ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede"*
di Antonio Mondini
Sommario: 1. Premessa - 2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati - 3. I dubbi di legittimità costituzionale.
1. Premessa
Il disegno di legge di iniziativa governativa presentato alla Camera il 28 settembre 2020 (atto Camera 2681) contiene disposizioni di delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare e disposizioni immediatamente precettive in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.
Queste ultime disposizioni, di modifica della legge n.195 del 1958 (recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), sono contenute nel Capo IV del disegno, composto dagli articoli da 20 a 38.
La riforma incide sulla composizione, sull’organizzazione (art. 20-27), sulla costituzione, cessazione e scioglimento del Consiglio (articoli da 28 a 34), sulla posizione giuridica dei suoi componenti e sul loro ricollocamento in ruolo (articoli 35. 36 e 37). Il capo si chiude con le disposizioni per l’attuazione e il coordinamento del nuovo sistema elettorale (articolo 38).
2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati
L’articolo 29 del ddl., sostituendo l’articolo 23 della legge 24 marzo 1958, n.195, introduce un nuovo sistema di elezione dei componenti togati, il cui numero è aumentato da 16 a 20 [1].
L’attuale art.23 stabilisce che i 16 membri togati sono eletti con criterio maggioritario a turno unico, in tre collegi nazionali: uno per consiglieri di Cassazione e i magistrati della Procura generale presso la Corte di Cassazione, in cui sono eletti 2 componenti; uno per i magistrati con funzioni giudicanti di merito in cui sono eletti 10 componenti, ed uno per i magistrati con funzioni requirenti di merito in cui sono eletti 4 componenti [2].
Ogni elettore può esprimere una sola preferenza per ciascuna delle tre categorie.
Con il nuovo art. 23, in luogo dei tre collegi elettorali nazionali per categorie funzionali e ad elettorato attivo aperto (nel senso che, come appena detto, ogni elettore vota per i candidati di ciascuna delle tre categorie), vi sono diciannove collegi elettorali -due speciali e diciassette territoriali- per categorie definite solo dall’appartenenza al collegio e ad elettorato attivo chiuso (nel senso che ogni elettore vota solo per i candidati del proprio collegio).
Più in dettaglio.
Dei due collegi speciali, uno è composto dai magistrati della Corte di Cassazione, della Procura generale presso la stessa Corte e del Tribunale superiore delle acque pubbliche. In questo collegio sono eletti due consiglieri. L’altro è costituito dai magistrati della corte d’appello di Roma, della DNA, dell’ufficio del massimario e dai magistrati fuori ruolo. Tra i magistrati di questo collegio è eletto un consigliere.
I diciassette collegi territoriali sono individuati con decreto del ministro della giustizia almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni. In ogni collegio territoriale è eletto un consigliere.
In luogo del vigente sistema maggioritario a turno unico, viene introdotto un sistema maggioritario a doppio turno; come oggi, vi sono candidature individuali e non di lista.
L’elettore esprime fino a quattro preferenze progressivamente ordinate e numerate, con obbligo di alternanza di genere.
Nei collegi diversi da quello di Cassazione, nel quale nessuno può essere eletto al primo turno, viene eletto il candidato che ottiene almeno il sessantacinque per cento dei voti di preferenza validamente espressi al primo posto sulla scheda.
Se nessun candidato ha ottenuto al primo turno la maggioranza necessaria, il secondo giorno successivo al completamento delle operazioni di scrutinio, si procede al secondo turno a cui accedono i quattro candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti di preferenza calcolati attraverso un meccanismo di percentuali da applicarsi in riduzione per voti indicati sulla scheda al secondo, terzo e quarto posto [3].
Al secondo turno ciascun elettore può esprimere sino a due preferenze sempre con alternanza di genere. Risulta eletto il candidato che ha ottenuto più voti. I voti di seconda preferenza sono computati con una riduzione percentuale.
Per il collegio della Cassazione il sistema è diverso perché nessuno è eletto al primo turno. I quattro magistrati che al primo turno ottengono il maggior numero di voti passano al secondo turno. Anche qui, con il ridetto meccanismo dei coefficienti di riduzione per i voti di seconda, terza e quarta preferenza. Solo al secondo turno si ha l’elezione dei due candidati. I voti di preferenza indicati al secondo posto nella scheda sono percentualmente ridotti [4].
3. I dubbi di legittimità costituzionale
Il sistema elettorale definito dal ddl. di riforma pare si esponga a dubbi di legittimità costituzionale. In più numerosi hanno riferimento all’art.104, comma 4, prima parte, secondo cui i componenti togati “sono eletti … da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”.
Riguardo a questa disposizione valgono tre ordini di considerazioni.
Il primo: l’elettorato attivo è riferito a tutti i magistrati. Tutti concorrono ad eleggere i consiglieri [5]. La categorizzazione è riferita solo all’elettorato passivo. In riferimento alla previsione contenuta nella legge istitutiva del Consiglio per cui ciascun magistrato poteva votare solo per i componenti appartenenti alla propria categoria (l. 24 marzo 1958 n. 195, art. 23, terzo comma) ([6]), la prevalente dottrina, fedele alla lettera e all’interpretazione storica della disposizione, ritenne la limitazione illegittima([7]); l’opinione contraria espressa dalla Corte costituzionale con sentenza 12 dicembre 1963, n.168([8]), è basata su uno (pseudo)argomento in conflitto con la lettera della disposizione e con la volontà dei costituenti: “se è vero che la Costituzione prevede la distinzione per categorie con riferimento soltanto all’elettorato passivo, da ciò non può derivare, come si assume, la illegittimità delle norme di attuazione per il fatto che agli stessi criteri di ripartizione si è attenuto per la formazione dei collegi elettorali. Giacché la rispondenza fra questi e le condizioni di eleggibilità (come si è del resto già rilevato nella ricordata sentenza 111 del 1963) non può ritenersi ingiustificata, anche in questo caso, dato lo speciale carattere dell’organo elettivo, preposto dalla Costituzione al governo della Magistratura e per garantirne l’indipendenza”([9]).
Il secondo ordine di considerazioni è il seguente: il riferimento costituzionale a “le varie categorie”, come sottolineato in dottrina, impedisce al legislatore di stabilire che magistrati appartenenti a determinate categorie funzionali non possono essere eletti e siano così esclusi dal Consiglio ([10]); nella sentenza 10 maggio 1982, n.87 ([11]), la Corte rilevò (punti 4 e 5 della motivazione) che il riferimento dell’art.104 alle categorie non esaurisce il proprio significato in quell’impedimento ma vincola, in positivo, il legislatore a dare un qualche rilievo all’articolazione degli eleggibili per categorie onde possa essere soddisfatta l’ “esigenza che all’esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici”.
Infine, il terzo ordine di considerazioni: il concetto di categoria non è precisamente determinato; dal combinato disposto degli artt.104, comma 4, e 107, comma 3, Cost. (secondo cui i magistrati si distinguono tra loro «soltanto per diversità di funzioni») risulta che debba essere legato alla funzione ([12]) ma ciò non consente di superare l’indeterminatezza giacché il fuoco si sposta sul concetto di funzione e, come rilevato dalla Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n.87 del 1982 (punto 5 della motivazione), “… stabilire quali e quante siano le categorie dei magistrati destinate a riflettersi sulla composizione del Consiglio superiore…” spetta al legislatore. Tuttavia “il legislatore non è completamente libero, senza doversi attenere a criteri di sorta, costituzionalmente rilevanti”. Il legislatore deve infatti, in primo luogo, dare rilievo alla fondamentale distinzione, costituzionalmente imposta, fra legittimità e merito ([13]) e, oltre, tener conto dell’imprescindibile correlazione, “desumibile da tutto il complesso dei lavori preparatori svoltisi in seno alla Costituente”, delle singole categorie “alle classificazioni dei magistrati configurate dalle leggi che concorrono a formare la normativa sull’ordinamento giudiziario”; in dottrina, analogamente, è stato evidenziato che la scelta del legislatore è “subordinata al generale principio di ragionevolezza, nel senso che comunque dovrà fare riferimento a categorie che assumono un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario” ([14]).
Alla luce di quanto precede appaiono di dubbia legittimità:
l’intero sistema di articolazione dell’elettorato attivo per categorie (corrispondenti a quelle dell’elettorato passivo) in conseguenza del quale gli appartenenti al collegio di legittimità possono eleggere solo due tra loro e non possono votare per gli appartenenti alla categoria dei magistrati di merito né per gli appartenenti a quella dei magistrati del collegio speciale riservato ai magistrati collocati fuori ruolo, ai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, ai magistrati della corte d’appello di Roma e della procura generale presso la medesima corte e ai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo; gli appartenenti al predetto collegio speciale non possono votare per altri che per gli appartenenti al proprio collegio; i magistrati dei 17 collegi elettorali territoriali non possono contribuire all’elezione dei due consiglieri del collegio speciale di legittimità né all’elezione del consigliere dell’altro collegio speciale. Il dubbio non è certo escluso dalla ricordata sentenza 168 del 1963. Essa costituisce un precedente ingombrante. Il riferimento, tuttavia, non può che essere alla Carta non ad una errata interpretazione della Carta;
il comma 3 del nuovo articolo 23 della l.195/58, secondo cui un collegio è costituito dai magistrati collocati fuori ruolo e dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte, dai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte e dai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Come si legge nella relazione di accompagnamento al ddl, questo collegio è stato costruito in considerazione di “peculiarità dimensionali e di composizione del distretto della corte d’appello di Roma e degli uffici nazionali in esso compresi”, sulla base di “ragioni di omogeneità dimensionali” rispetto al collegio di legittimità. La previsione normativa in esame individua una differenziazione fra magistrati non derivante da diversità di funzioni. In altri termini, tale previsione non ha riferimento ad alcuna categoria funzionale, ad alcuna classificazione “che assuma un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario”;
la eliminazione della differenziazione della categoria dei pubblici ministeri. Riguardo alla categoria dei magistrati di cassazione, la Consulta, nella sentenza n.87 del 1982, sul richiamo alla coeva sentenza n.86, ebbe ad affermare trattarsi di categoria della quale il legislatore ordinario “non può disporre” perché essa ha un preciso rilievo nella Carta. Mutati i riferimenti a quest’ultima -per i magistrati di legittimità la Corte evocò il disposto degli artt. 106, comma 3, e 135, comma 1 e 2, Cost., art. 111 Cost.; per la funzione requirente potrebbe evocarsi il disposto degli artt.107, ultimo comma, e 104, comma 3, l’affermazione di principio dovrebbe valere anche per la categoria dei magistrati del pubblico ministero ([15]).
Il nuovo articolo 23 della l.195 del 1958 pare esporsi ad un ulteriore dubbio di legittimità nella parte in cui stabilisce che i collegi elettorali territoriali sono individuati, prima di ogni elezione, dal ministro della giustizia. Per la precisione ai sensi dei riformati commi 4 e 5, il ministro, con il doppio limite per cui ogni collegio deve comprendere in via tendenziale un diciassettesimo del corpo elettorale e deve essere formato, “ove possibile”, nel rispetto del principio di continuità territoriale, può definire i collegi anche accorpando “più distretti di corte d’appello, ai quali, ove necessario sono sottratti o aggregati i magistrati appartenenti a uffici di uno o più circondari”[16]. Il potere ministeriale di modificare la mappa elettorale si traduce nel potere di influire sulla composizione, e quindi potenzialmente sull’attività, dell’organo garante dell’autonomia ordinamentale della magistratura [17]. Il dubbio si pone in riferimento all’art.104 della Carta, il cui primo comma enuncia il principio per il quale la magistratura costituisce ordine autonomo da ogni altro potere dello Stato [18] [19].
*L’articolo è stato pubblicato su judicium il 22 gennaio scorso, http://www.judicium.it/wp-cont...
[1] L’art. 20 del disegno di legge stabilisce altresì che i membri eletti dal Parlamento salgono a 10, in luogo degli attuali 8. I componenti elettivi si uniscono al Presidente della Repubblica che presiede il Consiglio (art.104, comma 2 Cost.) e al primo presidente e al procuratore generale della Corte di cassazione (art. 104, comma 3 Cost.).
[2] Ai sensi dell’art.24 della l. 195/1958 come modificato dall’art.6 della l. 28 marzo 2002, n.44, l’elettorato attivo è riconosciuto a tutti i magistrati con la sola esclusione degli uditori giudiziari ai quali, al momento della convocazione delle elezioni, non siano state conferite le funzioni giudiziarie, e dei magistrati che, alla stessa data, siano sospesi dall’esercizio delle funzioni per ragioni disciplinari. La norma non è stata aggiornata. A seguito della l. 30 luglio 2007, n.111, l’espressione “uditori giudiziari ai quali … non siano state conferite le funzioni giudiziarie”, deve essere intesa come riferita ai magistrati ordinari in tirocinio. L’elettorato passivo è riconosciuto a tutti i magistrati tranne che a coloro che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime per ragioni disciplinari, ai magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica; ai magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare; ai magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni; ai magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
[3] Nella relazione di accompagnamento si legge che i voti sono “diversamente «pesati» secondo l’ordine di indicazione del voto di preferenza sulla scheda”. E’ stato detto (Dal Canto, La riforma elettorale del CSM, relazione Seminario Annuale Associazione “GRUPPO di PISA”, 23 ottobre 2020, Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, in www.gruppopisa.it) “che il meccanismo con il quale vengono contati i voti espressi a favore dei candidati, sia al primo che al secondo turno, caratterizzato dal fatto di attribuire agli stessi un peso via via degradante a seconda del posizionamento nell’ordine delle preferenze, sembra ideato appositamente per rendere più difficile – ma non impossibile – ogni calcolo a monte: la sensazione che si ricava è che, pur di sbarrare la strada all’azione delle correnti – con accorgimenti che probabilmente si riveleranno inefficaci – si sia preferito approntare un sistema la cui “cifra” più caratterizzante è la sua “indecifrabilità”, senza una vera scelta di campo, senza una vera visione: per dirla con una battuta, un’idea non così lontana da una sorta di “sorteggio” travestito”. Se così fosse, il nuovo sistema elettorale si porrebbe in contrasto con il comma 4 dell’art.104 della Costituzione, che, con il prevedere che i membri togati (non di diritto) sono “eletti da tutti i magistrati tra gli appartenenti alle diverse categorie”, esclude ogni forma di sorteggio (sul punto, v. oltre allo stesso Dal canto, op. cit.; Zanon Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 5 ed., pag.40 s.; Tamburino, CSM, Sistema elettorale, Sezione disciplinare, in Giustizia Insieme, n.1-2/2011, 105; Luciani, Il sistema di elezione dei componenti togati del CSM, Relazione al Convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”, Roma, 23 giugno 2020, in www.questionegiusitizia.it2020; Rossi, Il punto (provvisorio) sui progetti di riforma del Consiglio superiore della magistratura, in Questione giustizia, n. 1, 2002, pag. 41 e ss.; Scarselli, Il Consiglio superiore della magistratura, in Dieci anni di riforme dell’ordinamento giudiziario (a cura di Romboli), in Foro it., 2016, parte V, col.157; Santalucia, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in www.giustiziainsieme.it. Con particolare riguardo all’ipotesi di previsioni introduttive di sorteggio “a monte” della votazione, ad un sistema cioè in cui l’elezione avvenisse tra un certo numero di sorteggiati, v. in particolare, D’Amico, I difetti dell’attuale sistema elettorale: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura, in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale (a cura di Bernabei e Filippi), Padova, 2020, pag. 37: “Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso onnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte”.). In realtà, la differenziazione del “peso” delle preferenze non ha niente a che fare con la sorte. Il candidato risulta eletto o non, a seconda del numero delle preferenze complessivamente espresse dai votanti. Con un metodo di ponderazione prestabilito, le preferenze, in base all’ordine in cui sono espresse, hanno un diverso valore.
[4] Quanto ai requisiti di elettorato attivo e passivo, il ddl. lascia i primi immodificati. Interviene invece sui secondi. Con l’art.30, modifica l’art.24 della l.195/58 sotto tre profili: innalzando l’anzianità minima per conseguire il diritto di elettorato passivo dagli attuali tre anni dalla attribuzione delle funzioni di magistrato di tribunale alla “terza valutazione di professionalità”: introducendo un limite di sei mesi per l’ineleggibilità dei magistrati che abbiano prestato servizio presso l’ufficio studi o la segreteria del Consiglio superiore della magistratura; introducendo una nuova ipotesi di ineleggibilità per coloro che fanno parte del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura o ne hanno fatto parte nel quadriennio precedente alla data di convocazione delle elezioni.
[5] Le limitazioni sono quelle previste dall’art.24 della l.195 del 1958, riportato alla precedente nota 2. La esclusione dall’elettorato attivo dei magistrati in tirocinio è conseguente al fatto che non essi non esercitano funzioni. Non pare quindi che detta esclusione sollevi dubbi di legittimità. Lo stesso può dirsi riguardo riguardo alla esclusione dei magistrati sospesi dalla funzioni.
[6]Ai sensi dell’art.23, primo comma, i componenti togati erano così ripartiti in base alla loro categoria: sei magistrati della Corte di cassazione (dei quali due con ufficio direttivo); quattro magistrati di Corte d’appello; quattro magistrati di tribunale. Vi erano: un collegio nazionale dei magistrati di cassazione (al tempo, precisamente, con qualifica di magistrato di cassazione anche se non con effettive funzioni. La illegittimità costituzionale dell’art. 23, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695, nella parte in cui prevedeva che i posti riservati ai magistrati di cassazione potessero essere assegnati a “magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni”, fu dichiarata con la sentenza 10 maggio 1982, n.87); quattro collegi territoriali dei magistrati di appello e quattro collegi territoriali dei magistrati di tribunale (artt. 25 e 26).
[7]Apponi, L’indipendenza interna ed esterna, in Magistrati o funzionari? (a cura di Maranini), Milano, 1962, pag. 20, s. “Ora è evidente … che l’elettorato attivo è costituito da « tutti i magistrati », per cui tutti i magistrati debbono eleggere tutti i magistrati eleggibili nel Consiglio superiore; mentre «gli appartenenti alle varie categorie» sono l’elettorato passivo. La legge sul Consiglio superiore, invece, comincia con il rompere la pariteticità tra le categorie dei magistrati”; Bonifacio Giacobbe, La magistratura, in Commentario della Costituzione, (a cura di Branca), Tomo II (artt.104-107), Bologna-Roma, 1986, sub art. 104, pag.63; Viesti, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Rassegna di diritto pubblico, 1958; Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, nota alla sentenza -di cui subito nel testo- n.168 emessa dalla Corte Costituzionale il 23 dicembre 1963, in Democrazia e diritto, pag.137 s. il quale dopo aver sottolineato che “la lettera dell’art. 104, il quale prevede l’elezione ad opera di «( tutti » i magistrati … suggerisce, come sua ovvia implicazione, l’idea di un corpo elettorale unitario e indiscriminato”, espone che “Ciò è rafforzato … dagli stessi lavori preparatori dai quali risulta che la formulazione poi adottata per questa parte dell’art. 104 venne preferita ad una diversa, la quale avrebbe invece suggerito la settorializzazione degli elettori, poi ripresa dal legislatore ordinario. Unitamente al testo della Commissione – «gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari secondo le norme dello ordinamento giudiziario)- vennero posti in votazione due emendamenti: uno (emendamento Scalfaro ed altri), che sostituiva «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario» con «fra gli appartenenti alle diverse categorie; l’altro emendamento (Targetti-Amadei), che, oltre a ciò, precisava “in rappresentanza di ciascuna di queste” Il Presidente, nel proporli all’Assemblea, sottolineò correttamente che l’emendamento Targetti-Amadei poneva condizioni sia per l’elettorato passivo che per quello attivo; ed in effetti, l’aggiunta sopra riferita comportava necessariamente che ogni magistrato fosse ammesso a votare per i rappresentanti della sua categoria soltanto. L’Assemblea, fortunatamente, respinse l’emendamento Targetti-Amadei, e subito dopo, approvò quello Scalfaro, che divenne cosi parte dell’art.104”; Mazziotti, Questioni di costituzionalità della legge sul Consiglio Superiore della Magistratura, nota a Corte Costituzionale n.168/1963, cit. in Giur. cost., 1963, II, pag. 1644 e ss., in part.1661 s.; contra Capaccioli, Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, nota a Corte Cost.168/1963, cit, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 265, sulla base della apodittica e fugace affermazione per cui, riguardo alla ripartizione o non ripartizione dell’elettorato attivo in categorie, “il legislatore ordinario godeva (e gode, in sede di eventuali modifiche) di una notevole sfera di discrezionalità applicativa e che la scelta che [il legislatore] ha fatto, con la legge del 1958, è una di quelle legittimamente possibili … il punto della suddivisione dell’elettorato in categorie o invece dell’unicità del corpo elettorale tocca la questione (di grande importanza) se si voglia evitare o invece conseguire il risultato di far dipendere l’intero esito delle votazioni (per gli eletti di tutte le categorie) dai soli magistrati di tribunale, che sono soverchianti per numero e per lo più maggiormente suscettibili di inquadramento organizzativo unitario ai fini elettorali, avrebbero presumibilmente influenza decisiva nell’ipotesi del corpo elettorale unico”; Torrente, voce Consiglio superiore della magistratura, voce dell’ Enciclopedia del diritto, vol. IX, Varese, 1961, p. 331.
[8] La sentenza è pubblicata, oltre che nelle Riviste citate alla nota precedente, in Foro it., 1964, I, 3 con nota di richiami; in Giust. civ., III, 1964, 3 e 30, con nota di Abbamonte; in Diritto e giurisprudenza, 1964, 50, con nota di Correale; in Giur. it, 1964, I, 1, 251; in Foro amm., 1964, I, 1, 74; in Giust. pen., 1964, I, 70 e in Temi nap., 1964, I, 3.
[9]Il virgolettato è tratto dal punto 6 della motivazione. Il conflitto con la lettera dell’art.104 comma 3, è evidente: il comma dice quello che dice e non solo non dice che i membri togati sono “eletti dalle varie categorie dei magistrati … tra gli appartenenti alle stesse categorie” né che“sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari votanti ciascuno per i componenti della propria categoria” (Apponi, ibidem, pag.21), ma riferisce la categorizzazione solo agli eleggibili dopo aver stabilito che “tutti” i magistrati eleggono i due terzi dei membri consiglio. Il conflitto con la volontà del costituente emerge dai lavori dell’Assemblea, su cui v. Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, cit. alla precedente n. 5, nonché Zanon Biondi, Il sistema costutizionale della magistratura, Bologna, 2019, quinta ed., pag. 63: “la Costituzione, nel riferirsi … [alle categorie], non voleva delineare un C.S.M. “corporativo” (quale risulterebbe da un’elezione nella quale i pubblici ministeri possono votare solo per i pubblici ministeri, i giudici per i giudici ecc.), imponendo essa di tenere conto della distinzione solo per ciò che riguarda l’elettorato passivo”. L’insostenibilità dell’affermazione fatta dalla Corte, dovuta al segnalato, irriducibile conflitto con la Carta, assorbe il rilievo per cui la seconda parte della frase riportata tra virgolette, che dovrebbe spiegare detta affermazione, è inidonea allo scopo data l’incomprensibilità, nel contesto, dell’espressione “speciale carattere” del Consiglio. Resta da osservare che con la sentenza 111 del 1963 lga Corte affrontò una questione del tutto diversa da quella della legittimità, rispetto all’art.104, comma 3, di una disposizione limitativa dell’elettorato attivo dei magistrati ordinari per l’elezione dei componenti del Consiglio Superiore. La questione era infatti quella della legittimità, rispetto al disposto dell’art.135, comma 1, della Carta secondo cui un terzo dei giudici costituzionali sono eletti dalle “supreme magistrature ordinaria e amministrative”, dell’art.2, lett.c), della legge 11 marzo 1953, n.87, che, col prevedere che del collegio per l’elezione del giudice costituzionale riservata alla Corte dei Conti fanno parte soltanto il presidente, i presidenti di Sezione, il procuratore generale, i consiglieri e i vice procuratori generali (tranne coloro tra essi che fossero in posizione di aspettativa o di fuori ruolo per esercitare funzioni non d’istituto), esclude dal collegio i primi referendari e i referendari della Corte medesima. La Consulta dichiarò la questione infondata sul motivo che la limitazione dell’elettorato attivo ai soli vertici della magistratura contabile era giustificata dall’ “alto compito” assegnato al collegio elettorale “di designare un terzo dei componenti della Corte costituzionale, l’organo a cui è affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e l’ordinata ed equilibrata convivenza degli organi costituzionali, tra i quali si suddivide l’esercizio della sovranità statale”. Aggiunse che la conformità all’art.135,comma1, di detta limitazione, legata a quell’alto, “gravoso” compito ed al ruolo della Consulta, trovava “conferma [nel]la norma contenuta nel secondo comma del medesimo art. 135 della Costituzione, strettamente collegata col primo, al quale dà e dal quale riceve luce, che, ispirata al medesimo intento, limita l’eleggibilità ai magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori, ai professori ordinari di università in materie giuridiche e agli avvocati dopo venti anni di esercizio: categorie, per prestigio ed esperienza, omogenee tra loro e con quelle che concorrono a costituire i collegi elettorali”. Dunque, mentre la sentenza 168/63 ha avuto ad oggetto una norma che introduceva una limitazione dell’elettorato attivo non assoluta ma corrispondente e correlata a categorie di eleggibili e a fronte di una disposizione costituzionale che riconosce l’elettorato attivo a “tutti i magistrati ordinari” e prevede categorie solo per gli eleggibili, la sentenza 111/63 ebbe ad oggetto una legge che, a fronte di una disposizione costituzionale limitativa dell’elettorato attivo alle supreme magistrature e seguita da altra disposizione costituzionale direttamente istitutiva di una limitazione “omogenea” per gli eleggibili, definiva gli elettori con assoluta esclusione di alcuni magistrati dalla partecipazione al collegio elettorale.
[10] Fiumanò, A proposito di un recente messaggio del Presidente della Repubblica, in Foro it., 1977, V, 192; Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 2017, fasc. 4.
[11] La sentenza è pubblicata in Foro it., 1982, I, 1497, con nota di Pizzorusso; in Giust. civ., 1982, I, 1697, con nota di Stella Richter; in Cons. Stato, 1982, II, 625; in Cass. pen., 1982, 893, con nota di Lattanzi; in Giur. it., 1982, I, 1473, con nota di Longo; in massima in Giur. it., 1983, I, 1, 1 con nota di Annunziata e in Giur. costit., 1982, I, 863.
[12] Bessone Carbone, Consiglio superiore della Magistratura, voce Digesto disc. pubb., aggiornamento 2012, che parlano di “categorie di stampo funzionale”.
[13] La sentenza n. 87 del 1982 richiama la coeva sentenza n.86 (punto 6 della motivazione). Per questo vincolo, in senso adesivo, in dottrina, Bonifacio Giacobbe, op.cit., pag. 59 s.: “Nel quadro della giurisdizione quale emerge dal disegno costituzionale … emergono esplicitamente due funzioni: quella di merito e quella di legittimità, collegate, l’una all’altra, dall’art.111 della Costituzione che impone il controllo della prima da parte della seconda, sul terreno appunto della ricerca della conformità a legge delle decisioni di merito”. La sentenza n.86/1982 è pubblicata unitamente alla sentenza n.87. Si richiamano le indicazioni di cui alla superiore nota 11.
[14] Zanon, Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ediz., Bologna, 2019, p.35 ss.
[15] V. infatti Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.60: “Una prima fondamentale distinzione, dunque, può essere affermata, coerentemente con il dettato costituzionale, tra merito e legittimità. D’altra parte, la stessa Costituzione assegna un ruolo autonomo alla funzione requirente come emerge in modo chiaro ed inequivoco dall’ultimo comma dell’art.107 ed in modo implicito dal terzo comma dell’art. 104 …. Conseguentemente, nel sistema costituzionale, la funzione requirente presenta una sua autonomia. Coordinando i dati dianzi reperiti sembra possa legittimamente affermarsi che, nella identificazione delle categorie di eleggibili, il legislatore ordinario debba procedere utilizzando la classificazione tra merito e legittimità e. nell’ambito di questa classificazione, tra funzione requirente e funzione giudicante”. A fronte di quanto precede non pare possa darsi rilievo alla frase contenuta nel punto 6 della motivazione della sentenza n.86 del 1982, secondo cui “la sola categoria funzionale di magistrati che assuma un preciso rilievo costituzionale” sarebbe quella dei magistrati di cassazione. L’affermazione si scontra con la realtà del dato normativo ed è il probabile frutto (errato) dell’avere la Corte esaminato il disposto della Carta nella prospettiva di stabilire se fosse o meno legittimo, rispetto agli artt. 97, primo comma, 105 e 107, terzo comma, l’art. 7 della legge 20 dicembre 1973, n. 831, che preveda “un sistema di nomina a magistrato di cassazione … caratterizzato dalla scissione dell’attribuzione della qualifica dalla assegnazione dei corrispondenti uffici”.
[16] Art. 23, comma 4 e 5.
[17]In base alla lettera del comma 4, il ministro, da un lato, non può aggregare ad un distretto o sottrarre da un distretto e quindi ad o da un collegio, singoli magistrati, dall’altro, può aggregare o sottrarre “uffici”. Quindi può traslare, ai fini dell’elezione, un ufficio giudicante di un tribunale da un distretto ad un altro distretto e lasciare l’ufficio requirente del medesimo tribunale nel distretto di appartenenza o viceversa. Il che potrebbe assumere notevole rilevanza in considerazione del fatto che dall’eliminazione della differenziazione tra la categoria dei magistrati giudicanti e quella dei magistrati requirenti, è probabile derivi, proprio nei collegi territoriali, una preponderanza delle candidature “forti” dei pubblici ministeri dovuta alla loro maggiore “esposizione mediatica” rispetto ai magistrati giudicanti.
[18]Nell’ambito della formulazione dell’art.104, comma 1, si è fatto riferimento al principio di autonomia e non anche a quello di indipendenza in adesione al rilievo di Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.10, 12, 13 s. e, in particolare, pag. 32 40, secondo cui i due principi, pur correlati, devono essere tenuti distinti dato che “mentre il primo si riferisce in via esclusiva alla magistratura, intesa nel suo aspetto organizzatorio (ordine), rappresentato dalla complessa articolazione (e distribuzione) dei giudici secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, e distingue – sarebbe improprio dire contrappone – cotesto ordine rispetto agli altri “ordinamenti” espressivi degli altri poteri dello Stato, il secondo -quello che si esprime attraverso la indipendenza – più che all’ordine nel suo complesso (la cui tutela rispetto agli altri poteri dello Stato risulta realizzata attraverso l’autonomia) concerne più specificamente la posizione del singolo giudice, nel concreto esercizio della giurisdizione”. Sul ruolo del Consiglio come organo garante della autonomia della Magistratura, in modo incisivo, Daga, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Milano, 1973, passim e, in particlare, p.284: “L’art.104 della Costituzionale, dopo avere solennemente definito la magistratura un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, passa a dare immediatamente le norme fondamentali sulla struttura del C.S.M. Appare immediatamente chiaro come il Costituente abbia voluto configurare nel Consiglio Superiore l’organo cui è attribuito la concretizzazione del principio di autonomia ed indipendenza della Magistratura (strumentale all’indipendenza della funzione) dagli atri poteri dello Stato”; in termini, di recente v. “al quale la Costituzione attribuisce la funzione di esprimere e di attuare l’autonomia dell’ordine giudiziario”, v., anche per essenziali riferimenti alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e alla dottrina, Erbani, Il ruolo costituzionale del Csm, in Foro it. 2019, V, col.19 ss.
[19] Il dubbio è condiviso da Grosso, Brevi note sulle possibili linee di una riforma della legge elettorale del CSM, in wwwconsultaonline, secondo cui il “rischio … è che si realizzino – per mano del ministro – i ben noti fenomeni di “gerrymandering” nella determinazione dei collegi, con evidente pregiudizio per lo stesso principio costituzionale di autonomia e indipendenza della magistratura”. L’Autore ricorda “che, ai tempi in cui [con la l. 12 aprile 1990, n. 74, ai sensi della quale vi era un collegio unico nazionale per l’elezione dei due magistrati con funzioni di legittimità, e per i diciotto membri scelti fra magistrati con funzioni di merito, vi erano quattro collegi territoriali] era previsto [che questi ultimi fossero formati mediante] l’accorpamento di diversi distretti di Corte di appello in circoscrizioni elettorali territoriali che venivano di volta in volta individuate ad ogni elezione, [l’accorpamento] avveniva per sorteggio, e non certo per discrezionale decisione del ministro”. Il dubbio in parola sta sullo sfondo sia della considerazione che si legge nella “scheda di sintesi” relativa al ddl di riforma, facente parte dello studio Sistema elettorale del Csm. Quale riforma, in wwwquestione.giustizia.it, secondo cui “la formazione dei collegi, affidata di volta in volta a un decreto ministeriale, consente che i collegi siano composti in modo tale da favorire questo o quel candidato”, sia della considerazione svolta da Dal Canto, op.cit., pag. 23, secondo cui “la previsione di affidare ad un decreto ministeriale la formazione dei collegi per ogni elezione, [può favorire], in ipotesi, la possibilità di definire gli stessi sulla base di situazioni e aspettative contingenti”.
La verifica di legittimità costituzionale delle leggi elettorali parlamentari. Come tutelare il diritto del cittadino a votare in conformità alla Costituzione
di Felice Besostri
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 177/2020 abbiamo una legge elettorale applicabile alla riduzione del numero dei parlamentari conseguente alla legge cost. n. 1/2020, con 400 deputati, di cui 8 della Circoscrizione estero e 200 senatori, di cui 4 della Circoscrizione estero da eleggere con un sistema elettorale misto maggioritario e proporzionale, con prevalenza di quest’ultimo. Non sono venuti meno i dubbi di costituzionalità della legge n. 165/2017, con la quale è stato rinnovato il Parlamento nel 2018, la cui scadenza naturale è prevista nel 2023. I dubbi sono aumentati con le modifiche apportate dalla legge n. 51/2019 e dalla riduzione del numero per le modalità con cui è stata attuata la riduzione specialmente al Senato, che comportano uno squilibrio non giustificato nella rappresentanza. Per la prima volta si pone il problema di una possibile incostituzionalità di una norma di rango incostituzionale, come prospettato dalla Consulta con la sentenza n. 1146/1988. Esiste il rischio concreto che si possano tenere elezioni anticipate addirittura prima del semestre che precede l’elezione del Presidente della Repubblica a partire dal gennaio 2022. Sarebbe la quinta elezione con una legge di sospetta costituzionalità dopo quelle del 2006, 2008 e 2013 con il Porcellum (legge n. 270/2005) e quella del 2018 con il Rosatellum (legge n. 165/2017). Per poterlo evitare occorre portare la legge in Corte Costituzionale. con un’ordinanza di rimessione ex art. 23 legge n. 87/1953 e che la stessa si possa pronunciare prima della convocazione delle elezioni, per evitare che si insedi un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale visto il precedente della sentenza n. 1/2014, che ha fatti salvi i parlamentari proclamati eletti, malgrado l’incostituzionalità della legge elettorale. Una lotta contro il tempo, la lunghezza dei processi e il ridotto numero dei tribunali competenti solo quelli dove ha sede l’Avvocatura dello Stato, mentre si dovrebbe poter contare sui tutti i Tribunali civili, come giusto per la tutela di un diritto costituzionale fondamentale, che si esercita nel Comune di residenza. Una scelta che spetterebbe al Governo favorire o ostacolare tramite l’Avvocatura della Stato e ai giudici applicare su impulso degli avvocati degli elettori. La legge elettorale vigente formalmente non attribuisce un premio di maggioranza, annullato nelle versioni precedenti di un premio attribuiti senza una soglia minima (sent. n. 1/2014) o in seguito a ballottaggio tra le prime due liste (sent. 35/2017), ma sempre senza garanzia di rappresentatività effettiva del corpo elettorale. Si pongono tuttavia problemi di rispetto dell’art. 48 Cost. in ordine ai parametri costituzionali dell’uguaglianza, della libertà e della personalità del voto, che si applicano anche ai sistemi misti, con prevalenza del voto proporzionale, 5/8 dei seggi, rispetto a 3/8 maggioritari e apparentemente senza premi di maggioranza. I dubbi di costituzionalità sulla legge elettorale vigente sono amplificati dall’entrata dei nuovi collegi e circoscrizioni elettorali in applicazione del taglio del Parlamento. Le incostituzionalità della legge elettorale sono amplificate dalla legge cost. n. 1/2020 di taglio lineare del Parlamento del 36,50%, va eccepita la sua incostituzionalità, come atto presupposto, argomentando ex sent. n.1146/1988 della Corte costituzionale?
Sommario: 1. Antecedenti e presupposti - 2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari – 3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale – 4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente – 5. La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili – 6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
1. Antecedenti e presupposti
Con la pubblicazione del d.lgs. 23 dicembre 2020 n. 177 “Determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma dell'articolo 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51.” nella G.U. Serie Generale n. 321 del 29-12-2020 - Suppl. Ordinario n. 45 si conclude l’iter della legge elettorale 27 maggio 2019, n. 51 “Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” in conseguenza dell’entrata in vigore il 5 novembre 2020 della legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 ”Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari. (G.U. Serie Generale n.261 del 21-10-2020). La legge costituzionale è stata promulgata dal Presidente della Repubblica con la formula “La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; Il referendum indetto in data 17 luglio 2020 ha dato risultato favorevole;” prevista dall’art. 25 della legge n. 352/1970, qualora sia stato chiesto, entro 3 mesi dalla pubblicazione in G.U. n. 240 del 12 ottobre 2020 del testo della legge costituzionale approvata a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi delle Camere, il referendum costituzionale previsto dall’art. 138 Cost. e lo stesso dichiarato ammissibile con ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione[1]. Nel caso di specie l’iter, già complesso è stato vieppiù complicato dalla pandemia COVID-19, perché il referendum costituzionale, indetto con d.p.r. del 28 gennaio 2020 per il giorno di domenica 29 marzo 2020, si è invece tenuto nei giorni di domenica 20 settembre e di lunedì 21 settembre 2020 in seguito al d.p.r. del 17 luglio 2020 in G.U. Serie Generale n.180 del 18-07-2020, senza che il termine previsto dall’art. 15 c.2 legge n. 352/1970, fosse formalmente modificato, a differenza di quello del primo comma, cui si era provveduto con l'articolo 81 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, portato da 60 a 240 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza di ammissione dell’UCR del 23 gennaio 2020.
In applicazione dei principi affermati con le sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 di annullamento parziale della legge elettorale n. 270/2005 e n. 35/2017 di annullamento parziale della legge elettorale n. 52/2015 è aperto per i cittadini elettori il ricorso per l’accertamento del loro diritto di votare in conformità alla Costituzione nel caso che la normativa elettorale vigente ingeneri un dubbio in proposito dell’estensione del loro diritto. Le sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017 hanno avuto come antecedenti presupposti le sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 in materia di ammissibilità di referendum abrogativo di leggi elettorali, dichiarato ammissibile, ma con avvertimento proprio sulla legittimità di un premio di maggioranza svincolato da una soglia minima in voti o seggi. I limiti al referendum abrogativo in materia elettorale sono stati precisati da due decisioni di inammissibilità la n. 13/2012 sulla legge n. 270/2005 di merito e più recentemente la n. 10/2020 in procedura sul referendum promosso da 8 consigli regionali per sostituire il sistema misto maggioritario/proporzionale con integralmente maggioritario di collegi uninominali da assegnare al candidato più votato. Le leggi elettorali sono considerate leggi “costituzionalmente necessarie” dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all'assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014). Gli annullamenti parziali sono stati possibili perché l’impianto della legge era proporzionale, corretto da un premio di maggioranza predeterminato in un numero minimo di seggi da attribuire in più alla lista o coalizione vincitrice, annullato il quale, si aveva una legge applicabile. Le discrepanze derivavano dalle differenze inevitabili della base elettorale nazionale per la Camera dei deputati in proporzione alla popolazione delle circoscrizioni e regionale per il Senato, con la previsione di un numero minimo di senatori a prescindere dalla popolazione per un gruppo di regioni, più che dalla diversa composizione del corpo elettorale.
2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari
Tuttavia, rispetto al passato i ricorsi non possono evitare di misurarsi con la legge costituzionale n. 1/2020 di riduzione del numero dei parlamentari specialmente per quanto riguarda il Senato della Repubblica. A causa dell’equiparazione delle Province autonome di Trento e Bolzano (non espressamente nominate) alle Regioni, non prevista da nessun testo di legge costituzionale a cominciare da quello assunto quale testo base (ddl cost. A.S.n.515 Calderoli-Perilli), ma introdotto come emendamento del relatore. La conseguenza è che il Trentino-Alto Adige/Südtirol con 6 senatori, 3 per ogni Provincia autonoma, si trova ad essere sovra rappresentato nel Senato rispetto a Regioni più popolose, comprese Regioni a statuto speciale (Sardegna e Friuli-Venezia Giulia) caratterizzate da lingue minoritarie riconosciute e tutelate dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in G.U. Serie Generale n.297 del 20-12-1999, che costituisce ritardata attuazione dell’art. 6 Cost. e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali di Strasburgo 1995, STE n. 157 del Consiglio d’Europa, autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 302 del 28 agosto 1997, (Gazzetta Ufficiale n. 215 S.O. del 15 settembre 1997).
Il Trentino- Alto Adige/Südtirol, che aveva 7 senatori come Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Basilicata, ora avrà 2 senatori in più di Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia, ma anche 1 senatore in più di Liguria, Marche e Sardegna e lo stesso numero della Calabria, pur avendo al censimento 2011 una popolazione di 1.029.475 abitanti, la minore tra quelle delle regioni sopra nominate, tra le quali si distaccano la Sardegna con 1.639.362 e la Calabria con 1.959.050. In teoria vi possono essere norme di rango costituzionale incostituzionali in caso di violazione di principi supremi dell’ordinamento costituzionale (sent. n. 1146/1988 della Corte Cost.), ma come sottoporre il quesito alla Corte Cost. attraverso una questione di legittimità costituzionale in via incidentale prima dell’applicazione della legge in caso di elezioni parlamentari è un problema, non semplice.
3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale
Il Presidente della Repubblica è irresponsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, salvo che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art.90 Cost.) e nessun suo atto è valido se non controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità (art. 89 c.1 Cost.) e gli atti aventi valore legislativo, decreti-legislativi (art. 76 Cost.) e decreti-legge (art. 77 c. 2 Cost.), sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 89 c. 2 Cost.). Il d.lgs. n. 177/2020 è contro-firmato dal Presidente del Consiglio, dal Ministro dei Rapporti col Parlamento e dal Ministro dell’Interno che pertanto vanno evocati in giudizio, con notifica del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. o dell’atto di citazione presso l’Avvocatura Generale o le Avvocature Distrettuali della Stato, che assicurano la difesa ex lege del Governo senza necessità di delega e facendo scattare il privilegio del Foro erariale, con spostamento del giudice naturale, che non è più il tribunale ordinario competente in base alla residenza del cittadino elettore, bensì il tribunale del Comune capoluogo del distretto di Corte d’Appello, dove ha sede l’Avvocatura Distrettuale dello Stato (art. 25 c.p.c. Foro della pubblica amministrazione), che come primo effetto ha quello di incidere sul diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. e proprio in materia di tutela di un diritto costituzionale fondamentale, il diritto di voto in una Repubblica democratica nella quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1 Cost.) precipuamente come corpo elettorale partecipando a elezioni e referendum. Questo è pur sempre un vantaggio rispetto al tentativo iniziale dell’Avvocatura dello Stato di concentrare le azioni sulle leggi elettorali presso il Tribunale Civile di Roma applicando l’art. 19 c.p.c., cioè il Foro generale delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute, respinto dalla Cassazione con l’argomentata ordinanza della Sesta Sezione Civile n. 3395/18, che dichiara la competenza, su parere conforme della P.G. presso la Corte suprema, del Tribunale del Comune di residenza dei cittadini elettori ricorrenti, cioè dove il diritto viene esercitato.
Si riporta il passo pertinente dell’Ordinanza: “Ne consegue che la posizione soggettiva fatta valere deve essere valutata non nella sua astrattezza, ma necessariamente correlata all'esercizio, e l'effettività della tutela richiama necessariamente profili della tempestività e dell'accessibilità, nel rispetto dell'art.25 Cost. e dell'art.6 CEDU”[2] . La controversia, siccome appunto avente ad oggetto l'esercizio del diritto di voto, deve ritenersi radicata nel luogo ove si esercita il diritto, ovvero nel comune di residenza, nelle cui liste elettorali sono iscritti i ricorrenti, spostandosi se del caso la competenza ai sensi del primo comma dell'art. 25 c.p.c.”[ns. evidenziazione in grassetto].
Non essendo previsto l’accesso diretto alla Corte Costituzionale il numero di ricorsi in Tribunali diversi aumenta la probabilità di trovare un giudice sensibile alle questioni incidentali di costituzionalità e pertanto è pregiudiziale accertare se il Foro della Pubblica Amministrazione, se applicabile, costituisca una competenza territoriale inderogabile (ex art. 28 c.p.c.), quindi accertabile anche d’ufficio, derogabile, quindi eccezione soggetta a decadenza se non tempestivamente posta nel primo atto difensivo dell’Avvocatura dello Stato (art. 38 cpc).
Per poter tranquillamente promuovere il maggior numero di giudizi, senza dover affrontare pregiudizialmente la questione della competenza territoriale, rispetto all’invio in Corte Costituzionale, è necessario, non tanto che la competenza dell’art. 25 c.p.c., sia derogabile[3], quanto che non sia applicabile al caso di specie, come si potrebbe evincere a contrario proprio dall’eccezione di competenza territoriale ex art. 19 c.p.c. del Tribunale di Roma, sollevata dall’Avvocatura dello Stato.
L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il diritto di difesa in ogni stato e grado per la tutela dei diritti (e degli interessi legittimi) (art. 24 Cost.), di non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), fanno parte dei principi supremi, altrettanto essenziali e fondamentali sono il diritto di voto personale ed uguale, libero e segreto (art. 48 Cost.), di candidarsi in condizioni di uguaglianza (art. 51 Cost.) e che il processo si svolga in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità (art. 111 c. 2 Cost.) la Corte Costituzionale deve poter essere posta in grado di esercitare il controllo di costituzionalità ex art. 134 Cost., malgrado l’art. 66 Cost. e l’art. 25 c.p.c..
Resta il fatto, che si concentra di fatto il controllo eventuale di costituzionalità sulle leggi elettorali in non più di 26 Tribunali, quanti sono i distretti di Corte d’Appello di norma uno per regione salvo Lombardia, Campania, Puglia e Calabria con due e la Sicilia con quattro si limita la possibilità dell’esercizio di questo controllo. Il minimo sarebbe di poter investire tutti i circondari di Tribunale per comprendere almeno i Tribunali dei capoluoghi di Provincia.
Il Presidente del Consiglio e i ministri per entrare in carica devono prestare giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica (art. 93 Cost.) e la formula dell'art. 1, comma 3, della legge n. 400/88 è di chiarezza esemplare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” è un obbligo per tutti i cittadini posto dall’art. 54 c. 1 Cost., che è completato dal secondo comma, per il quale tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche le devono adempiere con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Il rispetto della Costituzione è compito comune, eppure l’accesso alla Corte Costituzionale non è favorito, ma ostacolato: non si comprende quale sia l’interesse, tanto più dopo l’introduzione del processo telematico e la conseguente libertà di domiciliazione, che dovrebbe superare il privilegio del foro erariale, nato se non sbaglio nel 1863 quando la capitale era ancora Torino.
Il privilegio è stato mantenuto ed è regolato dal R.D. n. 1161/1933, un’epoca di Stato forte, autoritario, anzi totalitario dopo le leggi del 1939, con cui non va dimenticato mai, che ai cittadini italiani di ascendenza ebraica fu vietato di essere iscritto ad albi e ordini professionali, avvocatura compresa. Ora siamo cittadini di una REPUBBLICA DEMOCRATICA (art. 1 Cost.), membro della U.E., che si fonda sui valori della democrazia (art. 2 TUE), quindi non più sudditi e pertanto i diritti costituzionali fondamentali non possono essere violati da norme di leggi ordinarie e, tra di loro, quelli, che sono principi supremi, neppure da norme di rango costituzionale (Corte Cost. sent. n. 1146/1988).
Appare quindi meritevole di attenzione una massima tratta dalla recente sentenza Cass. civ., Sez. Unite, Sent., 18/12/2020, n. 29106: “La portata letterale della riportata disposizione normativa è inequivoca nell'escludere che l'esperimento dell'azione debba comportare il conseguimento di uno specifico beneficio in favore di colui (o di coloro) che la propone (o la propongono) e, quindi, implica l'ammissibilità di un rimedio impugnatorio (con lo strumento del reclamo) sotto forma di azione collettiva, che si inquadra nel più ampio "genus" dell'azione popolare (peraltro già ritenuta proponibile dallo stesso CNF in precedenti sentenze, come la n. 40/2011 e la n. 84/2018; tale ammissibilità è stata ammessa, in materia di contenzioso elettorale, anche dalla sentenza di questa Corte n. 11893/2006).
L'azione popolare, secondo l'inquadramento teorico assolutamente predominante, rappresenta una ipotesi di azione eccezionalmente concessa dal legislatore, allo scopo di tutelare un interesse pubblico, attraverso l'attribuzione di una legittimazione diffusa, che, perciò, prescinde dalla specifica titolarità di una situazione giuridica soggettiva qualificata in capo all'attore (o agli attori). La rilevanza di tale interesse, e quindi la sua tutelabilità in funzione del soddisfacimento di un fine dotato di una connotazione pubblicistica (di ripristino della legalità), è riconosciuta "ex ante" dal legislatore e non richiede, pertanto, un accertamento da parte del giudice, nel senso che l'interesse ad agire deve presumersi sussistente, una volta verificata la pertinenza al soggetto dell'interesse di cui si lamenta la lesione.”[4]
4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente
La legge elettorale vigente è costituita dalla legge n. 165/2015 (Rosatellum), come modificato ed integrato dalla legge n. 51/2019, completata dal d.lgs. n. 177/2020, a differenza delle leggi n. 270/2005 (Porcellum) e
n. 52/2015 (Italicum), esaminate dalla Corte Costituzionale e dalla stessa dichiarate parzialmente, ma in aspetti essenziali, incostituzionali configura un sistema elettorale misto con i 3/8 dei seggi attribuito in collegi uninominali maggioritari al candidato più votato[5] e i 5/8 dei seggi a liste bloccate plurinominali in proporzione ai voti ricevuti e apparentemente senza premio di maggioranza.
Il premio di maggioranza nazionale o regionale, nei due casi precedenti, veniva attribuito alla lista o alla coalizione proporzionalmente più votata in un unico turno nel Porcellum, invece, nell’Italicum alla lista più votata alla sola Camera dei deputati, se superava il 40% dei voti validi al primo turno ovvero al secondo turno previo ballottaggio tra le due liste (non erano più consentite le coalizioni) immodificabili più votate nel primo turno e il blocco delle liste non era totale, ma riguardava il solo capolista, pluricandidabile fino a 10 volte.
Tuttavia, i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014 si applicano, non in via di logica interpretativa, ma espressamente alla nuova legge. Bisogna avere presente un passo della sentenza, che è fondamentale per la motivazione della sentenza, perché nell’opinione del giudice delle leggi il nostro ordinamento non avrebbe costituzionalizzato il sistema elettorale, al pari dell’ordinamento tedesco, alla cui giurisprudenza costituzionale del Tribunale Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht)[6] è costretta a far riferimento, in assenza di propri precedenti per l’interpretazione consolidata dell’art. 66 Cost. data dalla magistratura amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, n. 1053/2008) e dalla Suprema Corte (Cass. SS.UU., 16 maggio 2006, n. 11623).
La Corte Cost., dopo aver affermato il principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.), che pur non vincolando il legislatore alla scelta di un determinato sistema elettorale, ritiene che tale principio “esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto) e formula la motivazione principale dell’annullamento[7] in termini applicabili anche a un sistema elettorale misto.
5.La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili
a) La mancanza dello “scorporo” dei seggi maggioritari uninominali e il trasferimento del voto tra candidati uninominali e liste plurinominali viola il principio di uguaglianza del voto (artt. 3 e 48 Cost.).
La legge n. 165/2017, come già detto, prevede un sistema elettorale misto con una parte uninominale maggioritaria (3/8) e “altri seggi” che “sono assegnati nei collegi plurinominali” e che “sono attribuiti, con metodo proporzionale,…”(5/8). Tale meccanismo è assolutamente estraneo alla volontà dell’elettore ed il suo voto cessa di essere “personale e libero” come prescritto dagli artt. 48, comma 2, 56 comma 1 e 58, comma 1 Costituzione, e “diretto e libero”, come enfaticamente stabilisce l’incipit della nuova normativa.
Gli effetti di questo meccanismo assumono contenuti paradossali nel caso in cui il Candidato uninominale sia (come consentito) collegato con una pluralità di liste;
b) questo meccanismo produce ingiusti vantaggi per la coalizione di liste e le liste che la compongono.
La coalizione di liste e le liste coalizzate sono ulteriormente e -come vedremo- irragionevolmente avvantaggiate in violazione dell’art. 48 Cost., perché le liste coalizzate, anche se sotto la soglia nazionale del 3% dei voti validi, portano in dote alla coalizione i loro voti, purché pari almeno al 1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere il 3% (art. 83 c. 1 lettere c) e e) d.p.r. n.361/1957 come modificato dall’art.1 c. 26 l.n. 165/2017.
La legge elettorale n. 165/2017 (art.1 c. 7) ha modificato l‘art. 14 bis e si possono fare coalizioni tra liste di partiti senza avere né un capo, né un programma in comune.
In caso di coalizione di liste regolate dall’art. 14 bis dpr n. 361/1957, come modificato dalla legge elettorale n. 270/2005, poteva essere legittima la presunzione che il voto per il candidato uninominale si conteggiasse per la coalizione e viceversa, perché la coalizione doveva avere un programma comune e un capo politico unico. Non essendoci più questo obbligo è irragionevole questa disparità di trattamento, che viola l’art. 3 Cost. oltre che l’art. 48;
c) il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità è la base del voto di scambio politico, perché i capi dei listini possono essere candidati nei collegi uninominali, rafforzati dal voto congiunto obbligatorio a pena di nullità (art. 59 bis c. 3 dpr n 361/1957, come modificato dall’art. 1 c. 21 legge cit.) di punizione di quegli elettori, che vogliono esercitare il loro diritto costituzionale di voto diretto, libero e personale;
d) la contrarietà alla Costituzione del meccanismo delle liste bloccate è palese ed è stata statuita dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 1-2014 ove afferma la possibilità di “liste bloccate solo per una parte” e comunque “in circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)” (Cfr. Corte Cost. N. 1/2014, considerato in diritto, sub. par. 5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati);
e) con il trasferimento del voto a favore di candidati in collegi e circoscrizioni diverse da quelli di espressione dei voti si nega la conoscibilità dei candidati, un principio che la Corte Costituzionale ha affermato essere un requisito essenziale per una legge elettorale aderente ai principii costituzionali. La ragione è quella di utilizzare in un sistema proporzionale tutti i voti validi, ma non può essere creata artificialmente con l’introduzione di soglie d’accesso e altre limitazioni al numero dei candidati, perché in siffatto sistema elettorale - che prevede lo slittamento dei seggi “eccedentari” o non assegnati verso altri Collegi o addirittura Circoscrizioni interprovinciali o regionali – la conoscibilità è impossibile e si altera il rapporto tra popolazione e seggi assegnati, in base alla popolazione dei collegi e circoscrizioni, sempre per la Camera dei deputati fino al taglio dei Parlamentari e nella maggior parte delle Regioni nel Senato della Repubblica, cioè con esclusione delle Regioni con un numero fisso o minimo di Senatori ex art. 57 c. 3 Cost., stravolto dalla legge cost. n. 1/2020.[8]
La causa di ciò risiede nella circostanza che il legislatore ha introdotto con la L. 165/2017 l’irragionevole prescrizione secondo la quale il numero dei candidati di ciascuna lista in ogni collegio plurinominale “non può essere inferiore alla metà, con arrotondamento all’unità superiore dei seggi assegnati al collegio”, e, “in ogni caso …non può essere inferiore a due né superiore a quattro” ( art. 18 bis c. 3 dpr n. 361/1957,come modificato dall’art. 1 c.10 lett. d) legge cit.), ciò anche nel caso in cui il numero di candidati eleggibili in ciascun collegio plurinominale sia maggiore, fino a 8, il doppio del numero massimo di candidati, che si possono candidare 5 volte, un uninominale e 4 plurinominali.
Massima della BVerG: “nessun candidato può essere danneggiato o favorito da comportamento elettori di altra circoscrizione”;
f) l’art. 51 c. 1 e 2 Cost. dispone che “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La previsione di liste bloccate, voto congiunto obbligatorio e pluri/multi-candidature, esclude che ci si possa candidarsi in condizione d’uguaglianza;
g) L’art. 18 bis del dpr n. 361/1957 e l’art. 9 del d.lgs. 533/1993, come modificati, rispettivamente, dagli artt. 1 e 2 l. n. 165/2017 prevedono esenzioni dalla raccolta di firme per la presentazione di liste che favoriscono soltanto le formazioni già presenti nelle Camere uscenti a svantaggio di nuove formazioni violando principi ex sent. CGCE 23 aprile 1986 nella causa 294/83, Parti écologiste «Les Verts» vs Parlamento Europeo, per i quali le formazioni che fanno parte del Parlamento europeo non possono attribuirsi vantaggi in vista di elezioni, che impediscano o, comunque, ostacolino la partecipazione competitiva di nuovi soggetti;
h) le minoranze linguistiche e le minoranze politiche hanno un trattamento differenziato, benché l’art. 3 c. 1 Cost. stabilisca che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Non solo, ci sono differenziazioni anche tra le minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/999, in attuazione molto tardiva dell’art. 6 Cost.[9], non giustificate dalla loro consistenza numerica, ma unicamente dalla collocazione geografica delle minoranze stesse e quindi dei collegi o circoscrizioni di presentazione di liste rappresentative delle minoranze. Infatti, norme speciali elettorali sono previste unicamente per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute, “presenti in circoscrizioni comprese in regioni ad autonomia speciale il cui statuto o le relative norme di attuazione prevedano una particolare tutela di tali minoranze linguistiche” (art. 14 bis c. 2 dpr n. 361/1957, come sostituito dall’art. 1 c. 7 l.n. 165/2017)[10].
La normativa di tutela di minoranze linguistiche non è di per sé violazione dell’art. 3 Cost. e di essa non si sentiva alcun bisogno, quando si votava con una legge elettorale proporzionale. Con legge elettorale con soglie di accesso nazionali, 4% con la n. 270/2005 e 3% con la n. 165/2017 le liste rappresentative di minoranze linguistiche sarebbero state escluse a priori, anche con la soglia del 2% per le liste coalizzate del Porcellum, contraddicendo i principi affermati con la sent. della Corte Cost. n. 356/1998[11], considerato che il partito rappresentativo della minoranza germanofona, la SVP, presente da sempre nel Parlamento italiano, ha una percentuale nazionale media nel periodo 1996-2018 intorno allo 0,40%, che nel 2006 fu decisiva per attribuire il premio di maggioranza all’Ulivo e a Prodi[12]. Un trattamento differenziato per ragioni linguistiche viola l’art. 3 Cost., quando è discrezionale, al limite arbitrario, come è evidente per l’elezione dei membri spettanti all’Italia nel Parlamento europeo ex legge n. 18/1979, dopo l’introduzione della soglia di accesso nazionale del 4% con la legge n. 10/2009, perché le norme speciali per le liste rappresentative di minoranze linguistiche si applicavano a tre lingue e tre territori, cioè alle minoranze francese della Valle d’Aosta, tedesca della provincia di Bolzano e slovena del Friuli-Venezia Giulia (artt.12 c. 8; 20 c. 1 n. 1) e 2); 21 c. 1 nn. 1), 2) e 22 c. 2 e 3 legge n. 18/1979 e s.m.i.) ignorando le altre minoranze tutelate dalla legge n. 482/1999, in vigore da circa 10 anni tra cui la lingua sarda, la più consistente tra le lingue minoritarie e la lingua friulana, seconda minoranza linguistica collocata nella stessa Regione autonoma della lingua slovena e nella stessa circoscrizione elettorale europea, Italia Nord-orientale delle lingue slovena e tedesca e nella circoscrizione Italia Nord-occidentale, la stessa della Val d’Aosta, l’occitano e il franco-provenzale delle valli piemontesi.[13]
Nella legge europea e nel Rosatellum la violazione dell’art. 3 c. 1 Cost. emerge per tabulas (cfr. nota 13);
h) dopo due annullamenti consecutivi del premio di maggioranza il “legislatore incostituzionale” si è fatto accorto, pertanto ha preferito rinunciare apparentemente al premio di maggioranza piuttosto che alle liste bloccate, ma sono corte (massimo 4 candidati) e poi ci sono 3/8 di seggi uninominali, che tecnicamente non sono liste e la conoscibilità del candidato è massima: tutto vero, almeno apparentemente, ma si tratta di una mezza verità e, come insegna il Talmud una mezza verità è una bugia intera: col voto congiunto obbligatorio
a pena di nullità tutte le candidature sono bloccate. Il voto non è più diretto, libero e personale e, quindi si realizza un’alterazione del rapporto tra i voti “in entrata” e i seggi “in uscita”, censurato al par. 3. 1, cpv. XI della sent. n. 1/2014.
Questa disproporzionalità si è verificata nelle elezioni del 2018 e come vedremo sarà amplificata con la riduzione del numero dei seggi, perché a parità di popolazione la riduzione del numero dei seggi, aumenta la popolazione di ogni singolo collegio e/o circoscrizione, con l’effetto, pertanto nei collegi uninominali, che aumenta il valore assoluto dei voti delle liste concorrenti privo di effetti, che collegato alle incostituzionalità denunciate nelle precedenti lettere b) e c) rende la fattispecie censurabile sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 48 Cost. sull’uguaglianza potenziale degli effetti del voto in un sistema misto, garantita nel complesso nel Mattarellum, dalla doppia scheda e dal voto disgiunto, anche in presenza da una netta prevalenza dei seggi assegnati col maggioritario, 3/4, cioè il doppio del Rosatellum.
Le elezioni del 2018 confermano l’effetto distorsivo attraverso il solo esame della Tabella 3 dell’articolo della prof. Lara Trucco dell’Università di Genova[14], per la rivista Costituzionalismo, di fascia A, nella quale è evidenziata la disproporzionalità tra i seggi assegnati e quelli spettanti in base alla percentuale complessiva. La coalizione di CDX alla Camera di 630 seggi con il 37,1% ottiene 265 seggi, 31 seggi in più dei 234, che le spetterebbero in un sistema proporzionale, cioè il 13,2% di seggi in più. Al Senato di 315 membri elettivi con il 37,5% (+ 0,4% rispetto alla Camera) conquista 137 seggi, invece di 118 con un incremento del 16,1% (+2,9% rispetto alla Camera) a dimostrazione dell’effetto della riduzione dei seggi. L’effetto viene Confermato daI risultati della seconda lista beneficiaria, il M5S, che alla Camera con il 32,7% prende il 10,2% di seggi in più mentre al Senato con una percentuale inferiore (- 0,5%), ottiene il 10,9% dei seggi in più (+ 0,7%).
Le liste perdenti amplificano le perdite, come dimostra la coalizione di CSX alla Camera, che con il 22,8% ha 112 seggi invece di 144, cioè il 14,6% di seggi in meno. Al Senato, con una percentuale, leggermente superiore, 22,9%, i seggi assegnati sono 60, in luogo di 72, ma la perdita percentuale in seggi è ben il 16,7%, quindi -2,1%, rispetto alla Camera. Con la riduzione a 400 dei deputati e 200 dei senatori la disproporzionalità viene artificialmente aumentata, anche grazie al metodo di calcolo della percentuale dei seggi alla Camera dove l’arrotondamento a danno del maggioritario si fa all’unità inferiore ( art. 1 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e al Senato a favore all’unità più prossima (art. 2 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e nella circoscrizione regionale Trentino-Alto Adige/Südtirol i 6 seggi sono tutti assegnati in collegi uninominali maggioritari, mentre con il criterio generale Senato avrebbero dovuto essere 2 su 6.
Il trattamento delle liste minoritarie politiche rispetto alle liste rappresentative di minoranze linguistiche è ancora più deteriore. LeU con 991.159 voti, il 3,3%, al Senato ha avuto 4 seggi invece di 10, cioè – 60%, mentre la SVP 128.282 voti, 0,4%, 3 seggi, in luogo di 1, +200% [15].
Il premio di maggioranza nel Rosatellum è nascosto e implicito nel sistema di voto (coalizioni, soglia di accesso nazionale, applicata anche al Senato in violazione dell’art. 57 c. 1 Cost.[16], voto congiunto obbligatorio a pena di nullità), per scattare occorre che la coalizione o lista di maggioranza relativa abbia una distribuzione media omogenea sul territorio, perché in tal caso alla Camera può dare la maggioranza assoluta anche con il 30% dei voti e al Senato col 35%, tutte percentuali inferiori al 40% dell’Italicum, previsto per l’assegnazione del premio in un turno unico.
Il vincitore delle future elezioni con la legge elettorale e numero di parlamentari vigente sarebbe padrone, pur non avendo la maggioranza assoluta dei voti validi e, comunque, dei votanti, della revisione costituzionale ex art. 138 Cost. in assenza di verifica del rispetto dell’art. 139 Cost. e dei principi costituzionali enunciati nella sentenza n. 1146/1988[17].
6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
Le ragioni sono molteplici procedurali e di opportunità. Con il gruppo di avvocati anti-Italikum, circa un centinaio in 22 distretti di Corte d’appello, abbiamo maturato un’esperienza particolare, spesso un giudice si trova a dover affrontare, per la prima volta materie totalmente estranee a quelle affidate di norma alla sezione di appartenenza, sovraccaricarlo della questione di legittimità costituzionale di un atto presupposto potrebbe dilatare i tempi, tanto più, che le questioni non sono solo della legge costituzionale, ma di atti presupposti quali l’indizione del referendum in connessione con elezioni regionali, che coinvolgevano più di un terzo del corpo elettorale su due giorni, quando nella concitazione ci si è dimenticati, persino, di modificare formalmente il secondo comma dell’art. 15 della legge n. 352/1970, che prevede che “La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all'emanazione del decreto di indizione”.
Non c’è dubbio, che la riduzione del numero dei parlamentari abbia accentuato aspetti già costituzionalmente problematici della legge elettorale vigente, accennati nel paragrafo 2) e passim negli altri, ma le questioni svolte, in particolare nel paragrafo 5), ne prescindono e riguardano essenzialmente le leggi n. 165/2015 e n. 51/2019 e di riflesso il d.lgs. n.177/2020 e sarebbero stati prospettabili negli stessi termini, anche con un diverso esito referendario. Si aggiunga che nell’unico ricorso presentato da una Regione, la Basilicata particolarmente colpita dal taglio al Senato, essendo passata come l’Umbria da 7 a 3 senatori, non si sono messi in discussione il nuovo numero dei deputati, 400, né dei senatori elettivi, 200, ma di quest’ultimi solo la distribuzione tra le Regioni dei senatori. In sintesi, l’equiparazione delle Province autonome alle Regioni ai soli fini del numero minimo di senatori ex art. 57 c. 3 Cost., avrebbe presupposto una contestuale modifica dell’art. 57 c. 1 Cost. e una diversa e non contradditoria formulazione del quarto comma dell’articolo stesso. In ogni caso non risulta giustificata la violazione di un principio supremo, come quello dell’uguaglianza dei cittadini e dei loro diritti costituzionali fondamentali, se non nei termini già consentiti e per le finalità dei costituenti, per la rappresentanza nel Senato della Repubblica delle Regioni minori.
Le Province autonome di Trento e Bolzano non sono, a differenza delle Regioni, parti costitutive della Repubblica ex art. 114 Costituzione.
Ultima, ma non meno importante ragione, il popolo si è pronunciato e i costituzionalisti si sono pronunciati in modo variegato, mentre è necessario che vi sia partecipazione vasta e nell’opposizione alla legge elettorale vigente comprendere il maggior numero di soggetti senza escludere nessuno a priori, quindi chi abbia votato SI’, NO o si sia astenuto.
[1] La verifica di legittimità della richiesta referendaria è per l’art. 12 c. 2 della legge n. 352/1970 limitata: “L'Ufficio centrale per il referendum verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell'articolo 138 della Costituzione e della legge”, inspiegabilmente senza alcun riferimento all’art. 139 Cost., che costituisce un limite insuperabile alla revisione costituzionale, mentre per il referendum abrogativo ex art 75 Cost. è demandata alla Corte Cost., ex combinato disposto degli artt. 32 c. 2 e 33 della legge n. 352/1970 il rispetto del secondo comma dell’art. 75, che stabilisce le materie sottratte al referendum abrogativo, ampliate dalla giurisprudenza costituzionale al di là della lettera della legge (sent. n. 16/1978).
[2] Un riferimento importante al giudice naturale precostituito per legge e alla C.E.D.U., cioè al suo art. 6.
[3] Perché anche in assenza di eccezione dell’Avvocatura dello Stato, il giudice ordinario potrebbe essere di diverso e rilevarla d’ufficio. Se competente fosse l’AGA si applicherebbe l’art. 13 c.p.a., che non lascia dubbi in materia di inderogabilità della competenza territoriale, ma in materia di diritti elettorali dei cittadini la competenza è del giudice ordinario, anche nel caso che le operazioni elettorali, compresa la proclamazione degli eletti siano impugnabili ex art. 126 e ss. c.p.a. (Cass. SS.UU. Civili, ord. n. 21262/16).
[4] Non a caso le azioni per l’accertamento del diritto di votare secondo costituzione non sono soggette al Contributo Unificato, e ciò ai sensi del combinato disposto dell'art. 10 del DPR n. 115-2002 (Esenzioni: "Non è soggetto al contributo unificato il processo già esente, secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza o di valore, dall'imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, .... ), e dell'art. 1 del DPR 642-1972, Allegato B (atti, documenti e registri esenti dall'imposta di bollo in modo assoluto: "Petizioni agli organi legislativi; atti e documenti riguardanti la formazione delle liste elettorali, atti e documenti relativi all'esercizio dei diritti elettorali e dalla loro tutela sia in sede amministrativa che giurisdizionale").[ns. evidenziazione in grassetto].
[5] Cosiddetto maggioritario a turno unico “all’inglese”o “first-past-the-post” od anche “plurality” per distinguerlo da quello “alla francese” o “majority” ove il candidato deve conquistare la maggioranza assoluta dei votanti al primo o al secondo turno previo ballottaggio.
[6] Non a caso citata più volte negli scritti difensivi degli attori, in quanto il nostro art. 48 era sovrapponibile all’art. 38 GG (Grundgesetz), la legge Fondamentale tedesca, che tiene luogo della Costituzione della Germania.
[7] “In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).” (sent. 1/2014, par. 3.1.– La questione è fondata, cpv.XI).
[8] Con un emendamento del relatore nel corso della prima approvazione al Senato della Repubblica, senza una discussione adeguata alla rilevanza dell’argomento sono state equiparate le Province Autonome, che sono solo quelle di Trento e Bolzano, non nominate, alle Regioni, che hanno diritto al numero minimo di senatori, peraltro ridotto da 7 a 3, senza modificare l’elezione “a base regionale” prevista dall’art. 57 c. 1 Cost., né l’art. 114 Cost., che non prevede le Province autonome tra le parti costitutive della Repubblica, ma solo che costituiscono ex art. 116 c. 2 Cost. la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[9] L’Italia non ha ancora ratificato la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” (STE n. 148), fatta a Strasburgo il 05/11/1992, entrata in vigore il 01/03/1998 e firmata dall’Italia il 27/06/2000. Ha ratificato, invece, con la legge n. 302/1997 la “Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali” (STE n. 157), fatta a Strasburgo il 01/02/1995, entrata in vigore il 01/02/1998 e firmata dall’Italia il 03/11/1997.
[10] Con questa norma il Rosatellum ha posto fine a un’anomalia, che non consentiva alla maggiore minoranza linguistica riconosciuta dalla l.n. 482/1999, quella sarda, di beneficiare della normativa speciale, perché lo Statuto speciale della Sardegna, approvato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, non prevedeva norme di tutela linguistica.
[11] Frutto di una norma speciale di tutela delle minoranze linguistiche consiliari di accesso diretto alla Corte Cost., l’art. 56 del dpr n. 670/1972 T.U. leggi costituzionali Statuto Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[12] Camera dei deputati, Italia (Valle d’Aosta esclusa); Romano Prodi, totale coalizione voti 19.002.598, 49,81% con 340 seggi, di cui SVP (Südtiroler Volkspartei-Partito Popolare Sudtirolese) voti 182.704, 0,48 , con 4 seggi; Silvio Berlusconi, totale coalizione voti 18.977.843, 49,74% con 277 seggi. Differenza voti 19.002.598 - 18.977.843=24.755 < 182.704, differenza percentuale 49,81% - 49,74%= 0, 07% < 0, 48%.
[13] Nelle elezioni europee 2009 di prima applicazione della soglia la SVP con 143.509 voti, 0,47%, ebbe 1 seggio, restarono escluse le liste di Sinistra Europea e Sinistra e Libertà rispettivamente con 1.037.862 voti, 3,39% e 957.822 voti, 3,13%, che avevano superato la soglia del 4% la prima in 2 Circoscrizioni e la seconda in una. Nelle elezioni 2014 la SVP 138.037 voti, 0,50% e 1 seggio, mentre Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale nessun seggio con 1.006.513 voti e 3,67%, con supero della soglia in 2 circoscrizioni. Infine, nelle elezioni 2019 la solita SVP ebbe 1 seggio con 142.185 voti e lo 0,53%, mentre non conseguì alcun seggio +Europa con 833.443 voti e il 3,11%. Questa volta nessuna lista esclusa aveva superato la soglia in almeno una circoscrizione perché gli elettori di liste sotto-soglia hanno progressivamente smesso di andare a votare: nel 2009 i votanti furono 34.359.339 pari al 69,73 %, 10 anni dopo i votanti erano scesi a 27.780.855, il 54,50 % con 997.123 schede non valide, 3,58%. In cifre assolute: 1) elettori (2019) 50.974.994 – elettori (2009) 50.342.153=+ 632.841; 2) votanti (2019) 27.780.855 - votanti (2009) 34.359.339= - 6.578.484; 3) voti validi senza rappresentanza di liste con voti maggiori di SVP: 2.320.690, che senza soglia avrebbero eletto almeno un parlamentare europeo.
[14] Trucco L., Rosatellum-bis e la forma di governo “leadercratica” sul far del nascere della XVIII legislatura, Fascicolo 3/2018-Rotture e Continuità nell’Avvio della XVIII Legislatura, https://www.costituzionalismo.it/rosatellum-bis-e-la-forma-di-governo-leadercratica-sul-far-del-nascere-della-xviii-legislatura/
[15] I 3 seggi SVP sono tutti concentrati nella Provincia autonoma di Bolzano, 504.643 abitanti (cens. 2011), quindi un senatore ogni 168.214 abitanti, quando la media nazionale è di 297.169, calcolando i seggi fissi di Val d’Aosta, 1, e Molise, 2, che abbassano la media. La concentrazione territoriale del voto è in vantaggio che spiega il vantaggio in seggi della coalizione di CDX prevalente nel Settentrione e della lista M5S nel Meridione e Isole.
[16] Perché si aggiunge per le liste minoritarie politiche alla soglie implicite delle Regioni, tutte superiori al 3%, eccetto che in Lombardia con 315 senatori elettivi e che non riguarda le minoranze linguistiche.
[17] Secondo il prof. Pasquale Costanzo alla revisione costituzionale recentemente approvata, cfr. Costanzo P., QUANDO I NUMERI MANIFESTANO PRINCIPI OVVERO DELLA PROBABILE INCOSTITUZIONALITÀ DELLA RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI, Consulta ON LINE,
Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità.
Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro.
Una conversazione aperta quella con il Prof.Enzo Cannizzaro, soprattutto serena, non gridata nei toni ma forte e appassionata nei contenuti e nelle prospettive, molte delle quali difficilmente definibili, che si agitano attorno al tema della sovranità al quale l'accademico internazionalista ha dedicato tempo e sapienza e che sempre di più ritorna, a volte in modo ossessivo e martellante, nelle discussioni universitarie e sui titoli di giornali come nei talk show quando esso si aggancia, in modo più o meno consapevole, a quelli del sovranismo e del populismo ai quali si affibbiano nella vulgata corrente connotati negativi.
Un incedere, quello di Cannizzaro, che calamita il lettore per la semplicità con la quale affronta temi di complessità pur evidente in modo limpido, conducendolo all'interno di territori impervi, nei quali i tradizionali poteri assumono veste e significato nuovi sui quali l'internazionalista offre la sua lettura, incastonandoli in un ordine in continuo movimento, nel quale i fattori dinamici interni alle singole comunità statuali che hanno progressivamente mutato il volto della sovranità nazionale si legano ai non meno prorompenti mutamenti della "sovranità esterna", al cui interno si avvertono segnali sempre più orientati verso nuove forme di organizzazione politica extra-statuali, portatrici di interessi riferibili alla comunità universale quali l'ambiente, le risorse vitali, la lotta alla povertà, con i quali gli stati tradizionalmente intesi saranno chiamati a confrontarsi, spesso in posizione diseguale e recessiva proprio a causa del minor peso della sovranità.
In questo sistema "in movimento" Cannizzaro riflette sugli assetti interni, sul ruolo di alcuni dei poteri espressivi della sovranità e, fra questi, delle giurisdizioni - costituzionale e comune - che hanno contributo alla metamorfosi della sovranità.
Una sovranità assoluta, popolare ed ora sempre più "costituzionale", che Cannizzaro risagoma delineandone funzioni e ruoli in quella prospettiva di un nuovo governo del mondo che, se non immediata, Egli sembra cogliere come affatto utopica ed anzi, quasi ineluttabile.
1. Professore Cannizzaro, se dovessi recensire il Tuo saggio "La sovranità oltre lo stato" in 1000 caratteri, cosa scriveresti?
Non potrei recensire il mio (piccolo) libro. Invero, non avrei neanche dovuto scriverlo. Come sai, io sono uno studioso, modesto, dei fenomeni giuridici. Sulla scienza giuridica, e in particolare sui processi di integrazione internazionali e sovranazionali, ho indugiato per la più gran parte della mia vita. Or bene, questo libro tratta di temi sui quali non ho alcuna formazione scientifica: la filosofia politica, innanzi tutto, ma anche la teoria dell’organizzazione sociale e la dottrina della Costituzione. Per decenni ho fatto il proponimento di scrivere e parlare solo attraverso argomenti di carattere scientifico: un proponimento al quale, ora, sono venuto meno. Come faccio a recensire un libro che non avrei dovuto scrivere?
Se non posso recensirlo, posso dirti, però, perché lo ho scritto. Ho molto esitato, invero, sia prima che durante la sua stesura. Diciamo che l’ho fatto sulla base di un imperativo etico. In queste pagine ho trasfuso le riflessioni di una vita sul potere politico, sulle sue molteplici forme, sulla sua intolleranza ad ogni limite, e sulla sua sostanziale amoralità. Ma si è sempre trattato di riflessioni prive di rigore e di sistematicità: due requisiti imprescindibili della riflessione scientifica. In ciascuna pagina di questo libro ho, piuttosto, riversato la mia dimensione etica della politica attingendo, quasi spigolando, dai sistemi concettuali elaborati dai grandi teorici del pensiero politico e giuridico.
Se dovessi darne una definizione, lo qualificherei, allora, come un roman philosophique; che tocca, fugacemente invero, il pensiero scientifico ma senza pretesa di scientificità; che cammina su un impervio crinale, fra la dura lezione del realismo storico e il dolce richiamo dell’utopia.
2. Esiste una relazione fra sovranità, populismo e sovranismo?
Nella logica che fonda il mio libro, il populismo è la più piena realizzazione del principio della sovranità popolare. Se la sovranità spetta al popolo, senza altra qualificazione, il popolo diventa la fonte unica di legittimazione del potere politico: un potere che potrà travolgere ogni forma di garanzia proprio in quanto esso realizza la volontà del popolo.
Il populismo è insito già nel sistema costruito da un pensatore oggi di gran moda: Rousseau; il fondatore della sovranità democratica. Rousseau ha costruito intorno al popolo, il corpo collettivo, un nuovo assetto di poteri dello Stato, nel quale, però, la volontà popolare, espressa nel principio maggioritario, non tollera alcun limite. In particolare, essa non trova limiti nell’attività giudiziaria, concepita non come un contropotere rispetto alla volontà popolare, in nome, magari, di una superiore legittimazione costituzionale, ma come la meccanica trasposizione di tale volontà dal piano della legge astratta a quello della decisione concreta.
Se il populismo costituisce una degenerazione possibile della dottrina della sovranità popolare diretta, esso appare addirittura inevitabile nei sistemi democratici privi di forme di intermediazione fra il popolo e i suoi governanti. In tali sistemi, la politica diventa pressoché esclusivamente gestione del consenso, ed è naturalmente tesa ad abbattere ogni garanzia costituzionale che si frapponga alla presunta volontà del popolo, magari sapientemente manipolata da sistemi informativi deboli o addirittura corrotti. Non abbiamo assistito a questo spettacolo negli ultimi decenni, una volta spariti i grandi sistemi di valori che animavano, almeno in parte, i partiti storici?
3. Nella Tua analisi hai affrontato distintamente il tema della sovranità interna e quello della sovranità esterna. Secondo te qual è la relazione fra le due sovranità: contrapposizione, cooperazione o reciproca limitazione?
A torto, nella letteratura sulla sovranità, si trascura la sovranità esterna. Essa non è un semplice complemento della sovranità dello Stato; essa ne costituisce una autonoma dimensione. Del resto, storicamente la dottrina della sovranità è nata proprio sul versante esterno; allorché i nascenti stati nazionali hanno avuto bisogno di una teoria politica nuova per sbarazzarsi dell’ormai nominale sottomissione all’impero universale.
La dimensione autonoma della sovranità esterna emerge con chiarezza se si pensa che non di rado gli Stati, anche se democratici, esternalizzano le tensioni interne scaricandole su politiche nazionaliste e xenofobe, contro il nemico interno. Si crea quindi uno evidente contraddizione fra la dinamica interna della sovranità, fondata su valori democratici, e quella esterna, caratterizzata da una considerazione esclusiva dell’interesse nazionale (la ragion di stato) che produce, a propria volta, politiche spregiudicate e talvolta aggressive. Tale dissociazione non appare in contrasto con la dottrina della sovranità. Essa, anzi, ne costituisce il suo più coerente sviluppo. Se la sovranità rappresenta la volontà di autodeterminazione di una comunità, essa si realizza proprio nei confronti con le altre comunità. Ne consegue che uno Stato ha un naturale interesse a competere e prevalere con gli altri Stati al fine di realizzare al massimo grado gli interessi che percepisce come propri, senza avvedersi della esistenza di altri interessi, di natura collettiva.
Questa circostanza dovrebbe far capire quanto sia illusoria una dottrina della sovranità fondata sulla priorità dei valori e interessi della comunità nazionale rispetto a quelli esterni. Questa dottrina isolerebbe la comunità nazionale e la condurrebbe verso una autoreferenzialità, se non anche verso derive nazionaliste e autoritarie.
4. Appare quasi naturale pensare, a questo punto, al tema delle “limitazioni di sovranità” a cui si dedica specificamente l’art.11 Cost. ed alle sorti dei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario – ora dell’Unione europea –. Quanto il diritto-dovere di disapplicazione del diritto interno contrastante con quello UE immediatamente efficace ha, a tuo avviso, messo alle corde il concetto di sovranità nazionale ovvero, tutto al contrario ne ha esaltato il senso ultimo, mirando l'art.11 al perseguimento di un ordine esterno che assicuri valori universali di pace e giustizia?
Credo fermamente che l’apertura del sistema costituzionale rappresentato all’art. 11 sia la vera valvola di sicurezza che i Padri costituenti hanno creato per prevenire il ritorno dei nazionalismi. L’idea dello Stato costituzionale aperto (der offene Verfassungsstaat, secondo la felice formula tedesca) costituisce una vera rivoluzione nella dottrina del costituzionalismo contemporaneo. Essa eleva l’apertura dell’ordinamento agli influssi esterni a un vero e proprio principio fondamentale della Costituzione, che prevale sulle regole costituzionali “ordinarie” ed entra in rapporti di bilanciamento con ogni altro principio di eguale valore. Il valore normativo di questo principio è a volte trascurato, anche dalla Corte costituzionale nei suoi itinerari “sovranisti” che hanno caratterizzato alcune recenti espressioni davvero molto controverse della sua giurisprudenza.
In questo senso, la disapplicazione delle leggi confliggenti con il diritto europeo ha senz’altro un alto valore simbolico. Essa sancisce il primato dell’apertura del sistema costituzionale anche nei confronti della fonte che più di ogni altra rappresenta la volontà generale, vale a dire la legge.
5. Quanto allora la posizione della Corte costituzionale rispetto ai diritti fondamentali protetti da Carte dei diritti fondamentali diverse dalla Costituzione italiana può dirsi un'opzione tesa a proteggere la sovranità costituzionale?
Credo che lo sia stata a lungo. Come sai, tale posizione si è espressa in una frase che non avrei mai creduto di poter leggere in una sentenza costituzionale: quella, celebre, della sentenza 49 del 2015, la quale parla di un “predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU”: una frase inutile nel contesto di quella sentenza e intrisa di una ideologia giuridica che non esito a definire perversa.
6. Antonio Ruggeri evoca nei suoi scritti ripetutamente i concetti di intercostituzioni, di internazionalizzazione delle Carte costituzionali e di costituzionalizzazione delle Carte sovranazionali in una prospettiva che, riducendola all’osso, intende guardare non soltanto al ruolo centrale e osmotico dei diritti fondamentali ed al loro formarsi e rigenerarsi continuo attraverso l’interazione delle Carte dei diritti e dei giudici che le applicano, ma probabilmente anche una concezione universale dei diritti fondamentali. Questa posizione, che alcuni definiscono minoritaria nel panorama dei costituzionalisti, ti convince? Quanto essa potrebbe costituire la base per un nuovo paradigma della sovranità e con quali concrete possibilità di successo?
Ammiro molto l’opera giuridica di Antonio Ruggeri e la sua visione teorica e sistematica. Io non saprei dire se siamo entrati in una fase di osmosi costituzionale. Temo che per realizzare questo obiettivo la strada sia lunga e irta di difficoltà. Quel che rilevo, nel mio lavoro di studioso dei fenomeni giuridici transnazionali, è la progressiva formazione di interessi comuni che trascendono la dimensione statale e che esigono una propria forma di governo. Questi interessi premono su quelli propri delle varie comunità nazionali e sulla loro regolamentazione giuridica.
Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile che un Paese africano, il Gambia, avesse adito di fronte alla Corte internazionale di giustizia il Myanmar per le condotte genocidiarie perpetrate da tale Stato nei confronti della minoranza Rohinga. È probabile che nessun Rohinga abbia mai varcato la frontiera del Gambia e che pochi fra essi sappiano dove si trovi questo Stato (anche molti italiani forse lo ignorano). E tuttavia, il Gambia è intervenuto dichiarando di farlo a tutela di interessi propri della intera umanità. Questo è solo un esempio, se pure simbolicamente importante, della avanzata degli interessi collettivi dell’umanità. Ma sarebbe semplicista prevedere una loro marcia trionfale tesa ad abbattere le strutture statali fondate sulla sovranità e a istituire il super stato mondiale, fondato su diritti universali. Questa sì che sarebbe una prospettiva utopica. Verosimilmente essa non sarebbe neanche auspicabile. La parabola della sovranità ci ha insegnato come il potere politico vada circoscritto, sminuzzato, posto sotto costante controllo, nei suoi obiettivi e nei suoi mezzi di azione. In luogo del sovrano globale, pur se illuminato, sembra preferibile una galassia di poteri, su base globale, nazionale o infranazionale, che concorrano al governo delle varie comunità che esistono su questa terra. In questo senso, una idea “osmotica” di costituzione, che metta in collegamento i principi fondamentali di ciascun ordinamento, quelli nazionali e i vari ordinamenti costruiti per la gestione di interessi collettivi, ben potrebbe costituire la nuoa dottrina giuridica del mondo futuro. Ma si tratta, temo, di una prospettiva assai remota nel tempo.
7. La giurisdizione e la sovranità. Tu sostieni che la frammentazione dei poteri e la loro distribuzione su base verticale od orizzontale segnano un declino dell’idea di sovranità tradizionale. Ma i giudici – costituzionali e comuni –, che pure costituiscono un elemento costitutivo della sovranità (Corte cost.n.175/1973) sono l’anima buona o cattiva dello stato moderno?
Rousseau configurava i giudici, lo si è detto, come una sorta di strumento automatico di produzione del diritto nel caso concreto. Questa idea, di chiaro stampo illuminista, è diventata una delle idee portanti della rivoluzione francese, spazzando via la vecchia classe dei giuristi romanisti che costituiva un importante puntello per la struttura della società francese del tempo. Ma di lì a pochi anni, e nonostante l’impetuoso avanzamento del fenomeno della codificazione, il ruolo dei giudici è tornato ad essere quello di protagonisti dell’ordinamento giuridico e così è ancora oggi.
In termini parzialmente analoghi, l’avvento della Costituzione repubblicana ha comportato il problema del rinnovo della vecchia classe di giudici, i quali consideravano il diritto costituzionale come un insieme di principi sprovvisti di normatività. La sentenza 1/1956 e l’affermazione della Costituzione come norma giuridica cogente inauguravano un nuovo ruolo per i giudici, chiamati a diffondere il nuovo verbo costituzionale. Esempi analoghi potrebbero essere proposti in relazione al ruolo dei giudici italiani nell’applicazione del diritto europeo, che sembra superare addirittura l’idea stessa della Costituzione come la sola norma fondamentale.
È difficile, insomma, separare il grano dal loglio. A volte, la giurisprudenza anticipa e promuove il mutamento sociale; altre volte, essa tende ad ostacolarlo irrigidendo il costume in modelli obsoleti. I giudici costituzionali sono i guardiani della Costituzione. Se il potere politico è fondato sulla legittimazione popolare, essi ne rappresentano il contropotere, su una fonte di legittimazione superiore, che si impone dall’alto alla volontà del popolo. Ciò spiega la grande tensione, che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, fra i detentori del potere politico e i custodi dei valori costituzionali che lo limitano.
8. Quanto i giudici si sono appropriati di poteri sovrani e quanto gli altri organi dello Stato glieli hanno più o meno apertamente delegati?
I giudici esercitano poteri sovrani sia allorché promuovono i valori costituzionali nei confronti dei detentori del potere politico, sia, di converso, allorché impediscono la realizzazione della volontà popolare in nome di principi superiori. Vi è quindi una latente frizione fra le due dimensioni della sovranità, quella popolare e quella costituzionale, alla quale se ne può aggiungere un’altra, più rarefatta e impalpabile, data dalla sfera di valori transnazionali, assicurati da giudici esterni all’ordinamento dello Stato.
Questo è il mondo giuridico che abbiamo davanti: un mondo giuridico complesso, rispetto al quale ogni semplificazione appare inopportuna. Questo mondo tende ad attenuare la relazione fra i giudici e il popolo in nome del quale si pronunciano le sentenze. A chi sacralizzi una visione puramente maggioritaria della democrazia, l’istituzione di giudici che applichino valori costituzionali contro la volontà popolare potrebbe una deriva autoritaria. A chi sacralizzi una visione puramente nazionale dei valori costituzionali, l’istituzione di giudici sovranazionali che applichino valori propri di una più ampia comunità potrebbe una deriva elitista e un tradimento della sovranità del popolo vero, sovente identificato con la nazione.
In ambedue i casi, si tratta di posizioni puramente ideologiche, le quali possono essere valutate esclusivamente sul metro fattuale della storia.
Il rapporto fra poteri sovrani dei giudici e quelli degli organi politici è un rapporto storicamente determinato. Esso è insorto al momento in cui il sovrano ha “delegato” il potere di fare giustizia a organi diversi (King in Court); ma poi, la delega gli è, come dire, sfuggita di mano ed è iniziata la parabola della sovranità, formalmente unitaria ma sostanzialmente frammentata, che ha condotto ai nostri complessi sistemi giuridici che tendono a smembrare la sovranità nell’ambito di poteri e prerogative assegnate a singoli organi ed enti dello Stato. Questa distribuzione di poteri è fatta da norme giuridiche, ma essa si modella rispetto alla prassi e alla rispettiva forza o debolezza politica dei rispettivi titolari.
9. E dunque, i giudici interni e quelli sovranazionali, custodi delle istituzioni UE e della CEDU e di altri trattati internazionali, che ruolo svolgono rispetto al tema della sovranità interna ed esterna? Quanto hanno limitato i poteri sovrani degli Stati e quanto si fanno motore per un nuovo ordine sovranazionale?
I giudici sovranazionali e, di concerto, quelli interni, hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del nuovo ordine sovranazionale. Se valutassimo Van Gend en Loos alla luce della legalità costituzionale degli Stati membri, occorrerebbe qualificarlo come una sorta di “colpo di Stato”.
Più in generale, i giudici, anche quelli nazionali, hanno contribuito a individuare i nuovi interessi e valori della nuova comunità transnazionale creata dal diritto europeo e a trovare forme giuridiche adeguate alla loro tutela. Insomma, i giudici interni sono parte di questo processo sociale di individuazione di una “nuova comunità di diritto”, la quale esige una nuova forma di governo e che non si riassume nelle usuali categorie della sovranità.
10. In occasione della scelta di non proseguire l’iter parlamentare del progetto di ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, del quale pure tu ti sei occupato su questa Rivista. Nel corso dei lavori parlamentari a più riprese è stato rappresentato il pericolo che la ratifica del Protocollo, ma addirittura la stessa ratifica del Protocollo n.15 potesse significare porre una pietra tombale sulla sovranità giuridica italiana, rappresentando tali strumenti il tentativo della Corte EDU di erodere spazi di sovranità nazionale. Che ne pensi?
Hai richiamato il mio breve scritto su questa Rivista- La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n. 16- nel quale ho prospettato che la mancata ratifica del Protocollo 16 non sia stata sorretta da argomenti logico-giuridici, quanto piuttosto da una ideologia che identifica il diritto con l’ordinamento nazionale. Di conseguenza, non tornerò su questo punto.
Mi limito, invece, a considerare la nuova questione che mi poni. L’idea che la ratifica del Protocollo 16 comporti una erosione di spazi di sovranità nazionale non è solo ispirata da tale ideologia. Essa è anche tecnicamente errata. Al fine di verificare questa affermazione, occorre considerare che il Protocollo 16 si inserisce in un sistema - quello della Convenzione - il quale ha certamente eroso e continua a erodere la sovranità nazionale. Non riesco proprio a capire quale ulteriore erosione si produrrebbe attraverso l’introduzione in tale sistema di uno strumento nuovo, quello dei pareri consultivi, teso a prevenire la violazione della Convenzione da parte dell’Italia e una corrispondente condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Gli oppositori della ratifica del Protocollo 16 non sono proprio riusciti a dimostrarlo.
È invece facile dimostrare che una ulteriore erosione della sovranità nazionale sarà prodotta proprio dalla mancata ratifica italiana del Protocollo 16. Difatti, il Protocollo 16 non ha bisogno della ratifica dell’Italia per entrare in vigore. Esso è già in vigore per dieci Stati parte e sono già stati adottati due pareri consultivi.
A tal fine, occorre ricordare, sinteticamente, alcune regole del Protocollo. Ai sensi dell’art. 3, lo Stato del giudice che ha chiesto il parere ha il potere di intervenire nel procedimento, di produrre memorie e di partecipare alle udienze. Inoltre, il giudice eletto su proposta di tale Stato siederà di diritto nel collegio giudicante. Si tratta di accorgimenti tesi a contestualizzare gli effetti del parere nell’ordinamento dello Stato parte dal quale la richiesta proviene. Infine, una volta adottato, il parere entrerà a far parte della giurisprudenza della Corte europea e produrrà l’effetto di precedente autorevole al fine di definire ricorsi individuali relativi alla medesima questione giuridica.
Proviamo, quindi a individuare, alla luce di tali regole, le conseguenze della mancata ratifica del Protocollo.
I giudici italiani non potranno chiedere un parere su un problema di interpretazione della Convenzione rilevante alla luce dell’ordinamento italiano. Essi, quindi, non potranno contestualizzare la questione di interpretazione della Convenzione nell’ordinamento italiano e non potranno, di conseguenza, portare a conoscenza della Corte gli elementi di diritto italiano atti a contribuire alla soluzione di una questione di interpretazione della Convenzione. Qualora la medesima questione interpretativa risulti anche per l’ordinamento di un altro Stato, e i giudici di tale Stato chiedessero un parere, esso sarebbe reso da un collegio che non comprenderà il giudice italiano e attraverso un procedimento nel quale lo Stato italiano non sarà parte e non potrà produrre documenti e memorie né partecipare all’udienza.
Ma tutto ciò non avrà certamente l’effetto di impedire che tale parere spieghi i propri effetti di precedente autorevole per la definizione di ricorsi individuali. Di conseguenza, ricorsi proposto da un individuo contro lo Stato italiano potranno essere definiti sulla base di un parere adottato in seguito a un procedimento promosso da giudici di un altro Stato e nei quali lo Stato italiano non avrà avuto la possibilità di partecipare.
Non mi sembra un buon risultato per coloro che ritengano che la mancata ratifica dell’Italia abbia evitato il rischio di una ulteriore erosione della sovranità dello Stato.
11. Le Nazioni Unite ed il Consiglio di sicurezza, organismi espressivi di un nuovo ordine mondiale che supera la sovranità degli Stati o semplicemente occasioni mancate, incapaci di operare al di sopra degli Stati rispetto alle sfide del futuro?
Le Nazioni Unite non sono il governo del mondo. Esse sono nate per un obiettivo specifico, ancorché ambizioso: quello di abolire l’uso unilaterale della forza e di conferirlo in via esclusiva ad una amministrazione centralizzata. Tale obiettivo è stato parzialmente raggiunto, anche se con tutti i limiti rappresentati da un meccanismo decisionale fondato su logiche intergovernative.
Ma il più grande merito delle Nazioni Unite è quello di aver contribuito silenziosamente a mutare il panorama degli interessi e dei valori collettivi della Comunità internazionale, pur senza possedere i poteri necessari per la loro tutela e la loro promozione. La Carta delle Nazioni Unite parla già il linguaggio di un costituzionalismo internazionale che ancora non esiste, se non in potenza. Essa ha contribuito alla formazione di una comunità nuova, che crede in tali valori e nella necessità di realizzarli, pur senza, e a volte contro, la volontà degli Stati: un costituzionalismo senza una forma di governo. Personalmente, credo che le Nazioni Unite non siano all’altezza delle sfide del futuro. Ma esse hanno contribuito a creare tali sfide e i presupposti per poterle affrontare.
12. Si fa un gran parlare, in questi giorni, di libertà individuali compresse da poteri privati operanti su scala globale. Che ruolo dovrebbero giocare secondo te la sovranità interna e quella esterna?
Il controllo dei poteri privati è la grande sfida del nostro tempo. Con molta difficoltà, gli Stati assicurano tale controllo entro i propri confini. Ma la rivoluzione globale proietta sullo scenario mondiale lo spettro di poteri esercitati sul piano mondiale, i quali si sottraggono al controllo degli Stati. Essi sono tanto più insidiosi in quanto si avvalgono delle nuove tecnologie di comunicazione che li rendono quasi invisibili.
La loro esistenza ha già sollevato il problema della definizione territoriale di applicazione delle discipline degli Stati e dell’Unione europea. Si pensi alla sentenza Schrems II della Corte di giustizia, del 2020, relativa alla applicazione extraterritoriale della disciplina europea sulla protezione dei dati.
Il futuro prossimo sarà verosimilmente caratterizzato da conflitti fra regolamentazioni statali, rispetto ai quali le regole internazionali di composizione su base territoriale sembrano obsolete. Peraltro, tali conflitti incrementeranno inevitabilmente le diseguaglianze sul piano globale, dato che gran parte della popolazione mondiale, il Sud della terra, non potrà godere di una efficiente protezione contro le grandi imprese tecnologiche che operano sul piano globale. Il futuro “remoto” potrebbe recare con sé una forma collettiva di governo dei poteri privati. Ma questo presuppone, a propria volta, una eclissi, totale o parziale, della sovranità statale e il sorgere di strutture di governo che dispongano di competenze settoriali per la gestione di interessi collettivi dell’umanità. Proprio quel che appare al confine dell’utopia …
Postilla a Bruno Capponi, Addio 2020
di David Cerri
Letto l’ultimo dei sempre interessanti – ed arguti – interventi del Prof.Capponi si questa Rivista Addio 2020 di Bruno Capponi, poiché talvolta “anche alle pulci gli vien la tosse”, come diciamo in Toscana (e in diversa forma anche altrove: celebre la versione napoletana), vien voglia a questa pulce di avvocato di provincia di apporre qualche noterella…
Prima di tutto: come non manifestare assoluta condivisione alle critiche sulla tecnica legislativa del governo della pandemia (critica certamente estensibile a tutti gli esecutivi precedenti, peraltro); a quelle sulla mancata/inadeguata informatizzazione della Cassazione o degli uffici dei giudice di pace (critica anzi da rimarcare a proposito dei secondi e da allargare agli onorari, partendo in particolare dalle considerazioni dell’Autore sulle "sperequazioni esistenti coi togati”, quando questi giudici sopportano una parte rilevantissima del contenzioso, tra l’altro con un enorme risparmio di risorse per lo Stato, non giustificato, però, almeno sotto il profilo delle indennità)?
Dove manifesto invece qualche perplessità è sulla definizione di “solito gioco della supplenza” con la quale si riferisce alla emanazione da parte dei Tribunali di quelli che giustamente sono denominati “provvedimenti di organizzazione”, meglio che “decreti”; mi pare cioè che la critica esplicita – ma, con maggior efficacia retorica, condotta anche implicitamente con il riferirvisi come a grida, editti – alle conseguenze degli interventi dei magistrati “della trincea” sia almeno in parte ingenerosa. Visti dal solito punto di osservazione – la trincea – ma dalla parte dell’avvocato, quei provvedimenti hanno consentito di evitare il blocco totale delle attività; questo è il primo punto di merito, che ora, dopo le relazioni per le inaugurazioni dell’anno giudiziario, si apprezza ancor meglio (non sarebbe stata assai peggiore la percentuale in diminuzione dei servizi resi alla collettività senza questi tentativi di soluzione locali?).
La diversità delle situazioni – e forse il legislatore non ha errato nel lasciare questa relativa ampiezza dei poteri ai dirigenti degli uffici – ha portato giocoforza a iniziative diverse tra di loro; in linea di massima, mi sentirei di dire che laddove le “grida” sono state condivise (formalmente o meno) con l’avvocatura, e dove gli interventi sono stati condotti nel senso del chiarimento e della semplificazione, i risultati sono stati migliori. Certamente da sanzionare (almeno culturalmente se non vi fossero altri rimedi: ma forse ci sono) è il giudice che detta le regole, compito esclusivo del legislatore; ma da encomiare il giudice che cerca il dialogo con gli altri operatori del diritto del suo foro per cercare di andare avanti in tempi estremamente difficili. E la certezza del diritto (qui processuale) dove va a finire, si dirà? Probabilmente nel solito posto dove (se non da sempre, quasi…) viene collocata da diverse interpretazioni talora anche all’interno della stessa sezione del medesimo Tribunale, giusto anche di norme processuali. Per un esempio banale: i termini di cui al 6° comma dell’art.183 c.p.c. da quando decorrono? inevitabilmente dall’udienza (o comunque dal provvedimento con il quale vengono concessi), o la decorrenza può essere fissata ad nutum dal Giudice (spesso nel lodabile intento di indicare termini congrui con la data della udienza successiva)? Credo che molti colleghi e magistrati possano testimoniare di diverse prassi interpretative all’interno del medesimo ufficio. Sempre dal punto di vista dell’avvocato, del resto, la conoscenza di diverse prassi applicate in questo o quel foro costituisce un elemento della sua competenza professionale, e ciò sempre sulla base del consolidato canone, proprio della vecchia e della nuova retorica, della considerazione dell’uditorio di destinazione.
Sottostante a questa mia critica alla critica, e lo si sarà già compreso, c’è la convinzione ed anzi l’auspicio che almeno alcune delle novità introdotte per l’emergenza entrino a far parte stabile dell’ordinamento processuale (magari scritte meglio…). Non comprendo come ci si possa strappare i capelli se il momento dell’oralità (la “presenza”) sia limitato a particolari adempimenti, davvero essenziali, come ad esempio alla raccolta delle deposizioni testimoniali (e certamente non soltanto: tra l’altro è ovviamente rilevante anche la materia oggetto di causa). Sennonchè mi si lasci (in cauda venenum) questa nota per concludere: ma parliamo delle testimonianze rese di fronte ad un giudice onorario che non ha conosciuto prima, né conoscerà dopo, della causa? Beh, allora videoregistriamole!
Un racconto approssimativo.
di Alberto Santacatterina
Ho acquistato e letto il libro di Palamara. Quello che colpisce, in un testo che sta monopolizzando il dibattito pubblico sulla magistratura, è la sciatteria e l’approssimazione del suo racconto.
Non parlo degli episodi dei quali si discute da giorni, che solo gli interlocutori da lui citati possono confermare o smentire, ma proprio della esattezza delle notizie che vengono date e che è possibile controllare.
Il primo racconto è quello dell’elezione dell’attuale vicepresidente del CSM. Dice Palamara: “Siamo consci della sua debolezza di curriculum, ma ci organizziamo per portarlo al traguardo della vicepresidenza” (p.28). Tanto si organizza che la votazione, a suo dire, finisce “Tredici a tredici, ma essendo Ermini più anziano di Benedetti, il nuovo vicepresidente del Csm è lui. […] Questa è storia, nessuno può smentire una virgola di questa ricostruzione” (p.32). Uno va a controllare e scopre che, in realtà, la votazione si concluse tredici a undici. Certo, si può sempre ricordare male. Se però si considera che in quella votazione si astennero i due consiglieri di Forza Italia (che in teoria avrebbero dovuto votare a favore del candidato che si opponeva a Benedetti, votato invece dal “blocco che si era formato tra Davigo e la corrente di sinistra di Area” (p.30), qualcosa non quadra.
Il succo del racconto di Palamara è la denuncia dell’esistenza di un «Sistema» “monopolizzato dall’asse tra la mia Unità per la Costituzione e la sinistra di Magistratura democratica” (p.13) dove invece Magistratura Indipendente era stata tenuta “ai margini”. Chiunque abbia seguito negli anni le vicende del CSM sa che la realtà è ben più complessa, fatta di tante decisioni e votazioni nelle quali le maggioranze si sono composte, scomposte e ricomposte. Del resto, e questo è un argomento che nel libro si salta a piè pari, il CSM è composto per due terzi di magistrati eletti dai colleghi e per un terzo da avvocati e professori eletti dal Parlamento. La sua composizione ed il suo funzionamento sono tali per cui è naturale e fisiologico votare, quindi creare (e spesso disfare) maggioranze e minoranze.
Dice Palamara che “se sfidi il «Sistema» sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto”. Tra i magistrati che sarebbero fuori, oltre ai soliti Ingroia e De Magistris, ci sarebbe a suo dire anche “Antonio Sangermano” (p.47). Lungi dall’essere emarginato, il dott. Sangermano è stato nominato a 51 anni Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Firenze a Firenze.
Appena entrato in magistratura, dopo aver notato che “la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”, Palamara capisce “che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica” (p.36). Quando poi si trasferisce da Reggio Calabria a Roma, esce da Magistratura Democratica “corrente ideologica e non scalabile da uno con la mia storia” per entrare “in una corrente meno strutturata e più pragmatica”: “partecipo a un’operazione politica” attraverso la quale “Unicost acquisirà un ruolo e un peso decisivo all’interno della magistratura” (p.38). “Unità per la Costituzione” (Unicost) è in realtà da decenni la corrente di maggioranza relativa della magistratura associata. Dire quel che dice Palamara è un po’ come dire che nel 1988 con De Mita la Democrazia Cristiana “acquisirà un peso decisivo” all’interno della politica italiana.
Il lettore inesperto potrebbe cercare nel libro anche il racconto della vita di un magistrato vista dall’interno. Verrebbe informato che il giovane uditore Palamara inizia il 15 dicembre 1997 la sua “avventura in magistratura” e “A differenza di tanti miei colleghi che oggi si battono il petto, non chiedo una raccomandazione al politico di turno per svernare a Roma in qualche commissione parlamentare, ma scelgo come prima destinazione la procura di Reggio Calabria, allora classificata come sede disagiata” (p.34). Per chi non lo sapesse, tutti i magistrati di prima nomina sono destinati agli uffici giudiziari, spesso i più scomodi. La “scelta” di cui si vanta l’intervistato non fu, come sembra, un atto di eroismo, ma la regola per tutti i magistrati all’atto della assunzione delle funzioni, che scelgono, pubblicamente e nell’ordine della graduatoria definitiva del concorso, tra le sedi (giudiziarie) pubblicate dal CSM.
Vogliamo invece sapere come nascono i procedimenti penali? “Ci sono inchieste che partono in flagranza di reato, altre su denuncia di una delle parti, altre da verifiche fiscali o da tronconi ditribuna indagini precedenti. Ma molte partono dalla cosiddetta «velina», cioè una soffiata, una segnalazione anonima più o meno verosimile, spesso confezionata dai servizi segreti o da faccendieri interessati a una certa partita. Quando arriva sul tavolo di un magistrato, la velina può essere cestinata o passata alla polizia giudiziaria per fare delle verifiche, le quali danno origine a un documento chiamato «informativa», che il magistrato può cestinare, tenere nel cassetto o trasformare in un fascicolo giudiziario: ovvero, aprire un’indagine vera e propria” (p.68). Questa, detto senza possibilità di smentita, non è la descrizione del funzionamento di una Procura, ma la sceneggiatura di un pessimo telefilm, per intenderci uno di quelli dove l’indagato a quattr’occhi confessa il delitto al pubblico ministero, senza l’ombra di un difensore o di un verbale. Fantascienza, insomma.
Se non si sapesse il contrario verrebbe da pensare che il libro sia scritto da chi non ha mai frequentato un ufficio di procura, o che ha una conoscenza approssimativa dell’ordinamento giudiziario: si legge che con la riforma del 2006 “il procuratore capo assegna le inchieste in modo arbitrario” (p.156). Proprio la riforma (il D.L.vo 106/2006) prevede invece all’art.1 che il procuratore della Repubblica preveda “criteri di assegnazione” e “meccanismi di assegnazione di natura automatica” dei procedimenti penali ai sostituti dell’ufficio.
Pazienza. Uno che all’inizio della sua carriera voleva “contrastare l’egemonia culturale della sinistra giudiziaria” (p.48) e lo fa iscrivendosi a MD (cosa che perfino Sallusti gli fa notare) ha sempre il diritto di correggere i suoi errori e non gliene vorremo per questo. E infatti “a fine 2003 uscii da Magistratura democratica. Accadde dopo un congresso in cui era ospite il segretario della Cgil Cofferati, che tra l’entusiasmo dei magistrati presenti sparò a palle incatenate contro Berlusconi e il suo governo in quel momento in carica” (p.49). Peccato che Cofferati rimanga segretario della CGIL fino al 20 settembre 2002.
La crisi di coscienza si risolve entro un decennio, quando “sto pensando alla politica. Inizio a parlarne […] sia con Franco Marini sia con Maurizio Migliavacca, l’uomo delle liste nel Pd di Bersani, seguendo l’esempio di miei illustri predecessori dell’Anm, tra cui Elena Paciotti, che subito dopo quell’esperienza erano transitati in politica nelle file del Partito democratico” (p.87).
Ci si aspetterebbe poi che un libro destinato a passare alla storia e scritto da un ex componente del Consiglio Superiore fosse almeno preciso quando parla di ordinamento giudiziario, e invece si legge che De Magistris “dal 1998 al 2002 era stato anche procuratore a Napoli” (p.53), che Woodcock è “il famoso procuratore di Napoli” (p.126) e che Robledo può rimanere a Torino “come procuratore” (p.158). Il povero Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, invece, chissà perché, viene declassato a sostituto (p.107). L’emendamento del 2017 che eliminava il termine di un anno entro il quale gli ex consiglieri del CSM non potevano concorrere ad incarichi direttivi diventa un emendamento “che consente agli ex consiglieri del Csm di poter concorrere immediatamente per incarichi direttivi senza passare attraverso le graduatorie”.
Anche le vicende più clamorose della storia della magistratura italiana sono riferite nel libro con un’approssimazione che sfiora la diffamazione. A detta di Palamara “un grande magistrato di sinistra, Francesco Misiani” fu “ingiustamente messo sotto processo nel 1996 e poi completamente prosciolto dall’accusa di aver ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante e passato informazioni sensibili agli imputati del processo SME”. Misiani non fu mai “messo sotto processo” né indagato per “avere ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante”; fu imputato del reato di favoreggiamento per avere informato il collega dell’esistenza di indagini a suo carico per corruzione ed assolto “perché il fatto non sussiste”.
Se questa è la accuratezza della narrazione storica, figurarsi se ci si può fidare delle date riportate nel libro. Neanche quando Palamara parla di quello che definisce “il colpo della vita”: “conquistare il vertice della magistratura italiana” (p.14) nominando “i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione”, senza che alla corrente di Area “venga assegnata almeno una delle due cariche”; “Non è mai accaduto, mi dicono” (p.16). La “doppietta” (parola di Sallusti) riesce e “Fuzio è il nuovo procuratore generale della Cassazione, Mammone il primo presidente”. Ti aspetteresti che raccontando “il colpo della vita” uno si ricordi almeno la data, specie se non lo racconta al bar ma in un libro. Per Palamara “È il 14 dicembre 2017” (p.17). No, basta cercare su internet, Fuzio e Mammone vengono eletti il 22 dicembre 2017.
Sbagliata la data del “colpo della vita”, figurarsi le altre. “Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica” (p.148) in realtà si insedia come procuratore il 18 ottobre 2016; forse lo strapotere della sinistra gli aveva consentito di insediarsi ancora prima della nomina.
“Nel 2015 bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Catania e Sarpietro presentò al Csm la sua candidatura. Non passò; con il mio contributo decisivo gli fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente” (p.153). Bruno DI Marco (e non DE Marco), viene nominato presidente del Tribunale di Catania il 6 luglio 2011. L’errore è clamoroso perché Palamara racconta di avere dato un “contributo decisivo” ad una nomina fatta da un Consiglio del quale non faceva parte.
Sono tutti dettagli, e l’elenco può sembrare pignolo. Ma, per dirla con Paul Auster “La verità della storia è nei dettagli”.
Non ho mai avuto rapporti con Palamara e quindi non sono in grado di decifrare (lo considero un privilegio) i messaggi che si ha talvolta l’impressione di percepire: per esempio quando l’intervistato avverte “A ogni cambio di telefono inevitabilmente si perde qualche cosa del contenuto, su quello sequestrato si parte da marzo 2017 ma, e non lo dico per creare nuove apprensioni, spero di recuperare quello precedente, che al momento non trovo” (p.173). L’impressione che se ne ricava è spiacevole e non depone a favore dell’autenticità della narrazione.
Il racconto di Palamara, per chi è del mestiere, fa quindi un’impressione straniante: parla di cose che si sa sono diverse e che funzionano diversamente, di un mondo che, visto dall’interno, non è quello raccontato nel libro. Per capirci, è come se un calciatore della nazionale si pentisse e svelasse di avere comperato nel 1982 la finale dei Mondiali con la Germania: non posso sapere se è vero o no, ma se parlandone dice che il gol segnato con un tiro da fuori area vale tre punti e che la finale si è giocata nel 1978, è logico che qualche dubbio lo suggerisca.
La superficialità del libro di Palamara rischia di avere un duplice effetto dannoso. Da una parte illude la politica e i cittadini che esistano soluzioni semplici ad un problema complesso, quello della scelta dei dirigenti degli uffici ed in generale del (cattivo) funzionamento della giustizia. Se si pretende di avere individuato una sola causa, consistente nello strapotere della sinistra e nell’esistenza del “Sistema”, basta toglierli di mezzo e tutto come d’incanto funzionerà alla perfezione. Tiriamo a sorte, tanto per dire, il prossimo procuratore di Roma, il Sistema sarà disarmato, la Procura di Roma e tutte le altre funzioneranno come un orologio, tutto il mondo ci invidierà. Come abbiamo fatto a non pensarci prima? Magari facciamo lo stesso anche per il prossimo questore, per il prossimo comandante dei Carabinieri, per il prossimo Dirigente dell’Azienda Sanitaria e così via. Poi, se la soluzione non funziona, sarà colpa della sorte che ha scelto male.
Dall’altra parte il grave errore della magistratura sarebbe quello di prendere a pretesto il tenore evidentemente parziale delle dichiarazioni di Palamara, che viene esibito nelle trasmissioni televisive come portatore di una verità di fronte alla quale non vi è concreta possibilità di contraddittorio, per pensare che la crisi di credibilità che comunque ne è derivata si risolverà aspettando che passi la tempesta. Siamo probabilmente ad un punto di non ritorno e possiamo risalire la china solo con uno sforzo davvero audace e spregiudicato, capace di mettere in discussione anche privilegi o abitudini che siamo abituati a dare per scontati.
Per esempio, dobbiamo prendere atto della totale insufficienza degli attuali meccanismi di valutazione del lavoro dei magistrati e della loro professionalità: gli attuali meccanismi, in base ai quali la stragrande maggioranza delle valutazioni di professionalità giudica “superiore alla media” la produttività del magistrato sono, oltre che falsi dal punto di vista aritmetico, insufficienti per giudicarne la caratura professionale.
L’attuale meccanismo di rilevazione statistica, e parlo degli uffici di procura che sono quelli nei quali ho sempre operato, rileva con precisione la quantità dei procedimenti definiti. Difficile, se non impossibile, accertare invece l’esito processuale di quei procedimenti, con la conseguenza che chi ha mandato a giudizio 200 procedimenti ottenendo 100 condanne (e quindi 100 assoluzioni) è comunque giudicato “più produttivo” di chi ne ha definiti 150 ottenendo 130 condanne. La magistratura è l’unica attività professionale nella quale non esistono sostanzialmente meccanismi di controllo della qualità di quello che si produce. Mutatis mutandis è come se in un reparto di chirurgia si rilevasse il numero delle operazioni effettuate senza curarsi del loro esito.
In questa prospettiva si possono cominciare a comprendere i meccanismi che hanno portato alle degenerazioni correntizie, che non derivano certo dal “cattivo” Palamara o dalle oscure trame della destra o della sinistra. Uno studioso non sospettabile di condiscendenza verso la magistratura italiana, il professor Giuseppe Di Federico, ha osservato tra l’altro che “l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili […] fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio”[1]. Tanto più attendibili saranno le valutazioni di professionalità, tanto più difficile sarà scavalcarle per meriti associativi. Questo implica che la magistratura si accolli con coraggio il compito di dire che ci sono magistrati migliori di altri, cioè magistrati competenti e magistrati meno competenti, magistrati che lavorano e magistrati che lavorano meno o che non lavorano affatto, magistrati equilibrati e magistrati che equilibrati non sono. È un compito che spaventa, mi rendo conto, ma deve spaventarci di più la china discendente della nostra credibilità e della nostra reputazione.
Dobbiamo avere poi il coraggio di farci giudicare dai nostri interlocutori quotidiani, vale a dire dalla classe forense, rappresentata dall’ordine degli Avvocati. Rimango stupito che anche di recente si sia messo in discussione addirittura il c.d. “diritto di tribuna”, e cioè la possibilità degli avvocati presenti nel Consiglio Giudiziario di partecipare (senza diritto di voto) alle deliberazioni concernenti le valutazioni di professionalità dei magistrati. Al contrario, i rappresentanti dell’avvocatura dovrebbero partecipare con diritto di voto a quelle deliberazioni. La professionalità di un magistrato è fatta, oltre che di competenza e laboriosità, anche di disponibilità, di correttezza, financo di cortesia nei rapporti personali, qualità tutte indispensabili a chi svolge un lavoro così importante, e tutte possono essere giudicate da chi quotidianamente si confronta con noi. Il coinvolgimento dell’avvocatura in quelle valutazioni rappresenterebbe per la magistratura un gesto di coraggio e di apertura all’esterno davvero epocale, e nello stesso tempo un’assunzione di responsabilità nel funzionamento della giustizia per tutta l’avvocatura.
Abbiamo infine un problema di verità, perché non si possono difendere tutti i comportamenti di tutti i magistrati, recenti e meno recenti, temendo che dissociarsi dai comportamenti di uno indebolisca l’autorevolezza di tutti gli altri. Decidiamo, almeno come magistratura associata, una moratoria delle pubbliche dichiarazioni di magistrati che, oggi come in passato, propongono una narrazione troppo spesso leggendaria, narcisistica e falsa della loro attività. Dissociamoci con decisione dalle apparizioni mediatiche, talora francamente inquietanti ed inaudite da un punto di vista istituzionale ed ordinamentale, di alcuni colleghi. Diciamo a voce alta che i magistrati parlano solo con il loro lavoro: i pubblici ministeri con i risultati processuali delle loro indagini, i giudici con le sentenze. Questo contribuisce alla credibilità della magistratura, non le comparsate televisive, se pur fatte (e non è sempre così) con le migliori intenzioni.
Per concludere, il libro di Palamara non può essere il libro di testo sul quale riscrivere la storia della magistratura italiana, una storia ben più complessa e contraddittoria, né tantomeno la bussola per risolvere la grave crisi della giustizia italiana. Non lo può essere per come è scritto, con superficialità e sciatteria, con una rappresentazione macchiettistica di un CSM e di una politica dove, in sostanza, decideva tutto Palamara, in rapporto diretto con il Presidente della Repubblica per il tramite di Loris D’Ambrosio che, come sappiamo, non può più smentire. Un delirio di onnipotenza che si trasforma oggi nel suo riposizionamento quale testimone privilegiato di un preteso schieramento a sinistra della magistratura come neppure nelle peggiori caricature. Il che non vuol dire che non vadano affrontati, se necessario anche con durezza e anche con sofferenza, molti dei problemi che pure nel libro sono posti, ed ai quali viene data una risposta semplicistica e stereotipata.
Dice Palamara, in esordio, con una solennità un po’ pelosa: “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”. Io sono uno dei magistrati che, iscritto da anni ad una corrente, con queste storie nulla c’entra. Non mi sono mai autopromosso, faccio con orgoglio il sostituto da trent’anni e non mi spaventa l’idea di farlo fino alla pensione. Lui ha tutto il diritto, adesso, di riposizionarsi, di diventare la bandiera di chi pensa di buttare nel cestino il lavoro, la storia ed i sacrifici di tanti colleghi. Ma la storia della magistratura italiana, magari, facciamola fare ad altri.
[1] Il Riformista, 11 giugno 202, p.6.
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