere in grado di svolgere il proprio lavoro senza temere che ciò possa avere conseguenze negative per se stessi. Il trattamento del signor Elçi si pone in contraddizione con tali principi[39].
Il giorno stesso fu disposta la scarcerazione di Elçi a causa dell’immediata mobilitazione a livello internazionale in suo favore, ma gli venne imposto il divieto di viaggio all’estero fino alla conclusione delle indagini.
D’altronde, già in passato Elçi era stato arrestato e perseguitato in ragione della sua indipendenza di giudizio e di azione professionale, identificato con i propri assistiti del PKK. E la sua integrità e la ricerca di giustizia per il torto subito fu il motivo per cui ottenne l’ammirazione dei colleghi e l’amore del popolo
Tahir Elçi infatti, insieme ad altri avvocati turchi, si era rivolto alla Corte europea per i diritti umani per lamentare che nel novembre e nel dicembre 1993 erano stati detenuti da agenti delle forze dell'ordine con il pretesto di essere coinvolti in attività criminali, ma in realtà perché avevano rappresentato i propri assistiti dinanzi alla Corte per la sicurezza dello Stato ed erano stati coinvolti nel lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani dai medesimi subite davanti alla Commissione Europea contro la Tortura. Tutti affermavano che la loro detenzione era illegale, ovvero era avvenuta in violazione dell'articolo 5 della Convenzione. Alcuni di loro, tra cui Tahir Elçi, lamentarono la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, per essere stati torturati e comunque maltrattati nel corso della detenzione, e dell’articolo 8 della Convenzione ed 1 del Protocollo n. 1, per la perquisizione ed il sequestro di beni arbitrariamente subito al momento dell’arresto.
Tahir Elçi fu arrestato nel suo studio legale di Cizre. I suoi giornali, i suoi computer, i suoi fascicoli, vennero sequestrati. Anche la sua casa fu perquisita. Il trattamento che gli fu riservato fu terribile: “È stato denudato, insultato, minacciato e picchiato. I suoi testicoli sono stati strizzati e l'acqua fredda è stata versata su di lui. Questo è durato circa un'ora. Quindi hanno portato il ricorrente al comando della gendarmeria del distretto di Cizre dove è stato tenuto, bendato, per un paio di giorni in uno scantinato. Successivamente è stato consegnato al comando della gendarmeria provinciale di Diyarbakir.”
Solo dopo due giorni suo fratello è stato avvisato della sua detenzione. Per 15 giorni è stato trattenuto al comando della gendarmeria provinciale di Diyarbakir in regime di incommunicado detention. Ha affermato che durante questo primo periodo di detenzione è stato interrogato sotto tortura riguardo il motivo dei ricorsi che aveva presentato per conto dei clienti alla Commissione. La corrispondenza e la documentazione relativa a tali ricorsi gli sono state messe davanti dai suoi interrogatori. Avrebbe dovuto confessare di avere rapporti con il PKK e di essere un corriere del PKK. Quando si è rifiutato è stato torturato. Gli inquirenti lo hanno aggredito e insultato, in particolare riguardo a uno dei casi che aveva portato alla Commissione riguardante eventi nel villaggio di Ormaniçi. È stato spogliato e lasciato nudo. È stato minacciato di morte se avesse sostenuto l’accusa relativa ai casi di allontamento forzato ed alle sparizioni forzate dal villaggio. Ad un certo punto è stato portato in campagna su un veicolo militare e gli è stato detto che doveva essere ucciso. Tuttavia, si è rifiutato di firmare qualsiasi dichiarazione di confessione, anche dopo essere stato lavato con acqua fredda e dopo che gli avevano schiacciato i testicoli. Nel comando della gendarmeria era costretto a sdraiarsi su un pavimento di cemento, bendato, gli era proibito parlare con gli altri o alzarsi in piedi. Nel giro di 24 ore ha ricevuto una fetta di pane raffermo ed è stato portato in bagno due volte. Una richiesta di altre esigenze da soddisfare era una scusa per ulteriori sessioni di tortura. È stato portato davanti a un pubblico ministero il 10 dicembre 1993, e là gli sono state presentate accuse basate sulle dichiarazioni di un certo Abdülhakim Güven, un pentito del PKK che beneficiava della legge sul rimorso. È stato erroneamente affermato che una rivista e un documento illegali erano stati trovati nel suo ufficio. Suo fratello, Ömer, che era stato presente anche durante la ricerca e aveva controfirmato il rapporto di ricerca, ha potuto confermare questo errore, così come l'altro fratello, Mehmet, che era stato presente anche durante la ricerca. Un falso rapporto di ricerca (una copia inviata via fax non originale) ha soppiantato la versione autentica nel fascicolo del tribunale nazionale. Il ricorrente è stato detenuto in custodia cautelare da un giudice dal 10 dicembre 1993 al 17 febbraio 1994, quando è stato rilasciato dopo un'udienza dinanzi alla Corte per la sicurezza dello Stato. Nonostante le ripetute richieste dei suoi rappresentanti legali, i suoi fascicoli e la corrispondenza della Commissione presumibilmente non gli sarebbero mai stati restituiti. La sua attività professionale è stata irrimediabilmente danneggiata da questi procedimenti, dopo di che si è trasferito a Diyarbakır. Analogo il trattamento riservato ai suoi colleghi.
Nel caso Elçi and others v. Turchia (2013) la Corte riscontrò una violazione degli articoli 3, 5 § 1 e 8 della Convenzione nel trattamento riservato agli avvocati turchi ricorrenti[40].
E’ chiaro perché Tahir Elçi era un faro per gli avvocati turchi in un momento così difficile: perché aveva già navigato in acque burrascose, ed aveva guidato la nave in porti sicuri. Con la sua guida nella denuncia dei crimini contro l’umanità commessi durante il coprifuoco, gli avvocati procedevano sicuri, non cedendo davanti alle indagini, agli arresti, alle intimidazioni. La sua esecuzione pubblica è stata un segnale chiaro rivolto a chiunque fosse intenzionato a prendere il testimone del suo impegno professionale[41]. Nessun avvocato, dopo il suo omicidio, si sarebbe più sentito al sicuro. La risposta è stata collettiva: decine di migliaia di persone al suo funerale, e la sua foto in tutte le manifestazioni dell’avvocatura. Sotto, la scritta “non ti dimenticheremo mai”.
Se Tahir Elçi ha pagato con la morte il proprio impegno professionale, la fedeltà alla propria funzione, l’incorruttibilità della sua indipendenza, non è andata meglio ai difensori del leader del PKK Abdullah Öcalan.
Vale la pena ricordare che Abdullah Öcalan è stato riconosciuto tardivamente rifugiato politico dal Tribunale di Roma. Rapito dai servizi segreti turchi mentre si trovava in Kenya, in Turchia, all’esito di un procedimento sommario nel quale fu enormemente compresso il diritto di difesa, è stato condannato a morte, pena poi modificata nell’ergastolo a vita a seguito dell’abolizione della pena di morte in Turchia, e per dieci anni è stato detenuto da solo nell’isola prigione di Imrali. Dopo l’isola prigione si è popolata di altri cinque detenuti politici, all’esito della visita del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa, che aveva censurato le condizioni di totale isolamento in cui veniva detenuto. Nel 2005, la Grande Camera della CEDU, nel caso Öcalan V. Turkey (Application no. 46221/99) ha stabilito che la Turchia aveva violato gli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo rifiutando di consentire a Öcalan di presentare ricorso contro il suo arresto e condannandolo a morte senza un giusto processo[42]. La richiesta di Öcalan per un nuovo processo è stata rifiutata dai tribunali turchi. Per tutto il periodo di interruzione del processo di pace, ad Öcalan non è stato permesso di ricevere le visite dei famigliari. Nel 2014 la Corte EDU, nel caso nel caso Öcalan V. Turkey n.2 (Application n. 24069/03, 197/04, 6201/06 e 10464/07) ha ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione del ricorrente nel periodo di isolamento totale, e per quanto riguarda la condanna del ricorrente all'ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, constatando che, in assenza di qualsiasi meccanismo di revisione, l'ergastolo inflitto a carico del ricorrente costituiva una condanna “irriducibile” che costituiva un trattamento disumano. La Corte ha inoltre dichiarato che non vi era stata violazione dell'articolo 8 ritenendo legittime le restrizioni applicate al diritto di visita dei famigliari, per motivi di sicurezza e ordine pubblico.
Dal 27 luglio 2011 al 2 maggio 2019 il collegio difensivo di Abdullah Öcalan non è mai stato autorizzato a vederlo. Dal luglio 2011 al dicembre 2017 i suoi avvocati hanno presentato più di 700 ricorsi per visite, ma tutti sono stati respinti[43]. Il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, nel suo ultimo rapporto relativo alla visita effettuata nel 2019 ad Imrali ha esortato le autorità turche “a prendere le misure necessarie per garantire che tutti i detenuti nella prigione di Imralı siano effettivamente in grado, se lo desiderano, di ricevere le visite dei loro parenti e avvocati. A tal fine, si dovrebbe porre fine alla pratica di imporre il divieto di visite familiari per motivi "disciplinari"”[44].
Il 2011 non è una data casuale: allora è iniziata la nuova ondata di persecuzione degli avvocati di Ocalan con il processo c.d. “KCK Lawyers/1”, nel quale sono imputati 46 avvocati, difensori di Ocalan, molti dei quali dopo l'arresto nel novembre del 2011 hanno scontato anni di custodia cautelare in carcere, accusati di essere collegati con la Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), considerata dal governo turco come organizzazione terroristica legata al PKK. Questo processo è solo uno dei processi KCK instaurati in tutto il Paese a seguito di maxi operazioni di polizia che hanno portato in tutta la Turchia all'arresto nel 2009 di oltre 8mila giornalisti, sindacalisti, politici, deputati, sindaci e consiglieri comunali, accusati di fare parte del KCK (ed oggi perlopiù condannati a svariati anni di carcere). Gli imputati di questo processo, tutti avvocati, hanno fatto parte del collegio di difesa di Abdullah Öcalan. Secondo l'accusa gli avvocati trasferivano istruzioni da parte di Ocalan ai suoi sostenitori. La difesa sostiene da sempre l'inconsistenza delle accuse, tenuto conto del fatto che i colloqui tra Ocalan ed i suoi difensori venivano video registrati ed avvenivano in presenza delle guardie carcerarie e, inoltre, che molte prove poste a fondamento dell'accusa sono false oppure sono state assunte illecitamente violando il diritto di difesa (ad esempio intercettazioni telefoniche disposte senza l'autorizzazione dell'A.G.). Questo processo è costruito su prove false: è stato accertato infatti che esso trae origine da indagini operate da polizia giudiziaria e Pubblici Ministeri attualmente indagati e detenuti da vari mesi poiché sono stati condannati per aver confezionato prove false in altri processi. La Corte costituzionale si era pronunciata dichiarando illegittima la Corte speciale che aveva iniziato il processo a carico dei 46 avvocati, che hanno subito una lunga carcerazione preventiva prima di essere rimessi in libertà. A seguito di questa pronuncia il processo e' stato trasferito innanzi al tribunale ordinario di Istanbul, con il numero di procedimento sopra indicato. Nell'udienza del 28 giugno 2016 gli avvocati avevano chiesto l'acquisizione degli atti relativi ai procedimenti che vedevano imputati i pubblici ministeri e il giudice che ha deciso sull'ammissione delle prove nel processo tenutosi davanti al Tribunale speciale, per avere costruito e ammesso prove false in oltre 240 altri procedimenti, e di attendere la pronuncia della Corte Costituzionale circa la (il)legittimità della prosecuzione del processo davanti a una Corte differente. La Corte ha accolto entrambe le istanze dei difensori. Nel corso del 2017 il processo ha subito alcuni rinvii formalmente motivati, tra l’altro, dal fatto che gli atti relativi agli altri procedimenti non erano stati ancora trasmessi nella loro interezza. All’udienza del 6 luglio 2017, tenutasi nonostante l’ennesimo cambio di collegio, circostanza che nel sistema processuale penale turco non determina la necessità di dover riaprire il dibattimento, prima dell’inizio dell’udienza il Tribunale si è rivolto agli osservatori internazionali presenti, dando loro il benvenuto, rimarcando però che la Costituzione turca non prevede la presenza di avvocati stranieri, ammessi solo perché l’udienza è pubblica. La sensazione, condivisa, è che la presenza alle udienze di alcuni processi in Turchia di avvocati dei maggiori Paesi europei, oltre che di alcune rappresentanze diplomatiche, passi tutt’altro che inosservata. L’esito dell’udienza non era scontato, nello scorso mese di aprile infatti il processo a carico degli imputati non avvocati, accusati di far parte del KCK, si era concluso a Diyarbakir con pesanti condanne, fino a 25 anni di reclusione. L’udienza si è svolta in un clima generale reso pesante dalle quotidiane azioni repressive ed i continui arresti di intellettuali, accademici, magistrati, pubblici funzionari, politici dell’opposizione, giornalisti, avvocati e perfino del Presidente della sezione turca di Amnesty International. La difesa in questo processo è compromessa dal fatto che tutti i difensori fanno parte dell'associazione degli avvocati libertari curdi ÖHD, che, in esecuzione del decreto emergenziale del 22 novembre 2016, è stata dichiarata illegale ed i cui beni sono stati confiscati. Da allora la persecuzione nei confronti dei colleghi appartenenti a tale associazione si è intensificata, dando origine anche al processo ÖHD. I colleghi a loro volta indagati per i medesimi reati non possono dunque più far parte del collegio difensivo[45]. Ad oggi il procedimento è pendente.
Paradossalmente (ma non troppo) anche il mio respingimento è legato al solo fatto di aver osservato i loro processi. Pochi mesi dopo il colpo di stato, sono stata respinta alla frontiera, dopo oltre 16 ore di trattenimento, con divieto permanente di reingresso. Nella sentenza di primo grado, confermata fino alla corte costituzionale turca, ed ora all’esame della Corte Europea per i Diritti Umani, si afferma che il provvedimento con il quale sono stata respinta ed è stato vietato il mio ingresso in Turchia è legittimo, a tutela della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, in quanto la sottoscritta, stando alle informazioni fornite dal MIT (Servizi segreti turchi) “ha una stretta collaborazione con gli avvocati turchi e stranieri di Abdullah ÖCALAN, capo di un’organizzazione terroristica, ed ha partecipato alle udienze del processo Kongra-Gel (PKK)/KCK (cioè quello in cui sono imputati gli avvocati di Ocalan) come osservatore internazionale”.
[1]https://www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=assemblea_allegato_odg&idlegislatura=17&anno=2015&mese=10&giorno=02
[2] https://undocs.org/A/HRC/20/19/Add.3 . Si veda anche L. PERILLI, Lo Stato di diritto, l’indipendenza della magistratura e la protezione dei diritti fondamentali: la tragica deriva della Turchia dal 2013, in La magistratura, 16 febbraio 2017, online. http://www.associazionemagistrati.it/doc/2514/lo-stato-di-diritto-lindipendenza-della-magistratura-e-la-protezione-dei- diritti-fondamentali-la-tragica-deriva-della-turchia-da.htm
[3] Ibidem, para. 64.
[4] Per approfondimenti: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p.109 ss. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[5] Soyalp, N. (2019). A transdisciplinary perspective on the historical traumas among armenian, kurdish, and turkish people of anatolia: Transgenerational trauma, “Turkishness,” and the epistemologies of ignorance (Retrieved from https://search.proquest.com/dissertations-theses/transdisciplinary-perspective-on-historical/docview/2334214331/se-2?accountid=9652.
Bolton, P., Michalopoulos, L., Ahmed, A. M., Murray, L. K., & Bass, J. (2013). The mental health and psychosocial problems of survivors of torture and genocide in Kurdistan, Northern Iraq: A brief qualitative study. Torture, 23, 1– 14.
Daud, A., Skoglund, E., & Rydelius, P.‐A. (2005). Children in families of torture victims: Transgenerational transmission of parents' traumatic experiences to their children. International Journal of Social Welfare, 14, 23– 32.
aitz, M., Levy, M., Ebstein, R., Faraone, S. V., & Mankuta, D. (2009). The intergenerational effects of trauma from terror: A real possibility. Infant Mental Health Journal, 30, 158– 179.
[6] https://iadllaw.org/2020/12/a-life-dedicated-to-justice-and-struggle-ebru-timtik/
[7] “Il golpe del 1980 concluse nel modo più drammatico uno dei periodi più bui della storia turca: episodi di violenza tra militanti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, tra maggioranza sunnita e minoranza alevita, nascita del PKK e del terrorismo curdo inizialmente diretto contro rivali tribali e feudali, grave crisi economica, incapacità dei leader politici dell’epoca, Demirel e Ecevit, di affrontare la situazione con una visione politica chiara avevano condotto il Paese in una guerra civile strisciante. La maggioranza della classe media (e non solo) turca accolse il golpe militare con un sospiro di sollievo, come del resto fece anche lo schieramento occidentale. Ma il sollievo durò molto poco, in quanto la svolta autoritaria si rivelò particolarmente pesante per il Paese, con un tentativo in buona parte riuscito di completa depoliticizzazione del Paese: chiusura del Parlamento, scioglimento di partiti, sindacati e associazioni, censura permanente. Non solo i movimenti di estrema sinistra e quelli filoislamici (nella cui nascita qualche anno prima molti vedono la longa manus dei militari nel tentativo di contrastare i primi), ma anche i repubblicani, i nazionalisti e gli attivisti curdi pagarono conseguenze durissime. Dal golpe scaturì poi la Costituzione del 1982, simbolo tuttora vigente di una difficile sintesi islamico-nazionalista filoccidentale in chiave autoritaria che ha plasmato la Turchia moderna ma ha anche contribuito a creare ulteriori tensioni, in particolare aggravando la questione curda e contribuendo al consolidarsi del ruolo chiave del PKK” Fonte: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/940332/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione6-h1_h121 .
[8] https://www.hrw.org/report/2012/09/03/time-justice/ending-impunity-killings-and-disappearances-1990s-turkey ; https://www.hrw.org/sites/default/files/reports/TURKEY933.PDF .
[9] https://en.wikipedia.org/wiki/Saturday_Mothers
[10] "Conflict Studies Journal at the University of New Brunswick". Lib.unb.ca. Retrieved 29 August 2010. Jongerden, Joost (2007-05-28). The Settlement Issue in Turkey and the Kurds: An Analysis of Spatial Policies, Modernity and War. BRILL. p. 82. Human Rights Watch/Helsinki, “Turkey’s failed policy to aid the forcibly displaced in the southeast,” A Human Rights Watch report, vol. 8, no. 9 (D),June 1996. Human Rights Watch, “Displaced and Disregarded: Turkey’s Failing Village Return Program,” A Human Rights Watch report, vol. 14, no. 7 (D), October 2002.
[11] Si veda ad esempio European Court of Human Rights, Osmanoğlu v. Turkey, judgment of 24 January 2008, Sayği v. Turkey, judgment of 27 January 2015, Orhan v. Turkey, judgement of 6 November 2002, ed altri.
[12] E che, dopo il colpo di stato, sono state perpetrate anche in danno dei sospetti gulenisti: https://www.hrw.org/news/2020/04/29/turkey-enforced-disappearances-torture .
[13] https://espresso.repubblica.it/internazionale/2015/10/12/news/turchia-tremila-morti-in-tre-mesi-bombe-cecchini-attentati-cosi-muore-la-democrazia-1.234010
[14] Resolution of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe on the functioning of democratic institutions in Turkey,Resolution 2121 (2016), 22 June 2016, paragraph 10
[15] https://www.crisisgroup.org/content/turkeys-pkk-conflict-visual-explainer
[16] http://www.staticfiles.it/clients/ggdd/file- ; https://ilmanifesto.it/Demirtaş-entra-a-cizre-testimonianza-di-avvocata-italiana-e-assedio-e-strage/reposit/posts/2015/09/20150921110852/documents/ggdd_20150921110852.pdf ; https://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2015/10/30/news/il_kurdistan_nella_morsa_turco-siriana_tra_le_esecuzioni_sommarie_e_la_ricostruzione_di_kobane-126244488/ .
[17] Si veda in particolare ZAGATO L. , Il coprifuoco in Turchia e la violazione di massa dei diritti umani. Sulla via di un genocidio culturale? , Ricerche giuridiche e-ISSN 2281-6100
Vol. 6 – Num. 1 – Giugno 2017. Online qui : https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/article/ricerche-giuridiche/2018/1/art-missing-article-doi_nKXob2Y.pdf , https://ekurd.net/genocide-kurdish-case-turkey-2018-02-06 , https://it.scribd.com/doc/60669321/Kurtlerin-sonu-haydar-isik , https://tr.wikipedia.org/wiki/K%C3%BCrt_Sorununda_Demokratik_%C3%87%C3%B6z%C3%BCm_Bildirgesi
https://www.aninews.in/news/world/middle-east/kurdish-leader-says-turkey-pursuing-socio-political-genocide-against-kurds20191221203508/ , Cultural Genocide and Asian State Peripheries, a cura di B. Sautman, Springer, 2006, p.12. Social Inequality & The Politics of Representation, Di Celine-Marie Pascale, sez. 15 Language as a means of civilizing the kurdish women in Turkey, p.234. M. Van Bruinessen, Genocide of the Kurds, in “The Widening Circle of Genocide”, di Israel W. Charney, Transaction Publishers, 1994.
[18] https://rm.coe.int/ref/CommDH(2016)39 ; https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2016)010-e , para 98-100.
[19] https://armedia.am/eng/news/26435/turkish-policeman-killed-pregnant-woman.html
[20] https://bianet.org/english/print/169283-4th-day-of-curfew-in-nusaybin-one-dead-four-wounded ; https://www.ilmattino.it/primopiano/esteri/donna_curda_incinta_uccisa_polizia_turca_foto-1359359.html .
[21] https://100-reasons.org/selamet-yesilmen/
[22] https://hakikatadalethafiza.org/wp-content/uploads/2016/07/2016.07.02_Idil-KadinCocukRaporu-EN.pdf
[23] https://www.nytimes.com/2015/10/06/world/europe/turkey-to-investigate-images-of-dead-kurdish-man-being-dragged.html ; https://observers.france24.com/en/20151008-turkey-police-dragged-streets-kurdish-video .
[24] https://ahvalnews.com/turkey-kurds/turkish-court-overturns-acquittal-kurdish-man-charged-attending-sons-funeral
[25] https://www.giuristidemocratici.it/Comunicati/post/20151105131006
[26] Abdullah Kaplan v. Turkey (no. 4159/16), Adem Tunc v. Turkey (no. 4552/16), Ahmet and Zeynep Tunc v. Turkey (no. 4133/16), Ahmet Tunc v. Turkey (no. 39419/16), Alpaydinci and Others v. Turkey (no. 10088/16),
Altun v. Turkey (no. 4353/16), Balcal and Others v. Turkey (no. 8699/16), Bedri and Halime Duzgun v. Turkey (no. 901/16), Caglak v. Turkey (no. 2200/16), Cengiz Abis and Others v. Turkey (no. 10079/16), agli and Others v. Turkey (no. 6990/16), Dolan v. Turkey (no. 9414/16), Erkaplan v. Turkey (no. 10085/16), Eroglu v. Turkey (no. 478/16), Gecim v. Turkey (no. 5332/16), Gorgoz v. Turkey (no. 480/16), Inan v. Turkey (no. 2105/16), Irmak v. Turkey (no. 5628/16), Karaduman and Cicek v. Turkey (no. 6758/16), Karaman v. Turkey (no. 5237/16), Kaya v. Turkey (no. 9712/16), Koc and Others v. Turkey (no. 8536/16), Omer Elçi v. Turkey (no. 63129/15), Oncu v. Turkey (no. 4817/16), Oran v. Turkey (no. 1905/16), Paksoy v. Turkey (no. 3758/16), Sariyildiz v. Turkey (no. 4684/16), Seniha Surer and Others v. Turkey (no. 10073/16), Seviktek v. Turkey (no. 2005/16), Sultan and Suleyman Duzgun v. Turkey (no. 891/16), Tunc and Yerbasan v. Turkey (no. 31542/16), Uysal v. Turkey (no. 63133/15), Vesek v. Turkey (no. 63138/15), Yavuzel and Others v. Turkey (no. 5317/16).
[27] Human Rights Watch interview with Ramazan Demir, January 22, 2019. https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey#_ftn67
[28] V. anche : “Turkey: State Blocks Probe of Southeast Killings,” July 11, 2016: https://www.hrw.org/news/2016/07/11/turkey-state-blocks-probes-southeast-killings
[29] https://rm.coe.int/168070cff9 , para. 41, p.10.
[30] Per approfondimenti: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 126 ss. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[31] https://en.wikipedia.org/wiki/Siege_of_Sur_(2016) ; https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/amnestyreporteng.PDF https://www.amnesty.org/en/latest/news/2016/12/turkey-curfews-and-crackdown-force-hundreds-of-thousands-of-kurds-from-their-homes/ .
[32] https://forensic-architecture.org/investigation/the-killing-of-tahir-Elçi
[33] https://www.uianet.org/es/valores/joint-statement-case-concerning-killing-tahir-Elçi-and-lack-effective-investigation-his
[34] https://english.alaraby.co.uk/english/comment/2015/12/1/the-death-of-turkeys-tahir-el%C3%A7i
[35] https://hudoc.echr.coe.int/app/conversion/pdf/?library=ECHR&id=001-128036&filename=001-128036.pdf
[36] Due settimane dopo, ha spiegato i suoi commenti al giornalista freelance Yvo Fitzherbert. "Non l'ho detto perché sostengo il PKK", ha detto, nei commenti pubblicati dopo la sua morte. "Piuttosto, volevo affermare un fatto riguardo alla loro legittimità agli occhi di molti curdi" https://english.alaraby.co.uk/english/comment/2015/12/1/the-death-of-turkeys-tahir-el%C3%A7i
[37] https://www.retekurdistan.it/2020/01/14/corte-di-cassazione-pkk-non-organizzazione-terroristica-ma-parte-belligerante/?fbclid=IwAR3G8UR4kfC2p5-K3SPrSnJEEq3EWCUU3WcqbYfKQWDVaTBgWkLQNgMFGRk.
[38] http://ocalanbooks.com/downloads/it-confederalismo-democratico.pdf
[39] https://www.lrwc.org/turkey-arrest-and-investigation-of-human-rights-lawyer-tahir-Elçi-letter/
[40] http://echr.ketse.com/doc/23145.93-25091.94-en-20031113/
[41] https://www.dinamopress.it/news/perche-dobbiamo-tenere-viva-la-memoria-di-tahir-Elçi /
[42] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-69022
[43] http://www.freeocalan.org/news/english/lawyers-meet-with-ocalan-for-the-first-time-in-8-years
[44] http://hudoc.cpt.coe.int/eng?i=p-tur-20190506-en-13
[45] Paragrafo estratto da: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p.120 In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
PENSIERI PER IL FUTURO
Cari lettori e lettrici, care amiche e amici,
alla fine di questo difficilissimo e lunghissimo anno noi della redazione di Giustizia Insieme sentiamo il bisogno di ringraziarvi per l’affetto e la costante, a volte inaspettata attenzione con cui ci avete sempre seguito nel nostro percorso. Vogliamo farlo regalandovi le parole di alcune donne e uomini, a ciascuno di noi e in diversi modi care, che nel 2020 ci hanno dolorosamente lasciato.
Vedrete però che non sono parole tristi: sono parole di speranza, di impegno e di ispirazione - e anche di leggerezza! - scelte per accompagnarci prendendoci per mano nella strada che si stende davanti a noi, parole che ci fanno sentire meno soli e che ci spingono a migliorare ancora e a rinnovare, anche noi, il nostro impegno per fare sempre di più
Giustizia Insieme.
Buon 2021 dalla Redazione
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