ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In ricordo di Valerio Onida.
Intervista di Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella al prof. Valerio Onida (15 maggio 2021)
Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella Grazie innanzitutto di averci ricevuto e della Tua disponibilità. Ci piacerebbe iniziare la nostra conversazione parlando dei tempi e dei modi di attuazione della Costituzione repubblicana.
La Costituzione italiana uscita dai lavori dell’Assemblea costituente del 1946-1947 è una Costituzione che ha innovato moltissimo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’ispirazione fondamentale.
Tuttavia prima che tutte le novità introdotte dalla Costituzione siano entrate a circolare nel “sangue” dell’ordinamento c’è voluto molto tempo e ce ne vorrà ancora.
La responsabilità di questa lentezza è da addebitare in primo luogo a un’opera legislativa di rinnovamento tardiva, frammentata e raramente organica.
Basti pensare che la Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ma sono rimasti in vigore quasi tutti i codici preesistenti e altre grandi leggi fondamentali. Ancora oggi, oltre settanta anni dopo, soltanto il codice di procedura penale è stato sostituito, non invece il codice penale che pure ha un impianto e dei contenuti inadeguati quanto meno allo spirito della Costituzione e alla realtà dei nostri tempi; gli altri codici e varie altre leggi organiche sono sempre quelli già allora vigenti, come la legge sull’ordinamento giudiziario, che è ancora quella del 1941, sia pure modificata e integrata alla luce delle innovazioni portate direttamente dalla Costituzione. Ancora oggi c’è un debito mai completamente saldato. Ad esempio, appena entrata in vigore la nuova Costituzione, una delle prime cose da rifare organicamente sarebbe stato il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Ma ciò, come sappiamo, non è avvenuto né allora né in seguito.
Agli inizi, quindi, c’era un cammino lungo da percorrere, e molto da rinnovare. Ma questa innovazione a chi era rimessa? Essenzialmente al legislatore ordinario, poi anche alla Corte costituzionale, la quale tuttavia non è stata operante fino al 1956; in un’epoca ancora successiva ci si è affidati anche all’influenza di ordinamenti esterni come quello internazionale.
Principalmente il legislatore ordinario è mancato quasi totalmente nell’opera di ripensamento organico dei corpi legislativi.
Non c’è stata però soltanto una mancanza del legislatore ordinario. Molto ha inciso anche la cultura giuridica diffusa, nella magistratura e in generale fra gli operatori giuridici, per cui la Costituzione veniva vista bensì come una tavola di valori e di principi, ma la cui attuazione era rimessa principalmente al legislatore ordinario, in mancanza del cui intervento ci si atteneva alle regole precedenti. Tutti ricordiamo la tesi, prevalsa a lungo anche nella giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale per le disposizioni costituzionali cosiddette programmatiche l’attuazione sarebbe spettata al legislatore, non ad altri, e nell’attesa dell’intervento del legislatore esse non avrebbero avuto alcun effetto concreto.
Il tempo che la magistratura ha impiegato ad accettare l’idea di una Costituzione che pervade tutto l’ordinamento è stato lungo. Si tratta di un’idea relativamente recente, che non si è affacciata subito perché la nostra magistratura era un corpo qualificabile, dal punto di vista delle concezioni giuridiche dominanti, come piuttosto conservatore. Non si è affermata subito l’idea che, essendovi la Costituzione, anche l’applicazione concreta delle leggi dovesse senz’altro cambiare in correlazione con essa. Prevalse a lungo la tesi per cui le disposizioni costituzionali non erano tutte “precettive”, e quindi immediatamente applicabili nei casi concreti, ma che molte norme erano da intendersi come solo “programmatiche” a efficacia differita, con effetto cioè soltanto nei confronti del futuro legislatore. Non si è affermata subito l’idea di un’operatività immediata della Costituzione, con influenza a tutti i livelli, compresa l’interpretazione e l’applicazione delle leggi
Si usa ricordare il Congresso di Gardone del 1965 dell’Associazione Nazionale Magistrati come il momento nel quale si iniziò a sostenere in maniera netta nell’ambito della magistratura che la Costituzione ha un rilievo giuridico concreto, in base ai principi che essa enuncia, affidati bensì spesso a una specificazione da parte del legislatore ordinario, ma operanti fin da subito ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme legislative esistenti, anche in attesa di nuovi interventi legislativi di adeguamento.
Dunque il confronto ravvicinato tra la Costituzione e molte norme legislative preesistenti, ai fini di decidere sulla perdurante applicazione di queste, all’inizio è avvenuto in misura solo parziale, pur essendosi previsto in Costituzione (art. VII, secondo comma, delle disposizioni transitorie e finali) che fino a quando non fosse entrata in funzione la Corte costituzionale, la decisione delle controversie ad essa devolute avrebbe avuto luogo “nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti all’entrata in vigore della Costituzione” (quindi, si sarebbe potuto dire, limitandosi i giudici a “disapplicare”, alla stregua dei regolamenti illegittimi, le leggi incostituzionali). Quando, otto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, ha iniziato a operare la Corte costituzionale, il sindacato sulle leggi ordinarie è divenuto più stringente: la Corte, fin dalla sua prima sentenza, ha fatto immediatamente un grande passo avanti, smentendo la teoria delle norme “programmatiche”, applicabili in concreto solo dopo l’intervento del legislatore ordinario. Gli interventi della Corte costituzionale, tuttavia, sono per loro natura puntuali, su singole disposizioni, e non potevano del tutto rimediare alla carenza di interventi organici del legislatore, che sarebbero stati necessari per una piena attuazione della Costituzione. È mancato l’organico intervento del legislatore ordinario diretto a “costituzionalizzare” l’intero ordinamento, innovando profondamente settori dell’ordinamento disciplinati da leggi organiche pre-costituzionali, in molti casi approvate durante il regime fascista. Risalivano infatti all’epoca fascista tutti i codici, e solo nel 1989 si è sostituto integralmente il codice di procedura penale. Il legislatore ordinario si è limitato per lo più a interventi puntuali e frammentari, salvo i non molti casi di leggi organiche davvero organiche e complessivamente orientate a adeguare l’ordinamento ai principi costituzionali: a parte alcune leggi approvate soprattutto negli anni Settanta, come ad esempio lo “statuto dei lavoratori” (1970) e il diritto di famiglia (1975), e più tardi il nuovo codice di procedura penale (1989).
Elisabetta Lamarque Tra le grandi novità della Costituzione repubblicana c’è dunque la Corte costituzionale, alla cui attività hai partecipato dapprima come avvocato e poi come componente e, infine, Presidente. Ma c’è anche l’ordinamento regionale. Vuoi dirci qualcosa della fase dell’istituzione delle Regioni ordinarie, che Ti ha visto testimone e per alcuni aspetti protagonista?
Le Regioni ordinarie sono state istituite solo nel 1970. Gli statuti speciali, quattro dei quali antecedenti alla Costituzione, sono sopravvissuti ma è mancata completamente una loro revisione organica alla luce della Costituzione. Anche la riforma costituzionale del 2001, che ha dato vita a un nuovo regionalismo e che, nella parte in cui accresceva l’autonomia per le Regioni ordinarie, si estendeva anche alle autonomie speciali, per il resto ha mantenuto in vita gli statuti speciali preesistenti.
Il punto di partenza, nel 1948, era un ordinamento fortemente centralizzato, di tipo napoleonico. Con il lungo rinvio dell’attuazione delle Regioni ordinarie, le Regioni speciali sono rimaste per molto tempo le uniche espressioni del nuovo modello di autonomia previsto dalla Costituzione. Ma tale modello non ha potuto avere quell’efficacia innovativa del sistema che avrebbe avuto se avesse riguardato da subito tutto il territorio nazionale. La mancanza delle Regioni ordinarie, quindi, ha storicamente ristretto le stesse possibilità di sviluppo delle Regioni speciali, pur già istituite contemporaneamente o addirittura prima della Costituzione.
Quando nel 1970 si è finalmente deciso di attuare l’ordinamento delle Regioni ordinarie si è aperta una nuova promettente fase. Tra l’altro la legge del 1970 sulla finanza regionale eliminò una delle disposizioni restrittive dell’autonomia regionale contenuta nella legge n. 62 del 1953 (l’art. 9, ai cui sensi nelle materie di competenza concorrente le Regioni avrebbero potuto legiferare solo dopo che lo Stato avessero espressamente stabilito i principi fondamentali cui le Regioni avrebbero dovuto attenersi). La legge del 1970 stabilì invece che le Regioni potessero legiferare “nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Innovazione certamente utile a evitare ulteriori ritardi nell’esercizio delle competenze regionali, insieme all’altra disposizione della stessa legge – clamorosamente disattesa – secondo cui entro due anni si sarebbe dovuto adeguare la legislazione statale “alle competenze legislative attribuite alle Regioni"; ma, paradossalmente, questa novità può avere concorso nel ritardare sine die il varo di nuove leggi cornice contenenti i principi fondamentali vincolanti per la legislazione regionale.
Da qui si è sviluppato un lungo e in parte contraddittorio percorso. A un’iniziale attuazione dell’ordinamento regionale piuttosto contenuta a causa delle forti resistenze centralistiche degli apparati statali, in sede di emanazione dei decreti legislativi delegati che delimitavano le competenze amministrative regionali (proverbiale allora la ferma resistenza a maggiori sviluppi regionalistici del Prefetto Elio Gizzi, responsabile per lo Stato dei rapporti con le Regioni), ha fatto seguito una seconda fase, peraltro di breve durata, inaugurata dalla legge n. 382 del 1975 e dal d.P.R. n. 616 del 1977, che avviava il disegno di un nuovo regionalismo. Esso è l’unico provvedimento normativo statale che ha tentato di definire tutte le materie regionali con precisione e in maniera organica: la definizione legislativa delle materie è indispensabile per la costruzione di un ordinamento autonomistico ben funzionante e non può nemmeno essere interamente demandata alla giurisprudenza costituzionale in occasione dei conflitti.
Io ho partecipato alle fasi iniziali di attuazione dell’ordinamento regionale. Ho contribuito insieme, fra gli altri, a Giorgio Pastori ed Enrico De Mita alla stesura del primo Statuto della Regione Lombardia, e ho lavorato come studioso, per cercare di contrastare le resistenze centralistiche, anche se non ho fatto parte della commissione Giannini che elaborò lo schema del d.P.R. 616.
Elisabetta Lamarque E quindi la soddisfazione per il d.P.R. n. 616 l’hai vissuta…
Sì, in concreto. Erano tempi in cui la scuola amministrativistica del Nord, espressa da Feliciano Benvenuti e poi fra gli altri da Umberto Pototschnig, ha avuto un grande ruolo innovativo. C’era l’idea che un buon ordinamento dovesse contemplare ben definiti e importanti compiti delle Regioni anche nella legislazione.
Ricordo che negli anni Settanta e all’inizio degli anni ottanta vennero varate da alcune Regioni anche leggi che tentavano di anticipare importanti innovazioni, non ancora accolte nella legislazione statale, e che ottennero l’avallo della Corte costituzionale. Penso a certe sentenze costituzionali ove si ammetteva che, anche in mancanza di leggi cornice, le singole Regioni avessero il diritto di legiferare desumendo anche in modo evolutivo i princìpi dalla legislazione statale esistente. Ricordo, ad esempio la sentenza della Corte costituzionale n. 7 del 1982, la quale ammise che le Regioni Veneto e Lombardia potessero adottare una legislazione ispirata al principio della necessaria autorizzazione per l’attività di cava anche se nelle leggi statali preesistenti non c’era una regola espressa in questo senso, potendola ricavare in base a una certa ricostruzione del significato dei principi fondamentali evolutivamente desumibili dalla legislazione statale. O ancora la sentenza n. 225 del 1983, che valutò positivamente la disciplina legislativa degli scarichi idrici varata dalla Regione Lombardia con la l. r. 48/1974, approvata ancor prima della legge quadro statale sugli inquinamenti (la legge “Merli” n. 319 del 1976).
Alberto Roccella Forse una cosa che oggi non si ricorda più così chiaramente è che in quegli anni l’istituzione dell’ordinamento regionale veniva sentita non soltanto come un atto formale di attuazione della Costituzione, ma soprattutto come un modo di riorganizzare lo Stato, come una riforma di sistema capace di dare un volto nuovo al potere pubblico nel suo complesso.
Certo. Ricordo lo slogan “le Regioni per la riforma dello Stato”. Del resto la Costituzione era già chiara fin dall’inizio. C’era e c’è tuttora l’art. 5, il quale esprime l’idea che le autonomie regionali e locali non presuppongono soltanto un nuovo modello organizzativo, ma esprimono piuttosto princìpi fondanti dell’ordinamento, che avrebbero dovuto incidere sul modo di legiferare del centro oltre che delle Regioni e sui rapporti tra Stato e Regioni. L’art. 5 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”
Passi avanti in questo senso, comunque, come dicevo, sono stati fatti soprattutto negli anni Settanta. Anche il cosiddetto “pacchetto” per la riforma dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige, del 1972, favorito dall’esigenza di rispondere adeguatamente alle tensioni derivanti da conflitti anche di origine internazionale e da fenomeni o minacce di tipo terroristico, fu politicamente molto significativo, perché condusse a un tentativo di costruire un modello di rapporti tra centro e periferia completamente diverso e più aperto alle esigenze dell’autonomia.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo ancora della Tua esperienza. Da costituzionalista avvocato delle Regioni nel 1996 sei diventato giudice costituzionale e hai attraversato da giudice costituzionale sia il periodo delle riforme Bassanini sia il periodo immediatamente successivo alle riforme costituzionali sulle Regioni del 1999 e soprattutto del 2001. Tra l’altro ricordo benissimo, perché ero allora Tua assistente alla Corte e seguii io la questione, che fosti relatore e redattore della prima sentenza costituzionale che fece applicazione del nuovo art. 117 Cost. (la sentenza n. 282 del 2002, relativa a una legge della Regione Marche in materia di elettroshock).
Ricordo che quando nel 1996 sono stato eletto giudice costituzionale qualcuno aveva osservato che non sarebbe stato opportuno che io entrassi nella Corte chiamata a dirimere conflitti Stato-Regioni, avendo difeso ripetutamente in giudizio le Regioni.
Elisabetta Lamarque Addirittura! Le obiezioni nascevano dal fatto che avessi difeso le Regioni e quindi la Costituzione nel suo disegno autonomistico?
Qualcuno forse temeva una “intrusione” troppo regionalistica nella giurisprudenza della Corte, la quale peraltro nella sua evoluzione anche molto successiva non ha mostrato granché una tendenza a valorizzare le istanze della cultura regionalistica. In realtà non è che io nei miei anni da giudice costituzionale abbia avuto tante occasioni per cercare di concorrere a spingere verso un’attuazione più ampia del sistema.
In quegli anni si è aperta la fase delle riforme “Bassanini”, tese soprattutto a rafforzare meritoriamente le autonomie sotto il profilo amministrativo. Ma la ridefinizione legislativa delle materie, come ho già detto, dopo il d.P.R. n. 616 non si è mai concretata completamente, pur dopo la riforma costituzionale (come pure non si è concretato un coerente disegno della finanza regionale). Si pensi che dopo il 2001 non c’è più stata una vera legge statale di cornice in nessuna delle materie (vecchie e nuove) demandate alla competenza legislativa concorrente delle Regioni. Lo Stato-legislatore è largamente mancato in questo e, a sua volta, la giurisprudenza costituzionale si è manifestata per lo più incline a far valere le esigenze del centro e dell’uniformità piuttosto che quelle dell’autonomia e della differenziazione. La stessa delega per la ricognizione ordinata dei principi fondamentali della legislazione statale esistente, prevista dalla legge “La Loggia” (l. 5 giugno 2003, n. 131), è stata esercitata solo marginalmente, anche per i suoi limiti intrinseci.
Il fatto che non siano state emanate leggi quadro ha comportato la mancata fissazione dei princìpi fondamentali che consentissero alle Regioni di legiferare in un quadro di stabilità, e dunque la mancata individuazione dei nuovi confini entro i quali si doveva esplicare l’autonomia regionale. Una mancanza che ha costituito, a mio parere, il principale handicap che ha ostacolato lo sviluppo del regionalismo italiano anche e soprattutto dell’ultimo ventennio.
L’innovazione legislativa è dunque stata completamente assente, forse anche perché non era stata portata a compimento l’idea di costruire delle sedi istituzionali forti nelle quali si portasse avanti un confronto tra centro e periferia. Certo, si è creata la Conferenza Stato–Regioni, ma non si è attuato nemmeno il disposto dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulla Commissione parlamentare per le questioni regionali, l’unica Commissione bicamerale prevista dalla Costituzione che, integrata con la partecipazione di rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, avrebbe potuto esaminare i progetti di legge riguardanti materie regionali rendendo pareri superabili dall’Assemblea solo con la maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Alberto Roccella Ricordo che nell’incontro con la stampa del 2004 il Presidente della Corte costituzionale di allora, Gustavo Zagrebelsky, lamentò proprio l’inerzia del Parlamento sull’attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione: la Corte si era trovata nella condizione di dover esercitare una funzione di supplenza non richiesta e non gradita.
Il punto è proprio che non si è mai arrivati a una completa ridefinizione in via legislativa delle materie. La legislazione promossa in questo campo (e non solo in questo campo) dai Governi e dalle forze politiche nazionali prevalenti nel Parlamento è stata per lo più frammentaria e non organica, così come la legislazione finanziaria non ha per nulla sviluppato l’ambito della finanza regionale. Questo evidentemente ha reso più difficile l’attuazione dell’ordinamento regionale disegnato in Costituzione, già prima del 2001, e poi anche dopo, nonostante una riforma incisiva della Costituzione nata sotto la spinta di nuove forze politiche autonomistiche o addirittura separatiste, e nonostante alcuni referendum approvati volti all’abolizione di alcuni ministeri: iniziative che però a loro volta non hanno inciso granché sulla realtà (a proposito, il Governo Draghi ha reintrodotto, nel silenzio delle Regioni, e con l’entusiasmo delle categorie produttive interessate, il Ministero con portafoglio del turismo, soppresso col referendum del 1993, e affidato a un esponente della Lega).
Un percorso faticoso e contraddittorio, dunque. Nel primo decennio delle Regioni, istituite nel 1970, c’è stato un faticoso avanzamento, ma con resistenze centralistiche; in seguito la fase positiva del d.P.R. n. 616 del 1977; poi quasi tutto resta affidato alla giurisprudenza costituzionale, per l’assenza del legislatore nazionale; infine la riforma costituzionale del 2001, che a prima lettura appare una riforma in senso autonomistico, ma paradossalmente è stata seguita poi dalla mancata attuazione delle molte promesse (come tipicamente quella sulla Commissione bicamerale per gli affari regionali, di cui ho detto prima). La riforma del 2001, tra l’altro, era passata in Parlamento per pochi voti, ma non è del tutto chiaro se i pochi voti erano dovuti al fatto che essa era ritenuta da taluno insufficiente oppure, al contrario, dannosa; e il referendum costituzionale confermativo – richiesto sia dalla maggioranza che dall’opposizione parlamentare, e tenuto a cavallo tra due legislature (la XIII e la XIV), ma per nulla enfatizzato dalle forze politiche e dall’informazione – passò con un esito ampiamente favorevole alla riforma (64% di voti favorevoli) ma con una scarsissima partecipazione popolare (solo il 34% degli elettori). Le forze politiche, dunque, non hanno sentito e trattato la riforma costituzionale delle Regioni come una vera svolta. Soprattutto, la prassi di omettere interventi organici che dessero vita e corpo alle nuove riforme regionalistiche, è continuata. Non si può dire che dopo il 2001 si sia avuta una legislazione nazionale di impronta autonomistica, al contrario, nonostante la presenza al Governo nazionale, in varie fasi, di forze politiche che delle autonomie facevano, almeno apparentemente, la loro bandiera.
Elisabetta Lamarque Quale bilancio faresti allora di questi cinquanta anni di regionalismo italiano, anche alla luce dell’esperienza di questi ultimi mesi nei quali le Regioni si sono trovate in prima linea nella gestione dell’emergenza sanitaria?
La materia della sanità è stata attribuita alle Regioni anche sulla base della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del 1978, che aveva una visione organica. Ma anche in questo ambito è mancata l’attuazione del disegno a livello legislativo sia nazionale che regionale. Le Regioni hanno anch’esse molte colpe. Solo in alcuni momenti e solo in alcune Regioni c’era una visione della sanità regionale e la volontà di portarla avanti.
L’ordinamento regionale avrebbe dovuto uscire fortemente rafforzato dalla riforma costituzionale del 2001, ma ciò non è avvenuto. Forse hanno prevalso altre preoccupazioni, altri interessi. E le Regioni a loro volta, comprese le più grandi e le più forti, non sono riuscite a portare avanti sempre le rivendicazioni della loro autonomia. Pensiamo alle richieste di autonomia differenziata, che storicamente hanno trovato molte resistenze e ancora oggi suscitano più diffidenze che appoggi in sede nazionale.
Poi c’è stata la crisi finanziaria, che ha spinto verso una nuova centralizzazione. L’attuazione legislativa della riforma costituzionale è largamente mancata proprio per quanto riguarda l’art. 119 Cost., relativo all’autonomia finanziaria regionale. Abbiamo soltanto l’Irap e il bollo automobilistico come imposte regionali. Il sistema fiscale e finanziario è rimasto fortemente accentrato anche perché le restrizioni generali sul bilancio pubblico hanno portato a questo tipo di politica.
Dunque paradossalmente, dopo la grande riforma in senso regionalistico del 2001, abbiamo assistito all’abbandono di una politica regionalista. Certo alcuni scandali e forme di utilizzazione dei contributi pubblici ai gruppi consiliari non hanno giovato alla causa delle Regioni. Inoltre la spesa delle Regioni è per larga parte spesa sanitaria con vincoli di bilancio, per esigenze di garanzia uniforme dei livelli essenziali delle prestazioni, che peraltro non sempre sembrano essere state rispettate. L’attenzione della politica nazionale si è piuttosto spostata sui temi della forma di governo.
Alberto Roccella A proposito: la forma di governo aveva costituito più volte oggetto di studio di Egidio Tosato, componente dell’Assemblea Costituente e poi professore di diritto costituzionale a Milano quando ti sei laureato. Quanto hanno influito Tosato e gli altri pubblicisti milanesi sulla Tua formazione?
Tosato non aveva certo inclinazioni nostalgiche per il periodo fascista, nel quale pure si era formato, ma anzi è stato parte attiva nell’opera costituente. Io non ho avuto la possibilità di usufruire fino in fondo della sua guida scientifica, perché egli si trasferì da Milano a Roma poco dopo la mia laurea, conseguita nel 1958. Subito dopo ho svolto per un anno e mezzo il servizio militare di leva e solo nel 1960 ho iniziato la mia collaborazione universitaria come assistente volontario di diritto costituzionale con Paolo Biscaretti di Ruffia, il quale era stato allievo di Santi Romano e quindi aveva avuto una formazione “classica” di diritto pubblico. A Milano in quegli anni era piuttosto Giorgio Balladore Pallieri, professore all’Università Cattolica, e autore del Manuale sul quale anch’io ho studiato, portatore di una visione moderna del diritto costituzionale. Per il diritto amministrativo ricordo con ammirazione e gratitudine Antonio Amorth. Una personalità molto significativa era Feliciano Benvenuti, il quale fra l’altro aveva contribuito a fondare, col sostegno finanziario del Comune e della Provincia di Milano, l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica (Isap) nel quale hanno operato a lungo, fra gli altri, Umberto Pototschnig ed Ettore Rotelli. Il disegno di legge generale sulle autonomie locali, elaborato nel 1976 da un gruppo di lavoro guidato da Pototschnig, costituì un frutto di quella impostazione culturale. Purtroppo l’Isap, che ha avuto un ruolo attivo negli studi e nelle proposte sulle autonomie regionali e locali almeno fino alle leggi “Bassanini” di fine anni ‘90, è stato di recente posto in liquidazione. Nei fatti è prevalsa l’impostazione di Massimo Severo Giannini e della sua scuola, meno sensibile al tema delle autonomie. La stessa riforma del 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del Sindaco, ha attecchito, ma ha riguardato soltanto il sistema politico e la forma di governo degli enti locali, non i rapporti tra poteri centrali e autonomie locali. Io non ho partecipato molto al dibattito dottrinale sulle autonomie locali: mi sono piuttosto impegnato, sul piano locale, con attività di consulenza, specie dopo che sono stato chiamato, nel 1973, alla cattedra di diritto regionale (e poi nel 1976 a quella di diritto costituzionale), nell’Università di Pavia.
Elisabetta Lamarque La Tua attività principale di professore universitario è stata sempre accompagnata da impegni di tipo pratico, come quella di consulente di Regioni, di avvocato, di giudice costituzionale, di primo presidente della Scuola superiore di magistratura, poi ancora di avvocato, dando così l’immagine di un giurista a tutto tondo che si è occupato di più rami del diritto da punti di vista diversi. Cosa pensi della dottrina che fa solo dottrina?
La dottrina che voglia essere dottrina vera non può fare a meno di misurarsi con la realtà e quindi anche con problemi “pratici”. È una questione di metodo. Per mio conto subito dopo la laurea ho iniziato la pratica professionale di avvocato nello studio di Enrico Allorio, col quale ho lavorato per alcuni anni e che ha fortemente contribuito alla mia formazione.
Alberto Roccella In quegli anni Enrico Allorio era professore di Scienza delle finanze e diritto finanziario all’Università cattolica. Insegnava a piccoli gruppi di studenti che affascinava con la sua straordinaria capacità di dominare rami diversi del diritto, una capacità oggi rara ma che è anche tua.
Ho imparato da Allorio l’impostazione di metodo, l’impostazione teorica ma anche il continuo confronto con la realtà proprio della professione di avvocato. Allorio era un tributarista, ma anche un amministrativista, dal quale molto ho imparato; come collaboratore del suo studio ho avuto occasione di frequentare anche altri importanti giuristi milanesi, come Giacomo Delitala. Ma poi ho sospeso per molti anni l’esercizio della professione di avvocato, che ho ripreso a esercitare nel 1981, essenzialmente occupandomi di questioni di carattere generale e costituzionale concernenti l’autonomia delle Regioni, e occupandomi poi anche di referendum.
Elisabetta Lamarque Tuttavia, anche nel periodo in cui avevi interrotto l’attività professionale di avvocato, i Tuoi studi scientifici sono stati sempre molto attenti alla realtà. Penso in particolare allo studio del 1977 sull’attuazione della Costituzione tra magistratura e Corte costituzionale.
L’attenzione alla realtà nasce già dalla mia tesi di laurea: il tema del bilancio dello Stato mi fu assegnato, con una scelta molto moderna, da Tosato, in un’epoca, il 1957, in cui l’argomento era nuovo e inconsueto. Ho poi sviluppato quel tema che è diventato il libro del 1969 su Le leggi di spesa nella Costituzione.
Certo vari miei studi successivi hanno avuto origine dal confronto con l’esperienza. La monografia su Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi del 1967, che non ho mai pubblicato in versione definitiva, è nata dopo l’inizio del mio insegnamento a Verona, anche a seguito di un soggiorno di studi in Germania. Era allora dominante la teoria della “esecutorietà” delle leggi: dopo la promulgazione le leggi erano considerate “esecutorie” e quindi dovevano essere eseguite dalle pubbliche amministrazioni fino al loro eventuale annullamento, mentre la Costituzione rimaneva sullo sfondo. La teoria dell’esecutorietà delle leggi impediva un rapporto diretto delle pubbliche amministrazioni con la Costituzione, mentre per i privati operava la possibilità di ricorrere, dopo il 1956, al giudizio incidentale di legittimità costituzionale. L’idea prevalente era che il legislatore legifera e le pubbliche amministrazioni dovevano applicare le leggi, senza poterle contestare, perché sindacarle spettava solo alla Corte costituzionale su impulso dei giudici. A me pareva che si dovesse affermare la piena efficacia della Costituzione anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Mi sono impegnato su questo tema in vista di una più piena attuazione della Costituzione, non solo nel campo dell’ordinamento regionale. Era lo stesso periodo in cui anche la magistratura maturava una più forte sensibilità costituzionale.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo di parlarci ancora del Tuo lavoro del 1977, pubblicato negli Scritti in onore di Costantino Mortati, un lavoro accuratissimo sulla giurisprudenza comune: da quel lavoro emerge che l’attuazione della Costituzione è dipesa non soltanto dalla Corte costituzionale ma anche dalla giurisprudenza comune. Quel lavoro ha avuto carattere pionieristico, giacché di interpretazione conforme a Costituzione si è cominciato a parlare solo vent’anni dopo.
Su questo tema ho fruito anche dell’insegnamento di Paolo Barile, il quale ha sempre insistito sulla piena giuridicità della Costituzione.
Alberto Roccella Andrea Proto Pisani nell’intervista rilasciata a Giustizia Insieme ha ricordato in termini critici il suo professore di diritto costituzionale a Napoli.
Alfonso Tesauro era un professore di altra scuola! Fra l’altro, come parlamentare, nel 1971 operò per una linea più prudente per la parte relativa all’autonomia amministrativa delle Regioni.
Alberto Roccella Anche Marco Cammelli in un recente convegno ha ricordato quanto poco la Costituzione contasse nell’insegnamento di diritto costituzionale impartito a Bologna nel 1962, quando egli era studente. Del resto Santi Romano nel 1945 aveva pubblicato i Principi di diritto costituzionale generale, come se si potesse prescindere dalla realtà di una Costituzione scritta.
Certo ci sono stati grandi giuristi dell’era prefascista che hanno coltivato prevalentemente la teoria generale del diritto. La visione di Vittorio Emanuele Orlando è stata anche critica nei confronti di certi aspetti della Costituzione. Era il decano dell’Assemblea costituente e tenne fra l’altro un importante discorso nella seduta conclusiva dei lavori, ma non fu un protagonista di questi, come invece Dossetti, La Pira, Mortati e anche Tosato. E, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, una parte della dottrina si fermava piuttosto agli studi di teoria dello Stato.
Elisabetta Lamarque Hai conosciuto Dossetti?
Ho conosciuto Dossetti negli anni ’90 quando, rientrato in Italia dopo l’abbandono della politica attiva e il periodo trascorso in Palestina, si è impegnato fortemente per la difesa e l’attuazione della Costituzione, con una visione politica molto significativa. Per lui il diritto era strumento per perseguire e realizzare una società più giusta e conforme ai principi costituzionali.
Alberto Roccella Ci puoi dire ancora qualcosa dei Tuoi riferimenti scientifici e della Tua carriera?
Ho già ricordato Enrico Allorio, giurista completo capace di spaziare in campi diversi. Ricordo ancora Feliciano Benvenuti, che pure non ho frequentato direttamente, e Umberto Pototschnig, al quale invece sono stato molto legato. Più avanti negli anni sono stato molto legato anche a Leopoldo Elia, che ho frequentato quando era già scaduto dalla carica di giudice costituzionale e che mi ha consigliato e indirizzato, diventando per me un riferimento fondamentale nel mondo accademico. Altri costituzionalisti per me fondamentali sono stati Costantino Mortati, che ho frequentato molto anche personalmente, e Vezio Crisafulli. Ricordo infine, nella generazione successiva, Livio Paladin, un genio del diritto costituzionale. Non ho invece avuto molti rapporti con altri costituzionalisti, come Serio Galeotti e Mario Galizia, che pure hanno insegnato anche in Università lombarde.
Ho superato l’esame di libera docenza in diritto costituzionale, conseguendo il titolo, che allora dava avvio alla carriera universitaria, nel 1965, insieme a Giuliano Amato, Giorgio Lombardi, Michele Scudiero e Federico Morhoff. Per iniziativa e col sostegno di Enrico Allorio mi venne quindi affidato, dal 1966, l’incarico di insegnamento di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di economia e commercio di Verona, allora distaccata dell’Università di Padova, incarico che tenni fino al 1970. Dopo aver partecipato a un primo concorso a cattedra nel quale non risultai “ternato”, nel 1970 vinsi un concorso per la cattedra di diritto parlamentare, secondo ternato in una terna che comprendeva Giuliano Amato e Silvano Tosi. A Verona però non potei essere chiamato, e quindi la mia prima sede da professore straordinario fu l’Università di Sassari; poi la Facoltà di Pavia, in cui aveva una forte influenza Piero Schlesinger, mi chiamò a coprire la cattedra di Diritto regionale e dopo tre anni quella di diritto costituzionale. Infine nel 1983 sono rientrato come ordinario di diritto costituzionale alla Statale di Milano. Peraltro quegli anni erano quelli improntati alle vicende del “Sessantotto”, in cui il mondo universitario conobbe grandi sconvolgimenti e innovazioni, da me vissute con entusiasmo, anche nel campo della didattica, oltre che sul terreno culturale e politico.
Elisabetta Lamarque Il Tuo insegnamento di Giustizia costituzionale all’Università statale di Milano, che io da studentessa ho seguito e che mi ha portato a fare questo mestiere, è stato il primo in Italia?
Certamente è stato fra i primi. L’insegnamento della Giustizia costituzionale, rivolto a piccoli gruppi di studenti molto motivati, attraverso anche lo studio di casi giurisprudenziali, mi ha dato grandi soddisfazioni. In altre materie, come il diritto civile o il diritto penale, non si può prescindere dallo studio di casi giurisprudenziali, ma per il diritto costituzionale era una novità. Io stesso peraltro ho avuto grandi maestri che insegnavano anche attraverso lo studio di casi, in particolare Aurelio Candian per il diritto privato e Giovanni Pugliese per il diritto romano.
Elisabetta Lamarque Ci puoi esprimere la Tua idea dell’influenza del diritto europeo sul diritto costituzionale?
Il diritto europeo inizialmente aveva il carattere di un ramo speciale del diritto internazionale, ma ormai non è più così. Il diritto europeo è divenuto un ambito rilevantissimo per lo studio del diritto interno, anche costituzionale, attraverso la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e più tardi attraverso la Carta Europea dei diritti e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonostante il fallimento del progetto di Costituzione europea del 2004. I giudici comuni non hanno più soltanto la Costituzione come loro riferimento fondamentale, ma devono confrontarsi anche con la CEDU e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tuttavia non è che il diritto costituzionale interno regredisca, c’è piuttosto uno sviluppo: una visione attuale del diritto costituzionale non può più rimanere limitata alla dimensione nazionale. Si può dire che il diritto costituzionale europeo e internazionale è la nuova frontiera del diritto costituzionale. I diritti sono universali, l’Onu esiste, ancorché ancora debole (pensiamo ad esempio all’Organizzazione mondiale della sanità in rapporto all’attuale pandemia). Inoltre, oggi è fondamentale la questione delle migrazioni, la quale dovrebbe essere affrontata non soltanto nella dimensione nazionale ma anche in quella europea e in quella sovranazionale propria dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM). Il futuro è là, non è più soltanto nel diritto interno.
Il tema dei diritti fondamentali, in particolare, di per sé non può rimanere confinato nella dimensione nazionale. Uno dei grandi principi portanti della nostra Costituzione è costituito dall’art. 11 che espressamente ammette e prefigura “limitazioni di sovranità” dello Stato, portando al superamento del modello classico dello Stato sovrano “superiorem non recognoscens” in nome dell’internazionalismo e dei diritti umani universali. In tal modo la nostra Repubblica non ha avuto bisogno di un’apposita legge costituzionale (di una “clausola europea”) per consentire l’adesione all’ordinamento comunitario e poi a quello dell’Unione. E anche il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, introdotto dalla riforma del 2001, rappresenta la presa d’atto di quella che ormai è l’influenza del diritto e della giurisprudenza europei anche nel campo del diritto costituzionale.
La responsabilità civile per l’uso di sistemi di intelligenza artificiale nella Risoluzione del Parlamento europeo 20 ottobre 2020: “Raccomandazioni alla Commissione sul regime di responsabilità civile e intelligenza artificiale”
di Pasquale Serrao d’Aquino*
Sommario: 1. Le diverse proposte del Parlamento europeo sull’intelligenza artificiale - 2. La responsabilità civile derivante dall’utilizzo di sistemi di IA - 3. L’applicazione congiunta della direttiva sulla responsabilità per prodotto difettoso e di nuove regole specifiche per la responsabilità dell’IA - 4. I soggetti responsabili - 5. IA ad alto rischio e non ad alto rischio: responsabilità oggettiva e per colpa presunta - 6. La responsabilità per i danni cagionati dall’IA nel codice civile - 7. La prova della responsabilità: la “scatola nera” e l’accesso ai dati - 8. La prescrizione.
1. Le diverse proposte del Parlamento Europeo sull’intelligenza artificiale
Nella convinzione che l’intelligenza artificiale rientri tra le priorità dell’agenda politica dell’Unione europea futura, il Parlamento Europeo ha adottato un intenso programma di azione sul tema dell’intelligenza artificiale.
Il 16 febbraio 2017[1] il PE ha approvato una Risoluzione di raccomandazioni alla Commissione “concernenti norme di diritto civile sulla robotica”, al quale è seguita . la Comunicazione del 25 aprile 2018 “L’intelligenza artificiale per l’Europa”[2]. Dopo diversi atti intermedi, il 20 ottobre 2020 il PE ha approvato tre risoluzioni e due proposte di regolamento su etica, responsabilità e proprietà intellettuale dei sistemi di IA.[3]
Una quarta risoluzione , invece, ha avuto luce il 20 gennaio 2021[4] e tratta del delicato tema dei sistemi autonomi di armi letali (lethal autonoums weapon system), i robot assassini, con la quale chiede alla Commissione l’adozione di una strategia volta a proibire i “sistemi d’arma se non soggetti al controllo umano”.
Quanto ai diritti di proprietà intellettuale, il Parlamento, invece, ha sottolineato l’importanza di un sistema efficace per l’ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale, compresa la questione dei brevetti e dei nuovi processi creativi indicando, tra le questioni da risolvere, quelle della tutela e della titolarità della proprietà intellettuale di quanto interamente sviluppato dall’intelligenza artificiale assegnando la loro titolarità alla persona umana (e non alla IA, alla quale è negata la personalità giuridica) e distinguendo, inoltre, tra le creazioni umane ottenute con l’assistenza dell’intelligenza artificiale e quelle generate autonomamente dall’IA.
Una definizione di intelligenza artificiale e` contenuta nella Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. “L’intelligenza artificiale per l’Europa” [COM (2018) 237 final]: secondo la quale con tale espressione di indicano “sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi”. Essi possono consistere in software che agiscono nel mondo virtuale (per esempio assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale) oppure incorporare l’IA in dispositivi hardware (per esempio in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni o applicazioni dell’Internet delle cose).
2. La responsabilità civile derivante dall’utilizzo di sistemi di IA
La Risoluzione del 20 ottobre 2020 “raccomandazioni alla Commissione sul regime di responsabilità civile e intelligenza artificiale”[5] evidenzia come con l’espressione IA si intendano tecnologie avanzate che incidono in quasi tutti i settori della vita sociale ed economica (trasporti, istruzione personalizzata, assistenza alle persone fragili, programmi di fitness, concessione di credito), all'ambiente di lavoro (alleggerimento di attività faticose e ripetitive), fino alle sfide globali (cambiamenti climatici, assistenza sanitaria, nutrizione, logistica). E’ inevitabile, quindi, che sia già iniziata la corsa mondiale all'IA e doveroso che in tale ambito l'Unione svolga un ruolo di primo piano.
La disciplina della "responsabilità" dell’IA svolge un duplice ruolo: garantisce il diritto al risarcimento della vittima di un danno e, al contempo, fornisce un incentivo alle persone fisiche e giuridiche affinché evitino sin dall'inizio di causare danni o pregiudizi, nonché quantifica il risarcimento dovuto per i loro comportamenti.
Al tempo stesso, il PE è consapevole che l’utilizzo di sistemi di IA potrebbe causare danni gravi, come compromettere la dignità umana e i valori e le libertà europei, tracciando gli spostamenti delle persone contro la loro volontà, introducendo sistemi di credito sociale, prendendo decisioni di parte riguardanti assicurazioni sanitarie, concessioni di crediti, ordinanze giudiziarie o decisioni in materia di assunzione o di impiego o, ancora, costruendo sistemi d'arma autonomi letali (considerando 3 della proposta di regolamento).
Per contro, la sfida dell’IA non può essere elusa, in quanto i vantaggi della diffusione dei sistemi di IA sono ritenuti prospetticamente di gran lunga superiori agli svantaggi. Essi, secondo il PE, aiuteranno a contrastare più efficacemente i cambiamenti climatici, a migliorare le visite mediche e le condizioni di lavoro, a migliorare l'integrazione delle persone con disabilità e degli anziani nella società e a fornire corsi di istruzione su misura a tutte le tipologie di studenti (considerando 4 della proposta di reg.)
Il quadro giuridico in materia di responsabilità civile, pertanto, deve «infondere fiducia nella sicurezza, nell'affidabilità e nella coerenza di prodotti e servizi, compresa la tecnologia digitale» (punto B della Risoluzione), garantendo e la certezza del diritto per tutte le parti, del produttore, dell'operatore, della persona interessata o di terzi.
Si è esclusa l’opzione radicale di attribuire la personalità giuridica ai sistemi di IA, ipotesi teorizzata da alcuni studiosi anglosassoni e, comunque, a mio avviso, non impossibile sul piano giuridico-concettuale (per la personalità attribuita agli enti e, in una certa misura, per il riconoscimento di patrimoni separati), ma fortemente inopportuna per l’innescarsi di problemi eticamente e politicamente drammatici, connessi all’inevitabile riconoscimento anche di poteri e di diritti dell’IA. Ferma restando, quindi, la responsabilità in capo a persone fisiche o enti, la Risoluzione del PE individua nelle diverse ipotesi i soggetti responsabili; distingue le diverse tipologie di sistemi di IA; ne differenzia il regime di responsabilità; regola gli obblighi assicurativi, il diritto alla prova e il regime della prescrizione delle azioni risarcitorie delle vittime.
Il regolamento è destinato ad applicarsi nel territorio dell'Unione dove un'attività, dispositivo o processo virtuale o fisico guidato da un sistema di IA abbia arrecato un danno o un pregiudizio alla vita, alla salute, all'integrità fisica di una persona fisica, al patrimonio di una persona fisica o giuridica o abbia arrecato un danno non patrimoniale rilevante risultante in una perdita economica verificabile (art. 1).
Le norme del regolamento sono inderogabili per cui qualsiasi contratto tra l'operatore di un sistema di IA e una persona fisica o giuridica vittima di un danno o pregiudizio a causa di un sistema di IA che eluda o limiti i diritti e gli obblighi sanciti dal regolamento (stipulato tanto prima tanto dopo che il danno o il pregiudizio si sia verificato), è nullo per quanto riguarda i diritti e gli obblighi sanciti dal regolamento.
La tutela prevista dal regolamento è, in ogni caso, aggiuntiva rispetto a quella derivante dalle condizioni contrattuali o da altre norme: «Il presente regolamento fa salve le eventuali ulteriori azioni per responsabilità derivanti da rapporti contrattuali nonché da normative in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, protezione del consumatore, anti-discriminazione, lavoro e tutela ambientale tra l'operatore e la persona fisica o giuridica vittima di un danno o pregiudizio a causa del sistema di IA, e per il quale può essere presentato ricorso contro l'operatore a norma del diritto dell'Unione o nazionale.» (art. 2, comma 3).
L’art. 3 della proposta di regolamento, che si compone di complessivi 14 articoli, contiene una serie definizioni, oggettive e soggettive: è "sistema di intelligenza artificiale (IA)" il sistema basato su software o integrato in dispositivi hardware che mostra un comportamento che simula l'intelligenza, tra l'altro raccogliendo e trattando dati, analizzando e interpretando il proprio ambiente e intraprendendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere obiettivi specifici; è "autonomo" il sistema basato sull'intelligenza artificiale che opera interpretando determinati dati forniti, e utilizzando una serie di istruzioni predeterminate, senza essere limitato a tali istruzioni, nonostante il comportamento del sistema sia legato e volto al conseguimento dell'obiettivo impartito e ad altre scelte operate dallo sviluppatore in sede di progettazione; un sistema di IA che opera in modo autonomo è ad "alto rischio" quando sussiste un potenziale significativo di causare danni o pregiudizi a una o più persone in modo casuale, e che va oltre a quanto ci si possa ragionevolmente aspettare; l'importanza del potenziale dipende dall'interazione dei vari possibili danni o pregiudizi, dal grado di autonomia decisionale, dalla probabilità che il rischio si concretizzi e dalla modalità e dal contesto di utilizzo del sistema di IA
3. L’applicazione congiunta della direttiva sulla responsabilità per prodotto difettoso e di nuove regole specifiche per la responsabilità dell’IA
Secondo il PE la responsabilità dei sistemi di IA non può sic et simpliceter essere assoggettata alla direttiva eurounitaria in materia di prodotti difettosi. A causa della loro opacità, connettività e autonomia, secondo il PE, sarebbe molto difficile o addirittura impossibile ricondurre specifiche azioni dannose dei sistemi di IA a uno specifico input umano o a decisioni adottate in fase di progettazione.
Ciò nonostante, in ambito europeo si è maturata la convinzione che non sia necessaria una revisione completa dei regimi di responsabilità correttamente funzionanti, ma che in ragione de «la complessità, la connettività, l'opacità, la vulnerabilità, la capacità di modifica mediante aggiornamenti, l'autoapprendimento e la potenziale autonomia dei sistemi di IA, come pure la molteplicità degli attori coinvolti» occorrano «adeguamenti specifici e coordinati dei regimi di responsabilità» onde evitare che le persone che subiscono pregiudizi o danni al patrimonio non siano risarcite (punto 6 delle Raccomandazioni).
La prospettiva di questo adeguamento è di prevedere l’applicazione delle direttive eurounitarie in materia di prodotti difettosi congiuntamente all’introduzione di regole specifiche, considerando responsabili le varie persone nella “catena del valore che creano il sistema di IA, ne eseguono la manutenzione o ne controllano i rischi associati” (punto 7 racc.).
La direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi ha dimostrato, infatti,per oltre trent'anni, di essere un mezzo efficace per ottenere un risarcimento per i danni cagionati da prodotto difettoso. Essa, tuttavia, - secondo il PE - deve essere rivista per adattarla al mondo digitale e alle tecnologie digitali emergenti, garantendo un elevato livello di efficace protezione dei consumatori e la certezza giuridica per consumatori e imprese.
Parallelamente deve essere aggiornata la direttiva 2001/95/CE del P.E. e del Consiglio, del 3 dicembre 2001, sulla sicurezza generale dei prodotti, per garantire che i sistemi di IA integrino la sicurezza e la protezione fin dalla progettazione.
Specifiche indicazioni sono rivolte, pertanto, dal Parlamento alla Commissione affinché: a) valuti se la direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi debba essere trasformata in un regolamento; b) chiarisca la definizione di "prodotti", determinando se i contenuti e i servizi digitali rientrino nel suo ambito di applicazione; c) esamini l'adeguamento di concetti quali "pregiudizio", "difetto" e "produttore".
Le principali difficoltà applicative della direttiva n. 374/85 CEE derivano dal fatto che la prova a carico del danneggiato, ed in particolare l’onere di dimostrare il difetto del prodotto e il nesso di causalità tra difetto e danno (art. 4), è particolarmente difficile per prodotti ad alta complessità tecnologica.
4. I soggetti responsabili
Se in base di principi generali la responsabilità per il danno ricade sulla persona che crea o mantiene un rischio e se la stessa è tenuta a «minimizzarlo ex ante o risarcirlo ex post nel caso in cui non riesca ad evitare il suo avverarsi». Ne consegue che, in questo ambito, la responsabilità per i danni deve appuntarsi, quindi, su (a) chiunque crei un sistema di IA, (b) ne esegua la manutenzione, (c) lo controlli o (d) vi interferisca.
La responsabilità dell'operatore ai sensi della proposta di regolamento si basa sul fatto che egli esercita un certo grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento di un sistema di IA, assimilabile a quello del proprietario di un'automobile (considerando 10 prop. Reg.).
L’"operatore di front-end" (lett. e) è la persona fisica o giuridica che esercita un certo grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA e che beneficia del suo funzionamento. Sulla base della Risoluzione, quindi, la responsabilità può ricadere sul deployer, nozione nella quale può, ad esempio, rientrare il conducente del veicolo non del tutto autonomo o il medico che utilizza un sistema di intelligenza artificiale.
L"operatore di back-end", invece, la persona fisica o giuridica che, su base continuativa, definisce le caratteristiche della tecnologia e fornisce i dati e il servizio di supporto di back-end essenziale e pertanto esercita anche un elevato grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA.
Per “controllo” (art. 3 lett. g) si intende l’azione che influenza il funzionamento di un sistema di IA e che, quindi il grado quindi il grado di esposizione di terzi ai suoi potenziali rischi.
Laddove ci sia più un operatore, ad esempio, un operatore di back-end e un operatore di front-end,, il PE ritiene che in tal caso tutti gli operatori dovrebbero essere responsabili in solido, pur avendo il diritto di rivalersi reciprocamente su base proporzionale, in misura dei «rispettivi gradi di controllo che gli operatori hanno esercitato sul rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA» e non del criterio, concettualmente diverso, ma simile negli effetti pratici, del contributo causale apportato dalla condotta di ciascuno (sempre che una condotta sia concretamente individuabile) o del grado di colpa di ciascuno.
Il regolamento non si occupa, invece, della tutela alle persone che subiscono danni (patrimoniali e non) a seguito dell'interferenza di un terzo quale, ad esempio, un hacker. Essa, infatti, costituisce sistematicamente un'azione basata sulla colpa, per cui il vigente diritto degli Stati membri in materia di responsabilità civile per colpa offre già, il più delle volte, un livello sufficiente di protezione. Solo per casi specifici, inclusi quelli in cui il terzo sia irrintracciabile o insolvibile, risultano necessarie ulteriori norme in materia di responsabilità per integrare il diritto nazionale in materia di responsabilità civile (punto 9 racc.). E’ evidente, in tal caso, la necessità di prevedere che per tale attività pericolosa, come ad esempio, quella da circolazione stradale (non a caso richiamata per analogia come attività rischiosa – punto 10 racc.), siano istituiti fondi di garanzia che assicurino forme di risarcimento in favore del danneggiato.
Tali passaggi sembrano implicare che, oltre alla forza maggiore, anche il fatto del terzo porti ad escludere la responsabilità dell’operatore del sistema di IA ad alto rischio.
Quanto all’utente, ovvero la persona che utilizza il sistema di IA coinvolta nell'evento dannoso, questi dovrebbe essere chiamata a rispondere a norma del presente regolamento solo laddove si qualifichi anche come operatore. In caso contrario, la sua responsabilità può essere affermata solo per colpa, apprezzando l'entità del suo contributo al rischio per negligenza grave o intenzionale (considerando 11 prop. reg.).
5. IA ad alto rischio, e non ad alto rischio: responsabilità oggettiva e per colpa presunta
Le IA sono estremamente diverse nelle caratteristiche, funzionamento, settore operativo. La stragrande maggioranza dei sistemi di IA è utilizzata per gestire compiti banali, privi di rischi o con rischi minimi per la società (considerando 6 prop. reg.).
La Risoluzione, pertanto, preferisce utilizzare la diversa espressione di "processo decisionale automatizzato" la quale potrebbe evitare la possibile ambiguità del termine IA. Esso implica che «un utente deleghi inizialmente una decisione, in parte o interamente, a un'entità utilizzando un software o un servizio; che tale entità a sua volta utilizza modelli decisionali automatizzati per lo svolgimento di un'azione per conto di un utente, o per informare le decisioni dell'utente nello svolgimento di un'azione» (punto G ris. e considerando 6 pro. Reg.).
Onde non assimilarle tutte al medesimo regime di responsabilità, il PE ricorre al criterio del rischio, giustamente considerato come il più opportuno in relazione alla essenza dell’IA, consistente nell’essere una tecnologia che sia in grado di prendere decisioni autonome.
Distingue, pertanto, i sistema di IA ad alto rischio, quando il suo funzionamento autonomo ha un elevato potenziale di causare danni a una o più persone, in un modo che è casuale e che va ben oltre quanto ci si può ragionevolmente aspettare. La Risoluzione indica che occorre anche tenere conto del settore in cui è possibile prevedere l'insorgere di rischi significativi e della natura delle attività svolte; ritiene che l'importanza del potenziale dipenda dall'interazione tra la gravità dei possibili danni, la probabilità che il rischio causi un danno o un pregiudizio e la modalità di utilizzo del sistema di IA (punto 15 Racc.). Tra i sistemi a rischio elevato possono indicarsi gli aeromobili senza equipaggio, i veicoli con livello di automazione elevato (livello 4 e 5 delle norme SAE J3016).
Dal momento che all'avvio del funzionamento autonomo del sistema di IA, la maggior parte delle persone potenzialmente interessate è ignota e non identificabile, il PE ritiene che sistema di IA che agisce in modo autonomo è potenzialmente molto più pericoloso per il pubblico, ragione per cui la Risoluzione prevede una responsabilità oggettiva per le IA “ad alto rischio”, previste nell’elenco allegato alla Risoluzione (da aggiornarsi semestralmente) e una responsabilità colposa per le IA che, invece, non presentano tale livello di rischio.
L’inserzione nell’elenco è decisiva in quanto tutte le attività, i dispositivi o i processi guidati da sistemi di IA che possono provocare danni o pregiudizi, ma che non sono indicati nell'elenco contenuto nell'allegato al regolamento proposto, dovrebbero continuare a essere soggetti a un regime di colpa presuntiva, per cui la persona interessata dovrebbe comunque poter far valere una presunzione di colpa dell'operatore, che dovrebbe potersi discolpare dimostrando di aver rispettato l'obbligo di diligenza (punto 20).
Nel caso in cui, tuttavia un sistema di IA che non sia ancora stato valutato dalla Commissione e dal comitato permanente e che, di conseguenza, non sia ancora stato classificato come ad alto rischio e non sia stato incluso nell'allegato al regolamento proposto, essere dovrebbe soggetto alla responsabilità oggettiva qualora abbia causato incidenti ripetuti che producono gravi danni o pregiudizi, ferma restando la necessità per la Commissione di “valutare, senza indebito ritardo, la necessità di rivedere” l’allegato nonché l’effetto retroattivo dell’inclusione di tale sistema di IA nell'elenco, a partire dal momento in cui si è verificato il primo incidente provocato dal sistema di IA in questione, che ha causato un danno o un pregiudizio grave (punto 21 Racc.).
Gli operatori dei sistemi di sistemi di IA ad alto rischio possono esonerarsi da responsabilità, definita come “oggettiva” solo provando la forza maggiore. Non possono, pertanto, eludere la propria responsabilità sostenendo di avere agito con la dovuta diligenza o che il danno o il pregiudizio sia stato cagionato da un'attività, dispositivo o processo autonomo guidato dal loro sistema di IA.
La proposta regolamento prevede che le sue norme prevalgano sui regimi nazionali di responsabilità civile in caso di discrepanze nella classificazione dei sistemi di IA ai fini della responsabilità oggettiva.
La proposta di direttiva indica, quanto alla dimostrazione della colpa per l’utilizzo di sistemi di IA non ad alto rischio, «la diligenza che ci si può attendere da un operatore dovrebbe essere commisurata i) alla natura del sistema di IA, ii) al diritto giuridicamente tutelato potenzialmente interessato, iii) al danno o pregiudizio potenziale che il sistema di IA potrebbe causare e iv) alla probabilità di tale danno.» Occorre tener conto anche del fatto che l'operatore potrebbe avere una conoscenza limitata degli algoritmi e dei dati utilizzati nel sistema di IA (considerando 18 prop. Reg.).
L’art. 8 prevede che l'operatore non è responsabile se riesce a dimostrare che il danno o il pregiudizio arrecato non è imputabile a sua colpa per uno dei seguenti motivi: a) il sistema di IA si è attivato senza che l'operatore ne fosse a conoscenza e sono state adottate tutte le misure ragionevoli e necessarie per evitare tale attivazione al di fuori del controllo dell'operatore; b) è stata rispettata la dovuta diligenza: selezionando un sistema di IA idoneo al compito e alle competenze, mettendo debitamente in funzione il sistema di IA, monitorando le attività e mantenendo l'affidabilità operativa mediante la periodica installazione di tutti gli aggiornamenti disponibili.
Viene altresì precisato che l'operatore non può sottrarsi alla responsabilità sostenendo che il danno o il pregiudizio sia stato cagionato da un'attività, dispositivo o processo autonomo guidato dal suo sistema di IA.
L'operatore non è responsabile se il danno o il pregiudizio è dovuto a cause di forza maggiore.
6. La responsabilità per i danni cagionati dall’IA nel codice civile
Se si analizza l’impatto della proposta di regolamento sul piano interno, deve rilevarsi che diverse norme del Codice civile, nell’attesa dell’approvazione del Regolamento, appaiono astrattamente applicabili ai sistemi di IA. Ad esempio, qualora il sinistro avvenga nell’ambito della circolazione di autoveicoli su strada, si potrà fare riferimento all’art. 2054 c.c.
Analogamente le regole speciali della responsabilità aggravata o semioggettiva, dalla rovina di edificio, ai danni da aeromobili in volo, potranno risultare di volta in volta applicabili anche qualora siano utilizzati strumenti dotati di intelligenza artificiale.
Nelle ipotesi ulteriori, il danno cagionato dall’utilizzo di un sistema di IA appare astrattamente riconducibile a diverse disposizioni.[6]
Potrebbe farsi ricorso, in particolare, all’art. 2049 c.c. sulla responsabilità del datore di lavoro per l’illecito dei “domestici e commessi”. Si è osservato, tuttavia, che in tale caso il datore di lavoro risponde per l’agire di un soggetto che e` astrattamente imputabile, tanto che il dipendente risponde del danno cagionato in solido con il datore di lavoro.
Numerose, poi sono le forme di responsabilità indiretta, oggettiva o aggravata, a seconda della classificazione dottrinale alla quale si voglia fare riferimento.
Da un lato si è richiamato l’art. 2047 c.c., sul danno causato dall’incapace, e l’art. 2048 c.c., in materia di responsabilità dei genitori, dei tutori e dei precettori, i quali rispondono per il fatto cagionato dal minore, dal soggetto sottoposto a tutela, dall’allievo o dall’apprendista.
Se è vero che l’IA non ha capacità giuridica, mentre gli incapaci si è sostenuto che l’applicabilità della norma al caso in esame è sostenibile in considerazione della natura evolutiva e autonoma dei dispositivi in esame, caratteristica che li distingue dagli oggetti inanimati.
L’utilizzo di dispositivi intelligenti nell’ambito produttivo può anche costituire un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. Si è sostenuto che tale connotazione sarebbe impropria in quanto l’IA è utilizzata come mezzo correttivo o integrativo delle imprecisioni umane e risultando capace di evitare i rischi legati allo svolgimento di certe attività, non escludendosi, tuttavia, che, qualora il dispositivo intelligente sia utilizzato nello svolgimento di un’attività ritenuta di per sè pericolosa, la disposizione potrebbe risultare applicabile.
Ancora si è proposto di applicare l’art. 2051 c.c. sulle cose in custodia o, piuttosto, l’art. 2053 c.c. sul danno cagionato da custodia di animali, in considerazione dell’autonomia decisionale e di spostamento che possano avere alcuni sistemi di IA.
Paradossalmente, per le attività non rischiose dovrebbe applicarsi l’art. 2051 c.c. che esclude la responsabilità solo per il fortuito, mentre il meno rigoroso art. 2050 c.c., che prevede la prova liberatoria dell’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, sarebbe destinato a trovare applicazione per le attività pericolose in luogo dell’art. 2050 c.c.
Si è quindi coerentemente proposto che dovrebbe applicarsi l’art. 2050 c.c. qualora il danno sia cagionato dalla cosa sottoposta alla direzione, ancorchè inadeguata, di un soggetto, mentre l’art. 2051 c.c. dovrebbe essere applicato qualora la cosa non sia azionata direttamente dall’operatore.
Risulta evidente, peraltro, che trovando molte di tali norme applicazione per analogia, il regolamento, riempiendo il vuoto normativo, porterà ad escluderne l’applicazione o a limitarla a casi residuali.
Fondamentale per lo sviluppo dell’IA e la tutela dei danneggiati è la previsione dell’assicurazione obbligatoria per gli operatori a copertura della responsabilità civile adeguata agli importi e all'entità del risarcimento previsti dagli articoli 5 e 6 della proposta di regolamento, salvo che tale attività non sia già soggetta ad un regime di assicurazione obbligatoria ai sensi di un'altra legge dell'Unione o nazionale o fondi assicurativi aziendali volontari che copra tali gli importi e l'entità del risarcimento.
7. La prova della responsabilità: la “scatola nera” e l’accesso ai dati
La prova della responsabilità dell’IA può essere difficile o, eccessivamente onerosa o anche impossibile, perché la loro opacità strutturale potrebbe rendere estremamente oneroso, se non impossibile, identificare chi ha il controllo del rischio associato a quel sistema di IA o quale codice, input o dati abbiano causato, in definitiva, l'attività pregiudizievole.
La questione è resa più complessa dalla connettività, che spesso lega un sistema di IA e altri sistemi, di IA e non di IA, dalla dipendenza da dati esterni (si pensi alla tematica dell’Internet of Things), dalla vulnerabilità a violazioni della cybersicurezza e dalla progettazione di sistemi di IA sempre più autonomi, che si avvalgono, tra l'altro, di tecniche di apprendimento automatico e di apprendimento profondo.
A tal fine il PE indica alla Commissione che occorre valutare in che modo i dati raccolti, registrati o salvati riguardanti sistemi di IA ad alto rischio potrebbero essere consultati e utilizzati dall'autorità inquirente e in che modo la tracciabilità e la verificabilità di tali dati potrebbero essere migliorate, tenendo conto di diritti fondamentali e del diritto alla tutela della vita privata.
I sistemi di IA più evoluti e complessi sono sviluppati e si basano su tecnologie come le reti neurali e i processi di apprendimento profondo. La loro opacità e autonomia potrebbe rendere molto difficile ricondurre determinate azioni a specifiche decisioni umane prese durante la loro progettazione o il loro funzionamento. L'operatore potrebbe sostenere, ad esempio, che l'attività, il dispositivo o il processo fisico o virtuale che ha causato il danno o il pregiudizio fosse al di fuori del proprio controllo in quanto attivato da un'operazione autonoma del proprio sistema di IA. Pertanto, vi potrebbero essere casi di responsabilità in cui l'attribuzione della responsabilità potrebbe essere iniqua o inefficiente o in cui la persona che ha subito un danno cagionato da un sistema di IA non possa dimostrare la colpa del produttore, di una terza parte che abbia interferito o dell'operatore, e non ottenga, pertanto, un risarcimento (considerando 7 prop. dir.).
Ciononostante, secondo il PE deve affermarsi che chiunque crei un sistema di IA, ne esegua la manutenzione, lo controlli o interferisca con esso dovrebbe essere chiamato a rispondere del danno o pregiudizio che l'attività, il dispositivo o il processo provoca.
Ai sensi dell’art. 10, comma 2 un operatore ritenuto responsabile può utilizzare i dati generati dal sistema di IA per provare il concorso di colpa della persona interessata, in conformità del regolamento (UE) 2016/679 e di altre leggi pertinenti in materia di protezione dei dati.
La persona interessata può utilizzare tali dati anche come prova o ai fini di un chiarimento nell'ambito dell'azione per responsabilità.
Per ovviare tali inconvenienti la risoluzione afferma un principio di equità del risarcimento basata sull’equivalenza del livello di protezione assicurato al danneggiato dalla IA rispetto alle ipotesi nelle quali non sia coinvolto un sistema di IA.
8. La prescrizione
Le azioni per responsabilità civile intentate per pregiudizi subiti da sistemi di IA ad alto rischio (art.4, paragrafo 1), se inerenti a danni alla vita, alla salute o all'integrità fisica sono soggette a un termine di prescrizione speciale di 30 anni a decorrere dalla data in cui si è verificato il danno; se, invece, intentate per danni al patrimonio o rilevanti danni non patrimoniali che risultino in una “perdita economica verificabile” sono soggette a un termine di prescrizione speciale di: a) 10 anni a decorrere dalla data in cui si è verificato, rispettivamente, il danno al patrimonio o la perdita economica verificabile derivante dal danno non patrimoniale rilevante o b) 30 anni a decorrere dalla data in cui ha avuto luogo l'attività del sistema di IA ad alto rischio che ha provocato il danno al patrimonio o il danno non patrimoniale. Tali norme trovano applicazione senza pregiudizio l'applicazione del diritto nazionale che disciplina la sospensione o l'interruzione della prescrizione. Le azioni per responsabilità civile intentate per danni da attività di IA non ad alto rischio, invece,o (art. 8, paragrafo 1 regolamento) sono soggette ai termini di prescrizione e agli importi ed entità di risarcimento delle leggi dello Stato membro in cui si è verificato il danno o il pregiudizio.
Infine, nella consapevolezza del carattere sperimentale della normativa e della velocità dei cambiamenti dei sistemi di IA, la proposta di regolamento prevede che entro tre anni dalla data di sua applicazione del presente regolamento, e successivamente ogni tre anni, la Commissione presenti una relazione dettagliata al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo riesaminando anche il testo normativo alla luce degli ulteriori sviluppi dell'intelligenza artificiale.
*Magistrato addetto all’Ufficio Studi del CSM.
[1] Risoluzione del Parlamento europeo del 16.2.2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2013 (INL).
[2] Nel maggio 2019 e` stato pubblicato un Report di un gruppo di esperti, i cui risultati sono stati ripresi nel febbraio 2020 nella Relazione della stessa Commissione “sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e della robotica in materia di sicurezza e responsabilità” (Commissione Europea, COM (2020) 64 final, 16 febbraio 2020, Relazione sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e della robotica in materia di sicurezza e responsabilità), allegato al Libro Bianco “sull’intelligenza artificiale – Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia”(Commissione Europea, COM (2020) 65 final, 16 febbraio 2020, Libro bianco sull’intelligenza artificiale – Un approccio europea all’eccellenza e alla fiducia.)
[3] V. specificamente U. Salanitro, Intelligenza artificiale e responsabilita`:la strategia della commissione europea,in Riv. dir. civile, 6/2020, p. 1246 s.; A. Fusaro, Quale modello di responsabilità per la robotica avanzata? Riflessioni a margine del percorso europeo, in NGCC 6/2020, p. 1344 s.
[4] Inerente a” questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto internazionale nella misura in cui l’UE è interessata relativamente agli impieghi civili e militari e all’autorità dello Stato al di fuori dell’ambito della giustizia penale”.
[5] Su proposta della Commissione Giuridica (27 aprile 2020), il Parlamento Europeo ha presentato il 20 ottobre 2020 una Risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione su un regime di responsabilita` civile sull’intelligenza artificiale (2020/2014 (INL)), in cui abbandona la tesi della soggettivita`, reputata non necessaria, e accoglie l’impostazione della Commissione.
[6] In merito v. diffusamente MATILDE RATTI, Riflessioni in materia di responsabilita` civile e danno cagionato da dispositivo intelligente alla luce dell’attuale scenario normativo, i. Contratto e impresa 3/2020, p. 1174 .s.
L’eutanasia al cinema: l’amara dolcezza di Miele
di Antonella Massaro
Sommario: 1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa – 2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico – 2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente” – 3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico – 4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby – 5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato – 6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino – 7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento – 8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale – 9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini – 10. Nuovo prologo?
1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa
Valeria Golino è divenuta, ormai da decenni, tanto uno dei volti più rappresentativi del cinema italiano quanto un’attrice nota al pubblico internazionale (soprattutto nordamericano), riuscendo in un’impresa sempre più rara a mano a mano che si allontanano gli anni d’oro di Anna Magnani e Sophia Loren, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassmann, Claudia Cardinale e Gina Lollobrigida.
Dagli esordi con Lina Wertmüller in Scherzo del destino in agguato dietro l'angolo come un brigante di strada (1983) alla Coppa Volpi con Storia d’amore (1986) di Francesco Maselli, la strada dell’attrice italo-greca si mostra fin da subito in convinta e vertiginosa discesa. Il 1988 è l’anno di Rain man e della “spettacolare” consacrazione accanto a Dustin Hoffman e Tom Cruise, ma tutta la filmografia successiva è caratterizzata da un sapiente alternarsi di ruoli e registri, che offrono una galleria di personaggi indubbiamente poliedrica. Se in Respiro (2002) di Emanuele Crialese confeziona una delle sue interpretazioni più iconiche e indelebili, Valeria Golino compare infatti in una rassegna di titoli ricca ed eterogenea: La ragazza del lago (2006), Caos calmo (2007), La kryptonite nella borsa (2011), Il capitale umano (2013), solo per restare ad alcuni titoli più recenti. Non mancano i film con evidenti “suggestioni giuridiche”. In Giulia non esce la sera (2009) Valeria Golino interpreta il ruolo di una donna in semilibertà dopo una condanna per omicidio, mentre con Come il vento (2013) porta sul grande schermo la storia di Armida Miserere, direttrice di istituti di pena tanto inflessibile quanto fragile, che incrocia alcuni snodi fondamentali della storia italiana più recente.
Il 2013 segna anche l’esordio di Valeria Golino dietro la macchina da presa. La pellicola che la tiene a battesimo da regista è Miele, un film discreto ma potente, con quella “dolce morte” evocata dal titolo che finisce per rivelare tutto il suo amaro retrogusto.
2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico
Il tema dell’eutanasia può essere considerato, senza timore di incorrere in retoriche amplificazioni, come una delle questioni bioetiche più evidenti e significative dell’era contemporanea. L’impressione, tuttavia, è che il tema della “morte per scelta” abbia faticato (e, per certi aspetti, fatichi ancora) a conquistarsi un posto d’onore in quello spazio pubblico di habermasiana memoria che dovrebbe funzionare da trait d’union tra la sfera privata e quella condivisa.
Questa “incerta collocazione” dell’eutanasia, a ben vedere, emerge anche dalla filmografia di riferimento, meno “nutrita” di quanto potrebbe immaginarsi.
All’interno dei film che hanno scelto di confrontarsi con le questioni di fine vita sembra potersi tracciare anzitutto una summa divisio tra quelli in cui l’eutanasia è affrontata come questione privata e quelli in cui la stessa assume la consistenza (anche) di questione pubblica.
Molte pellicole, in effetti, riconducono la “dolce morte” entro il perimetro della pietas individuale, collocandola nell’ambito di storie “private” e di rapporti particolarmente stretti tra chi soffre e chi asseconda la sua volontà di morire. Si pensi, per esempio, ad Amour (2012) di Michael Haneke, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, dove la morte della moglie (Emmanuelle Riva) per mano di suo marito (Jean-Louis Trintignant) imprime un sigillo di eternità a una storia di amore che non si rassegna a cedere sotto il peso della malattia. Anche in Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) la morte di McMurphy (Jack Nicholson) risponde a un atto di pietosa amicizia, con quel cuscino che, come nel film di Haneke, è lo strumento di “fine vita” più casalingo che possa immaginarsi. Nessun processo di scelta consapevole sotto la guida di un medico, nessuna richiesta esplicita e, soprattutto, nessun tribunale: è la legge degli uomini, non importa se giusti o (solo) disperati, che si impone, senza condanne e senza assoluzioni.
Considerazioni in parte analoghe valgono anche per Il paziente inglese (1996) di Antony Minghella e Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, pluripremiate pellicole hollywoodiane nelle quali l’iniezione letale, stavolta richiesta esplicitamente, che pone fine alle sofferenze del conte ungherese László Almásy (Ralph Fiennes) e della campionessa di boxe Maggie Fitzgerald (Hilary Swank), rappresenta solo il tassello di storie più ampie, “magnificenti”, intrise di amore e di passione, che restituiscono ancora più evidente allo spettatore lo scollamento tra una persona che vive e un corpo che non ha più nulla da offrire. Ancora una volta, tuttavia, la scelta tragica di recidere il legame con la vita biologica e quella, forse ancor più dolorosa, di assecondare quella volontà da parte di chi poi resterà a fare i conti con la vita, è rappresentato come un fatto essenzialmente privato.
Ne Le invasioni barbariche (2003), divenuto nell’immaginario collettivo uno dei film “simbolo” in materia di eutanasia, se non altro perché il congedo dalla vita rappresenta non un tassello della storia, ma l’intero mosaico, cambia il registro espressivo, si tenta la via del film corale, ma ancora una volta la riflessione pubblica, politica e giuridica, resta tutto sommato ai margini.
Se si volessero individuare dei lavori cinematografici che, almeno tra quelli più noti al grande pubblico e con uno sguardo privilegiato al panorama italiano, avviano un’autentica riflessione sull’eutanasia nell’ambito di uno spazio pubblico, potrebbero portarsi almeno tre titoli: Mare dentro (2004) di Alejandro Amenábar, Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio e Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto (2015) di Francesco Andreotti e Livia Giunti.
Mare dentro racconta la storia di Ramón Sampedro, interpretato da uno Javier Bardem premiato a Venezia con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Ramón è un pescatore della Galizia che, rimasto tetraplegico a seguito di un tuffo in mare, chiede aiuto per porre fine alla propria vita. Vista l’assenza, nell’ordinamento spagnolo, di una disciplina che gli accordasse il “diritto” di darsi la morte, Ramón porta la sua vicenda personale sul palcoscenico del dibattito pubblico, ottenendo una risonanza mediatica senza precedenti in una Spagna condizionata dal peso di una influenza del pensiero cattolico perennemente in bilico tra la tradizione sedimentata a la zavorra ingombrante. Il monologo di Ramón, poco prima di assumere la sostanza letale che lo condurrà alla morte, è un appello rivolto (anche) ai giudici che si troveranno a valutare gli eventuali profili penali della vicenda, mettendo lucidamente a fuoco i nodi con i quali ogni tentativo di regolamentazione del suicidio assistito è chiamato a confrontarsi: una richiesta “libera, consapevole e attuale”, l’intervento di soggetti terzi limitato al piano meramente materiale e, singolarmente considerato, “causalmente irrilevante”, la diretta assunzione del farmaco letale. Il 17 dicembre 2020 la Camera dei deputati spagnola ha approvato una storica proposta di legge in materia di eutanasia che, tra l’altro, interviene a modificare, attraverso l’introduzione di una causa di non punibilità, la fattispecie codicistica di aiuto al suicidio: la legge è attualmente in attesa dalla approvazione da parte del Senato.
Sebbene la vicenda di Ramón Sampedro risulti per molti aspetti assimilabile, sul versante italiano, a quella di Piergiorgio Welby, se non altro perché entrambi si sono resi alfieri in prima persona, attraverso i loro volti e le loro parole, di quella che consideravano una tanto rilevante quanto urgente partita da giocare sullo scacchiere della civiltà e dei diritti fondamentali, le reazioni registratesi in Spagna fanno il paio con quelle che hanno diviso l’Italia per la vicenda di Eluana Englaro. Le ultime tappe del percorso tenacemente e ostinatamente intrapreso da Beppino Englaro, per liberare sua figlia dal corpo che la teneva imprigionata in un simulacro biologico che nulla aveva a che vedere con la vita, fanno da sfondo alla storia raccontata da Bella addormentata. Il ritratto restituito da Marco Bellocchio è quello di una società in cui i toni del dibattito politico divengono esasperati, per urlare delle sicurezze che, in realtà, si sforzano solo di nascondere macroscopiche e (almeno in parte) insuperabili incertezze. Nelle televisioni che il regista lascia accese durante il film si alternano le parole del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, enfatizzando la “bella presenza” di Eluana e il suo “ciclo mestruale ancora attivo”, innalza il vessillo della verità della vita, e quelle del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, escludendo qualsiasi “monopolio” su questioni tanto complesse, invoca la fiducia e la solidarietà dei cittadini. Le bottigliette d’acqua, le veglie nelle chiese, ma anche i decreti legge per evitare l’interruzione di trattamenti di alimentazione forzata e il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato da Camera e Senato a fronte di una giurisprudenza che, ad avviso di alcuni parlamentari, pretendeva di farsi legislatore[1]. I personaggi di Bellocchio si muovono, si rincorrono, si agitano, si perdono attorno al baricentro offerto dalla “morte di Eluana”, con la fotografia di Daniele Ciprì che rende difficile scorgere una luce capace di fendere le maglie di un buio fitto, di un sonno senza risveglio.
Quanto a Piergiorgio Welby, fino a questo momento il cinema ha raccontato la sua storia attraverso il documentario Love is all, che consegna allo spettatore un suo potente e luminoso “autoritratto”, capace di guardare prima e oltre la malattia. Un intellettuale raffinato, una sensibilità artistica non comune, un attaccamento alla “politica” nel senso più nobile del termine e, soprattutto, il legame con sua moglie Mina: un rapporto talmente profondo e radicato che riesce addirittura a mettere in un angolo la riflessione sulla morte o, meglio, a convertirlo in un discorso sull’amore. Perché, appunto, l’amore è tutto.
2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente”
Miele di Valeria Golino si pone per molti aspetti a mezza via tra le diverse direzioni alle quali si è fatto rapido cenno: il suicidio assistito è certamente osservato in una prospettiva “privata”, ma non mancano le proiezioni su uno scenario più ampio, tanto sociale quanto più strettamente giuridico.
Il film, liberamente ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro-Mauro Covacich, poi ripubblicato con il titolo A nome tuo, è stato presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, dove ha ottenuto una menzione speciale della Giuria Ecumenica.
La storia è quella di Irene (Jasmine Trinca, Nastro d’argento e Globo d’oro come migliore attrice per questa interpretazione), giovane donna che sembra divisa tra le tante incertezze che caratterizzano la sua vita privata a un punto fermo, divenuto l’autentico baricentro sul quale, sia pur a fatica, si regge in equilibrio la sua persona. Attraverso periodici viaggi in Messico, Irene si procura un barbiturico per cani che, opportunamente somministrato, pone fine pressoché instantemente alle sofferenze di chi ne faccia richiesta. Il suo nome di battaglia è “Miele”, come la “dolce” morte di cui diviene angelica portatrice e la “pace” evocata dal suo nome anagrafico. La sua non è tanto e non è solo una missione, ma un vero e proprio lavoro. Indossa una “divisa” prima di procedere, applica delle tariffe per i suoi servizi e, soprattutto, si attiene a un rigido protocollo: il consenso deve essere prestato in forma esplicita e ribadito fino alla assunzione del farmaco letale, cui il “paziente” deve provvedere autonomamente, secondo cadenze che richiamano alla mente quelle del monologo di Ramón in Mare dentro. Si può scegliere anche una musica che faccia da colonna sonora agli ultimi minuti della propria esistenza: il servizio che Miele offre comprende ogni dettaglio che possa “personalizzare” la propria morte.
La sicurezza (apparente) di Irene-Miele è però destinata a disfarsi tanto repentinamente quanto inaspettatamente. La goccia che fa traboccare il vaso è rappresentata dall’incontro con l’ingegner Carlo Grimaldi (un impeccabile Carlo Cecchi). Sembra un malato come tutti gli altri, ma, in realtà, il suo corpo non reca ferite di alcun tipo: è la sua anima che è stanca di vivere e che preferisce uscire di scena senza plateali e scomposti voli dalla finestra, ma in maniera silenziosa, discreta e dignitosa. Miele è spiazzata: mentre urla che il suo compito non è quello di uccidere i depressi, ma di aiutare chi è “realmente” malato, si rende conto di quanto labile ed evanescente possa rivelarsi il confine tra la vita del corpo e quella dell’anima, tra la malattia e la cura, tra la scelta e la disperazione. Più si rinsalda il legame tra Irene e l’ingegnere, più il retrogusto del “miele” diviene amaro, disvelando la possibile illusione ammantata dietro l’etichetta della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché tutti sono sempre in tempo per fermarsi, ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”, ma, forse, solo una decisione da rispettare.
L’esordio alla regia di Valeria Golino, premiata, tra l’altro, con il David di Donatello, il Nastro d’argento e il Globo d’oro, affronta le questioni di fine vita in un momento storico indubbiamente peculiare, almeno per il nostro Paese. Valia Santella, sceneggiatrice del film insieme a Valeria Golino e Francesca Marciano (che torneranno a scrivere insieme per Euforia), racconta come, in un periodo nel quale si parlava ancora poco e qualche volta malvolentieri di eutanasia, la prima esigenza era quella di non confezionare un film che raccontasse (solo) la morte, ma che, anzi, fosse trascinato dalla forza di Irene-Miele e dal suo senso di attaccamento alla vita. Nel 2010, proprio nelle prime fasi di ideazione del film, Mario Monicelli decise di togliersi la vita gettandosi da una finestra dell’Ospedale San Giovanni Addolorata: un episodio che, ricorda Valia Santella, non poteva lasciare indifferenti né come cineasti né come uomini e donne[2].
Dal 2013 sembra che molto sia cambiato, almeno fuori dalle sale cinematografiche. Nel 2017 viene approvata la legge n. 219 e, qualche anno più tardi, il caso di Fabiano Antoniani assesta al dibattito sulle questioni di fine vita una scossa paragonabile a quella relativa alla vicenda di Piergiorgio Welby, chiamando stavolta in causa anche la Corte costituzionale.
3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico
Se i rapporti tra le questioni di fine vita e il diritto penale seguissero le cadenze di un copione cinematografico o, meglio ancora, di un testo teatrale di stampo “tragico”, non sarebbe troppo complesso individuare le scansioni della storia descritta fino a questo momento, con tanto di attori protagonisti (Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Fabiano Antoniani), comprimari che a un certo punto conquistano la scena (Mina Welby, Beppino Englaro, Marco Cappato), una folla di comparse pronte a dividersi in nome di una pretesa verità, giudici chiamati, a volte loro malgrado, a funzionare da deus ex machina per risolvere questioni che non sono solo giuridiche, ma con le quali il diritto non può fare a meno di confrontarsi.
Ripercorrendo quelle storie e, soprattutto, tentando di ripercorrere l’iter giuridico delineatosi fino a questo punto, potrebbero descriversi almeno tre atti e due stasimi (anche se non perfettamente intervallati tra loro), con un esodo solo provvisorio e un nuovo prologo già in corso di rappresentazione.
4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby
Quando la distrofia-fascio-scapolo-omerale, che annienta il corpo, ma lascia intatte le facoltà intellettive, riduce Piergiorgio Welby a una condizione di sofferenza che gli diviene insopportabile, l’unica strada praticabile gli sembra quella di chiedere il distacco del respiratore artificiale, unico legame biologico con la vita dopo un intervento di tracheotomia.
Si delineano quindi i presupposti affinché la vicenda umana e politica di Piergiorgio Welby divenga un caso (anche) giudiziario, attraverso due “fasi” che si avvicendano in rapida successione.
Welby, a fronte del rifiuto opposto da un primo anestesista alla sua richiesta di “lasciarlo morire”, propone ricorso ex art. 700 c.p.c. per ottenere un provvedimento che obblighi il medico a concretizzare la sua volontà di interrompere le cure[3]. In questa occasione il Tribunale di Roma giunge alla spiazzante conclusione secondo cui esisterebbe un diritto del paziente, dotato addirittura di fondamento costituzionale, a ottenere il distacco del respiratore, ma che non può concretamente operare perché privo della necessaria attuazione a livello di legislazione ordinaria[4].
Visto il peggiorare delle proprie condizioni di salute, Welby contatta il dottor Riccio, che accetta di interrompere la respirazione artificiale. A seguito della morte di Piergiorgio Welby si apre un procedimento per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e, malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero, il Giudice per le indagini preliminari ordina di formulare l’imputazione (art. 409 c.p.p.). Il Giudice dell’udienza preliminare dichiara non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. ritenendo che il fatto, pur integrando nei suoi elementi (positivi) la fattispecie di cui all’art. 579 c.p., non sia punibile per la sussistenza della scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.)[5].
A fronte di un esplicito dovere del medico di dar seguito all’interruzione di cure richiesta del paziente, sembra profilarsi con maggiore nitidezza il diritto di quest’ultimo a ottenere la corrispondente prestazione sanitaria. «Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost.»[6]: questa premessa vale anche qualora il rifiuto riguardi terapie salvavita e deve considerarsi operativa non solo nei rapporti tra lo Stato e il cittadino, ma anche in quelli il singolo medico e il paziente[7]. In nessun caso, di conseguenza, si può disattendere la tutela del diritto di autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, che si estende anche all’ipotesi di rifiuto di nuova terapia e a quella (speculare) di interruzione della terapia già iniziata: «[…] il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione»[8]. Si tratta evidentemente di situazioni eccezionali, se si considera quanto l’istinto di conservazione sia radicato nell’essere umano e, soprattutto, si tratta di condotte che, richiedendo specifiche competenze di tipo medico, possono essere poste in essere solo da chi abbia le necessarie competenze mediche per farlo (non anche, per esempio, da un familiare del malato)[9].
5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato
Sebbene il caso di Eluana Englaro non abbia avuto ripercussioni penalistiche, è innegabile che la tappa segnata da quella vicenda evidenzi un approdo sistematico di carattere più ampio e, per certi aspetti, irreversibile.
Quando Beppino Englaro, dopo aver ottenuto l’autorizzazione al distacco del sondino nasograstrico che nutriva artificialmente la figlia Eluana[10], chiede che la Regione Lombardia metta a disposizione una struttura per l’esecuzione del “trattamento” in questione, si scontra con il diniego della Direzione Generale Sanità. Il TAR Lombardia la nota della Regione e il TAR accoglie il ricorso, annullando il provvedimento per aver illegittimamente vulnerato il diritto costituzionale di rifiutare le cure. La Regione Lombardia propone appello al Consiglio di Stato, che però conferma la decisione di primo grado. I giudici di Palazzo Spada rilevano che «a fronte del diritto, involabile, che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure»[11].
Sono dunque gettate le basi affinché il giudice tutelare di Cagliari, nell’ambito del caso Piludu, giungesse de plano ad autorizzare il distacco del respiratore artificiale, previa sedazione, di un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica e capace di confermare al giudice stesso le proprie volontà[12], nell’ambio di una più consapevole “presa di coscienza” della giurisprudenza nazionale.
6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino
Le legge n. 219 del 2017, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento[13], può considerarsi per molti aspetti l’eredità morale di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, suggellata dalla commozione di Emma Bonino nell’Aula del Senato.
Si tratta di una legge che può a buon diritto definirsi “storica”, anzitutto per aver infranto il tabù culturale che ha rappresentato negli ultimi decenni una pesante zavorra ai dibattiti sul tema[14] e in secondo luogo per aver posto fine ai (troppi) dubbi interpretativi registratisi anche su questioni “giuridicamente semplici”.
L’art. 1, rubricato Consenso informato, stabilisce anzitutto al comma 5 che ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, così come ha il diritto di revocare il consenso già prestato, anche se ciò comporti l’interruzione del trattamento: si assiste così alla definitiva parificazione del dissenso opposto a un trattamento non ancora iniziato e quello che interviene a fronte di un trattamento già in corso di esecuzione.
Al fine di risolvere per via legislativa l’annosa questione relativa alla possibilità di ricondurre al genus “trattamento sanitario” anche le tecniche di sostegno vitale[15], si precisa che la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale sono considerati trattamenti sanitari ai fini della nuova legge. Nessun cenno esplicito si rinviene a proposito della ventilazione artificiale, rispetto alla quale, probabilmente, il più consapevole grado di maturazione raggiunto in sede giurisprudenziale non ha reso necessaria una previsione esplicita: le bottigliette d’acqua esposte in segno di protesta per la decisione della Corte di cassazione in riferimento al caso Englaro, forse, costituivano un ricordo più vivido agli occhi del legislatore, fermo restando che un elenco più ampio delle “tecniche di sostegno vitale” da ricondurre al genus “trattamento sanitario” sarebbe stato indubbiamente preferibile sul piano della tecnica legislativa.
Il medico, precisa il successivo comma 6 dell’art. 1, è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario e, in conseguenza di ciò, andrà esente da responsabilità civile o penale. Si precisa poi che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, perché a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali. Il comma 7, infine, stabilisce che nelle situazioni di urgenza il medico assicura le cure necessarie, rispettando la volontà del paziente se le circostanze e le sue condizioni cliniche consentano di acquisirla.
Non è chiara la natura giuridica della causa di esenzione della responsabilità penale del medico che dia seguito alla richiesta del paziente di rifiutare/interrompere il trattamento. Le soluzioni ipotizzabili al riguardo sono essenzialmente due: o si tratta di una causa di giustificazione che rende il fatto scriminato[16] oppure si tratta di una «esenzione del medico dall’obbligo di garanzia»[17], con conseguente esclusione di una condotta penalmente rilevante.
7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento
La vicenda di Fabiano Antoniani torna ad accendere prepotentemente i riflettori sulla scena della rilevanza penale delle pratiche di fine vita, chiamando in causa, stavolta, l’art. 580 c.p.
Fabiano Antoniani (Dj Fabo) è affetto da tetraplegia e cecità bilaterale corticale (dunque permanente) a seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014. Non è autonomo per lo svolgimento delle basilari funzioni vitali (respirazione, evacuazione) né per l’alimentazione. La sua condizione gli cagiona gravi sofferenze fisiche, lasciando per contro inalterate le funzioni intellettive. Dopo il fallimento di numerose terapie riabilitative e presa coscienza dello stato irreversibile della propria condizione, Fabo matura la decisione di porre fine alle sue sofferenze, comunicando ai propri familiari il proposito di darsi la morte. Malgrado i tentativi di dissuasione, portati avanti soprattutto dalla madre e dalla fidanzata di Fabo, il suo proposito diviene sempre più radicato. Il 27 febbraio 2017, presso l’associazione svizzera Dignitas, Fabo trova la morte attraverso una pratica di suicidio assistito. Il giorno successivo Marco Cappato si presenta presso i Carabinieri di Milano, dichiarando di aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, affinché lo stesso potesse concretamente realizzare la propria decisione di darsi la morte.
Sono molte ed evidenti le affinità con il caso Welby. In entrambi le vicende, anzitutto, la malattia era tale da cagionare atroci sofferenze fisiche, lasciando però intatte le facoltà intellettive del paziente. Non è un caso che la lettera scritta da Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano[18] e il suo libro Lasciatemi morire, così come le dichiarazioni rilasciate da Fabo alla trasmissione televisiva Le Iene, abbiano acquisito una specifica valenza probatoria nell’ambito dei rispettivi procedimenti penali.
Sia il “caso Cappato” sia il “caso Riccio”, poi, sono segnati dalla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero procedente, seguita però da un’ordinanza di imputazione coatta pronunciata ex art. 409 c.p.p., a conferma della scarsa chiarezza della normativa di riferimento (e/o dell’imbarazzo delle Procure messe di fronte al tragico dilemma di un “diritto ingiusto”). È diversa però, come anticipato, la fattispecie contestata: per Mario Riccio, che aveva praticato il distacco del respiratore artificiale al quale era legata la vita di Piergiorgio Welby, si era ipotizzata una responsabilità per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), mentre nei confronti di Marco Cappato si sta procedendo per istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), visto che Fabiano Antoniani, mordendo un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale, si è dato la morte “per mano propria”[19].
Posto che il contributo prestato da Marco Cappato poteva rilevare come aiuto materiale al suicidio, la Corte d’Assise di Milano ritiene che la rilevanza penale di condotte come quelle poste in essere nel caso Antoniani presentasse profili di illegittimità costituzionale.
Una delle argomentazioni più significative portate dai giudici milanesi è indubbiamente quella che attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p.[20]. Se sullo sfondo originario della disposizione si individua chiaramente la sacralità/indisponibilità della vita umana in relazione agli obblighi sociali ritenuti preminenti dal regime fascista[21], il principio personalistico che informa la Costituzione repubblicana impone di mettere al centro l’individuo e la sua capacità di autodeterminazione[22]. La Carta fondamentale non prevede un obbligo di curarsi, garantendo anzi a ciascuno il potere di disporre del proprio corpo e ammettendo interventi coattivi sulla salute del singolo solo nei casi eccezionali previsti dalla legge e solo per evitare di creare pericolo per gli altri.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018[23] la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è stato quello di consentire un intervento del Parlamento che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” nei confronti di soggetti che versino in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
La Corte procede, anzitutto, a una “riperimetrazione” della questione di legittimità costituzionale. «L’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[24], ma al verificarsi di certe condizioni una penalizzazione indiscriminata dell’aiuto al suicidio presenta delle innegabili criticità. Il riferimento è, in particolare, a quelle ipotesi «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»[25]. Come avvenuto, per l’appunto, nel caso di Fabiano Antoniani. In queste ipotesi, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.».
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento, pur di innegabile ed evidente rilievo, della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione assimilabile a quella di Fabiano Antoniani: «è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione». Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Poiché un intervento “diretto” della Corte avrebbe lasciato irrisolto qualche nodo che, viceversa, sarebbe stato opportuno affidare al legislatore, i giudici di Palazzo della Consulta “rinviano l’udienza” al 24 settembre 2019, confidando in un segnale del Legislatore.
8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale
Il calendario è giunto a segnare la data del 24 settembre senza che la situazione legislativa avesse subito mutamento alcuno rispetto a quello che la Corte costituzionale aveva considerato “a rischio di legittimità”. Con la sentenza n. 242 del 2019 il Giudice delle Leggi prende atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza»[26]. «In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento», continuano i giudici costituzionali, «questa Corte non può ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018»[27]. Potrebbe pur sempre obiettarsi che in realtà il Legislatore una scelta l’ha compiuta: la legge n. 219 del 2017, infatti, è di pochi mesi antecedenti all’ordinanza n. 207 del 2018 e in quella legge non erano comprese anche le situazioni prese indicate dalla Corte costituzionale[28]. Come a dire: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
La Corte, ad ogni modo, ha ritenuto inascoltato il suo monito e, confermando le premesse della precedente ordinanza, ne ha tratto tutte le necessarie conseguenze, prevenendo a una dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., dichiarandolo illegittimo «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[29].
In assenza di una “procedura” da seguire, era pressoché obbligato il rinvio alla legge n. 219 del 2017. Potrebbe addirittura ritenersi, secondo un’interpretazione che tuttavia, come si cercherà di chiarire, non è quella alla quale si sta ispirando la giurisprudenza successiva all’intervento del Giudice delle Leggi, che la declaratoria di incostituzionalità riguarderebbe esclusivamente l’aiuto al suicidio fornito a favore di soggetti che potrebbero, in alternativa, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari in corso e necessari alla loro sopravvivenza, ma per i quali, come avvenuto per Fabiano Antoniani, la scelta in questione comporterebbe ulteriori sofferenze cui il soggetto non intende sottoporsi[30].
Per quanto riguarda la natura giuridica della “causa di non punibilità” introdotta dalla pronuncia della Corte costituzionale, nelle discussioni antecedenti alla pronuncia è stato evocato-invocato lo schema delle scriminanti procedurali. La categoria delle scriminanti procedurali, come ampiamente noto, è emersa nell’esperienza giuridica tedesca in riferimento alla normativa in materia di interruzione di gravidanza, e si riferisce alla possibilità che un certo fatto sia scriminato in ragione della mera osservanza di una procedura stabilita dalla legge[31]. Si tratterebbe, in buona sostanza, di una via mediana tra il divieto e la liberalizzazione di certe attività[32], a partire da quelle “eticamente pregnanti”.
L’alternativa sarebbe quella di considerare la non punibilità derivante dalla sentenza n. 242 del 2019 come limite di tipicità, derivante da una parziale riscrittura della fattispecie prevista dall’art. 580 c.p.[33]. Si tratta solo di chiarire se ritenere la condotta di aiuto sia atipica o, invece, scriminata comporti reali conseguenze in termini di disciplina; se, altrimenti detto, dalla qualifica di “scriminante procedurale” derivino implicazioni di rilievo, sul piano anzitutto della imputazione soggettiva e, in secondo luogo, del concorso di persone nel reato.
Non sono poi passate inosservate, nella motivazione della sentenza n. 242 del 2019, le “nette” considerazioni in materia di obiezione di coscienza. La Corte precisa che la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere in tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[34].
Con quest’ultima considerazione si torna nuovamente alla dialettica diritto-dovere nelle questioni di fine vita. Come già precisato, un momento di “svolta” è stato certamente rappresentato, prima nei casi Welby ed Englaro, poi con la legge n. 219 del 2017, dal riconoscimento che esiste un diritto del paziente a rifiutare le cure, cui fa da pendant un dovere del medico (e dello Stato) di dar seguito a quella richiesta. L’impressione è quella di un potenziale “disallineamento” della sentenza n. 242 del 2019 rispetto a quanto previsto dalla legge in materia di consenso informato. Non si introduce un dovere del medico analogo a quello che opera quando a venire in considerazione sarebbe la fattispecie più grave di omicidio del consenziente: la richiesta del paziente è “legittima”, ma il medico può decidere liberamente se dare seguito e quella che, più che una pretesa, resta una aspirazione del malato. Il rischio, altrimenti detto, è che il paziente non si veda riconosciuto un “diritto” di essere aiutato a morire, anche quando versi in condizioni che gli consentirebbero di rientrare nell’ambito applicativo della legge n. 219 del 2017 e che, quindi, gli attribuirebbero il diritto (questa volta in senso stretto) di chiedere che altri pongano in essere la condotta dalla quale derivi causalmente la morte.
Si tratta di verificare se la differenza “minima” sul piano naturalistico tra chi, per intendersi, versi in una condizione assimilabile a quella di Piergiorgio Welby e chi invece si trovi in una situazione analoga a quella di Fabiano Antoniani, renda ragionevole una diversificazione nella risposta da parte dell’ordinamento.
9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini
Dopo l’intervento della Corte costituzionale, la Corte d’assise di Milano ha ritenuto di assolvere Marco Cappato con la formula “perché il fatto non sussiste” [35]. I giudici milanesi, pur premurandosi di precisare che la natura giuridica della causa di non punibilità introdotta dalla Corte costituzionale interessi più gli studiosi del diritto penale che gli operatori del diritto, finiscono in realtà per testimoniare quanto di “concreto” si celi dietro quella disputa. Si precisa anzitutto che la Corte costituzionale non ha chiarito esplicitamente se la non punibilità debba intendersi «come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice […] ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante». Tra i due poli dell’alternativa, i giudici milanesi ritengono che la pronuncia della Consulta abbia comportato una «riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie», anche perché «l’affermazione di non punibilità» inciderebbe in ogni caso sul piano oggettivo, posto che le cause di giustificazione operano come «elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo». Anche se i giudici evitano accuratamente ogni riferimento terminologico ai concetti di “tipicità” e di “antigiuridicità”, utilizzando altresì (impropriamente) il concetto di “fattispecie” come sinonimo di “fatto”, i passaggi argomentativi in questione si avvicinano significativamente alle cadenze della bipartizione quando si regala una seconda giovinezza all’anacronistica (ma convincente) categoria degli elementi negativi. Il vero punto debole della motivazione sta nella conclusione, dove si afferma che anche secondo la teoria tripartita la formula di assoluzione da adottare in presenza di una scriminante sarebbe quella di insussistenza del fatto. In realtà, in presenza di una scriminante, e a fortiori muovendosi nell’ottica della tripartizione, la formula assolutoria tradizionale e ormai sufficientemente consolidata in giurisprudenza è “il fatto non costituisce reato”.
L’altra vicenda che restava “sospesa” in attesa che la Corte costituzionale si pronunciasse era quella relativa alla morte di Davide Trentini, che vede imputato lo stesso Marco Cappato, insieme a Mina Welby.
Davide Trentini è malato di sclerosi multipla, manifestatasi nel 1993. Se nei primi anni riesce a tenerla sotto controllo, gradualmente la malattia diviene progressiva e non remittente: avanza lentamente ma inesorabilmente, rendendo impossibile ogni recupero e determinando delle condizioni sempre più dolorose. Trentini ha bisogno di aiuto per alzarsi dal letto o fare la doccia, la sua marcia diviene progressivamente atassica e paraparetica costringendolo a servirsi di un deambulatore, cade spesso (una volta fratturandosi le costole e la clavicola) e inizia a soffrire di dolori che assumono con il tempo una intensità tale da risultargli insopportabili. Le più potenti terapie del dolore non riescono a procuragli alcun sollievo, sia pur momentaneo: “sei ridotto a un punto che se ti copri con il lenzuolo senti dolore”, osserva un medico constatando la sua impotenza di fronte a quelle sofferenze.
Davide Trentini, nel 2015, inizia a maturare l’ipotesi del suicidio. Ne parla con i suoi familiari e con la sua ex compagna, mostrandosi fermo nel proposito di porre fine a quelle sofferenze mediante una morte procurata. Sebbene si tratti di una soluzione materialmente praticabile, non vuole però suicidarsi buttandosi dalla finestra della propria abitazione, non solo perché, data l’altezza poco considerevole, non è sicuro di riuscire nel proprio intento, ma anche (e forse soprattutto) perché ritiene di meritare una morte dignitosa, senza doversi sottoporre a ulteriori e intollerabili sofferenze.
Per queste ragioni Trentini, dopo aver preso informazioni attraverso dei siti Internet, decide di rivolgersi a strutture sanitarie operanti in Svizzera, presso le quali si pongono in essere pratiche di suicidio assistito. Entra anche in contatto con l’associazione Soccorso Civile, di cui fanno parte Marco Cappato e Mina Welby, che ha come scopo proprio quello di aiutare coloro che intendano recarsi all’estero per ottenere l’assistenza a una morte volontaria. Trentini contatta una prima struttura, sebbene Cappato la consideri poco affidabile. Cappato, in ogni caso, indice una raccolta pubblica di fondi per aiutare Davide a coprire, sia pur in minima parte, le spese del suicidio assistito. Quando le autorità svizzere ordinano la sospensione delle attività di quella struttura, Trentini, di nuovo, pensa di procurarsi la morte da solo qualora non riesca a trovare una alternativa in tempi ragionevolmente brevi. Cappato e Welby contattano allora la clinica Lifecircle, riuscendo ad accelerare la procedura e procurando parte della documentazione necessaria. Welby, poi, lo accompagna nel viaggio in ambulanza verso la Svizzera e fa da traduttrice (dall’italiano al tedesco e viceversa) degli atti e dei colloqui tra Trentini e i medici.
Cappato, pur avendo constatato personalmente le condizioni di sofferenza e di dolore di Trentini, tenta in più occasioni di distoglierlo dai propri propositi di suicidari, anche coinvolgendolo in attività politiche volte a diffondere sull’intero territorio nazionale quella cannabis terapeutica dalla quale, ormai, Davide non riesce più a trarre sufficiente sollievo.
Welby racconta di fronte alla Corte la vicenda che ha visto protagonista suo marito Piergiorgio, spiegando che aver aiutato Trentini era stato come “risarcire il dolore” che Piergiorgio stesso aveva provato: solo dopo il distacco del respiratore artificiale Mina era stata davvero consapevole degli atroci dolori che avevano trafitto il corpo del marito, rimproverandosi di non aver anticipato, anche solo di qualche giorno, quella morte che lui implorava da tempo[36]. Ciò nonostante, Mina Welby aveva provato più volte, anche la mattina della partenza per la Svizzera, a convincere Trentini a desistere dal suo intento.
Il 13 aprile 2017, dopo aver nuovamente verificato la fermezza del suo proposito, viene applicata la flebo che, attraverso un meccanismo azionato dallo stesso Trentini, inietta il farmaco necessario a causarne la morte.
La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, precisano i giudici, non si risolve necessariamente ed esclusivamente nella dipendenza da una macchina, come avveniva per Fabiano Antoniani: «non si deve confondere il caso concreto da cui è originata la pronuncia della Corte costituzionale con la regula iuris che la Consulta ha codificato».
Anche attraverso il riferimento alla legge n. 219 del 2017 e, in particolare, ai trattamenti che la stessa consente al malato di rifiutare[37], il requisito indicato dalla Corte costituzionale sarebbe comprensivo di «qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici». Il trattamento di sostegno vitale, in conclusione, si identifica con «qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida»: questa definizione si presta a comprendere i casi in cui la possibilità di continuare a vivere dipenda non solo dal funzionamento di un macchinario medico, ma anche dalla prosecuzione di una terapia farmacologica o, più in generale, dalla necessità di assistenza sanitaria.
Il requisito individuato dalla Corte costituzionale, allora, è ravvisabile nel caso Trentini (o, almeno, hanno cura di precisare i giudici di Massa, sussiste il dubbio sulla sua sussistenza), anche prescindendo dalle informazioni acquisite tramite la consulenza del dottor Riccio.
Trentini non era autonomo nei suoi bisogni vitali: la sua situazione era quella di chi, per continuare a vivere, «dipendeva da un’altra persona» che lo aiutasse a muoversi, a mangiare, ad andare in bagno. Se una persona dipende «da altri (siano essi persone o cose)» per il soddisfacimento dei propri bisogni vitali, allora il requisito richiesto dalla Corte costituzionale può considerarsi integrato.
Per supportare queste conclusioni, i giudici di Massa attingono però allo strumentario messo a disposizione dall’estensione analogica. Trattandosi di una causa di giustificazione, infatti, non sussisterebbero particolari dubbi sulla possibilità di estenderla in bonam partem sulla base della identità di ratio.
Si tratta, indubbiamente, dello snodo argomentativo più problematico della pronuncia, soprattutto perché non indispensabile per pervenire all’esito assolutorio che i giudici intendono motivare. Nel caso di Davide Trentini, in effetti, la “generosa” terapia farmacologica alla quale lo stesso risultava sottoposto, con dosaggi al limite della umana tollerabilità, sarebbe bastata a ritenere integrato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale per via “fisiologicamente interpretativa”, senza cioè ricorrere alla forzatura dell’estensione analogica.
Il riferimento alla mera dipendenza da un’altra persona che, a questo punto, potrebbe valere a integrare l’elemento costitutivo della causa di non punibilità anche in assenza (non solo di macchinari, ma anche) di una terapia farmacologica così invasiva come quella somministrata a Davide Trentini, offrirebbe una definizione del requisito in questione talmente slabbrata da risultare pressoché onnicomprensiva.
Muovendo da queste premesse, quella proposta dal Corte d’Assise di Massa sembra assumere la consistenza non tanto di una “lettura ampia”, quanto piuttosto di una sostanziale interpretatio abrogans di uno dei requisiti individuati dalla Corte costituzionale. In presenza di una patologia irreversibile, che cagioni al malato una grave sofferenza fisica o psicologica che lo stesso considera intollerabili, è giocoforza ritenere sussistente una generica dipendenza da “persone o cose”, qualora si accedesse alla definizione così “estesa” suggerita dai giudici del caso Trentini.
Potrebbe osservarsi che una cosa è un paziente per il quale l’evacuazione manuale è il solo modo per evitare una ischemia e una perforazione intestinale, cosa diversa è necessitare di un deambulatore per spostarsi o di un aiuto per entrare nella doccia. Se, tuttavia, si rinuncia (perché in effetti è pressoché impossibile individuarli) a requisiti che consentano di graduare, in via preventiva e astratta, il concetto di dipendenza, tutto si riduce a un generico bisogno di cose o persone per i propri bisogni quotidiani.
Il requisito della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale, altrimenti detto, perderebbe ogni capacità di “filtro selettivo”: la descrizione della causa di non punibilità ex art. 580 c.p. resta affidata agli altri requisiti che compongono la “tetralogia” individuata dalla Corte costituzionale, con particolare riguardo al carattere irreversibile della malattia e alle sofferenze intollerabili che la stessa procura al malato. Se sussistono questi elementi, come già precisato, la “dipendenza da persone o cose” deve considerarsi sostanzialmente in re ipsa, risultando assai complesso ipotizzare casi in cui, in presenza di condizioni patologiche caratterizzate da un così elevato grado di intensità, ai fini della permanenza in vita del soggetto non si renda necessario un aiuto materiale derivante da “cose o persone”.
10. Nuovo prologo?
Senza avventurarsi per i sentieri irti e insidiosi della profezia, si può e si deve certamente muovere dall’appello proposto nei confronti della sentenza di Massa, che lascia presagire la provvisorietà dell’esito cui ha finora condotto il caso Trentini. Potrebbe immaginarsi un intervento chiarificatore della Corte di cassazione, che fino a questo momento non è stata chiamata a pronunciarsi ex professo sulla rilevanza penale delle pratiche di fine vita o, magari, potrebbe ipotizzarsi una nuova questione di legittimità costituzionale, per verificare se e fino a che punto si possa superare in maniera decisa (e decisiva) l’approdo cui ha condotto il caso Cappato.
Non sembra “temerario”, poi, immaginare un rinnovato interesse del cinema per questioni che necessitano di essere alimentate anche dalla linfa vitale del dibattito pubblico, soprattutto al fine di superare qualche tabù terminologico e tante remore socio-culturali. La storia di Piergiorgio e Mina Welby, per esempio, è troppo potente per restare strozzata dagli angusti lacci della prosa giuridica: il cinema di finzione, allora, potrebbe raccontare quella storia d’amore che a molti, me compresa, ha consentito di comprendere pienamente le difficoltà di una materia per troppo tempo sottratta al privilegio di una riflessione giuridica ampia e condivisa, mettendo a nudo, al tempo stesso, l’ineliminabile tendenza a complicare anche i “casi” più semplici o che, almeno, risultano tali allo sguardo di chi abbia la possibilità e la voglia di osservarli senza pre-giudizio.
[1] Le reazioni politiche successive alla decisione con cui la Corte di cassazione autorizzava, di fatto, il distacco del sondino naso-gastrico di Eluana Englaro, a seguito di una richiesta in tal senso da parte di Beppino Englaro, sono efficacemente ricostruite da G. Pistorio, La riaffermazione della viva vox constitutionis nel caso Englaro. Spunti di riflessione a dieci anni dall’inizio della vicenda, in Questioni di fine vita, a cura di M. Sinisi, N. Posteraro, Roma TrE-Press, 2020, 69 ss., che parla, senza mezzi termini, di «[u]n potere politico impazzito. Reazioni aberranti. Iniziative illogiche e irrazionali».
[2] Le considerazioni di Valia Santella cui si è fatto riferimento nel testo, oltre ad essere reperibili in diverse interviste rese dalla sceneggiatrice, sono tratte dalle sue conversazioni con gli studenti di Diritto penale al cinema, attività formativa di cui sono titolare presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” e durante la quale ho più volte proiettato il film Miele.
[3] Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006, in Corr. mer., 4/2007, 461 ss., con Il Commento di G. Casaburi.
[4] Trib. Roma, 16 dicembre 2006, cit.: «il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente […], ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento».
[5] Trib. Roma, 23 luglio 2007, in Dir. pen. proc., 1/2008, 59 ss., con nota di A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. In argomento v. anche M. Donini, Il caso Welby e le tentazioni di uno spazio libero dal diritto, in Cass. pen., 3/2007, 902 ss.; F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e “attivismo giudiziale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, 1594 ss.; S. Seminara, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 12/2007, 1561 ss.; C. Cupelli, Il diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico (di non perseverare), in Cass. pen., 5/2008, 1791 ss.; O. Di Giovine, Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica, Torino, 2009, 9 ss.; L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008, 25 ss.
[6] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[7] Ibidem.
[8] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 63.
[9] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[10] App. Milano, I sez. civ., 25 giugno 2008.
[11] Cons. Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 44600, in Nuova giur. civ. comm., 1/2015, con nota di E. Palermo Fabris, Risvolti penalistici di una sentenza coraggiosa: Il Consiglio di Stato si pronuncia sul caso Englaro. Il Tar Lombardia, 6 aprile 2016, n. 650, ha condannato la Regione al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la decisione di impedire l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale.
[12] Walter Piludu, ex Presidente della Provincia di Cagliari, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, si trova tracheotomizzato e alimentato per via artificiale, conservando inalterate le proprie facoltà intellettive. Il 31 maggio 2016 l’amministratore di sostegno di Piludu presenta al Tribunale di Cagliari una richiesta volta a ottenere il distacco degli strumenti di sostegno vitale, dopo aver manifestato per iscritto la propria volontà in tal senso. Il giudice, durante una visita a domicilio, ha modo di accertare la persistente attualità della decisione del paziente, accogliendo di conseguenza la richiesta presentata dall’amministratore di sostegno: Trib Cagliari, 16 luglio 2016, in Resp. civ. e prev., 3/2017, 910, con nota di A. Pisu, Quando il “bene della vita” è la morte, una buona morte. V. anche C. Magnani, Il caso Walter Piludu: la libertà del malato di interrompere terapie salva-vita, in Forum costituzionale, 8 dicembre 2016.
[13] Con particolare riguardo alla prospettiva penalistica S. Canestrari, Una buona legge buona (DDL recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), in Riv. it. med. leg., 1/2017, 975 ss.; C. Cupelli, Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: risvolti penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 12/2017, 123 ss.; P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in www.penalecontemporaneo.it, 22 maggio 2018, 5 ss.; A. Esposito, Non solo “biotestamento”: la prima legge italiana sul fine vita, tra aperture coraggiose e prospettive temerarie in chiave penalistica, in Cass. pen., 5/2018, 1815 ss.
[14] Sulla dimensione pregiuridica dell’eutanasia e sugli inevitabili condizionamenti di tipo morale e culturale che subisce una trattazione “tecnica” della questione F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 75.
[15] Per tutti L. d’Avack, Fine vita e rifiuto di cure: profili penalistici. Il rifiuto delle cure del paziente in stato di incoscienza, in Trattato di Biodiritto, cit., 1929 ss., ad avviso del quale la prosecuzione forzata di pratiche di alimentazione e idratazione artificiali, indipendentemente dall’applicabilità dell’art. 32 Cost., sarebbe risultata contraria all’art. 13 Cost.
[16] P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita, cit., 8: «l’irrilevanza penale prevista dall'art 1, comma 6, è però all’evidenza normativamente costruita quale scriminante».
[17] F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 1016. Anche F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 91, in riferimento alla “mera interruzione della terapia” (non, invece, alla disattivazione di macchine che tengono in vita il paziente), ritiene che quando il malato esercita il suo diritto di morire, la sua richiesta fa cessare l’obbligo giuridico di agire del medico, rappresentando anzi «limite al dovere di curare del medico».
[18] Il testo integrale della lettera è disponibile, tra l’altro, sul sito www.lucacoscioni.it.
[19] V. sul punto le considerazioni di F. Mantovani, Suicidio assistito: aiuto al suicidio od omicidio del consenziente?, in Giust. pen., 2017, II, 38, ad avviso del quale la distinzione tra omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio viene fatta dipendere dal dato, marginale e fungibile, dell’attivazione del dispositivo “letale” da un soggetto terzo o del morituro.
[20] Il tema del danno e, di conseguenza, quello del paternalismo penale evoca necessariamente la questione teorica del bene giuridico e del principio di necessaria offensività: G. Forti, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 288-289.
[21] Per tutti O. Vannini, Delitti contro la vita, Milano, 1946, 117-118, il quale riteneva che l’art. 579 c.p. fosse «fuori posto nell’ordine sistematico del codice» perché, più che un delitto contro la persona, doveva considerarsi un delitto volto a tutela l’interesse statale alla potenza demografica della Nazione. L’omicidio del consenziente «colpisce un bene che è nella persona, ma non è più della persona»: il soggetto passivo non è l’individuo, ma lo Stato e l’uomo diviene dunque mero oggetto materiale del reato.
[22] Ass. Milano, ord. 14 febbraio 2018, cit., 7.
[23] Sulla quale v. i contributi raccolti nel volume Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini, C. Cupelli, ESI, 2019.
[24] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[25] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[26] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 3 del Considerato in diritto.
[27] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 4 del Considerato in diritto.
[28] L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzione, in Il caso Cappato, cit., 131.
[29] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, PQM.
[30] Ibidem.
[31] W. Hassemer, Prozedurale Rechtfertigungen, in Strafen im Rechtsstaat, Nomos, 2000, 109 ss; M. Romano, Cause di giustificazione procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1269 ss.; A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato, ESI, 2018, spec. 69 ss.; S. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bononia University Press, 2008, 279 ss.
[32] M. Donini, Il caso Welby, cit., 908.
[33] Cfr. M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione “non penalistica” della Corte costituzionale di fronte a una trilogia inevitabile, in Il caso Cappato, cit., 128, sebbene in riferimento alla possibile introduzione, per via legislativa, di una causa di non punibilità sostanzialmente equivalente a quella che deriva dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: «[s]e poi qualche raffinato esegeta volesse dire che in una disciplina come questa il fatto è del tutto atipico, ciò confermerebbe l’esistenza di misteri gaudiosi del tecnicismo giuridico, ma la sostanza resta scriminante».
[34] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 6 del Considerato in diritto.
[35] Ass. Milano, 20 gennaio 2020, n. 8, in Giurisprudenza penale web, 30 gennaio 2020.
[36] Sul caso Welby, amplius, A. Massaro, Questioni di fine vita e diritto penale, Giappichelli, 2020,17 ss.
[37] Sulla diversità di ratio delle disposizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 rispetto alle questioni poste dal suicidio assistito, v., ancora, M. Donini, Libera nos a malo, cit., 223.
La CEDU e i limiti alle intercettazioni dirette nei confronti di giornalisti (a proposito di Corte edu, 1 aprile 2021, Sedletska contro Ucraina)
di Marina Castellaneta
Sommario: 1. Premessa – 2. La ricostruzione della vicenda all’origine della sentenza Sedletska contro Ucraina - 3. Il giusto bilanciamento tra i diritti in gioco - 4. L’eccezionalità di intercettazioni dirette a danno di giornalisti: bisogni sociali imperativi e onere della prova.
1. Premessa
Se sul piano nazionale, in diversi Stati, anche europei, sono in atto limitazioni alla libertà di stampa, con mezzi diretti e indiretti, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo arriva una sentenza che, almeno in via generale, “blinda” il diritto del giornalista a beneficiare della confidenzialità delle fonti[1]. In realtà, per Strasburgo non si tratta di un privilegio, ma di un elemento indispensabile per assicurare effettività al diritto alla libertà di stampa, da maneggiare con cura perché ogni restrizione, anche quando funzionale a garantire il segreto di Stato, può compromettere la democraticità di un Paese. Ultima in ordine di tempo è la sentenza Sedletska contro Ucraina (ricorso n. 42634/18), depositata il 1° aprile 2021. Strasburgo ha dato torto allo Stato in causa accogliendo il ricorso di una giornalista, molto nota in patria, che era stata vittima di un provvedimento delle autorità giudiziarie nazionali con il quale era stato disposto l’accesso ai suoi tabulati telefonici. Tra i principi affermati dalla Corte, l’obbligo per gli Stati, in base all’articolo 10 della Convenzione, di garantire la protezione delle fonti dei giornalisti in quanto “chiave di volta della libertà di stampa” che permette l’accesso a notizie riservate di interesse pubblico che la collettività ha bisogno di conoscere. Se la segretezza delle fonti non fosse assicurata, almeno in via generale, alcune persone potrebbero non rivelare notizie scottanti, con la conseguenza che al giornalista arriverebbero unicamente notizie ufficiali o che lo stesso giornalista potrebbe decidere di non pubblicarle, per timore di conseguenze penali, con effetti negativi sul tasso di democrazia di un Paese e sul ruolo di “public watchdog” dei reporter. Va ricordato, tra l’altro, che sono in aumento le segnalazioni alla Piattaforma per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti, istituita dal Consiglio d’Europa, proprio per l’ingerenza nel diritto dei giornalisti alla confidenzialità delle fonti, con casi che hanno riguardato anche l’Italia[2].
2. La ricostruzione della vicenda all’origine della sentenza Sedletska contro Ucraina
La vicenda al centro della nuova pronuncia della Corte di Strasburgo riguardava l’accesso ai dati telefonici di una giornalista di “Radio Free Europe”, con sede a Kiev, che curava, dal 2014, un programma televisivo sulla corruzione. L’Autorità nazionale anticorruzione aveva avviato un procedimento nei confronti di un procuratore, disponendo l’intercettazione dei dispositivi di telefonia, con ciò captando anche le conversazioni private con la partner dell’uomo intercettato. Un sito web aveva pubblicato un articolo nel quale affermava che il capo dell’Autorità anticorruzione aveva tenuto un incontro con alcuni giornalisti, svelando informazioni riservate sulle indagini e, probabilmente, permettendo ai rappresentanti dei media di ascoltare alcune registrazioni tra il procuratore e la sua compagna, che includevano questioni relative alla vita privata della coppia. La donna aveva presentato una denuncia ed era stata avviata un’indagine durante la quale era stato disposto anche l’accesso ai tabulati telefonici della cronista ucraina ricorrente. La Corte distrettuale aveva autorizzato le intercettazioni per 16 mesi nei confronti di alcuni giornalisti e attivisti dei diritti umani. Sul piano interno, malgrado la giornalista avesse cercato di fare cessare le intercettazioni, queste erano state confermate, seppure limitate, in appello, a determinati luoghi e, successivamente l’autorizzazione era stata circoscritta alla geolocalizzazione. Così, la giornalista si è rivolta a Strasburgo che, per la prima volta, ha anche adottato, con decisione del 18 settembre 2018, misure provvisorie – in genere riservate ai casi di estradizione verso Paesi in cui c’è il rischio di pena di morte o di trattamenti disumani o degradanti - chiedendo al Governo ucraino di fermare le intercettazioni fino alla decisione sul merito, arrivata con la sentenza del 1° aprile con la quale è stato accolto il ricorso della giornalista. Va sottolineato che l’accoglimento della richiesta di misure provvisorie quali lo stop alle intercettazioni è una prima assoluta in questo campo e potrebbe aprire la strada a una simile richiesta anche in altre occasioni.
3. Il giusto bilanciamento tra i diritti in gioco
Prima di passare ad esaminare il nuovo apporto della Corte europea alla tutela della segretezza delle fonti che - conviene sottolinearlo - riguardava un caso di intercettazione diretta della giornalista, va ricordato che l’articolo 10 della Convenzione europea riconosce “la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”, non prevedendo espressamente il diritto di cercare informazioni incluso invece nell’articolo 19 del Patto sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 in base al quale “ogni individuo ha il diritto alla liberà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere”. La mancata previsione del diritto di cercare informazioni, che è alla base di quello a non svelare le fonti, avrebbe potuto fare pensare a una lacuna del sistema convenzionale e a una diminuzione della tutela della libertà di espressione. Tuttavia, sul punto è venuta in soccorso la Corte europea stabilendo che l’art. 10 include il diritto di cercare informazioni, che costituisce una fase essenziale per la successiva divulgazione. Correttamente, la Corte ha accantonato un’interpretazione letterale a vantaggio di una lettura dell’articolo 10 volta a garantire l’effettiva realizzazione del diritto attivo di informare e passivo di ricevere le informazioni. È opportuno ricordare il leading case a cui è collegato il diritto alla segretezza delle fonti rappresentato dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito del 27 marzo 1996 (ricorso n. 17488/90). In quell’occasione, Strasburgo ha stabilito che vanno garantiti alcuni “privilegi” ai giornalisti che, divulgando notizie di interesse generale, spesso scottanti, svolgono il ruolo di watchdog che è centrale per la democrazia, a sua volta essenziale per l’effettiva realizzazione di ogni diritto convenzionale. È evidente che il diritto di informare presuppone quello di cercare informazioni per lo più da fonti non ufficiali che possono condizionare la comunicazione al giornalista alla garanzia di anonimato. In caso contrario, non solo il giornalista non potrebbe svolgere la sua attività, ma la collettività non sarebbe informata su questioni di interesse generale. Pertanto, per la Corte, la protezione delle fonti giornalistiche ha un’importanza capitale per l’esercizio effettivo della libertà di espressione. Si può pensare, a tal proposito, ai casi in cui un giornalista riceva informazioni sulla corruzione di uomini politici da fonti che vogliono mantenere l’anonimato: se le divulgasse, senza la possibilità di avvalersi del diritto di non svelare la fonte, correrebbe il rischio di gravi conseguenze sulla sua attività, che potrebbero spingerlo a non rivelare fatti danneggiando l’intera collettività. La tutela della confidenzialità delle fonti è stata poi confermata in numerose sentenze e ha incluso sia le ingerenze dirette (come ad esempio la richiesta del nome della fonte al giornalista) sia ingerenze indirette come il sequestro di dispositivi elettronici o documenti.
Per citare solo le più importanti, basti ricordare la pronuncia del 22 novembre 2007, Voskuil contro Paesi Bassi, ricorso n. 64752/01, con la quale la Corte europea ha ritenuto che fosse stato violato il diritto del ricorrente alla libertà d’informazione garantito dall’art. 10, in quanto il giornalista era stato arrestato per essersi rifiutato di svelare la fonte – che serviva agli inquirenti per individuare gli autori di un grave reato - all’origine di un articolo riguardante un’inchiesta sul traffico d’armi. Già in quell’occasione, la Corte ha precisato che non hanno rilievo le modalità con le quali la fonte abbia ottenuto le informazioni, non chiedendo così al giornalista di distinguere nell’acquisizione delle notizie (si vedano anche le sentenze Financial Times Ltd e altri contro Regno Unito, del 15 dicembre 2009, ricorso n. 821/03; Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, del 14 settembre 2010 ricorso n. 38224/03; Görmüs e altri contro Turchia, del 19 gennaio 2016, ricorso n. 49085/07; Becker contro Norvegia, del 5 ottobre 2017, ricorso n. 21272/12). Non manca poi una pronuncia della Grande Camera come la sentenza del 14 settembre 2010, nel caso Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, ricorso n. 38224/03[3].
Ricostruendo in breve gli approdi della Corte europea, si può sottolineare che Strasburgo considera come regola generale la protezione delle fonti del giornalista sia da ingerenze dirette – come nei casi di interrogatorio o di intercettazioni delle utenze – sia indirette, attraverso il sequestro di materiale e documentazione in possesso del giornalista, inclusi i dispositivi informatici (si veda il caso Tillack contro Belgio, sentenza del 27 novembre 2007, ricorso n. 20477/05). La Corte ha affermato il carattere eccezionale degli interventi delle autorità giudiziarie volte a ottenere informazioni sull’identità delle fonti, con il riconoscimento di un privilegio che non può essere diminuito solo perché il giornalista ricorre a stratagemmi per ottenere notizie di interesse collettivo. Così, con la sentenza del 12 aprile 2012 nel caso Martin e altri contro Francia (ricorso n. 30002/08), la Corte europea ha stabilito che la protezione delle fonti “è una delle pietre angolari della libertà di stampa” in quanto l’assenza di protezione “potrebbe dissuadere le fonti dei giornalisti dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni di interesse generale”. Anche la protezione delle fonti ha così, nella visione della Corte, un duplice rilievo: per il giornalista che svolge la sua funzione e per la collettività che viene a conoscenza di informazioni di interesse generale.
4. Intercettazione diretta dei giornalisti ed onere della prova sulle autorità nazionali
Resta da chiedersi cosa ha aggiunto la Corte nella pronuncia del 1° aprile 2021, nella quale, accertata l’esistenza di un’ingerenza, prevista dalla legge e dallo stesso articolo 10 poiché funzionale a un fine legittimo come la prevenzione di un reato e la tutela della reputazione altrui, ha rilevato che la misura non era necessaria in una società democratica. La Corte, da un lato, non fa che confermare i precedenti approdi rilevando che la protezione delle fonti riveste un’importanza fondamentale e che eventuali limitazioni devono essere trattate con la massima attenzione e ammesse solo in presenza di un bisogno sociale imperativo. Per la Corte, infatti, il diritto del giornalista a non rivelare le fonti e a godere della loro segretezza “non può essere considerato come un mero privilegio da concedere o togliere sulla base della legittimità o illegittimità delle fonti, ma esso è una parte e un segmento del diritto ad informare, da trattare con la massima attenzione”. La Corte, dall’altro lato, aggiunge un ulteriore elemento che va a rafforzare la tutela delle fonti perché sottolinea che non è il raggiungimento del risultato voluto dalle autorità inquirenti ad essere in contrasto con la Convenzione, ma proprio lo strumento perché, anche nei casi in cui le autorità non arrivino a individuare la fonte, l’accesso a materiale essenziale per il giornalista comporta una violazione del diritto alla libertà di stampa. Spetta poi alle autorità nazionali dimostrare la proporzionalità della misura. E su questo punto ci sembra che la Corte abbia tenuto a sottolineare il rilievo dell’onere della prova che grava sulle autorità nazionali che intervengono incidendo sulla protezione delle fonti. Così, la Corte ha evidenziato che i rischi si verificano quando sono disposti controlli sulle utenze telefoniche dirette del giornalista perché gli inquirenti potrebbero individuare numerose fonti, non solo quelle necessarie a un particolare caso. E’ posto, così, un freno quasi generale nell’utilizzo di misure, come le intercettazioni, che non permettono di delimitare a una singola fattispecie rilevante l’acquisizione di dati, fornendo uno scudo alle ingerenze di questo tipo. In questo modo si concretizza una forte presunzione verso la protezione delle fonti dei giornalisti e la necessità che limiti a detta protezione possano essere ammissibili solo tenendo conto del fine delle misure ossia l’esistenza di un bisogno sociale imperativo accompagnato da misure di salvaguardia per limitare all’essenziale l’ingerenza ed evitare che le informazioni attinte dall’utenza del giornalista finiscano nelle mani di più persone.
C’è in ultimo da chiedersi se una differenza possa essere fatta tra ingerenze dirette sul giornalista o che si realizzino in via indiretta, ad esempio intercettando altri. A nostro avviso, va tenuto conto che la limitazione alla libertà di stampa, con mezzi diretti o indiretti, è un’eccezione da interpretare sempre in modo restrittivo. Se, però, nel caso dell’intercettazione diretta la presunzione sulla classificazione di tale misura come limitazione della libertà di stampa è quasi assoluta, nei casi di intercettazione di altri rimane un maggiore margine di intervento degli Stati, fermo restando l’onere della prova su dette autorità. Questo si desume, a nostro avviso, dalla sentenza Big Brothers Watch e altri contro il Regno Unito depositata il 13 settembre 2018, ricorso n. 58170/13 e altri (oggi dinanzi alla Grande Camera) nella quale la Corte ha rilevato che la serietà dell’ingerenza va valutata tenendo conto della circostanza che l’intercettazione abbia riguardato direttamente il cronista o piuttosto terzi. In questi casi, la serietà dell’ingerenza diminuisce, ma gli Stati devono comunque adottare misure per impedire che le fonti dei giornalisti siano divulgate, con la conseguenza che, seppure implicitamente, la Corte chiede sempre alle autorità nazionali la previsione di misure per tutelare i giornalisti nell’esercizio delle proprie attività. In questa direzione ci sembra vada anche la decisione del 29 giugno 2006, Weber e Saravia contro Germania, ricorso n. 54934/00, nella quale, con riguardo a un sistema di monitoraggio non rivolto a una specifica persona, la Corte ha sottolineato che nel caso in esame “Surveillance measures were, in particular, not directed at uncovering journalistic sources” e, quindi, “The interference with freedom of expression by means of strategic monitoring cannot, therefore, be characterised as particularly serious”.
Invece, nella sentenza del 1° aprile 2021, a fronte di un’intercettazione diretta e prolungata di una giornalista, la Corte ha concluso che la misura era sproporzionata rispetto al fine perseguito - che era quello di individuare l’autore della fuga di notizie su un caso di corruzione - e che i giudici ucraini non hanno utilizzato i parametri di Strasburgo, non dimostrando in che modo la geolocalizzazione servisse a combattere gravi crimini e neppure fornendo elementi per provare di aver fatto ricorso ad altri mezzi meno invasivi. Un punto così ci sembra consolidato anche guardando alla sentenza del 6 ottobre 2020 nella causa Jecker contro Svizzera (ricorso n. 35449/14): la sola circostanza che l’ordine di divulgazione della fonte serva per individuare l’autore del reato non può giustificare la mancata protezione delle fonti[4].
Pertanto, per Strasburgo, le autorizzazioni alle intercettazioni del telefono della giornalista e l’acquisizione dei tabulati telefonici sono state gravemente lesive della libertà di stampa e misure ampliamente sproporzionate. Accertata la violazione dell’articolo 10, la Corte ha anche condannato lo Stato in causa a pagare 4.500 euro per i danni non patrimoniali subiti dalla giornalista e 2.350 euro per le spese processuali.
[1] Cfr. M. Castellaneta, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU. Una nuova pronuncia della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu; D. Banisar, Silencing Sources: an International Survey of Protections and Threats to Journalists’ Sources, reperibile nel sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1706688; G.E. Vigevani, La libertà di manifestazione del pensiero, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, p. 3 ss.; Id., L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, ivi, p. 25 ss.; R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 2017, n. 3, p. 37 ss., reperibile nel sito http:///www.penalecontemporaneo.it; M. Oetheimer, A. Cardone, Articolo 10, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 397 ss.; G. Resta, La giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla libertà d’informazione e la sua rilevanza per il diritto interno: il caso dei processi mediatici, in Dir. inf. e inf., 2012, p. 163 ss.; Id., Trial by Media as a Legal Problem, Napoli, 2009; M. Lemonde, Justice and the media, in European Criminal Procedures, a cura di M. Delmas-Marty, J.R. Spencer, Cambridge, 2002, p. 688 ss.
[2] Nel sito è riportata anche la segnalazione sulle intercettazioni disposte nel corso di un’indagine della Procura di Trapani sul ruolo di alcune organizzazioni non governative nel traffico di migranti. Seppure non in via diretta, stando a quella che risulta fino ad oggi, l’intercettazione di alcuni attivisti ha portato anche alla trascrizione di comunicazioni con i giornalisti. Si veda l’alert presente nella piattaforma https://www.coe.int/en/web/media-freedom/.
[3] Per un esame delle sentenze della Corte di Strasburgo rinviamo a M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012.
[4] V. M. Castellaneta, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU. Una nuova pronuncia della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu.
Patrick George Zaki, l’Egitto e noi
di Aldo Schiavello
Sommario: 1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” - 2. L’età dei diritti - 3. La crisi dell’età dei diritti.
1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”
La vicenda è nota[1]. Il 7 febbraio 2020 Patrick George Zaki, studente di un master internazionale in studi di genere e diritti umani presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nonché attivista presso la ong Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), è arrestato all’aeroporto del Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza in Egitto, e viene sottoposto a detenzione preventiva su richiesta dei pubblici ministeri del tribunale di Mansoura, sua città natale. L’accusa è di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo attraverso la pubblicazione sui social network di notizie false finalizzate a turbare la pace sociale e a rovesciare il regime egiziano. Anche l’ultima udienza per decidere sulla scarcerazione dello studente bolognese, il 28 febbraio scorso, ha dato esito negativo, nonostante l’attesa e le pressioni del mondo occidentale e, in primo luogo, dell’Italia.
Il caso Zaki non è diverso da numerosi altri casi di grave violazione dei diritti umani in Egitto. A differenza della maggioranza di tali casi, la vicenda Zaki si caratterizza per l’attenzione, sia istituzionale sia mediatica, del mondo occidentale. Le università italiane, a partire da una mozione dell’università di Bologna, hanno sottoscritto un appello di preoccupazione per la vicenda di Zaki all’indomani del suo arresto; un appello di Amnesty International che chiede la liberazione immediata dello studente egiziano è al momento stato sottoscritto da più di centocinquantamila persone; il senato accademico dell’Università di Palermo, di cui faccio parte, ha deliberato di attribuire a Patrick Zaki e alla memoria di Giulio Regeni il titolo di benemerito della nostra università; al fine di mantenere alta l’attenzione sul caso, numerose trasmissioni televisive italiane hanno sostituito gli spettatori, la cui presenza è inibita dalla pandemia in corso, con sagome di Patrick Zaki; i servizi e le inchieste giornalistiche e televisive sul caso Zaki non si contano; le città italiane sono invase da cartelloni stradali che invocano la liberazione di Patrick Zaki; la street artist Laika ha presentato – prima a Roma, vicino all’ambasciata egiziana e, poi, a Bologna, vicino al Rettorato dell’Università – un’opera toccante in cui Giulio Regeni abbraccia Patrick Zaki rassicurandolo che nel suo caso andrà tutto bene, e si potrebbe continuare a lungo. Che tutto questo favorisca la scarcerazione di Zaki è discutibile. Basti pensare che il 3 dicembre scorso tutti i dirigenti dell’Eipr sono stati liberati mentre Zaki continua a essere ristretto in carcere. Ciononostante, ritengo che, quando sono in ballo violazioni così gravi di diritti, non sia moralmente lecito tacere nemmeno per ragioni tattiche o di opportunità. Si tratta di casi in cui bisogna farsi guidare dall’etica dei principi e non dall’etica della responsabilità, per usare le categorie di Max Weber.
L’indignazione per la continua violazione dei diritti umani perpetrata dal regime egiziano di Abdel Fatah al-Sisi è pienamente giustificata. Al riguardo, si suggerisce la lettura del Report sull’Egitto di Amnesty International, pubblicato nel 2019, con l’emblematico titolo Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution. L’esergo del rapporto riproduce una frase pronunciata da al-Sisi a seguito dell’uccisione di Hisham Barakat, procuratore che, dopo la caduta a seguito di un colpo di stato militare del Presidente Mohamed Morsi nel 2013, ha perseguito numerosi islamisti: «The hand of prompt justice is shakled by laws»[2]. Proprio per evitare che le garanzie processuali e il rispetto dei diritti umani potessero rallentare il perseguimento dei crimini perpetrati da terroristi sono stati ampliati a dismisura i poteri della Supreme State Security Prosecution (SSSP) sino a trasformarla, questa è l’accusa principale di Amnesty International, in un modo per reprimere qualsivoglia opposizione al regime di al-Sisi. I centotrentotto casi approfonditi nel rapporto lasciano poco adito a dubbi e la raccomandazione di Amnesty International alla comunità internazionale di fare tutto il possibile affinché tale stato di eccezione permanente venga sostituito da un ritorno alla legalità e dal rispetto dei diritti umani è ineccepibile. Insomma, l’Egitto attuale è senz’altro uno di quegli stati che John Rawls definisce fuorilegge[3]; tali stati rappresentano una minaccia per i popoli liberali e decenti e, proprio per questo, non dovrebbero essere tollerati da questi ultimi.
È invece sul comportamento degli stati “decenti” che è opportuno fare qualche considerazione. Si può davvero dire che le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto siano state prese sul serio e combattute con intransigenza dai paesi che dovrebbero avere a cuore i diritti umani? La risposta a tale domanda è purtroppo negativa. Le azioni ufficiali intraprese nei confronti dell’Egitto non sono andate oltre la petitio principii e l’esortazione a rispettare i diritti umani.
La Risoluzione del parlamento europeo del 18 dicembre 2020, dopo aver posto l’accento sulle gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, ribadisce: a) l’esigenza che la cooperazione nei settori dell’emigrazione e del terrorismo non dovrebbe comportare un affievolimento delle pressioni per il rispetto dei diritti umani e la rendicontabilità per le violazioni dei diritti umani; b) l’invito agli stati membri a sospendere le licenze di esportazione in Egitto di qualsiasi attrezzatura che possa essere utilizzata a fini di repressione interna nonché a sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani; c) l’invito all’Unione europea di dare piena attuazione ai controlli sulle esportazioni in Egitto di beni che potrebbero essere utilizzati a fini repressivi o per infligger torture o la pena capitale.
Il 25 gennaio 2021 il Consiglio degli affari esteri dell’UE si è anche occupato brevemente del caso Regeni e, in generale, della situazione dei diritti umani in Egitto, esortando il paese africano a cooperare con l’Italia affinché venga fatta giustizia.
Il 12 Marzo 2021 il Comitato dei diritti umani dell’Onu ha approvato una Dichiarazione congiunta sottoscritta da 31 paesi, tra i quali l’Italia, in cui si si stigmatizzano per l’ennesima volta le gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e si esortano le autorità di questo paese a cooperare con il Comitato al fine di migliorare la situazione egiziana in relazione alla tutela dei diritti umani.
A fronte di queste pur flebili prese di posizione, il 7 dicembre 2020 il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha conferito ad al-Sisi la gran Croce della Legion d’onore, la massima onorificenza della Repubblica. Alle critiche veementi che sono seguite a questa decisione, Macron ha replicato laconicamente: «È più efficace avere una politica di dialogo esigente anziché un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo»[4]. La Realpolitik prima di tutto! Un comportamento non dissimile peraltro da quello tenuto dal governo italiano presieduto da Paolo Gentiloni che nel 2017 ha stipulato un accordo con la Libia – il cosiddetto Memorandum di intesa tra Italia e Libia – attraverso il quale si è perseguito l’obiettivo di una drastica riduzione degli sbarchi di migranti in Italia al prezzo di chiudere entrambi gli occhi sulle gravi violazioni dei diritti delle persone migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica e nei centri di detenzione libici.
L’Italia, pur apparentemente in prima fila per la tutela dei diritti in Egitto a causa dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki, è tra i principali esportatore di armamenti in Egitto. E questo nonostante non manchino leggi e direttive che vietino l’esportazione di armamenti verso paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani[5]. Inoltre, il nostro paese potrebbe compiere un passo concreto rispetto al caso Zaki attribuendo a quest’ultimo la cittadinanza italiana. In questo modo, le richieste di scarcerazione provenienti dall’Italia acquisirebbero ben altra forza e non potrebbero essere rispedite al mittente da parte delle autorità egiziane con l’argomento – comunque pretestuoso – che Zaki è un cittadino egiziano e, dunque, la comunità internazionale non ha titolo per intromettersi nei fatti interni dell’Egitto. Benché la richiesta di conferire a Zaki la cittadinanza italiana sia pervenuta da più parti, anche attraverso una mozione bipartisan presentata in Senato, è purtroppo facile prevedere che essa resterà lettera morta.
Volendo tirare le somme, il caso Zaki ci interroga più su noi stessi che sull’Egitto. Possiamo ancora dire che la cultura dei diritti umani – per usare l’espressione del filosofo argentino Eduardo Rabossi – sia ancora egemone nel nostro mondo? Rispondere a questa domanda non è semplice. In ogni caso, bisogna partire da una breve presentazione della cultura dei diritti che si è sviluppata nel mondo dopo il secondo dopoguerra.
2. L’età dei diritti
Per un lungo tratto della nostra storia recente la centralità dei diritti umani non può essere negata[6]. Non a caso Norberto Bobbio denomina l’epoca contemporanea l’età dei diritti. Egli spiega con chiarezza ciò che tale espressione connota: «dal punto di vista della filosofia della storia, l’attuale dibattito sempre più ampio, sempre più intenso, sui diritti dell’uomo, tanto ampio da aver ormai coinvolto tutti i popoli della terra, tanto intenso da essere messo all’ordine del giorno delle più autorevoli assise internazionali, può essere interpretato come un “segno premonitore” (signum prognosticum) del progresso morale dell’umanità»[7]. L’idea del “segno premonitore”, Bobbio la riprende espressamente da Immanuel Kant, che a sua volta individua nella Rivoluzione francese l’esperienza, l’evento, in grado di mostrare la disposizione e la capacità del genere umano «… a essere la causa del suo progresso verso il meglio e (poiché ciò dev’essere l’azione di un essere dotato di libertà) il suo autore»[8]. L’età dei diritti è l’esito di quella che Bobbio, sempre seguendo la lezione di Kant, definisce una rivoluzione copernicana che consiste nel considerare il rapporto tra governanti e governati non più dalla prospettiva dei primi ma da quella dei secondi, a partire dalla consapevolezza della priorità dell’individuo.
L’età dei diritti è dunque l’esito di una rivoluzione che parte dall’illuminismo, che ha messo al centro della riflessione politica l’individuo, non considerando più quest’ultimo come una mera parte del tutto rappresentato dalla società e dallo stato. Prendendo ancora in prestito le parole di Bobbio, si può esprimere questo concetto dicendo che “lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato”. Una emblematica vignetta del 1950 raffigura i componenti della commissione dei diritti umani che redasse la Dichiarazione universale come scolari che ascoltano la maestra, Eleanor Roosevelt, nella realtà presidentessa della commissione, la quale, con la bacchetta in mano li indottrina: «allora, bambini, tutti insieme: “i diritti degli individui sono superiori ai diritti dello stato”».
Dell’illuminismo, l’età dei diritti incorpora anche la fiducia nella ragione ed enfatizza il ruolo di quest’ultima nella costruzione di una cosmopoli di individui che hanno diritto a pari dignità e rispetto.
Da un punto di vista storico, l’età dei diritti designa il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale sino (quasi) ai giorni nostri. Essa intende marcare una radicale rottura rispetto ai totalitarismi e alle atrocità che hanno caratterizzato il periodo antecedente ed è espressione della fiducia dell’umanità nella possibilità di un reale progresso morale universale, che presuppone la condivisione di alcuni valori, il rispetto degli individui e dei loro diritti, il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. La fiducia e la scommessa in un futuro migliore sono, senza dubbio, la cifra dell’età dei diritti.
Si può anche dire che l’età dei diritti è la risposta dell’umanità all’orrore della Shoah. Per usare le parole di Isaiah Berlin, ciò che caratterizza la prima metà del novecento è «la divisione dell’umanità in due gruppi – gli uomini propriamente detti e un qualche altro ordine di esseri di rango più basso, razze inferiori, culture inferiori, creature, nazioni o classi subumane, condannate dalla storia […] Questo nuovo atteggiamento permette agli uomini di guardare a molti milioni di loro simili come ad esseri non completamente umani, e di massacrarli senza scrupoli di coscienza, senza che avvertano il bisogno di salvarli o di metterli in guardia»[9].
Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, pubblicato all’indomani della seconda guerra mondiale, individua il limite dei diritti umani, sino a quel momento, nel non garantire effettivamente tutti gli esseri umani ma solo i cittadini di uno stato sovrano. Scrive Arendt: «Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita»[10].
Significativo a questo proposito il racconto che Primo Levi fa del suo incontro ad Auschwitz con il dottor Pannwitz, capo del reparto di chimica. L’aspetto dell’incontro che più colpisce Levi è che non sembra un incontro tra esseri umani ma tra «… due esseri che abitano mezzi diversi» e che si scambiano sguardi «…come attraverso la parete di vetro di un acquario»[11]. Si può ricordare in relazione alla divisione dell’umanità in due parti anche il celebre dialogo tra la zia Sally e Huckleberry Finn[12]. Quest’ultimo, per trarsi d’impaccio, giustifica così il proprio ritardo: «non è stato perché ci siamo incagliati...quello ci ha fatto perdere poco tempo. È scoppiata la testa di un cilindro». La zia Sally, preoccupata, domanda: «Santo cielo! S’è fatto male qualcuno?». La risposta di Huck è perentoria: «Nossignora. È morto un negro». «Be’, è una fortuna, perché a volte la gente si ferisce», commenta sollevata la zia Sally.
I diritti umani, dunque, rappresentano un baluardo contro ciò che è insopportabilmente sbagliato o, ricorrendo ancora a Berlin, contro l’idiozia morale. Tutto questo può essere riassunto dicendo che i diritti umani tutelano la dignità di tutti gli esseri umani; impediscono che alcuni esseri umani possano guardarne altri come attraverso il vetro di un acquario. In definitiva, il progresso morale promesso dai diritti umani consiste nel rendere le nostre comunità sempre più inclusive.
L’ideologia dei diritti umani ha anche contribuito al passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale. Se la “sovranità” è il segno distintivo dello stato moderno, la “crisi della sovranità” lo è dello stato contemporaneo. Negli stati costituzionali contemporanei la sovranità viene duplicemente limitata. All’interno, la potestas legibus soluta e superiorem non recognoscens degli stati è negata mediante «…l’invenzione […] della rigidità delle costituzioni quali norme superiori alle leggi ordinarie e [la] conseguente penetrazione nel diritto positivo, in aggiunta all’originaria razionalità puramente formale e procedurale, di una razionalità assiologica o sostanziale»[13].. All’esterno (cioè nei confronti degli altri stati), la fine della sovranità «è sanzionata […] dalla Carta dell’Onu varata a San Francisco il 26 giugno 1945 e poi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»[14].
Riguardo a quest’ultimo aspetto della limitazione della sovranità, mi limito qui ad alcuni brevissimi cenni esplicativi. Il fatto che ogni stato nazionale fosse titolare, prima del 1945, di una sovranità assoluta implicava che l’ordine giuridico mondiale si presentasse come uno stato di natura hobbesiano i cui soggetti, anziché gli individui, erano gli Stati. Come rileva Ferrajoli, infatti, l’attributo principale della sovranità esterna degli stati era lo ius ad bellum.
Questa situazione comincia a mutare nel 1945 quando viene varata la Carta dell’Onu la quale, nel preambolo e nei primi due articoli, introduce il divieto della guerra.
La sovranità esterna degli Stati nazionali viene ulteriormente limitata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, attraverso la quale i diritti umani vengono trasformati «…in limiti non più solo interni ma anche esterni alla potestà degli Stati»[15].
Non stupisce che Bobbio individui tre condizioni necessarie dell’età dei diritti: riconoscimento e protezione dei diritti dell’uomo, democrazia e pace. «[S]enza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti», scrive Bobbio, «non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini»[16].
Quest’ultima osservazione di Bobbio fa comprendere con chiarezza come l’idea soggiacente alla cultura dei diritti sia l’indisponibilità a considerare questi ultimi come fini da perseguire tra gli altri fini. I diritti sono bilanciabili, sì, ma solo con altri diritti. Essi rappresentano la precondizione imprescindibile di un mondo che aspiri a che non si ripetano le tragedie della prima parte del secolo breve. Si può affermare che questa idea sia ancora in auge?
3. La crisi dell’età dei diritti
I diritti umani sono in crisi? Se si osserva la realtà da un certo angolo visuale e, aggiungerei, pervasi da uno stato d’animo incline all’ottimismo, la risposta non può che essere negativa. Amartya Sen ritiene che vi sia «…qualcosa di profondamente seducente nell’idea che ogni persona in ogni parte nel mondo, a prescindere dalla sua cittadinanza e dalla legislazione del suo paese, sia titolare di alcuni diritti fondamentali che gli altri devono rispettare»[17]. Stefano Rodotà, in uno dei suoi ultimi libri (il cui titolo, non a caso, riprende un’espressione di Arendt), osserva non senza soddisfazione: «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni, i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi, i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali, luoghi in tutto il mondo vengono “occupati” per difendere i diritti sociali. E si potrebbe continuare»[18].
È innegabile che la rivendicazione di diritti soggettivi e, più in generale, l’uso massiccio del linguaggio dei diritti permeino il dibattito pubblico contemporaneo e la cultura giuridica. Questo lo abbiamo visto anche in relazione al caso Zaki: quanti appelli, quante iniziative in nome dei diritti umani! È anche del tutto evidente che il processo di costituzionalizzazione dei nostri ordinamenti giuridici sia compiuto. Le costituzioni, ed i diritti da esse riconosciuti, infatti, non rappresentano più soltanto – né principalmente – un argine all’esercizio discrezionale del potere (legislativo, in primo luogo); a seguito di un radicale mutamento di prospettiva, la funzione primaria del potere legislativo è divenuta quella di sviluppare i principi costituzionali. Ma questo è sufficiente a rassicurarci? Il fatto che i diritti vengano evocati ad ogni piè sospinto è una prova decisiva circa la buona salute del costituzionalismo?
Come si è detto (par. 2), un tassello cruciale dell’età dei diritti è la fiducia nel fatto che i diritti umani rappresentino una tappa importante del progresso morale dell’umanità. Non si tratta tuttavia di una fiducia ingenua, né della fiducia inerte di chi attende la manna dal cielo. E neanche della fiducia impaziente di chi vuole tutto e subito. Sempre Bobbio ci mette in guardia dai facili ottimismi: «la storia dei diritti dell’uomo, meglio non farsi illusioni, è quella dei tempi lunghi. Del resto, è sempre accaduto che mentre i profeti di sventure annunciano la sciagura che sta per avvenire e invitano a essere vigilanti, i profeti dei tempi felici guardano lontano»[19].
Casi come, tra gli altri, quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaki minano la fiducia che caratterizza l’età dei diritti. Si deve ricordare, tuttavia, riprendendo le parole di Bobbio, che “la storia dei diritti umani è quella dei tempi lunghi”. Il monito di Bobbio ci aiuta a non cedere alla tentazione di decretare con troppa fretta e superficialità la fine dell’età dei diritti. Piuttosto, è il caso di domandarsi se il discorso dei diritti possegga o meno le risorse per superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino recuperando così il proprio ruolo di signum prognosticum del progresso morale dell’umanità.
Pur non ambendo ad essere annoverato tra i “profeti di sventura”, temo che la forza propulsiva della cultura dei diritti sia agli sgoccioli; ormai, infatti, il linguaggio dei diritti è l’idioletto attraverso il quale avanzare pretese e rivendicazioni nell’arena pubblica se si desidera che le une e le altre abbiano delle chance di essere accolte. Non è forse troppo azzardato sostenere che l’uso retorico e spregiudicato del linguaggio dei diritti al fine di incrementare la forza delle proprie rivendicazioni politiche sia uno degli esiti pressoché inevitabili della costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici. È indicativo al riguardo che John Rawls, autore la cui influenza sul dibattito filosofico-politico contemporaneo difficilmente può essere sovrastimata, consideri la ragione pubblica – che non è altro che il “distillato” della cultura dei diritti – non come uno “sbarramento” ma, piuttosto, come un “linguaggio comune” o come un “traduttore” degli argomenti e delle ragioni che vengono presentati nel dibattito pubblico. La ragione pubblica richiede cioè che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale venga condotta entro i limiti della concezione politica della giustizia, ma non presuppone che vi sia un’unica concezione politica della giustizia condivisa da tutti.
La retorica dei diritti è particolarmente odiosa in relazione ai migranti che, oggi, presentano alcune analogie con gli ebrei nella Germania nazista. Osserva Gustavo Zagrebelsky che «le Convenzioni internazionali e, spesso, le Costituzioni nazionali non fanno differenze tra cittadini e stranieri, quando si tratta della protezione minima essenziale della dignità delle persone. Ma questa tutela, chiara dal punto di vista giuridico estratto, è oscura dal punto di vista della realtà concreta»[20].
È possibile che la situazione sia ancora peggiore di come la prospetti Zagrebelsky; almeno in alcuni casi, infatti, è già sul piano normativo che, a dispetto di un generico tributo al rispetto dei diritti fondamentali, si prevede in realtà una violazione degli stessi. Un rapporto di Amnesty International pubblicato qualche anno fa, ad esempio, denuncia in modo circostanziato numerosi casi di violazioni dei diritti dei migranti da parte delle forze dell’ordine all’interno degli hotspot, dove si identificano i migranti al momento del loro primo ingresso nel territorio europeo. Come era prevedibile, alla pubblicazione del rapporto hanno fatto seguito polemiche e smentite. La questione rilevante tuttavia è che la normativa europea sugli hotspot a fatica può essere ritenuta compatibile con la cultura dei diritti. Il Consiglio dell’UE individua una serie di pratiche per “costringere” i migranti a…cooperare (un bell’esempio di ossimoro!). Tra queste è previsto, in casi estremi, anche l’uso della forza, in misura del “minimo necessario” e nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica del migrante. Ora, nonostante questi caveat, quasi delle formule di stile, è evidente che l’assenza di norme che disciplinino in modo dettagliato e pignolo i limiti all’uso della forza negli hotspot, apra le porte all’arbitrio e sia potenzialmente criminogena e contraria alla cultura dei diritti, assimilando il migrante ad un potenziale nemico. È significativo che, come sottolinea uno studio, il termine hotspot sia utilizzato, in tempi di guerra, per indicare le zone in cui sono attivi i combattimenti, nonché, in tempi di pace, le zone di guerriglia urbana[21].
Il passaggio ulteriore, che il caso Zaki, tra gli altri, mostra non essere così impensabile, consiste nel rinunciare anche a tributare un rispetto formale e di facciata ai diritti umani, considerando questi ultimi sacrificabili anche per esigenze di Realpolitik[22]. Si tratta di un passaggio senza ritorno rispetto al quale è opportuno opporre tutta la resistenza possibile.
Riferimenti bibliografici
Rapporto annuale amnesty international italia 2017. Come le politiche dell’unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti.
Amnesty International Report 2019. Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution.
Arendt H. 2009, Le origini del totalitarismo (1951), Torino, Einaudi.
Belardelli G. 2020. Ma per Macron al-Sisi è degno della Legion d’onore, in “Huffington Post”, 10/12/2020.
Berlin I. 1990. Il legno storto dell'umanità. Capitoli di storia delle idee, Adelphi, Milano.
Bobbio N. 1992. L’età dei diritti, Einaudi, Torino.
Cornet C. 2020. Il caso di Patrick Zaki e l’ambiguità delle relazioni tra Italia ed Egitto, in “Internazionale”, 13/02/2020.
Di Meo R. 2020. Il caso Zaki e i diritti umani in Egitto, in “Opinio Juris”, https://www.opiniojuris.it/il-caso-zaky-e-i-diritti-umani-in-egitto/
Ferrajoli L. 1997. La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari.
Kant I. 1965. Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino.
Levi P. 1992. Se questo è un uomo (1958), Einaudi, Torino.
Liverani L. 2021. Caso Regeni. Le Ong a Di Maio: l’Italia può bloccare le armi all’Egitto da tutta l’Europa, in “Avvenire”, 25/01/2021.
Neocleous M. & Kastrinou M. 2016. The EU hotspot. Police war against the migrant, in «Radical Philosophy 200», 2016, pp. 3-9.
Rawls J. 2001. Il diritto dei popoli (1999), Comunità, Milano.
Rodotà S. 2012. Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza.
Schiavello A. 2016. Ripensare l’età dei diritti, Mucchi, Modena.
Sen A. 2004. Elements of a Theory of Human Rights, in “Philosophy & Public Affairs”, 32, n. 4, pp. 315-356.
Twain M. 2007. Le avventure di Huckleberry Finn (1884), Rizzoli, milano.
Zagrebelsky G. 2017. Diritti per forza, Einaudi, Torino, p. 86.
[1] Per una ricostruzione più articolata, si rinvia a Di Meo 2020.
[2] «La mano di una giustizia immediata è incatenata dalle leggi» (trad. mia).
[3] Cfr. Rawls 2001.
[4] Belardelli 2020.
[5] Cornet 2020 e Liverani 2021.
[6] Per una analisi più articolata delle questioni brevemente presentate in questo paragrafo mi permetto di rinviare a Schiavello 2016.
[7] Bobbio 1992, p. 49.
[8] Kant 1965, p. 218.
[9] Berlin 1990, p. 253.
[10] Arendt 2009, p. 409, corsivo aggiunto
[11] Levi 1992, p. 95.
[12] Twain 2007, p. 277.
[13] Ferrajoli 1997, p. 33.
[14] Ferrajoli 1997, p. 39.
[15] Ferrajoli 1997, p. 40.
[16] Bobbio 1992, p. 258-259.
[17] Sen 2004, p. 315.
[18] Rodotà 2012, p. 5.
[19] Bobbio 1992, p. 269.
[20] Zagrebelsky 2017, p. 86.
[21] Neocleous & Kastrinou 2016,.
[22] Ringrazio Alessandra Sciurba per avermi indotto a riflettere su questo ulteriore passaggio della crisi dei diritti umani.
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