ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Decreto "antiscarcerazioni". Corte cost. n.245 del 2020: una declaratoria di infondatezza non sempre attenta alle argomentazioni dei giudici a quibus* di Franco Della Casa
La Corte costituzionale si è pronunciata negativamente sulle quaestiones sollevate da tre giudici rimettenti nei confronti dell’art. 2-bis d.l.28/2020 (convertito con l. 70/2020). Nel commento si concentra l’attenzione sulle eccezioni che assumono come parametro gli artt. 24, comma 2, 32 e 27, comma 3, Cost. Le riserve che vengono formulate riguardano soprattutto la motivazione della sentenza, che risulta non sempre adeguata rispetto alle articolate argomentazioni contenute nelle ordinanze di rimessione. Assume un valore paradigmatico quel passaggio della parte motiva in cui il giudice delle leggi esclude qualsiasi contrasto della normativa impugnata con l’art. 27, comma 3, Cost.: la risposta negativa è perentoria e non si fa carico delle molteplici sfaccettature di un problema inerente al principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nell’art. 27, comma 3, Cost., vale a dire al principio cardine dell’esecuzione penitenziaria.
Sommario: 1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia - 2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost. - 2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio - 2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto? - 3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) – 4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.).
1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia
Nella sentenza 245 del 2020 la Corte cost. ha dichiarato, in parte, infondate e, in parte, manifestamente infondate talune questioni di legittimità costituzionale inerenti ad una disposizione del c. d. decreto “antiscarcerazioni”. Ad essere sottoposto al giudizio della Corte è stato, più precisamente, l’art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70)[1]. Articolo nel quale viene stabilita un’inedita procedura di periodica verifica circa la persistente sussistenza dei presupposti che hanno indotto il tribunale o il magistrato di sorveglianza a concedere – il secondo in via provvisoria - la detenzione domiciliare regolata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. o la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva prevista dall’art. 147, comma 1, n. 2 c.p. «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19». Va precisato che il legislatore ha circoscritto tale periodica revisione, dal punto di vista temporale, ai provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza dopo il 23 febbraio 2020 e, dal punto di vista soggettivo, a due “blocchi” soltanto di condannati[2]: da un lato, quelli puniti per taluni gravi delitti specificamente indicati (artt. 270, 270-bis e 416- bis c.p. e 74, comma 1, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309)[3], nonché i condannati per delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare associazioni di stampo mafioso; dall’altro, i condannati sottoposti al regime carcerario differenziato di cui all’art.41-bis, comma 2, ord. penit.[4].
Ai fini di un migliore inquadramento, può non essere inopportuno concentrarsi preliminarmente su un profilo della disposizione in esame esorbitante o, comunque, non al centro della quaestio de legitimitate: in particolare, sulla valorizzazione del ruolo delle Procure – nel nostro caso il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, se si tratta di condannati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis, comma 2, ord. penit., oppure il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna, con riferimento ai condannati per taluno dei delitti contestualmente indicati – i cui pareri, ovviamente non vincolanti, devono essere acquisiti anteriormente alla decisione della magistratura di sorveglianza (art. 2-bis, comma 1, d.l. 28/2020).
Rilevato che l’imprescindibile interlocuzione con questi organismi costituisce una costante del provvedimento appena citato, essendo stata prevista – sempre limitatamente ai responsabili di gravi delitti o ai sottoposti al regime di “carcere duro” – anche prima della decisione sulla concedibilità di un permesso c.d. di necessità (art. 2, comma 1, lett. a d.l. cit.)[5], nonché prima di quella su una richiesta di detenzione domiciliare c.d. surrogatoria o in deroga (art 2 comma 1° lett. b d.l. cit), vale forse la pena di soffermarsi sul significato dell’innovazione. Onde appurare se il coinvolgimento delle Procure persegue semplicemente un obiettivo di razionalizzazione, consistente nell’assicurare al giudice una più estesa disponibilità di conoscenze funzionali alla decisione, o se riveste, prevalentemente, un significato simbolico: quello di dimostrare a chi aveva denunciato il lassismo della magistratura di sorveglianza - accusata di avere fatto scarcerare con troppa leggerezza condannati di elevata pericolosità sociale - la sollecitudine del legislatore nel predisporre un meccanismo tale da favorire radicali ripensamenti e da accentuare, paradossalmente, la solitudine del giudice al momento della decisione. Come si è detto, ci si sta riferendo a quei condannati che, alla luce della loro pericolosità sociale, secondo una parte consistente dell’opinione pubblica – troppo spesso “colonizzata” da mezzi di informazione ignari della complessità della questione penitenziaria o/e ideologicamente prevenuti – non devono rientrare nel contesto sociale se non dopo avere espiato dentro le mura l’intera pena. In base a tale impostazione, l’internamento deve continuare pure nell’ipotesi in cui gravi (o plurime) patologie riguardino una cerchia di persone, la cui permanenza in strutture carcerarie del tutto inadeguate a scongiurare la propagazione di un’infezione virale potrebbe portare ad un loro fatalis exitus.
2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost.
Anche se non pare esserci spazio per asserire che l’obbligatoria acquisizione del parere delle Procure risulti in contrasto con un qualsiasi precetto della Costituzione, la breve perlustrazione effettuata non può essere considerata fine a sé stessa, in quanto aiuta a comprendere l’atmosfera in cui si è collocato il provvedimento normativo contenente, tra l’altro, la disposizione sospettata di illegittimità dai giudici a quibus.
Ad avviso della Corte, la censura «essenziale» dei rimettenti concerne il ritenuto contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. della previsione legislativa che prescrive un procedimento a contradditorio soltanto differito, da utilizzare ai fini di un’eventuale sospensione della misura extramuraria da parte dello stesso magistrato di sorveglianza che l’aveva concessa. Quest’ultimo, infatti, qualora precedentemente abbia disposto in via provvisoria (art.47-ter, comma 1-quater, ord penit. o art. 684, comma 2, c.p.p), per motivi connessi all’emergenza Covid[6], la detenzione domiciliare in surroga o il rinvio dell’esecuzione della pena a favore di un condannato affetto da gravi patologie, è tenuto a riesaminare ripetutamente e a brevi intervalli di tempo – la prima volta, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge, in un secondo tempo con cadenza mensile[7] – il provvedimento emesso, onde verificare se medio tempore sono venuti meno i «motivi legati all’emergenza sanitaria» che erano stati alla base dell’intervento diretto a neutralizzare il rischio di un contagio potenzialmente esiziale. Per effettuare il riesame, il magistrato procede inaudita altera parte, con un decreto motivato che – se sfavorevole al condannato - è immediatamente esecutivo: successivamente gli atti vengono trasmessi al tribunale di sorveglianza, il quale, adottando un rito rispettoso della regola del contraddittorio – il procedimento di sorveglianza (artt. 666 e 678 c.p.p.) – è tenuto a pronunciare l’ordinanza decisoria che si sostituisce al provvedimento provvisorio del giudice monocratico, e che, per impedire la sua perdita di efficacia, deve essere assunta entro trenta giorni dalla ricezione del decreto di revoca e degli atti che ne hanno giustificato l’emissione[8].
Secondo due dei giudici a quibus la normativa che introduce tale modello bifasico a contraddittorio differito contrasterebbe, come si è detto, con l’art. 24 comma 2 Cost. Per pervenire alla declaratoria di non fondatezza la Corte ha potuto contare su di un itinerario argomentativo collaudato, che infatti non esita a percorrere, ricorrendo tuttavia ad una motivazione non sempre impeccabile: sia perché caratterizzata da alcune forzature, sia perché non vengono tenuti in considerazione – o, per lo meno, in adeguata considerazione – argomenti non marginali sviluppati nelle ordinanze di rimessione.
È verosimile che al giudice costituzionale siano venute subito in mente le decisioni con cui sono state respinte, non certo da ieri, le eccezioni inerenti al contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. del procedimento per decreto (artt.459-464 c.p.p.), caratterizzato per l’appunto da una struttura bifasica a contraddittorio posticipato[9]: fermo restando che, pur essendo palesi le analogie con quel clichè, non era possibile ignorare le peculiarità della procedura coniata dal legislatore del 2020. Per rendersene conto, basti ricordare che il primo segmento del procedimento monitorio sfocia in un decreto motivato che può infliggere esclusivamente una sanzione pecuniaria, mentre la revoca della detenzione domiciliare o del rinvio dell’esecuzione disposta dal magistrato di sorveglianza sulla base del citato art. 2-bis d.l. 28/2000 ha un’immediata incidenza sulla libertà personale del condannato, dal momento che comporta ex se il suo rientro in carcere. Non stupisce più di tanto, quindi, che nella motivazione non si accenni minimamente alla pregressa giurisprudenza che ha ripetutamente sancito la conformità a Costituzione del procedimento per decreto, anche se è lecito sostenere che in camera di consiglio, o, quanto meno, nei retropensieri dei giudici, quel consolidato filone giurisprudenziale non sia rimasto in un cono d’ombra e sia anzi servito a fornire loro un’importante indicazione circa la più agevole rotta da seguire.
Nel costruire la motivazione della declaratoria di infondatezza, incentrata sul paragone con altri procedimenti a contraddittorio soltanto differito, lo sguardo è rimasto, quindi, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario. È stato anzitutto richiamato l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., in virtù del quale, in caso di urgenza, il magistrato di sorveglianza, verificata l’assenza del pericolo di fuga in capo al condannato, può concedergli in via provvisoria, con ordinanza adottata de plano, la detenzione domiciliare[10], allorché ritenga fondata la richiesta dell’interessato la cui posizione sia riconducibile nel perimetro di una delle previsioni dei precedenti commi dell’art. 47-ter ord. penit. Il provvedimento provvisorio deve essere poi sottoposto alla valutazione del tribunale di sorveglianza, il quale, avvalendosi del procedimento di sorveglianza, potrà concedere o rigettare in via definitiva la richiesta di detenzione domiciliare. Il richiamo è evidentemente servito ai giudici della Consulta per sostenere che nell’ordinamento penitenziario sono rinvenibili altre ipotesi in cui il contraddittorio viene garantito solo a valle di una prima fase in cui esso non ha invece diritto di cittadinanza.
Per trasparenti ragioni di connessione, la Corte avrebbe potuto, in questo passaggio della motivazione, richiamare proficuamente anche il procedimento coniato dal legislatore penitenziario del 2002 per la concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis ord. penit.) [11]: procedimento bifasico, in cui ancora una volta il magistrato di sorveglianza, tenuto ad acquisire il parere del pubblico ministero, decide inaudita altera parte[12]. La successiva entrata in scena del tribunale di sorveglianza (art. 69-bis comma 4 ord. penit.), che provvede ai sensi dell’art. 678 c.p.p., è subordinata ad un reclamo dell’interessato o del pubblico ministero. Essendo stato previsto che il magistrato di sorveglianza raccolga preliminarmente soltanto il parere del pubblico ministero, il procedimento è ancora più simile a quello tratteggiato dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, e - particolare non trascurabile - è regolato da una previsione che ha superato indenne il vaglio del giudice delle leggi, il quale, con l’ordinanza 352/2003[13], ha riconosciuto tra l’altro «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito»[14].
Ci sono però delle importanti differenze tra le situazioni a cui si riferiscono sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., sia l’art. 69-bis ord. penit. e quella sottoposta in questa circostanza all’esame della Corte. Una è macroscopica: nelle prime si discute della eventuale concessione al condannato di un beneficio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi considerata nell’art. 2-bis d.l. 28/2020 inerente alla revoca, sia pure provvisoria ma con efficacia immediata, di una misura extracarceraria. Non solo: in entrambi i casi utilizzati come termine di raffronto, alla base della pronuncia del magistrato di sorveglianza si colloca un’iniziativa del condannato, posto in grado di interloquire, sia pure embrionalmente, col giudice attraverso la specificazione del petitum, nonché dei motivi sui quali è fondata la sua richiesta. Questa circostanza non è irrilevante ed è stata sottolineata dalla stessa Corte nella già citata ordinanza del 2003, nella quale, per avvalorare la sua declaratoria di manifesta infondatezza, ha affermato che il magistrato di sorveglianza viene chiamato a decidere su un’istanza «proposta dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute».
L’osservazione può essere ritenuta condivisibile: infatti, se si valorizza il dato relativo alla genesi del procedimento, sembra difficile negare che l’inconveniente dell’ignoranza da parte del condannato del contenuto della documentazione acquisita ex officio e della conseguente impossibilità di opporre calibrate controdeduzioni si attenui qualora sia lui stesso, con la sua iniziativa, a sollecitare il provvedimento giudiziale.
2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio
La Corte costituzionale non si limita però ad affermare che l’art. 2-bis d.l. 28/2020 presenta delle analogie – come si è visto, imperfette – con l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., ma invoca anche (e sopra tutto) l’art. 51-ter, comma 2, ord. penit., concernente la sospensione ex officio, sia pure provvisoria, di una misura alternativa da parte del magistrato di sorveglianza, che procedendo de plano interviene allorché il beneficiario di una di esse «pone in essere comportamenti suscettibili di determinare la revoca». Sospensione che in un secondo tempo, deve essere ratificata - entro il termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, a pena della perdita di efficacia del decreto sospensivo - dal tribunale di sorveglianza, tenuto a procedere con il rito di cui all’art. 678 c.p.p. Ad avviso del giudice costituzionale, in questo caso i connotati delle due entità sottoposte a confronto sono identici e quindi il discorso può ritenersi chiuso, anche in considerazione del fatto che l’art. 51-ter ord. penit. non è mai stato oggetto di alcun incidente di legittimità costituzionale.
Prima di esaminare più approfonditamente questa argomentazione, vale la pena di svolgere qualche osservazione sul suo ricorso ad alcune affermazioni che sembrano testimoniare un certo disagio nel ricalcare sic et simpliciter il tradizionale orientamento giurisprudenziale, propenso a ritenere che la previsione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio tra le parti è un dato sufficiente a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale. Si vuole alludere al tentativo di dimostrare che anche nella fase che ha come protagonista il magistrato di sorveglianza, sono rinvenibili garanzie idonee ad impedire una totale negazione del diritto di difesa del condannato.
In quest’ottica va letta, anzi tutto, la valorizzazione dell’art. 121 c.p.p., il quale consente all’imputato – ma la regola può essere pacificamente estesa al condannato, visto che in tale articolo si afferma la sua applicabilità «in ogni stato e grado del procedimento» - di presentare, senza alcuna limitazione, memorie al giudice. Affermazione, quest’ultima, ineccepibile, ma bisognevole di alcune precisazioni: dato che nel nostro caso il procedimento viene avviato ex officio, le eventuali memorie sono necessariamente redatte “al buio”, con scarse probabilità di essere ben calibrate rispetto agli elementi negativi risultanti dalla documentazione in possesso del giudice. Anzi, pur senza dimenticare che la procedura di verifica demandata al magistrato di sorveglianza deve avere luogo a scadenze prefissate (e, quindi, non difficili da prevedere), gli interessati – o, per lo meno, taluni di essi - potrebbero addirittura ignorare che il medesimo si sta attivando per un’eventuale revoca della misura di cui stanno usufruendo e non avvertire quindi l’esigenza di presentare memorie[15]. La fragilità del rimedio difensivo incarnato dalle memorie può essere, inoltre, desunta dal più recente orientamento della Corte di cassazione, secondo la quale l’omessa valutazione da parte del giudice di una memoria difensiva non determina alcuna nullità[16].
Che la Corte costituzionale indulga a forzature nel tentativo di dipingere il primo segmento della procedura tratteggiata dal legislatore del 2020 a tinte più rosee di quelle che sono nella realtà emerge, d’altronde, ancora più nitidamente da quella parte della motivazione nella quale viene contraddetta la denuncia – formulata dai giudici di sorveglianza di Sassari e di Avellino – di una “ipotutela” del diritto alla salute del condannato: ipotutela desumibile, secondo i rimettenti, dalla circostanza che, da un lato, è prescritta l’acquisizione di una pluralità di pareri e di informazioni (delle Procure, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Presidente della giunta regionale)[17], mentre, dall’altro, si glissa totalmente sull’acquisizione di una documentazione concernente lo stato di salute del condannato.
La Corte costituzionale obietta che nulla vieta al magistrato di sorveglianza di attivarsi per una acquisizione motu proprio, ma anziché limitarsi a questa sola constatazione si spinge più in là, aggiungendo che, in ogni caso, il giudice procedente può disporre, qualora lo ritenga necessario, anche una perizia sullo stato di salute del condannato, ai sensi dell’art. 185 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale: il quale stabilisce che nella «udienza» del procedimento di esecuzione possono essere assunte prove, tra cui la perizia, «senza particolari formalità». Se circa la possibilità di applicare questa disposizione nel procedimento di sorveglianza non ci possono essere dubbi[18], è invece un’affermazione molto azzardata, contraddetta dal dato normativo e dalla dottrina[19], sostenere che ad essa si possa ricorrere nella fase antecedente alla celebrazione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio delle parti. Tant’è vero che, nel commentare il suddetto art. 185, la dottrina affronta tematiche quali l’ipotetico ricorso all’esame incrociato, nonché, con riferimento alla testimonianza, l’obbligo di attenersi alla regola delle domande specifiche su singoli fatti, imposta dall’art. 499 comma 1 c.p.p.: tematiche, che presuppongono inequivocabilmente un contesto procedimentale caratterizzato dal contraddittorio.
2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto?
Le ombre che si sono evidenziate non sono certo idonee a riverberarsi sul dispositivo della sentenza 245 del 2020, ma si prestano – lo si è detto - ad essere lette come un indizio circa il disagio della Corte costituzionale nell’adeguarsi alla tesi secondo cui la semplice posticipazione di determinate garanzie di carattere processuale vale a compensare il deficit delle stesse in una precedente fase del procedimento.
Ma che dire dell’argomento principale della motivazione, cioè del sillogismo in base al quale, essendo il procedimento bifasico di cui all’art.2-bis d.l. 28/2020 strutturato in termini identici a quello disciplinato dall’art. 51-ter ord. penit., e non essendo quest’ultima disposizione mai stata sfiorata da dubbi di legittimità costituzionale, è logico concludere - relativamente a questo profilo - per l’infondatezza della quaestio de legitimitate sottoposta al suo esame?
Anche in questo caso sembra esserci spazio per alcuni rilievi critici, che possono essere in larga misura ricondotti agli argomenti sviluppati dal magistrato di sorveglianza di Spoleto nella sua ordinanza di rimessione
Anzitutto non si può non rilevare che il dettato dell’art.51-ter ord.penit. presenta talune significative diversità rispetto a quello dell’articolo sottoposto all’esame della Corte. Infatti è pur vero che prima di pronunciare il decreto motivato con cui sospende ex officio l’esecuzione della misura alternativa il magistrato di sorveglianza non entra - et pur cause[20] - in contatto col condannato, ma è altrettanto vero che non ha nessun tipo di interlocuzione neppure col pubblico ministero. Quindi la parità delle parti viene, sia pure al ribasso, garantita.
Inoltre, nel caso dell’art. 2-bis d.l. 28/2020, il magistrato di sorveglianza, se è orientato nel senso di ritenere non più sussistenti i motivi di concessione della misura riconducibili all’emergenza sanitaria, verso la revoca provvisoria della misura extramuraria, non ha di fronte a sé un’alternativa, essendo obbligato a disporre – in esito a quel procedimento larvale di cui si è detto – la revoca della medesima con un provvedimento che ha come effetto quello di fare rientrare subito in carcere il condannato. Invece nell’ipotesi prevista dall’ art.51-ter ord. penit. l’alternativa esiste, essendo consentito al giudice monocratico di trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza dopo avere sospeso l’esecuzione della misura extramuraria in corso oppure di farlo, prescindendo da tale sospensione. Il particolare non è di secondaria importanza specie se, con riferimento all’art.2-bis d.l. 28/2020, ci si concentra sull’ipotesi di una mancata ratifica del provvedimento provvisorio da parte del tribunale di sorveglianza. In tal caso il condannato si trova sottoposto ad una specie di doccia scozzese – traduzione e permanenza in carcere/successivo rientro nell’area esterna – che non può non avere negative ripercussioni sulla continuità-omogeneità del suo trattamento sanitario e, quindi, sulla sua salute. Al contrario, sulla base di una presunzione non azzardata, l’attentato ad un bene di tale importanza, cioè la salute, non concerne, nella normalità delle ipotesi, il condannato sottoposto ex art. 51-ter ord. penit. all’eventuale sospensione cautelativa. Eppure, nei suoi confronti, il legislatore detta una disciplina meno rigida.
Muovendo da questa premessa, viene da chiedersi se la Corte costituzionale non avrebbe potuto, quanto meno, rilevare l’irragionevolezza di una simile differenziazione e dichiarare l’incostituzionalità della disposizione devoluta al suo esame nella parte in cui non offre al magistrato di sorveglianza – privo di quel sapere non frammentato che solo il contraddittorio è in grado di fornire – la possibilità di optare per una subordinata meno draconiana rispetto all’immediata riconduzione in carcere del condannato.
Continuando a ragionare su eventuali violazioni dell’art. 3 Cost. ad opera della normativa del 2020, suscita invece talune perplessità l’opinione di uno dei rimettenti, propenso a ravvisare la violazione del principio di uguaglianza per effetto della regola che consente la devoluzione immediata del giudizio di revoca al tribunale di sorveglianza – anziché all’omonimo magistrato – nell’ipotesi in cui sia stato il primo ad emettere l’ordinanza concedente la misura extramuraria: tra i molti esempi possibili, ci si può rifare al caso in cui la richiesta del condannato, rigettata del giudice monocratico, venga successivamente accolta dal tribunale di sorveglianza. È pur vero che la competenza, in prima battuta, dell’uno o dell’altro giudice finisce per essere del tutto casuale, però non è semplice dimostrare che il diritto di difesa sia vulnerato in misura costituzionalmente rilevante a seconda che il giudice collegiale decida per primo oppure si pronunci solo dopo la pronuncia provvisoria del magistrato monocratico.
3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.)
La seconda eccezione affrontata nella sentenza 245/2020 è quella riguardante la lamentata violazione del diritto alla salute del condannato (art. 32 Cost.). I principali argomenti dei giudici a quibus sono i seguenti: anzitutto, la normativa impugnata pone in primo piano, non già le esigenze della salute del condannato, ma quella della sicurezza collettiva, come è desumibile dalla prescritta reiterazione nel tempo delle frequenti verifiche da parte del magistrato sorveglianza, che testimoniano un favor - anzi un’implicita sollecitazione - del legislatore verso una pronuncia di revoca della misura extracarceraria. Si colloca in questo contesto, a mo’ di conferma, la già ricordata denuncia delle scarse garanzie offerte al condannato nel segmento processuale che si svolge dinanzi al giudice monocratico. In secondo luogo, la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, co. 1-quater, ord. penit. si esegue con modalità tali – ossia è caratterizzata da un così spiccato connotato contenitivo – da non porre in pericolo la sicurezza collettiva.
La Corte costituzionale replica a queste argomentazioni contestando che le periodiche revisioni imposte al magistrato di sorveglianza mirino ad indurre il giudice alla revoca di un provvedimento già concesso, perché esse, in realtà, sono dirette a verificare «la perdurante attualità del bilanciamento tra le imprescindibili esigenze di salvaguardia della salute del detenuto e le altrettanto pressanti ragioni di tutela della sicurezza pubblica»[21]. Non bisogna inoltre dimenticare – aggiunge la Corte – che, essendo stata la scarcerazione, a suo tempo, disposta per carenze di carattere oggettivo (riconducibili ad un’inidoneità dell’apparato carcerario a tutelare il condannato dagli effetti della pandemia), una volta che si siano realizzate le condizioni per ovviare a tale mancata tutela, viene meno l’unico elemento da prendere in considerazione ai fini della concessione della misura extramuraria. Non solo: secondo il giudice costituzionale il contrasto tra la disposizione sottoposta al suo esame e l’art. 32 Cost. sarebbe smentito dalla lettera della legge, la quale consente che venga disposto il rientro in carcere del condannato solo qualora sia documentata la «disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell’interessato».
Anche a questo proposito non manca lo spazio per qualche notazione a margine. Ci si riferisce, in particolare, all’affermazione della Corte relativa all’indiscussa necessità di un persistente bilanciamento tra esigenze della salute e quelle di sicurezza della collettività. In linea di massima tale affermazione può essere condivisa, fermo restando che l’eccessiva frequenza con cui la verifica di tale bilanciamento è stata stabilita dal legislatore del 2020 obbedisce in primis a ragioni diverse dalla sua volontà di mantenere in equilibrio i due piatti della bilancia a cui si riferisce il giudice costituzionale Infatti non si può dimenticare quello che è stato il vero connotato genetico della disposizione in esame, elaborata per placare l’allarme sociale di un’opinione pubblica spaventata per la scarcerazione di pericolosi boss mafiosi – così, secondo la vulgata – e pervasa da una forte animosità nei confronti non solo della “generosa” magistratura di sorveglianza, ma anche nei confronti di un legislatore ritenuto troppo permissivo[22]. Il quale si è prontamente adoperato affinché il j’accuse del “fuori tutti” potesse essere sostituito nell’immaginario collettivo da uno slogan di segno contrario.
Tenendo presente tutto ciò, sembra difficile negare che per il modo in cui è articolata la risposta della Corte costituzionale, nel punto in cui si limita ad affermare sic et simpliciter che le ripetute verifiche imposte al magistrato di sorveglianza mirano ad impedire uno sbilanciamento tra le esigenze della salute e quelle della sicurezza, non sia pienamente soddisfacente. Le sarebbe bastato un conciso riferimento al fatto che lo stabilire la frequenza delle verifiche rientra nella discrezionalità del legislatore per allontanare l’impressione di un suo acritico appiattimento su una regola trasparentemente anomala.
Qualche perplessità può suscitare anche il troppo meccanico ragionamento secondo cui non c’è niente da eccepire se il legislatore, in mancanza di un’idonea allocazione nella struttura penitenziaria del condannato seriamente malato, ha fatto prevalere, in un primo momento, le esigenze della sua salute sulla sicurezza collettiva e ha privilegiato, in un secondo tempo, queste ultime, una volta accertata la sopravvenuta disponibilità di un’adeguata allocazione del medesimo. Affermare, come fa il giudice delle leggi, che se così non fosse stato stabilito si sarebbe arrecato – per definizione – un ingiustificato vulnus alle esigenze della sicurezza collettiva significa escludere a priori qualsiasi rilevanza del periodo trascorso all’esterno del carcere dal condannato. La cui pericolosità sociale potrebbe essersi nel frattempo ridimensionata e risultare quindi tale da non richiedere limitazioni della sua libertà personale più intense di quelle che comporta la detenzione domiciliare surrogatoria (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Per quanto concerne il merito della risposta negativa che è stata fornita, la Corte costituzionale è rimasta nel solco della sua precedente giurisprudenza. Per rendersene conto, può essere sufficiente richiamare un paio di passaggi della sentenza n. 70 del 1994[23], in cui è stata scrutinata la normativa in tema di condannati affetti da infezione HIV[24], nei confronti dei quali il legislatore, per impedire la diffusione del virus all’interno delle carceri, aveva stabilito il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Nella motivazione di tale sentenza la Corte ha affermato che «l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute [del condannato] non comporta soluzioni a "rime obbligate" sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto»[25]. E ha successivamente aggiunto che il controllo del giudice costituzionale deve essere finalizzato soltanto a «verificare se la disposizione, che il legislatore ha ritenuto di dettare integri [….] una ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principii costituzionali che il giudice rimettente ritiene esser stati violati»[26]. È indubbio che le puntuali indicazioni desumibili da tale precedente abbiano costituito la premessa della conclusione a cui è pervenuta la Corte nella sentenza 245/2000, anche se a causa della stringatezza delle sue argomentazioni, di esse non si ritrova alcuna traccia.
4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.)
La parte più insoddisfacente della sentenza in esame è quella in cui viene liquidata in pochissime righe la quaestio de legitimitate concernente la normativa devoluta all’esame della Consulta con riferimento al principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Una censura ritenuta manifestamente infondata, in quanto – si afferma - basata su un parametro «inconferente», dato che la detenzione domiciliare in surroga (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.) e il differimento facoltativo della pena (art. 147 c. p.) non sono funzionali alla rieducazione del condannato, bensì in via esclusiva alla tutela della sua salute.
Anzitutto vale la pena di fare presente che mentre sin qui, come si è visto, le risposte fornite nella sentenza 245/2000 sono risultate in sintonia con i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, in questo caso non è così. Si vuole alludere in particolare al passaggio di una precedente pronuncia in cui il giudice delle leggi ha espresso un orientamento contrario rispetto all’odierna presa di posizione in tema di art. 27, comma 3, Cost. Si tratta per l’esattezza della già citata sentenza 70/1994 – inerente, come si è detto, alla sospensione obbligatoria dell’esecuzione della pena a favore dei condannati colpiti da infezione da HIV – nella quale si è affermato che non bisogna assegnare, in via esclusiva, alla fase esecutiva funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, perché, così facendo, si oblitererebbe quella «eminente finalità rieducativa»[27] ad essa riconosciuta, in particolare, dalla sentenza 313/1990[28]. Ma non è tutto: infatti, contestualmente, non si è mancato di sottolineare che tale finalità sicuramente caratterizza anche l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena.
Che dire di questa impostazione? Nei termini in cui è espresso nella sentenza 70/1994, il ragionamento della Corte non è condivisibile, perché il rinvio dell’esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p. significa, com’è facile arguire, che non c’è più una fase esecutiva in corso – tant’è vero che la libertà personale del condannato non è in alcun modo compressa[29] – per cui, senza ombra di dubbio, ci si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 27, comma 3, Cost.
Trattandosi di detenzione domiciliare in surroga, il discorso deve invece assumere cadenze diverse: infatti, considerato che tale misura non interrompe l’iter esecutivo, qualora si interpreti latamente la sentenza costituzionale 313/90 e si coltivi, quindi, l’idea che il principio del finalismo rieducativo permei di sé capillarmente la fase esecutiva, si potrebbe in teoria sostenere che anche la detenzione in surroga non è estranea all’ambito di operatività dell’art. 27, comma 3, Cost. Senonché, sebbene suggestiva, la tesi di una pervasiva incidenza in executivis del fondamentale principio della rieducazione suscita fondati dubbi circa la sua compatibilità con talune disposizioni della legge penitenziaria: aderendo ad essa, si dovrebbe, per esempio, riconoscere una valenza rieducativa anche ai brevi ed eccezionali permessi di uscita di cui all’art.30 ord. penit. Il che pare difficilmente sostenibile.
Sempre con riferimento alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., va aggiunto però che il dubbio appena superato può riproporsi qualora si correli questa disposizione con l’art.54 comma, 1 ord. penit., il quale stabilisce – senza alcuna distinzione fra le diverse species di detenzione domiciliare – che le riduzioni di pena previste dall’articolo in questione, siano concesse, sussistendone i presupposti, anche al condannato che stia espiando la pena nella sua abitazione o in un altro dei luoghi indicati nell’art. 47-ter, comma 1, ord. penit. Ma allora, se si riflette sul fatto che il presupposto per la concessione della liberazione anticipata è quello della «partecipazione all’opera di rieducazione», bisogna riconoscere, con la consapevolezza della non risolutiva robustezza di questa argomentazione, che non è così pacifica - come mostra di ritenere la Corte costituzionale – la conclusione secondo cui la custodia domestica disciplinata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. e la categoria della rieducazione ruotino indiscutibilmente su orbite separate. La cautela della Consulta avrebbe dovuto essere maggiore anche in considerazione del fatto che la Suprema corte ha non occasionalmente asserito che la detenzione domiciliare di cui ci si sta occupando «al pari delle altre misure alternative alla detenzione, ha come finalità il reinserimento sociale del condannato»[30].
Tutto questo premesso, si deve però riconoscere fondata la tesi, sostenuta – pressoché unanimemente - dalla dottrina[31], che riconduce la ragion d’essere della detenzione domiciliare in surroga all’esigenza di non disumanizzare l’espiazione della pena, e che esclude qualsiasi interferenza dell’art. 27, comma 3, Cost. con tale misura..
Non si può tuttavia fare a meno di sottolineare che il quesito proposto dai giudici a quibus implicava non già una risposta che si limitasse ad una telegrafica ricognizione della natura giuridica delle due misure extramurarie in discussione, ma che considerasse l’interrogativo sulla denunciata lesione della finalità rieducativa della pena nel contesto del meccanismo messo a punto dal d.l. 28/2020. Un meccanismo che comporta il rientro del condannato in carcere, quando viene riscontrata in un istituto la disponibilità di posti sanitariamente idonei. Non già tuttavia – se non del tutto casualmente – nel carcere dove costui stava espiando la pena, il quale dovrebbe coincidere col carcere più vicino alla sua residenza o a quella della famiglia, in conformità ai criteri forniti dagli artt. 14 comma 1 e 42 comma 2 ord. penit., bensì in un carcere dovunque ubicato[32], purché in grado di soddisfare l’esigenza di una collocazione adeguata dal punto di vista della protezione dal virus.
Anche a volere ipotizzare che il carcere di “vecchia” assegnazione non fosse quello individuato sulla scorta dei criteri dettati dal legislatore penitenziario, è difficile sostenere che - a prescindere dai condannati sottoposti al regime di cui all’art.41-bis ord. penit., per i quali l’esecuzione della pena è governata da regole tutt’affatto particolari – il passaggio ad una diversa struttura carceraria, scelta esclusivamente sulla base del parametro fornito dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, non incida negativamente sul percorso trattamentale del condannato e, quindi, sul suo processo di reinserimento sociale.
Pochi esempi, tra i molti disponibili, sono sufficienti ad avvalorare questo assunto. Si pensi al condannato che stava seguendo un corso scolastico o di addestramento professionale che non abbiano equivalenti nell’istituto di nuova destinazione; o al tempo che deve trascorrere prima che i componenti del gruppo di osservazione-trattamento acquisiscano una conoscenza non solo cartacea del nuovo arrivato, e siano quindi in grado di porre le premesse necessarie per l’avvio di un trattamento individualizzato, difficilmente coincidente, peraltro, con quello attuato nella precedente struttura. Quanto poi alla diversa ipotesi in cui il condannato fosse stato anteriormente ristretto in un carcere rispondente al criterio di territorializzazione della pena, che costituisce il caposaldo di ogni percorso trattamentale, le ripercussioni negative del ricominciamento sarebbero intuibilmente ancora più gravi.
Sembra quindi che sia concesso salire di tono rispetto alle critiche formulate relativamente ad altri profili della sentenza. Anche se la Corte – contrariamente a quanto qui si sostiene – avesse ritenuto di dovere escludere il contrasto della normativa impugnata con l’art.27, comma 3, Cost., non avrebbe dovuto essere tanto laconica. Più precisamente: non avrebbe dovuto dedicare al denunciato contrasto solo tre righe della motivazione.
* Ndr Sulla sentenza della Corte costituzionale in commento leggi anche La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20) di Stefano Tocci
[1] Nel testo ci si riferirà sempre all’art.2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 convertito con l. 25 giugno 2020, n.70. Vale la pena di precisare che una disposizione di analogo contenuto figurava nel d.l. 10 maggio 2020, n. 29 (art. 2). Tuttavia, in sede di conversione del d.l. 28/2020, il d.l.29/2020 è stato abrogato e il suo contenuto è transitato nella l. 70/200. Sull’art. 2 d.l. 29/2020, v., tra gli atri, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistemapenale.it, 5 giugno 2020; F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in Giustizia Insieme, 12 maggio 2020;
[2] Nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 si fa riferimento non solo ai condannati, ma anche agli internati. Si tratta di una delle ricorrenti sviste del legislatore, dal momento che l’internato non può beneficiare né del rinvio della esecuzione della pena detentiva, né della detenzione domiciliare in surroga.
[3] Gli articoli menzionati si riferiscono ai seguenti delitti: associazione sovversiva (art. 270 c.p.), associazione con finalità di terrorismo (art. 270-bis c.p.), associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare l’associazione mafiosa, delitti commessi con finalità di terrorismo, in base alla definizione di cui all’art. 270-sexies c.p..
[4] Vale a dire i condannati per un delitto di cui al primo periodo dell’art.4-bis, comma 1, ord. penit., nei confronti dei quali «vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva».
[5] Sul punto, cfr., volendo, F. Della Casa, L’intervento del d.l. 28/2020 sull’istruttoria dei permessi di necessità: un innesto sine causa e fuori asse rispetto al divieto di detenzione inumana, in sistema penale.it, 9 luglio 2020.
[6] Per quanto concerne la fonte che ha ricollegato la concessione delle misure extramurarie all’emergenza COVID, v. in particolare, il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (decreto “Cura Italia”), convertito con l. 24aprile 2020, n. 27; Per un’analisi di tale provvedimento, v., M. Ruaro, Le disposizioni relative all’esecuzione penale del d.l. “cura Italia”, in Cass. pen, 2020, p.2185 ss.; M. Peraldo, Licenze, permessi e detenzione domiciliare "straordinari": il decreto "ristori" (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137) e le misure eccezionali in materia di esecuzione penitenziaria, in sistemapenale.it,, 16 novembre 2020.
[7] Da non sottovalutare il fatto che i brevi intervalli temporali stabiliti nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 possono essere, in concreto, spazzati via grazie alla previsione, contenuta nel medesimo comma 1, in base alla quale la valutazione del magistrato di sorveglianza deve essere effettuata «immediatamente», nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture adeguate alle condizioni di salute del condannato.
[8] Il termine perentorio di trenta giorni è stato inserito in sede di conversione del d.l. 28/2020 e corrisponde ad un auspicio formulato dalla dottrina: v., in particolare, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistema penale.it, 5 giugno 2020, p. 11.
[9] Con riferimento alle pronunce più recenti, cfr., per la declaratoria di manifesta infondatezza, Corte cost. (ord.), 18 luglio 2003, n.257; Corte cost. (ord.) 15 gennaio 2003, n. 8.
[10] È il comma 4 dell’art. 47 ord. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale, la norma “madre” che disciplina la concessione in via di urgenza delle misure alternative alla detenzione: ad essa si rifanno sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit. per quanto concerne la detenzione domiciliare, sia l’art. 50, comma 6 (ult. periodo), ord. penit., relativo alla semilibertà. Per quanto concerne invece il rinvio dell’esecuzione delle pene detentive (nonché delle sanzioni sostitutive) e il relativo intervento in via provvisoria del magistrato di sorveglianza, bisogna fare capo all’art. 684, comma 2, c.p.p. Circa l’affermazione che non è ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza rigetta la richiesta di concessione della detenzione domiciliare in via provvisoria, dato che si tratta di provvedimento interinale, cfr. Cass. 21 giugno 2007, Missarelli, in CED 236879-01.
[11] Si tratta della l. 19 dicembre 2002, n. 277. Anteriormente a tale provvedimento sia per la concessione, sia per la revoca della liberazione anticipata era competente il tribunale di sorveglianza, il quale procedeva col rito di cui agli artt.666 e 678 c.p.p.
[12] Per tale raffronto, cfr. Mag. sorv. Spoleto 18 agosto 2020, in sistemapenale.it, 23 settembre 2020.
[13] Vale la pena di evidenziare altresì che, mentre nel procedimento per decreto il giudizio caratterizzato dal contraddittorio è eventuale, nel caso della procedura coniata dal legislatore del 2020 la seconda fase si instaura automaticamente, così che si può parlare di un procedimento connotato da un contraddittorio necessario.
[14] Cfr. Corte cost. (ord.), 5 dicembre 2003, n. 352. Per un commento, cfr. E. Esposito, Ordinamento penitenziario e liberazione anticipata, in Giur. cost., 2003, p.3659; A. Pulvirenti, Dal “giusto” processo alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. 283 ss.
[15] Questo limite si accentua, ovviamente, nell’ipotesi in cui, ai fini della revoca provvisoria, il magistrato di sorveglianza si attivi «immediatamente». V. supra, nota 8.
[16] Cfr. Cass. 24 giugno 2020, Cilio, in CED 279578-01; Cass. 8 maggio 2019, Capezzuto, in CED 276199-03; Cass., 16 marzo 2018, Tropea e altri, in CED 272542.
[17] L’acquisizione del parere del Presidente della giunta regionale, che a prima vista potrebbe sembrare incongruente, va ricollegata all’esigenza di un chiarimento circa la situazione epidemiologica sussistente nel territorio in cui si trova il carcere da prendere in considerazione per la nuova allocazione.
[18] In proposito, cfr. M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009, p. 401.
[19] G. Rossetto, sub art.185 disp. att. e coord., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Normativa complementare, vol. I, Torino, 1992, p.692 ss.
[20] L’art. 51-ter ord.penit. prevede che il magistrato di sorveglianza emetta un decreto motivato che può comportare, in caso di periculum in mora, il rientro in carcere del condannato. Di qui l’esigenza di non compromettere l’effetto sorpresa, sacrificando il quale l’interessato sarebbe messo in condizione di sottrarsi all’esecuzione della pena detentiva.
[21] Cfr. § 9.2 del considerato in diritto.
[22] Sull’importante tematica, v., diffusamente, G. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in sistemapenale.it ,19 maggio 2020, spec. p. 2.
[23] Corte cost. 3 marzo 1994, n. 70. Relativamente a questa sentenza, v. C. Fiorio, Libertà personale e dritto alla salute, Padova, 2002, p.141 ss. nonché E. Fassone, Corte costituzionale e AIDS: una conclusione infelice ma inevitabile, in Legislazione pen., 1996, p. 282; A. Margara, Normativa per i detenuti malati di AIDS: è per morire o per vivere?, in Quest. giust., 1995, p. 135.
[24] Ci si riferisce al d.l. 14 maggio 1993, n. 139 (conv. l. 14 luglio 1993, n. 222) e, più precisamente, all’art. 4, grazie al quale è stata disciplinata nell’art. 146, comma 1, c.p. una nuova ipotesi di rinvio obbligatorio di esecuzione della pena, concernente la «persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'articolo 286- bis, comma 1, del codice di procedura penale».
[25] Corte cost n. 70/1994, § 4 del considerato in diritto.
[26] ibidem
[27] ibidem
[28] Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, nella quale si afferma che il principio della rieducazione di cui all’art. 27, comma 3, Cost. deve permeare la pena ed essere rispettato a partire da «quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (§ 4 del considerato in diritto).
[29] Nel senso che al tribunale di sorveglianza non è consentito disporre una qualsiasi prescrizione all’atto della concessione del rinvio dell’esecuzione della pena, cfr. Cass. 9 novembre 1992, Molé, in CED n.192410; Cass. 27 novembre 1991, Alanpiù, in CED n. 189030-01.
[30] Così, Cass. 27 maggio 2008, Nunnari, in CED n. 240867-01; conf. Cass. 12 giugno 2000, Sibio, in CED 216912-01.
[31] Cfr. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, IXa, ed,, Milano,2010, p. 320; C.E.Paliero, Commento all’art.4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in Legislazione pen., 1998, 821; A. Pulvirenti, Le misure alternative alla detenzione, in P. Corso, Manuale della esecuzione penitenziaria, VIIa ed., Milano, 2019, p.324 conf. Cass.7 dicembre 1999, Saraco, in CED . 215203-01.
[32] Per un esempio, cfr. Cass. 20 novembre 2020, Furnari, massima n. 35772, dalla cui motivazione emerge che, in occasione del procedimento per la revoca della detenzione domiciliare nei confronti di un condannato precedentemente detenuto nella casa circondariale di Nuoro, è stata indicata dall’amministrazione penitenziaria, come carcere scelto per l’ulteriore fase di esecuzione della pena, la casa circondariale di Catanzaro.
La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump ed il caso di Lisa Montgomery
di Paolo Passaglia*
Sommario: 1. Sei mesi di esecuzioni - 2. Un caso forse più drammatico di altri - 3. «La più politica delle pene» - 4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
1. Sei mesi di esecuzioni
Il turbolento tramonto dell’era Trump, che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio ha fatto piombare direttamente nella notte fonda, sta portando con sé, insieme con una serie di forzature, tentate e sovente realizzate, alla Costituzione statunitense, anche un rigurgito relativo alla pena di morte. Un rigurgito che, preannunciato da tempo (tutto ebbe inizio con … un tweet presidenziale dell’agosto 2019: https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1158424951503884292?lang=en), ha assunto, come temuto, caratteri preoccupanti, per ampiezza e per crudeltà.
La pena di morte, nel diritto federale statunitense, non è mai stata abolita, tuttavia, per lungo tempo, non è stata applicata (ovviamente per gli ordinamenti degli Stati membri il discorso è ben diverso). Dopo il marzo 1963, per quasi mezzo secolo le esecuzioni si erano infatti fermate, prima che, durante la presidenza di George W. Bush riprendessero, con un bilancio di due condanne eseguite nel giugno 2001 e una nel marzo 2003. Da allora, si era avuto un nuovo accantonamento, fino, appunto, alla presidenza Trump, che negli ultimi sei mesi del 2020 ha condotto ben 10 esecuzioni.
Non si tratta soltanto di numeri, anche se il numero è di per sé allarmante, visto che l’anno appena trascorso, segnato dalle difficoltà che la pandemia ha opposto nei confronti delle esecuzioni, è stato comunque l’anno in cui il potere federale ha eseguito più condanne a morte di civili, almeno a far tempo dall’inizio del Novecento. È stato anche il primo anno nella storia degli Stati Uniti in cui le esecuzioni a livello federale hanno superato la somma delle esecuzioni a livello statale, bloccate, appunto, dalla pandemia, al punto da segnare, con 7, il valore minimo negli ultimi trentasette anni.
Non si tratta soltanto di numeri: la lettura del report annuale del Death Penalty Information Center (The Death Penalty in 2020: Year End Report. Death Penalty Hits Historic Lows Despite Federal Execution Spree, Dec. 16, 2020, https://deathpenaltyinfo.org/facts-and-research/dpic-reports/dpic-year-end-reports/the-death-penalty-in-2020-year-end-report) è, da questo punto di vista, inquietante: «L’ondata di esecuzioni è stata aberrante anche nella selezione dei detenuti da mettere a morte. I condannati hanno incuso il primo nativo americano mai giustiziato dal governo federale per l’omicidio di un membro della sua stessa tribù su terre tribali; le prime esecuzioni federali, in 68 anni, di delinquenti adolescenti ai tempi dei fatti; la prima esecuzione federale, in 57 anni, per un crimine commesso in uno Stato che aveva abolito la pena di morte; le esecuzioni programmate di due detenuti che le prove mediche avevano indicato come affetti disabilità intellettiva; le esecuzioni programmate di due detenuti con gravi malattie mentali, compreso uno che potrebbe essere stato incapace di intendere e di volere al momento della sua esecuzione; le esecuzioni programmate di due detenuti che non avevano ucciso nessuno e di tre condannati meno colpevoli dei coimputati che avevano ricevuto condanne minori; le prime esecuzioni, in oltre un secolo, nell’intervallo tra le elezioni politiche e l’entrata in funzione del nuovo Congresso; esecuzioni poste in essere contro la volontà dei familiari delle vittime, dei procuratori del processo di primo grado o d’appello nei relativi casi e di almeno uno dei giudici che avevano presieduto il processo».
Questa spirale è destinata, auspicabilmente, a interrompersi, stando almeno al programma del presidente eletto, Joe Biden, che si è impegnato a eliminare la pena di morte a livello federale (cfr. The Biden Plan for Strengthening America’s Commitment to Justice, https://joebiden.com/justice/). Il punto è che fino al 20 gennaio le funzioni presidenziali saranno (recte, dovrebbero essere) esercitate da Donald Trump. E se, già oggi, il presidente in carica può (s)fregiarsi del poco onorevole primato di essere stato il presidente che ha autorizzato più esecuzioni della storia degli Stati Uniti durante il periodo di passaggio da un presidente a un altro, è ben possibile che, negli ultimi giorni del suo mandato, cerchi, se ne avrà l’opportunità, di ritoccare le sue macabre statistiche. Sono, infatti, previste due esecuzioni ad opera del potere federale, il 12 e il 14 gennaio (una terza esecuzione, prevista per il 15, è stata per il momento sospesa in ragione di un vizio nel procedimento di notifica della data dell’esecuzione).
2. Un caso forse più drammatico di altri
Sul presupposto dell’intollerabilità di qualunque esecuzione, è quasi fisiologico che alcuni casi attirino più di altri l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra questi casi, evidentemente, rientra quello di Lisa Montgomery, la cui esecuzione, fissata per il 12 gennaio, ha dato luogo a diffuse richieste di clemenza, anche da parte di persone particolarmente qualificate in ambito forense e scientifico. A fondare queste richieste certo non è un fattore di genere: è vero che Lisa Montgomery è l’unica detenuta donna in un braccio della morte federale ed è vero che per trovare l’ultima donna di cui sia stata eseguita la condanna a morte da parte del potere federale si deve risalire al 1953, ma le ragioni che hanno spinto a un impegno contro questa esecuzione sono ben più profonde.
Difficile contestare l’efferatezza del fatto-reato commesso, del 16 dicembre 2004: strangolamento di una donna all’ottavo mese di gravidanza, taglio dell’addome con un coltello da cucina ed estrazione del bambino, sopravvissuto anche al rapimento da parte dell’omicida.
A rendere meno nitida l’esecrabilità della condotta si è fatto appello, in sede processuale, alla vita pregressa dell’imputata, fatta di abusi, anche sessuali, perpetrati dal patrigno e da almeno uno dei due uomini che aveva sposato in rapida successione, a 18 anni, per abbandonare l’abitazione materna; una vita fatta di abuso di alcol, asseritamente indotto dalla ricerca di una astrazione dalla cupezza della realtà; una vita segnata da una sterilizzazione, all’età di 22 anni, dopo aver messo al mondo quattro figli, che, presumibilmente, non doveva essere stata del tutto accettata, viste le ripetute false dichiarazioni di uno stato di gravidanza.
Nel corso del processo, non è stata accolta la linea di difesa basata sulla non imputabilità della Montgomery, che le avrebbe risparmiato la pena di morte in ragione della giurisprudenza della Corte suprema federale (cfr., in part., la sentenza sul caso Atkins v. Virginia, 536 U.S. 304, del 20 giugno 2002, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/536/304, in cui si è dichiarato che l’inflizione della pena di morte a persone affette da ritardo mentale era incompatibile con il divieto di pene crudeli e inusuali di cui all’Ottavo Emendamento alla Costituzione federale). La giuria ha quindi dichiarato colpevole l’imputata, raccomandando la condanna a morte, che il giudice ha pronunciato il 26 ottobre 2007. Solo successivamente si è venuti a conoscenza di ulteriori perizie relative allo stato mentale della Montgomery, che il suo avvocato non aveva ritenuto di produrre e che solo in appello sono stato presentate, peraltro senza successo.
Il caso della Montgomery è stato sottoposto anche alla Corte suprema federale, la quale – in data 19 marzo 2012 – ha tuttavia negato il certiorari, rifiutando discrezionalmente di trattare la causa (ciò che avviene, come noto, per la stragrande maggioranza dei ricorsi presentati alla Corte).
Dopo la condanna definitiva, e durante il suo soggiorno nel braccio della morte, la Montgomery è stata sottoposta a varie perizie psichiatriche richieste dal collegio difensivo, dalle quali sarebbe stata confermata la possibile incapacità al momento della commissione del fatto e dalle quali sarebbero emersi frequenti stati di dissociazione dalla realtà asseritamente derivati da danni cerebrali prodotti dalle percosse subite durante l’adolescenza. Se, dunque, per un verso potevano nutrirsi dubbi sulla legittimità della condanna, per l’altro poteva essere richiamata la giurisprudenza della Corte suprema federale (Ford v. Wainwright, 447 U.S. 399, del 26 giugno 1986, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/477/399; Panetti v. Quarterman, 551 U.S. 930, 28 giugno 2007, https://www.law.cornell.edu/supct/html/06-6407.ZS.html; Madison v. Alabama, 586 U.S., docket n. 17-7505, 27 febbraio 2019, https:// www.law.cornell.edu/supremecourt/text/17-7505) che ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di un condannato divenuto incapace nelle more dell’esecuzione.
Nonostante un insieme non proprio scarno di argomenti in favore di una qualche clemenza, l’esecuzione della Montgomery è stata fissata per l’8 dicembre, e solo la circostanza che i suoi legali avessero contratto il Covid-19 ha potuto portare a un rinvio. Rinvio che è stato, peraltro, piuttosto breve, visto che il 23 novembre è stata notificata alla Montgomery la nuova data del 12 gennaio. La Corte federale di primo grado per il District of Columbia, in data 24 dicembre, ha ritenuto illegittimo il nuovo provvedimento di fissazione, perché adottato quando era ancora in corso la sospensione della precedente esecuzione. La Corte d’appello, con ordinanza del 1° gennaio, ha annullato la decisione di primo grado, ripristinando così la validità della fissazione al 12 gennaio.
3. «La più politica delle pene»
Nel momento in cui queste righe sono scritte (il 7 gennaio) non è ancora certo che l’esecuzione avrà luogo. Non potrebbe essere altrimenti, visto che la storia della pena di morte negli Stati Uniti ha conosciuto sospensioni o atti di clemenza adottati anche a pochi minuti dall’inizio dell’esecuzione. L’ottusità dell’intransigenza dell’amministrazione Trump in materia di esecuzioni parrebbe rendere, nella specie, assai improbabile che potesse verificarsi una eventualità del genere. Una incognita enorme, tuttavia, pesa su qualunque previsione; un’incognita che non riguarda la detenuta, ma chi decide sull’esecuzione.
Dopo la sconvolgente vicenda dell’assalto al Campidoglio, infatti, si vanno moltiplicando, in queste ore, le voci che propugnano l’applicazione del Venticinquesimo Emendamento alla Costituzione, e cioè la rimozione per incapacità del Presidente in carica e la sua sostituzione, per gli ultimi giorni del mandato, con il Vicepresidente, Mike Pence. Qualora a ciò si addivenisse, non potrebbe escludersi che il nuovo presidente facente funzioni volesse evitare di caratterizzare i suoi dieci giorni di mandato con una esecuzione tanto contestata. D’altro canto, neppure può escludersi che, anche qualora a una rimozione non si dia luogo, il caos venutosi a creare e la larga delegittimazione che il Presidente Trump ha subito anche nel campo repubblicano suggeriscano di evitare ulteriori atti forieri di tensione: in quest’ottica, anche le programmate esecuzioni potrebbero essere sospese.
Queste considerazioni, nella loro superficialità e nella loro astrattezza, è probabile che nel volgere di qualche giorno o anche di qualche ora mostrino tutta la loro inattualità. La loro utilità risiede, però (almeno lo si spera), nel dimostrare quanto la pena di morte sia legata a considerazioni di ordine politico. Un bel libro di qualche anno fa la ha giustamente definita «la più politica delle pene» (D. Galliani, La più politica delle pene. La pena di morte, Assisi, Cittadella, 2012): l’utilizzo spregiudicato che ne ha fatto il Presidente Trump nei mesi antecedenti le elezioni sembra che possa leggersi come la ricerca di consenso in alcuni settori dell’elettorato; il ricorso parimenti spregiudicato alle esecuzioni che ha fatto seguito alle elezioni perse si inquadra perfettamente nel clima di crescente tensione e confusione che Trump ha voluto imprimere alla fase di transizione. In entrambe le fasi, i condannati che sono stati giustiziati non hanno avuto, evidentemente, alcun peso nel calcolo politico, potendo assumere tutt’al più il ruolo presto dimenticabile di «danni collaterali».
4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
La nefasta parentesi Trump, domani, dopodomani o, al massimo, il 20 gennaio, avrà termine. Cosa ci si può attendere per il futuro della pena di morte negli Stati Uniti?
Lo scempio degli ultimi mesi, con la risonanza mediatica di alcune esecuzioni che hanno sollevato forti obiezioni e un diffuso senso di ingiustizia in settori della società statunitense più ampi del solito, dovrebbe agevolare il Presidente Biden nel concretizzare l’impegno assunto di abolire la pena di morte relativamente al diritto federale.
Salvo quanto avvenuto nel 2020 (e, forse, nei primi scampoli del 2021), la pena di morte negli Stati Uniti non è però una questione «federale», giacché le condanne e le esecuzioni connotano solitamente gli Stati membri, o meglio alcuni Stati. Negli ultimi decenni si è assistito a una crescita piuttosto significativa del fronte abolizionista, che ha circoscritto la pena capitale a un numero di Stati contenuto, soprattutto se si ha riguardo alle esecuzioni concretamente poste in essere. L’esistenza di un sistema federale, tuttavia, non consente di proporre alcun tipo di automatismo: l’eventuale abolizione della pena a livello federale non avrebbe che una valenza di esempio, forse di modello per i legislatori degli Stati membri retenzionisti.
Il riferimento ai «legislatori» non è casuale, essendo la presa d’atto che la storia statunitense sembra suggerire che l’abolizione della pena di morte debba passare attraverso una decisione dei rappresentati del popolo. Negli Stati Uniti, infatti, quando è stato il potere giudiziario ad abolire la pena di morte, l’effetto che si è avuto è stato quello di un rifiuto nell’opinione pubblica della posizione abolizionista.
Una analisi delle abolizioni giudiziarie negli States non può essere qui ripercorsa (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Firenze, Olschki, 2021, spec. 142 ss., 161 ss. e 207 ss.); la sentenza più famosa, però, merita almeno una menzione. Era il 1972, l’ultima esecuzione condotta negli Stati Uniti risaliva a cinque anni prima; la Corte suprema federale, con la sentenza sul caso Furman v. Georgia (408 U.S. 238, resa il 29 giugno 1972, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/408/238), dichiarava l’incostituzionalità della disciplina della pena di morte della Georgia, censurando però elementi che si ritrovavano in tutte le legislazioni statali. Tutto sembrava far propendere, dunque, per la fine della pena capitale negli Stati Uniti, in parallelo con quanto era appena avvenuto o stata avvenendo nel Regno Unito o in Canada. E invece, la decisione veniva interpretata come una invasione ad opera del potere giudiziario di sfere di competenza del potere politico. Questo, in una fase storica in cui veniva percepito un tasso di criminalità in aumento, ha prodotto una sorta di «effetto rimbalzo» a beneficio dell’opzione favorevole alla pena di morte, che si è tradotto nella introduzione di nuove discipline in gran parte degli Stati e, a partire dal 1976, nel concreto recupero della pena di morte come sanzione «normale», pur nella sua gravità.
A prescindere dalla attuale composizione della Corte suprema federale, che rende ben poco probabili decisioni abolizioniste, la vicenda degli Anni Settanta è indicativa di quanto la pena capitale si presti a strumentalizzazioni sul piano politico. La sua abolizione, salvo casi relativamente eccezionali (come avvenuto, ad esempio, in alcuni Stati ex-socialisti o nel Sudafrica post-apartheid), deve essere il frutto di una decisione che venga da chi è legittimato democraticamente, perché solo così si ha una immunizzazione (mai completa, peraltro) da rischi di ritorni indietro. L’auspicio è dunque che la banalizzazione sconvolgente con cui la politica di messa a morte è stata condotta in questi ultimi mesi possa almeno dare lo slancio per un nuovo corso dell’abolizionismo statunitense.
*Paolo Passaglia è ordinario di Diritto comparato presso l’Università di Pisa e coordinatore scientifico pro tempore dell’Area di diritto comparato del Servizio Studi della Corte costituzionale.
Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra "verità" e "giustizia"
di Andrea Apollonio
Nessuna figura come quella del magistrato ha, nell'opera di Sciascia, un carattere più equivoco: trasformato in un modello letterario dal significato ambiguo - una trasfigurazione che nell'ideologia sciasciana trova fondamento storico sul fatto inoppugnabile e documentato che la storia della giustizia è in realtà una storia di ingiustizie - il magistrato è stato reso dal grande scrittore, in quarant'anni di intensa attività letteraria, eroe e anti-eroe al tempo stesso: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
La verità è un concetto che percorre tutta l'opera di Sciascia seppur diversamente declinato: che ritroviamo nel suo primo libro - il misconosciuto Favole della dittatura del 1950 - come nell'ultimo - Una storia semplice, pubblicato postumo nel 1989. Nel mezzo, quarant'anni di continua riflessione su di un tema che viene per la prima volta sistematicamente trattato, in maniera quasi escatologica, nel 1963 con Il Consiglio d'Egitto. In questo romanzo la verità sembra disciogliersi nella contingenza storico-politica, quindi nelle cose di ogni giorno: ne prende il posto la menzogna, che diviene caratteristica ontologica di una comunità: “La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell'essere, frondeggia al di là della vita”, dice l'avvocato Di Blasi, il quale appena prima - facendo riferimento alla sua professione, al suo confronto quotidiano con giudici ed inquisitori - si era lasciato andare ad una confidenza: “Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”. Lui stesso, da lì a poco avrebbe subìto un processo ingiusto, e poi la tortura e la decapitazione; ma nelle forme stabilite dalla legge.
Non esiste altra forma di verità da quella professata da chi è investito di un potere ed ha facoltà di esprimersi sui fatti; ed è il potere giudiziario ad accertare i fatti e a punire gli impostori, o a salvaguardarli per ragioni di convenienza. È così, appunto, nel Consiglio d'Egitto, in 1912+1, ne La strega e il capitano.
Una concezione tragica dell'accertamento dei fatti; in cui la verità esiste ma - essendo le cose del mondo ordinate sulla base di decisioni prese d'imperio e calate dall'alto, conformi alla legge e all'opportunità del momento - la verità non è possibile raggiungere: la si può solo prospettare, teorizzare e persino narrare (è questo lo spirito con cui vengono costruiti La scomparsa di Majorana e l'Affaire Moro). Il mondo sarebbe dunque una fittissima trama di verità impossibili, puntualmente soffocate dalle verità costituite. Quando Sciascia, in una delle sue frasi più celebri e ripetute (tratta appunto dall'Affaire), afferma: <
Ad una verità che sicuramente non coincide con la giustizia, che è un insieme di forme appannaggio dell'autorità e dei poteri costituiti. Ripercorrendo l'opera sciasciana, ci si renderebbe conto che in nessun caso la verità coincide con la giustizia (quella formalmente intesa: che è l'unico modo di intenderla). In alcune storie (A ciascuno il suo, Il giorno della civetta: i "gialli" senza soluzione, dunque senza verità) le risultanze giudiziarie non sono di concreta utilità; in altre (Il contesto, Porte aperte, Una storia semplice) gli organi giudiziari volutamente impediscono un pieno e genuino accertamento dei fatti; in altre ancora l'esercizio della giustizia si traduce in mero arbitrio, in mistificazione della verità (ne è un fulgido esempio Morte dell'Inquisitore). Ed una giustizia che non riesce a tradursi in verità merita di essere sovvertita: ne consegue che gran parte dei suoi romanzi sono apologhi alla sovversione dei poteri costituiti, perché arroganti, prevaricatori, mistificatori, anche se non individuabili perché abilmente nascosti in ogni piega della società: in questo senso poteri mafiosi. E' una sfida impari, quella stessa del protagonista di Todo modo innanzi al potere torbido e informe; quella stessa del Vice, ne Il cavaliere e la morte.
La verità che Sciascia ha in mente è piuttosto il frutto di un processo dettato dalla ragione. Non può tacersi la sua vocazione illuminista, né possiamo mai allontanarlo dal suo pantheon con Voltaire e Diderot, ma con anche i moralisti Montaigne e Pascal, del quale sembra - ma non se ne hanno evidenze bibliografiche - che Sciascia amasse citare la frase: “Non potendosi trovare la giustizia, si è trovata la forza”. La giustizia come brutale esercizio di potenza e prevaricazione; la verità come frutto impossibile della ragione: nel mezzo, l'utopia del diritto, che pure, da settant'anni a questa parte, con l'avvento della Costituzione repubblicana, ha una chiara matrice liberale ed illuminista.
Invero, neppure l'avvento dell'illuminismo giuridico sembra, agli occhi di Sciascia, aver permeato di ragione la procedura giudiziaria, che appare sempre troppo inquisitoria, sempre troppo asservita a logiche di prevaricazione. Egli ripercorre - fonti alla mano - la storia giudiziaria della Sicilia, metafora italiana, che affonda (forse ancora profondamente) le proprie radici nell'Inquisizione, e racconta di giudici e condannati, mistificazioni, imposture e impunità nei romanzi (Sciascia direbbe: "racconti") già citati, con l'aggiunta di tanti altri cammei letterari: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, oppure la Nota a margine della "Storia della colonna infame", del "suo" Alessandro Manzoni, con graffianti accenni all'attualità. Attualità che viene pienamente investita dalla critica sciasciana nelle raccolte Nero su Nero e sopratutto in A futura memoria.”
Nell'ultimo suo libro, Una storia semplice, fatalmente uscito il giorno della sua morte, la frase che fa da esergo è tratta da "Giustizia", di Durrenmatt: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Egli davvero non aveva mai smesso di ricercare la giustizia, in un (impossibile?) accoppiamento alla verità ed alla ragione. Ma è pur sempre - quella a cui lui tendeva - una giustizia che scaturisce dalla ragione: “Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono”. E si torna così, inutilmente, al punto di partenza: alla sconfitta della ragione, una sconfitta che Sciascia ha sempre - personalmente - preventivato. Dichiarava ad un giornale francese: “Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O, più dimessamente, di delusioni. Da ciò lo scetticismo; che non è, in effetti, l'accettazione della sconfitta - preventivata e ragionata - ma il margine di sicurezza, di elasticità per cui la sconfitta non diventa definitiva e mortale”.
In pochi sanno che nel piccolo studiolo di casa Sciascia, in contrada Noce, nell'immaginifica Racalmuto, è - ancora - appeso alla parete un quadretto dalla minuscola didascalia: "Muriò la Verdad". È la riproduzione dell'acquaforte di Francisco Goya custodita al Museo del Prado, che raffigura una donna esanime circondata da una moltitudine confusa di persone che la compiangono: riesce appena a cogliersi la figura di un prete che impartisce una impietosa benedizione, un monaco e altri visi occhialuti appartenenti a sagome distinte. Fa una certa impressione l'idea che Leonardo Sciascia abbia avuto alle sue spalle, una volta al tavolo di lavoro, la "Verità è morta".
Attraversare il corpus sciasciano vuol dire allora supporre, con cognizione di causa, che tra gli uomini che fanno da contorno alla donna che incarna la Verità di Goya - tra i quali se ne scorgono alcuni occhialuti e distinti - figurano gli inquisitori e i giudici: i magistrati. Questa immagine è senz'altro armonica nel suo sistema di opere, con l'insieme dei suoi personaggi: in cui il magistrato - narrato in chiave storica o moderno investigatore - è non raramente l'anti-eroe, che fronteggia ed infine soverchia un proprio subordinato: un semplice brigadiere in Una storia semplice, un semplice ispettore ne Il contesto; oppure, anche, un semplice giudice rispetto ad un superiore collega, come nel più intenso dei suoi libri: Porte aperte. Anche nell'alveo della giustizia si replica quindi lo scontro del forte con il debole, di chi ricerca inutilmente la verità (dentro o fuori le forme della giustizia stessa) al cospetto dell'organo di giustizia. Si replica quindi, per dirla sempre con le parole di Sciascia, ”la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”
Rimane la "sicilitudine", ovvero la particolare dimora letteraria di Leonardo Sciascia, ove il modo di sentire, di essere, di vivere dei siciliani si evidenziano. E' la "sicilitudine" il nucleo incandescente della sua opera: “Tutti i miei libri ne fanno uno sulla Sicilia”; come tutti i suoi personaggi emergono dalla "metafora" siciliana. E per tutto quanto si è detto il magistrato siciliano può essere considerato, sotto l'aspetto prettamente letterario, l'eroe e al tempo stesso l'anti-eroe sciasciano: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica
di Marianna Gensabella Furnari*
Sommario: 1.Le vaccinazioni come questione bioetica. 2.I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca 3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti. 4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia 5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
1.Le vaccinazioni come questione bioetica
La scoperta dei vaccini anti-Covid-19, la loro approvazione e ancor più l’inizio della campagna vaccinale costituiscono, come è stato detto diverse volte, una luce in fondo al tunnel. Ciò di cui disponevamo prima per contenere la diffusione di questo virus, tanto potente quanto sconosciuto, ricordava le misure per combattere le epidemie del passato, una forma di prevenzione primaria: basata sul mutamento degli stili di vita, fatta di distanziamento, mascherine, lavaggi ripetuti delle mani, disinfezioni. Ciò che abbiamo ora è un’arma molto più potente, un balzo in avanti dall’antico al moderno, consentito dalla scienza e dalla tecnica. Un’arma che, a differenza delle prime, può sradicare il virus, come hanno mostrato in un passato non molto lontano alcuni vaccini[1].
Eppure di fronte a questa luce, non poche sono le ombre, le domande, le inquietudini che affiorano in molti di noi. I vaccini appartengono infatti alle misure di prevenzione che, già di per sé, difficilmente riscuotono la piena adesione da parte della popolazione, e in più sono farmaci che vengono iniettati in un corpo sano: per proteggerlo da un eventuale contagio e al tempo stesso per proteggere la comunità, certo, ma, in quanto farmaci, sempre soggetti a provocare effetti collaterali. Il rapporto tra rischi e benefici attesi è per i vaccini convalidati in chiaro saldo positivo. Ma ci fidiamo di ciò che dicono gli scienziati? Non sempre, non tutti. Una comunicazione poco corretta accentua la possibilità di eventi avversi, oscurando la luce che i vaccini gettano su epidemie più o meno virulente, più o meno pericolose. Da qui quell’”esitazione vaccinale”[2] che può giungere anche al rifiuto. Ma possiamo rifiutare di vaccinarci?
Ritagliandosi all’interno del delicato rapporto tra salute individuale e salute pubblica, i vaccini aprono una serie di problematiche che debordano dal piano meramente scientifico, andando ad investire quello etico e giuridico. Ad essere chiamati in causa non sono solo le nostre scelte individuali e le loro ripercussioni sulla collettività, ma anche le scelte sociali e politiche che stanno alla base delle campagne vaccinali, i principi etici, le norme giuridiche che devono regolare le une e le altre. Ponendosi quindi tra scienza, etica e diritto, il tema delle vaccinazioni ricade nell’ambito interdisciplinare della bioetica.
Già nei primi anni del suo operato il Comitato Nazionale per la Bioetica (di seguito CNB) dedica al tema delle vaccinazioni un parere, Le vaccinazioni, del 22 settembre 1995, che, nel metterne in luce l’importanza, evidenzia “il piano bioetico della questione”, non sempre investito correttamente nel dibattito[3]. Sullo stesso piano bioetico, ancora una volta poco frequentato dal dibattito politico e massmediale sui vaccini, richiama l’attenzione il parere I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
Il parere è pubblicato prima dell’inizio della campagna vaccinale, in un momento segnato ancora da grande incertezza sia sulla disponibilità dei vaccini, ancora in corso di approvazione da parte delle Agenzie regolatorie, sia sulle modalità della loro distribuzione. Il CNB propone, quindi, una riflessione etica preliminare, indicando i principi e i criteri generali su tre aspetti giudicati fondamentali (la sperimentazione sui vaccini, il loro costo, la loro distribuzione), nella piena consapevolezza che l’evolversi della situazione porterà ad ulteriori riflessioni sull’applicazione dei principi e criteri etici indicati.
Qual è il senso di questa riflessione preliminare? Sarebbe stato meglio aspettare che i vaccini in fase già avanzata di sperimentazione passassero al vaglio delle Agenzie regolatorie, fossero disponibili e che il piano vaccinazione venisse varato? Il senso del parere è proporre, tenendo fede al mandato istituzionale del Comitato[4], una riflessione bioetica preliminare, che serva da orientamento sia al Governo, sia all’opinione pubblica: una riflessione sui principi etici fondamentali che devono guidare la campagna vaccinale, e che al tempo stesso indichi la via per preparare la popolazione ad un’adesione consapevole e responsabile alla vaccinazione.
Non si tratta di una campagna vaccinale tra le altre, ma della più imponente che la storia ricordi, dal momento che coinvolge, così come il virus, tutti i paesi del mondo. Come accade per altre tematiche, anche qui la pandemia pone in evidenza, agendo come una lente di ingrandimento, i problemi sollevati dalle vaccinazioni.
2. I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca
Il primo problema è rispondere alla domanda che è nella mente di tutti: i vaccini sono sicuri? Una domanda che non riguarda solo i vaccini anti-Covid-19. Già nel primo parere del 1995 il CNB affrontava il problema dei sospetti nei confronti dei vaccini, delle paure di effetti collaterali, che possono determinare un rifiuto dei vaccini stessi. La risposta era semplice e chiara: in realtà i rischi sono presenti, come per ogni farmaco, ma sono ben bilanciati dai benefici, e sicuramente sono minori dei rischi che si corrono non vaccinandosi[5].
Per i vaccini anti-Covid-19 vi è una paura, un’incertezza in più, determinata dai tempi brevi, molto più brevi rispetto agli altri vaccini, trascorsi dall’inizio alla fine presunta della sperimentazione: possiamo considerarli sufficienti? Ed è questo il primo punto su cui il CNB prende posizione: “sebbene sia ovvio che le ricerche per un vaccino scientificamente valido ed efficace debbano avere una corsia preferenziale, al fine di tutelare la salute individuale e pubblica, l’emergenza non deve portare a ridurre i tempi o addirittura ad omettere le fasi della sperimentazione, definite dalla comunità scientifica internazionale requisiti indispensabili sul piano scientifico, bioetico e biogiuridico, per garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia di un farmaco”[6]. L’abbreviamento dei tempi può riguardare solo le procedure per la revisione delle ricerche, incidendo esclusivamente sulla parte amministrativa e burocratica.
L’etica della ricerca deve quindi rimanere rigorosa nell’accertare la validità della sperimentazione, ma anche rispettando il principio della gratuità nel reclutamento dei volontari sani, attuando confronti tra i vaccini approvati, nonché tenendo conto degli ultimi studi sulla genomica[7].
3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti
Altro problema che riguarda la produzione dei vaccini è il loro costo. Dal momento che proteggono un bene prioritario, la salute, agendo contemporaneamente a livello della salute individuale e di quella pubblica, i vaccini hanno, come già affermava il parere del 1995, un “valore sociale”[8]. In tempi di pandemia questo valore appare ancora più importante, un valore essenziale per la difesa della salute, che deve, proprio per questo, essere “messo a disposizione di tutti all’interno di ogni Paese e di tutti i Paesi”[9]. Un’affermazione forte, che si scontra con le leggi di mercato, opponendovi un’etica della solidarietà. È il tema scottante del “costo di un bene comune”: un tema, come il parere ricorda, già all’attenzione dell’Unione europea e al centro del programma globale Covax[10]. Anche qui ritroviamo, messo in luce dalla pandemia, un problema di sempre, doloroso, tragico: il costo di farmaci essenziali per la salute come discrimine tra chi può e chi non può pagare. Il CNB non si limita a raccomandare che il vaccino venga considerato un bene comune e che le istituzioni controllino che produzione e distribuzione non siano regolate unicamente dalle leggi del mercato, ma sottolinea che tale raccomandazione “non deve rimanere un mero auspicio, ma piuttosto un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati”[11]. La raccomandazione assume, quindi, i toni forti dell’indicazione di un dovere di solidarietà, di un fermo richiamo non solo agli Stati, ma anche alla responsabilità sociale delle industrie farmaceutiche.
Ma il Comitato va ancora oltre: la pandemia ci pone di fronte ad un’alternativa in realtà illusoria: tra un agire solidale e un difenderci gli uni dagli altri. È l’alternativa di fronte a cui ci pone il vincolo di interdipendenza che da sempre ci unisce e che il virus, con il suo viaggiare tra di noi, ha messo in luce. Un vincolo che ci vede tutti vulnerabili, e insieme tutti capaci di cura, ma con potenzialità diverse di forza e di debolezza. La tentazione è di cercare di farcela da soli, facendo leva ognuno sulla propria forza e ignorando o peggio sfruttando le debolezze degli altri. Una tentazione illogica, irrazionale: il virus lo mostra, superando i confini, tornando a noi da quelle parti del mondo che pensavamo di poter abbandonare al loro destino. In realtà dobbiamo passare dall’interdipendenza alla solidarietà, perché solo la prima opzione, la collaborazione internazionale a livello scientifico ed economico può funzionare, può portarci fuori da questa crisi.
Ed ecco che la lente ingrandita funziona anche come possibile orientamento per azioni future: “Il Comitato auspica che l’attenzione per un’equa distribuzione del vaccino anti-Covid-19 non resti un caso isolato, ma diventi l’occasione per costruire una solidarietà internazionale che ponga fine alle gravi limitazioni nella tutela della salute che ancora permangono in molti Paesi”[12]. Utopia? Forse, ma un’utopia quanto mai necessaria oggi[13], e di cui la pandemia mette in luce, come mai prima, l’esigenza.
4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia
Una volta che sia autorizzata la distribuzione dei vaccini, e che questa sia, come si raccomanda, per tutti, altre sfide sono da affrontare. Il parere parla di sfide di “carattere pratico ed economico per non correre il rischio di trovarsi impreparati nella raccolta e distribuzione del vaccino”[14]. Una preoccupazione non da poco, che avvertiamo forte nel momento in cui scriviamo, dato che è questa la fase cruciale che ora stiamo attraversando. Una preoccupazione che, non a caso, ritorna nelle raccomandazioni, dove al punto sulla distribuzione si raccomanda “che venga pianificata in anticipo la realizzazione del programma di vaccinazione per non trovarsi di fronte a carenze strutturali e organizzative, in particolare evitando che le dosi disponibili di vaccino rimangano in stoccaggio per non aver anticipatamente predisposto le misure necessarie a garantire una rapida distribuzione, ed individuando con chiarezza le professionalità necessarie ad eseguire le vaccinazioni”[15]. Ma si tratta solo di sfide di carattere pratico ed economico? Al fondo di tali scelte si tratta di una responsabilità sociale di non poco conto, che impegna a pre-vedere e ad essere pre-parati: la preparadeness, su cui il CNB richiama l’attenzione in altri pareri dedicati al Covid-19[16].
La distribuzione pone però anche un altro problema etico fondamentale: dal momento che si pensa che inizialmente le dosi di vaccino saranno limitate, come stabilire le priorità? Qui il parere non può che limitarsi a ricordare il principio etico che deve guidare le scelte di distribuzione, senza poter individuare i gruppi di persone che avranno la priorità. Questa individuazione è, infatti, connessa ai dati, ancora non disponibili nel momento della stesura del parere, sulle sperimentazioni per ottenere i vaccini, in particolare alla conoscenza dei gruppi di persone su cui sono state effettuate. Il principio però va oltre i dati specifici che potranno consentire l’individuazione dei gruppi da vaccinare per primi: funziona come guida, orientamento per stabilire le priorità. Ed è il principio di giustizia, ripensato nella sua complessità: come principio dell’uguale dignità di ogni essere umano, che obbliga quindi a non discriminare alcuno, e al tempo stesso come “equità”, eguaglianza sostanziale, che tiene conto delle differenze, delle diseguali condizioni di partenza, riparandole attraverso una considerazione delle particolari vulnerabilità[17]. Al richiamo che giustamente il parere fa, all’art. 3 della Costituzione, si può dal punto di vista etico affiancare il richiamo alla teoria della giustizia di Rawls[18], nonché al principio di giustizia così come ripreso nel principialismo di Beauchamp e Childress[19].
Notiamo che il Comitato si preoccupa anche dell’applicazione di questo principio, perché è consapevole della complessità della questione e di come le scelte nell’individuazione delle priorità debbano essere corrette e trasparenti. Auspica quindi che “l’attribuzione specifica dei singoli gruppi nelle diverse fasi sia definita, con i criteri sopra raccomandati, sulla base di competenze multidisciplinari (medici, bioeticisti, giuristi, rappresentanti di pazienti, sociologi, statistici, ecc.) in modo che sia possibile valutare la situazione concreta al momento”[20]. Nulla si dice, e credo appositamente, sull’organizzazione di eventuali commissioni o comitati in cui tali competenze possano interagire, ma è significativo il richiamo alla multidisciplinarità, come momento chiave per un’attribuzione che sia la più giusta possibile.
5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
L’ultimo problema trattato nel testo è quello centrale in ogni campagna di vaccinazione: se si debba o no stabilire un obbligo di vaccinarsi. Il problema ci riporta al punto focale della questione bioetica delle vaccinazioni: la loro funzione di tutela della salute del singolo e della comunità a cui appartiene, del “bene del singolo” e del “bene di tutti”. Un’indicazione che è ben lungi dall’essere una “formula magica”, come già notava il parere del CNB del 1995[21]: l’e di congiunzione può essere fonte di tensioni, nel momento in cui il singolo non riconosca nel vaccino un bene per la propria salute. Che fare dunque di fronte al rifiuto della persona di vaccinarsi?
La questione è giuridica e, prima ancora, etica.
Nel parere del 1995 il Comitato aveva già preso posizione in merito, notando la complessità del problema: “Pur tenendo conto dell’obiettiva difficoltà di stabilire una chiara delimitazione tra diritti individuali e diritti collettivi, si ritiene che lo Stato abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di promuovere le vaccinazioni considerate essenziali dalla comunità scientifica internazionali non solo attraverso campagne di informazione ed educazione sanitaria, ma anche, se necessario, con altre modalità più incisive”[22]. Quali? Si può giungere all’obbligatorietà? Nel parere si espongono tre diverse posizioni presenti in alcuni stati: misure coercitive indirette, ossia l’obbligo di esibire il certificato di vaccinazione al momento dell’iscrizione all’asilo nido o alla scuola elementare, un atteggiamento più articolato, che considera il rifiuto della vaccinazione illecito, ma non perseguibile penalmente, una coercizione esplicita, sia per la popolazione infantile, che per alcune categorie professionali. Ciascuna di queste posizioni viene considerata dal CNB “ugualmente accettabile, purché raggiunga lo scopo, rappresentato da una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio”[23]
Insomma, l’imposizione è ammessa, come si dirà più avanti, come “eventuale”, in virtù del significato della vaccinazione, che persegue “due scopi pratici inscindibili”, la salvaguardia della salute dell’individuo e la tutela di coloro che gli sono vicini.[24]
Il tema dell’obbligatorietà ritorna nella mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015: una mozione sollecitata dall’allarme per la diminuzione della copertura vaccinale contro il morbillo, per il conseguente aumento dei casi nel 2014 e, più in generale, dalla preoccupazione per la tendenza diffusa a dilazionare o addirittura rifiutare la somministrazione delle vaccinazioni, sia quelle obbligatorie, che quelle raccomandate dalle Autorità sanitarie.
Di fronte a tale tendenza, il Comitato avverte l’esigenza di ribadire il valore delle vaccinazioni, che qui viene indicato non più come “valore sociale”, ma come “valore etico”: “il CNB ribadisce come i vaccini costituiscano una delle misure preventive più efficaci con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo e con un valore non solo sanitario, ma etico intrinseco assai rilevante”[25].
È forte, quindi, il richiamo alla responsabilità personale e sociale nell’assicurare una copertura adeguata, sia per le vaccinazioni obbligatorie, che per quelle raccomandate. Per raggiungere tale obiettivo il CNB indica la promozione di efficaci campagne di informazione, comunicazione ed educazione, che comprendano anche la stigmatizzazione del diffondersi di falsità e pregiudizi. Ma se ciò non bastasse?
“In conclusione, il Comitato ritiene che debbano essere fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso programmi di educazione pubblica e degli operatori sanitari, non escludendo l’obbligatorietà in casi di emergenza”[26]. Insomma, l’obbligatorietà non viene per prima, ma è consentita come ultima ratio, là dove se ne ravvisi la necessità.
Questa posizione presa dal CNB nel 2015 è presente anche nel parere sui vaccini anti- Covid-19 che stiamo esaminando. Il Comitato ribadisce all’inizio come sia “sempre auspicabile il rispetto del principio che nessuno subisca un trattamento sanitario contro la sua volontà e, quindi, tendenzialmente la preferenza dell’adesione spontanea rispetto ad un’imposizione autoritativa, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano”[27] . Anche se non esplicitato è chiaro qui il riferimento all’art.32 della Costituzione e alla legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, così come dal punto di vista etico è chiaro il riferimento al rispetto del principio di autonomia. Ma fino a che punto? Qual è il limite?
Subito dopo l’auspicio al rispetto dell’autonomia e la dichiarazione di preferenza per l’adesione spontanea, troviamo un’apertura sull’obbligatorietà, laddove si ravvisi la necessità di raggiungere una copertura vaccinale adeguata: “Tuttavia il Comitato è altresì consapevole che sono riconosciute per legge nel nostro ordinamento ed eticamente legittime forme di obbligatorietà dei trattamenti sanitari, quali appunto il vaccino, in caso di necessità e di pericolo per la salute individuale e collettiva”[28].
Il limite è “il pericolo” per la salute non solo individuale, ma pubblica. Come ricorda il parere del 1995, richiamandosi alla sentenza n. 307 del 1990 della Corte costituzionale, le vaccinazioni obbligatorie sono costituzionalmente legittime solo se dirette contestualmente alla tutela della salute del singolo e della collettività. Ossia l’obbligo vaccinale può essere imposto “solo per quelle malattie che hanno carattere contagioso ed epidemico, ma non allorché è posta in pericolo solo la salute del singolo”[29].
Anche dal punto di vista etico il limite oltre il quale il rispetto dell’autonomia della persona cede è là dove metta in pericolo la salute degli altri. Ma se questo è il limite, occorre fare di tutto prima, per non scavalcarlo. Ancora una volta il richiamo forte del CNB è, come nella mozione, all’informazione e alla formazione. Possiamo leggere questo richiamo come un ulteriore rispetto del principio di autonomia, visto nel suo aspetto non solo negativo, non interferenza, ma anche positivo, come potenziamento della capacità di comprendere e di decidere[30]: l’informazione e, ancor più, la formazione, trasmettendo sapere e rafforzando la consapevolezza, sono infatti forme essenziali di potenziamento dell’autonomia della persona.
Ma quali sono gli ostacoli per tali azioni? In tempi di Covid emerge in modo più evidente la difficoltà di “comunicare” il sapere dagli esperti a chi esperto non è: un problema di sempre, con cui l’applicazione del consenso informato quotidianamente si confronta nella pratica clinica, là dove si voglia prendere sul serio l’autonomia del paziente. Un problema che nell’emergenza pandemica assume dimensioni più evidenti, viste le incertezze che ancora circondano il virus e, di conseguenza, i vaccini. Il richiamo qui non può che essere ai principi base di un’etica della comunicazione: la correttezza, ossia la veridicità, che impone l’attenta vigilanza sulle fonti e il rifiuto delle fake news, il rifiuto di trionfalismi ed enfatizzazioni, l’onestà nel confessare i limiti del proprio sapere, la fedeltà al patto di fiducia implicito con il destinatario. Questa comunicazione affidata agli esperti, anche qui sulla base di competenza multidisciplinari, riuscirà nel suo compito? Potrà condurre all’auspicata adesione spontanea? Sollecitare quel diffondersi della responsabilità individuale che ci faccia rimanere nel pieno rispetto dell’autonomia, onorandone il senso?
Lo speriamo tutti. E forse la cornice etica che dovrebbe accompagnare questa campagna vaccinale sul versante della comunicazione è quella tracciata dal CNB già nelle conclusioni del primo parere sulle vaccinazioni, là dove le vede non solo come un valore in sé, ma anche come “un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita”[31]. I vaccini sono anche questo: non solo una possibilità preziosa per difendere la nostra salute, ma anche una possibilità in più per ripensare la responsabilità che abbiamo nei confronti della salute nostra e di chi ci sta accanto, vedendo quell’e di congiunzione come segno dell’alleanza, della cura reciproca, occasione per vivere l’interdipendenza come vincolo solidale.
Lo sono ancor più i vaccini anti-Covid-19. E per un motivo evidente: il virus con la sua forza dirompente ha messo in luce in modo tragico, con la sofferenza di tanti, la nostra comune vulnerabilità aprendo dinanzi a noi tutti, più o meno provati, i sentieri di un’etica della cura. Sta a noi percorrerli con la ragione e il cuore, persuadendoci l’un l’altro che il bene salute non può che essere un bene comune da perseguire in una solidale alleanza tra le persone e tra i popoli.
* Prof. Ord. di Filosofia Morale, Università di Messina, Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
[1] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015, Comitato Nazionale per la Bioetica - L'importanza delle vaccinazioni (governo.it), p. 3.
[2] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, p140_2020_vaccini-e-covid19_it.pdf (governo.it), p.14, nota 21.
[3] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, 22 settembre 1995, Comitato Nazionale per la Bioetica - Le vaccinazioni (governo.it), p. 5.
[4] Sul sito del Comitato alla voce presentazione leggiamo: “Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 marzo 1990, svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti con il progredire delle ricerche e delle applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute”( Comitato Nazionale per la Bioetica - La presentazione del CNB (governo.it).
[5] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p.7.
[6] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 6. La stessa raccomandazione il CNB aveva già espresso nel parere La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia Covid-19: aspetti etici , 22 ottobre 2020, Comitato Nazionale per la Bioetica - La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia covid-19: aspetti etici (governo.it).
[7]Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., pp. 7-8.
[8] Già il parere del 1995 afferma il “valore sociale” dei vaccini, “in quanto oltre a proteggere la persona vaccinata riducono il rischio del contagio a carico della restante popolazione” (cfr. Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 8).
[9] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 8.
[10] WORLD HEALTH ORGANIZATION, COVAX: Working for global equitable access to COVID-19 vaccines, https://www.who.int/initiatives/act-accelerator/covax
[11] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 9.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, GEDI S.p.A., Roma 2017.
[14] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 10.
[15] Ivi, p.16
[16] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, COVID-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, 8 aprile 2020, pp.7-8; ID., COVID-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale, 28 maggio 2020, http://bioetica.governo.it/italiano/documenti/pareri-e-risposte/covid-19-salute-pubblica-liberta-individuale-solidarieta-sociale/, pp.8-10.
[17] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p.11.Il problema di una giusta distribuzione di risorse scarse era già stato preso in esame nel parere sopra citato dedicato al triage in emergenza pandemica.
[18] Cfr. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, tr.it. U. Santini, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1989.
[19] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F. CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica, tr.it. F. Demartis, Le Lettere, Firenze 1999, pp.321-386.
[20] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 12.
[21] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 5.
[22] Ivi, p. 8.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. ivi, p. 40.
[25] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, cit., p. 2.
[26] Ivi, p. 4.
[27] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 13.
[28] Ivi, p.13.
[29] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 29.
[30] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F.CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica,pp. 131-134.
[31] “In conclusione, le vaccinazioni vanno viste non solo di per sé, ma anche come un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita” (ivi, p. 42).
Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107)*
di Paolo Biavati
Sommario: 1. Il caso - 2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo - 3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza? - 4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
1. Il caso
Una società di capitali ricorre al Tar Piemonte contro un’informativa interdittiva antimafia della prefettura di Torino. Il ricorso viene respinto e la società presenta appello dinanzi al Consiglio di Stato. I giudici di Palazzo Spada rigettano l’impugnazione e, in motivazione, escludono nel caso di specie la sussistenza dei presupposti per sollevare la questione di illegittimità costituzionale della normazione antimafia, ovvero per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Contro la decisione del Consiglio di Stato la società propone ricorso in Cassazione, ai sensi degli artt. 111, comma 8°, cost. e 362, comma 1°, c.p.c., asserendo che il mancato rinvio a Lussemburgo è frutto di un percorso logico errato e – qui sta il punto – che in questo modo la suprema magistratura amministrativa ha violato il limite esterno alla sua giurisdizione, per avere invaso la sfera decisionale attribuita in via esclusiva ai giudici del Kirchberg, in base all’art. 267, comma 3°, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Con l’ordinanza in commento, le Sezioni unite dichiarano inammissibile il ricorso.
2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo
Il cuore della vicenda sta nella natura del rapporto che si instaura fra giudice nazionale di ultima istanza e Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.
La tesi fatta propria dal ricorrente mette in luce con forza il carattere obbligatorio, per il giudice interno contro le cui decisioni non vi sia un ulteriore livello di controllo, di effettuare il rinvio pregiudiziale tutte le volte che, in assenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale di Lussemburgo, sussista una questione di interpretazione del diritto (ovvero di validità di un atto compiuto dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi) dell’Unione, rilevante nel caso concreto. Investire o no la Corte di giustizia significa ammetterla o no ad esercitare la sua funzione giurisdizionale dichiarativa: il giudice interno, quando omette di procedere al rinvio, pur essendovi tenuto, invade abusivamente – nell’ottica di questa prospettiva – la giurisdizione della corte del Plateau Kirchberg. Ne segue che il Consiglio di Stato avrebbe travalicato i limiti della propria giurisdizione, esponendo quindi la relativa sentenza alla ricorribilità in Cassazione, a norma dell’ultimo comma dell’art. 111 cost.
Le Sezioni unite rimarcano, invece, che la decisione sulla necessità o no del rinvio pregiudiziale rientra nel potere giurisdizionale del giudice italiano: la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia – così si esprimono – “costituisce elemento processuale interno al processo, senza che essa risulti suscettibile di divenire oggetto di autonoma valutazione nell’ambito del sindacato di cui all’art. 111, comma 8°, cost.”.
Se l’afflato europeistico della tesi del ricorrente attira simpatia, resta pur vero che, a mio avviso, la pronuncia delle Sezioni unite merita piena adesione.
E’ certo superfluo ricordare che, in base ai trattati e al modo in cui è stato ripartito l’esercizio della giurisdizione, ogni giudice nazionale è applicatore (anzi, è il primo applicatore) del diritto dell’Unione e che solo al giudice nazionale spetta valutare se sussistano le condizioni per investire della questione interpretativa la Corte di giustizia[1].
L’equilibrio politico disegnato dai trattati si fonda sul presupposto della leale cooperazione fra giudici nazionali e Corte di giustizia, mettendo pienamente in conto il rischio che i primi omettano di richiedere l’interpretazione di Lussemburgo, pure quando vi sono tenuti. L’inosservanza dell’obbligo del rinvio non ha una sanzione diretta, almeno con effetti sul singolo caso, e i singoli non possono rivolgersi direttamente al Kirchberg. Tutto questo ha una logica: la supremazia del diritto dell’Unione non si attua mediante la supremazia delle corti europee rispetto ai giudici nazionali, ma solo attraverso la disponibilità ad un dialogo reciproco.
Mi permetto di sottolineare il fattore della reciprocità. Se, da un lato, si assiste a violazioni del dovere di rinvio da parte dei giudici nazionali, si nota, dall’altro lato, la costruzione in via pretoria, da parte della Corte, di un fitto sistema di limiti alla ricevibilità dei quesiti: limiti che non si trovano nei trattati e che, sotto varie forme (dalla mancanza di chiarezza del quesito, alla sua irrilevanza rispetto al caso concreto, alla natura fittizia della controversia) narrano di una politica di selezione dei casi, per cui il Kirchberg decide, senza appello, se e quando e a chi rispondere[2].
Intendo rimarcare che il sistema delinea la netta autonomia delle giurisdizioni e basa il suo funzionamento su di una paritaria relazione di lealtà: relazione che, ripeto, non va vista solo per stigmatizzare i giudici interni che non si rivolgono a Lussemburgo, ma anche per stigmatizzare Lussemburgo quando (specie su materie politicamente delicate) non risponde alle richieste di chiarimento dei giudici nazionali.
Immaginare qualcosa di diverso significa immaginare una struttura dell’Unione europea lontana da quella che è. Il disegno dei trattati, su questo aspetto, non si discosta nell’essenziale dalla primitiva forma delle Comunità: non si è mai voluto forzare la sovranità nazionale fino al punto di sanzionare direttamente il mancato utilizzo dello strumento del rinvio. Un giorno, forse, un supremo giudice europeo potrà rivedere le decisioni nazionali che abbiano violato il diritto dell’Unione: ma oggi non è così.
Rinviare o no a Lussemburgo significa decidere una questione di diritto, nel rispetto delle modalità processuali di ogni singolo Stato membro. Il giudice di ultima istanza può sbagliare: non solo quando non rinvia, laddove dovrebbe, ma anche quando commette un errore in diritto. Nell’uno come nell’altro caso, esercita il suo potere di decidere la controversia, e cioè la sua (ed esclusivamente sua) giurisdizione.
Ancora. Tutte le volte che il giudice a quo è tenuto a sospendere il processo, in attesa che una causa o una questione pregiudiziale sia decisa da un diverso organo giudiziario competente, mantiene sempre la giurisdizione sulla causa pregiudicata. Così avviene per la pregiudiziale penale, per quella costituzionale e, naturalmente, anche per quella europea. Una volta che l’antecedente logico-giuridico abbia avuto soluzione, il giudice riprende (salvo il rispetto dell’impulso di parte) la conduzione del processo pregiudicato, la cui cognizione non è mai passata al giudice della pregiudiziale. Del resto, la giurisdizione rimane in capo al giudice a quo anche se questi (in tesi, sbagliando) non si avveda o comunque non rilevi la situazione di pregiudizialità[3].
Ne segue che il mancato rinvio alla Corte di giustizia nel caso che ci occupa, anche ammesso che costituisse una violazione del diritto dell’Unione, non comportava in alcun modo una sottrazione di giurisdizione a scapito della Corte di giustizia, perché la giurisdizione sulla vicenda dell’interdittiva antimafia spettava dall’origine e rimaneva in capo agli organi della giustizia amministrativa italiana. La sentenza del Consiglio di Stato, dunque, non poteva dunque essere fatta oggetto di un’impugnazione in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Inammissibile, pertanto, il ricorso e ineccepibile l’ordinanza delle Sezioni unite.
3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza?
Se, dunque, la soluzione offerta al caso deve essere condivisa, resta aperto il tema, di quale tutela accordare al cittadino europeo, che faccia valere in giudizio una situazione soggettiva protetta dal diritto dell’Unione, che la veda disattesa dai tribunali di merito e che, infine, veda sfumare le possibilità di difesa perché la corte di ultima istanza si rifiuta, motivandolo o no, di sottoporre la questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia.
Il punto è molto importante. Come ho più volte sostenuto, la possibilità per la parte di ottenere giustizia suppone la corretta applicazione del diritto dell’Unione. Di fronte alle resistenze dei giudici del proprio ordinamento, la parte può sollecitarli a rivolgersi a Lussemburgo, sapendo che, sia pure a prezzo della trafila delle impugnazioni, potrà giungere dinanzi alla corte di ultima istanza, che dovrà finalmente sottoporre alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale[4]. Il rifiuto del giudice interno di ultima istanza spezza questo percorso ed espone la parte ad una grave privazione di tutela.
Con questa premessa, comunque si voglia guardare al problema, occorre rispondere francamente che una tutela piena e diretta non esiste.
Certo, la giurisprudenza di Lussemburgo insegna che una costante applicazione di norme interne in contrasto con il diritto dell’Unione espone lo Stato membro ad un giudizio di inadempimento ai trattati, seppure l’attività censurata provenga non dagli organi legislativi o amministrativi, ma da quelli giudiziari, che, nello stato di diritto, sono per definizione indipendenti. Prendendo le mosse da questa eventuale condanna, le parti processuali che sono risultate (ingiustamente) soccombenti nei processi interni potranno agire con una domanda risarcitoria a carico dello Stato. In sé, però, quei processi sono e restano persi[5].
Sul piano risarcitorio, si colloca ora (e tanto più dopo la legge n. 18 del 27 febbraio 2015) l’azione proponibile contro lo Stato per la responsabilità del giudice che abbia consapevolmente e palesemente violato il diritto dell’Unione, anche omettendo un rinvio pregiudiziale doveroso. Al netto della difficoltà di individuare un’ipotesi di responsabilità quando la decisione è collegiale, è comunque del tutto evidente che neppure per questa via si perviene ad una tutela equivalente a quella (in ipotesi, illegittimamente) negata.
Se, quindi, il sistema appare inadeguato, sotto il duplice profilo di una più intensa applicazione del diritto dell’Unione e di un’efficace protezione dei diritti individuali, mi pare che si debba prendere atto che questa imperfezione è conseguenza, come dicevo più sopra, dell’altrettanto imperfetto livello di integrazione europea. Né le originarie Comunità, né l’attuale Unione sono uno stato federale e, per il momento, il rispetto di talune sfere di discrezionalità nazionale rappresenta il prezzo politico da pagare per non alterare equilibri, la cui fragilità è sotto gli occhi di tutti.
Detto in altre parole. Ponendo l’obbligo di rinvio a carico dei giudici di ultima istanza, ma non sanzionandone in modo diretto l’inosservanza, i trattati hanno costruito una sorta di test sul grado di assorbimento del diritto europeo all’interno dei sistemi nazionali, accettando che il livello di cooperazione crescesse progressivamente, così come di fatto è accaduto, senza forzare la mano. Certo, in questo modo le sbavature sono inevitabili, ma occorre valutare realisticamente lo stato dell’arte.
4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
Occorre, infine, collocare l’ordinanza qui commentata nello scenario, quanto mai attuale, della verifica in sede europea della correttezza della posizione ermeneutica che restringe il controllo impugnatorio della Cassazione nei confronti dei Consiglio di Stato e della Corte dei Conti per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, non includendo nell’ambito applicativo dell’art. 111, comma 8°, cost., anche le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione europea[6].
L’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598 del 18 settembre 2020 è nota ed è stata resa già oggetto di articolati commenti, ai quali rimando[7]. Mi limito ad osservare che l’ordinanza qui esaminata vi fa riferimento, per notare che quella presa di posizione e il relativo rinvio a Lussemburgo non contrasta con la soluzione offerta al caso deciso.
Mi sembra chiaro, però, che in un diverso contesto culturale nessun avveduto difensore avrebbe potuto ipotizzare un ricorso in Cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato, individuando il “motivo attinente alla giurisdizione” nel mancato rinvio di una questione alla Corte di giustizia. Il ricorso, seppure dichiarato inammissibile, è parso plausibile perché il dibattito in corso si estende ad una possibile rivisitazione dell’equilibrio costituzionale fra il giudice ordinario e i giudici speciali, sullo sfondo, se non della giurisdizione unica, quanto meno di un riconoscimento di più ampi poteri alla Corte di Cassazione. La stessa (a mio avviso, criticabile) proposta di legge per l’istituzione del c.d. Tribunale dei conflitti rientra appieno in questa fase di riflessione[8].
Senza uscire dall’ambito del commento all’ordinanza n. 24107 del 2020, qualche osservazione su questo scenario non può mancare.
È interessante notare come la prospettiva, intorno alla quale ruota il dibattito, vede la Corte di Cassazione porsi come supremo garante interno dell’applicazione e, previo rinvio a Lussemburgo, dell’interpretazione del diritto dell’Unione. Ora, l’esigenza di rispettare l’art. 267 Tfue incombe su tutti gli organi giurisdizionali di ultima istanza, allo stesso modo della corretta applicazione del diritto positivo interno. L’eventuale ricollocazione delle scelte sul rinvio pregiudiziale, dal piano del processo a quello dell’esercizio della giurisdizione, non darebbe, di per sé, nessuna maggiore garanzia. La lealtà europeista non dipende dalle competenze astratte di questo o di quell’organo, ma dalla sensibilità dei singoli magistrati che li compongono. Se è vero che negli anni più recenti la Cassazione ha svolto in modo egregio il compito di dialogare con la Corte di giustizia, così non è sempre stato.
Le statistiche della Corte di giustizia ci dicono, a chiari numeri, che dall’inizio dell’avventura comunitaria a tutto il 2019, i giudici italiani hanno proposto 1205 rinvii pregiudiziali. Di questi, 1205 provengono da giudici di merito, 4 dalla Corte costituzionale, 204 dal Consiglio di Stato e “soltanto” 170 dalla Corte di Cassazione. Il mio “soltanto” intende dire che, a volgersi indietro, ci si accorge che Palazzo Spada, almeno quantitativamente, ha dialogato con Lussemburgo più di piazza Cavour.
Se, poi, si guarda alla percentuale di rinvii pregiudiziali effettuati dalle corti di ultima istanza rispetto al totale, risulta (per limitarsi ai paesi di più antica militanza europea) che le alte corti italiane raggiungono il 23,87%, quelle belghe il 25,78%, quelle francesi il 27,56% e quelle tedesche il 32,41%[9].
La dura franchezza dei numeri mi dice che, dietro all’elegante questione giuridica, nulla assicura che assegnare alla Cassazione l’ultima parola sui rinvii pregiudiziali porterebbe un incremento del dialogo con la Corte di giustizia.
Quanto all’equilibrio costituzionale italiano, il mio parere è che, in prospettiva, la giurisdizione unica sia preferibile: è lo stesso impatto del diritto europeo, che non distingue fra diverse tipologie di posizioni soggettive e assegna ai giudici di Lussemburgo il compito di decidere, con le medesime norme processuali, diverse tipologie di controversie, a spingere in questa direzione, rendendo ormai non più razionale la struttura interna. Si tratta, però, di una prospettiva lontana, per la quale i tempi non sembrano ancora maturi[10].
Non vi è dubbio, al contempo, che si assista a una sorta di deriva dei continenti: vi sono segnali che manifestano una qualche insoddisfazione per l’assetto attuale e la vicenda sottostante all’ordinanza qui commentata ne è un esempio.
Ora, è necessario evitare che la valorizzazione del diritto dell’Unione diventi, forse al di là delle intenzioni, non tanto il vero obiettivo di questo confronto, ma piuttosto il terreno su cui si combatte un’altra battaglia, che tende in qualche modo ad attenuare, se non a superare, l’equivalenza costituzionale fra i distinti plessi giurisdizionali.
Per tutte queste ragioni, l’ordinanza n. 24017 del 2020 è più importante di quanto non appaia ad un primo sguardo. Le Sezioni unite, con una serena e lineare motivazione, riconducendo correttamente al profilo processuale la decisione circa l’effettuazione o no del rinvio pregiudiziale, rispettano l’autonomia del Consiglio di Stato, si mantengono all’interno della ripartizione di funzioni voluta dalla Costituzione ed evitano controproducenti fughe in avanti, in un momento in cui occorre essere europeisti, ma con i piedi per terra.
* Ndr sull'argomento su questa Rivista Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) di Fabio Francario e uida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020. di Maria Alessandra SANDULLI e Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598) Giuseppe Tropea
[1] Si veda l’ampia monografia di RAITI, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003, specie p. 235 ss.
[2] Sulle forme di controllo della Corte di giustizia sulla ricevibilità dei quesiti pregiudiziali, v. D’ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2012, p. 101 ss.; RAITI, op. cit., p. 9 ss.; in lingua tedesca, MALFERRARI, Zurückweisung von Vorabentscheidungsersuchen durch den EuGH, Baden-Baden, 2003.
[3] Sul tema della pregiudizialità, v. per tutti ZUCCONI GALLI FONSECA, Pregiudizialità e rinvio (contributo allo studio dei limiti soggettivi dell’accertamento), Bologna, 2011.
[4] Ho utilizzato, in questo senso e con le opportune precisazioni, l’espressione “domanda pregiudiziale”, impiegata peraltro dall’art. 94 del regolamento di procedura della Corte di giustizia. V. in proposito, BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione europea, 5° ed., Milano, 2015, p. 412 ss. La mia impostazione non è condivisa dalla maggior parte della dottrina, che, peraltro, mi pare si limiti ad uno sguardo prettamente formale del fenomeno: v. ad es. D’ALESSANDRO, op. cit., p. 17 ss.
Sull’art. 94 del regolamento della Corte, v. GRASSO, sub art. 94, in AMALFITANO-CONDINANZI-IANNUCCELLI, Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 586 ss.
[5] Si veda la giurisprudenza inaugurata dalla Corte di giustizia con la sentenza Köbler (30settembre 2003, in causa C-224/01), su cui v. fra gli altri SCODITTI, “Francovich” presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale, in Foro it., IV, 2004, c. 4 ss.; RASIA, Il controllo della Commissione europea sull’interpretazione del diritto comunitario da parte delle corti supreme degli Stati membri, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1025 ss.; adde, si vis, BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2005, n. 2, p. 62-66.
[6] Il tema dei limiti della ricorribilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato è stato affrontato di recente in numerosi ed ampi contributi. Ne ricordo alcuni: ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007; PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, p. 587 ss.; POLICE-CHIRICO, I “soli motivi inerenti alla giurisdizione” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il processo, 2019, p. 113 ss.
[7] V. per tutti CARRATTA-COSTANTINO-RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS. UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in www.questionegiustizia.it; M. LIPARI, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia, in www.giustiziainsieme.it.
[8] Su cui v. per tutti TRAVI, Considerazioni sulla proposta di legge per l’istituzione del Tribunale dei conflitti, in www.questionegiustizia.it, 2019.
[9] Le statistiche della Corte di giustizia sono agevolmente consultabili sul sito istituzionale www.curia.europa.eu.
[10] Si veda la recente messa a punto di DEL ROSSO, Unità della giurisdizione e prosecuzione del processo. Contributo allo studio della translatio iudicii, Napoli, 2020. Fra i moltissimi contributi su questo argomento, ricordo quello di VERDE, Giurisdizione e giurisdizioni (un tema caro a Franco Cipriani), in Il giusto proc. civ., 2020, p. 17 ss.
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