ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli istituti del processo telematico nella gerarchia delle fonti anche sovranazionali*
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. Introduzione. I processi telematici – 2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico – 3. (Segue) Le fonti sovranazionali – 4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia – 5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 – 6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia – 7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico – 8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare – 9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni – 10. (Segue) Le regole sui depositi telematici – 11. A modo di conclusioni.
1. Introduzione. I processi telematici
Quando si parla oggi di “diritto dell’informatica” o di “processo telematico”, il pensiero dell’operatore pratico va in prima battuta, direi naturalmente, al c.d. “processo civile telematico” (PCT), cioè quello che può definirsi il frutto di un grande progetto organizzativo, promosso dal ministero della Giustizia a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, per migliorare la qualità dei servizi giudiziari nell’area del processo civile.
Si tratta di una nuova architettura tecnologica informatica, volta a consentire ai c.d. “operatori interni” (giudici e cancellieri) ed “esterni” (avvocati, consulenti tecnici, altri ausiliari del giudice, curatori, commissari giudiziali, etc.) di porre in essere esclusivamente in via telematica una serie di atti e operazioni nell’ambito del processo civile, quali il deposito di atti, la trasmissione di comunicazioni e notifiche, la consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria, nonché dell’intero contenuto dei fascicoli informatici, il pagamento del contributo unificato e degli altri oneri fiscali.
Esiste, poi, anche un c.d. “processo penale telematico” (PPT), ma il suo sviluppo negli uffici giudiziari italiani, ha dovuto scontare un lunghissimo ritardo rispetto al settore civile; solo di recente e anche in dipendenza della nota normativa emergenziale dettata dalla pandemia che ancora ci affligge, sono stati avviati concretamente i progetti per la sua implementazione.
Negli ultimi anni, inoltre, sulla scia del “successo” del PCT, anche le altre giurisdizioni speciali hanno avviato, in alcuni casi con una rapidità significativa rispetto ai tempi impiegati per il processo civile, percorsi tesi all’informatizzazione – anche obbligatoria – dei rispettivi procedimenti.
Sulla scia di una tradizione storica che ha sempre riservato a ciascun plesso giurisdizionale un suo rito speciale, abbiamo così all’attualità il “processo amministrativo telematico” (PAT)[1], che si celebra ormai obbligatoriamente innanzi ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato[2], il “processo tributario telematico” (PTT)[3], in uso anch’esso ormai obbligatoriamente presso le commissioni tributarie provinciali e regionali[4], nonché il “processo contabile telematico”, che muove i suoi passi innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti[5], l’unico peraltro, fra i detti riti speciali, a prevedere una clausola generale di rinvio al processo civile telematico[6].
Nel prosieguo di questo scritto ci dedicheremo all’esame delle fonti del diritto processuale telematico, entro i confini del PCT, poiché esulano dal nostro tema i procedimenti giurisdizionali che non sono riservati alla trattazione del giudice ordinario.
2. Le fonti di produzione del diritto processuale telematico
Secondo la tradizione manualistica, si denominano “fonti del diritto” sia i procedimenti attraverso cui le norme giuridiche vengono ad esistenza, e si parla in questo caso di “fonti di produzione”, sia i documenti nei quali sono contenute le medesime norme, e allora si discorre di “fonti di cognizione”.
È chiaro, dunque, che se si volesse seguire la bipartizione classica appena enunciata nel descrivere le fonti del nostro “diritto processuale telematico”, partendo dalle fonti di produzione, sarebbe necessario fare riferimento anzitutto alla nostra legge fondamentale, che all’art. 111, comma primo, nel testo novellato dall’art. 1 della legge cost. 23 novembre 1999 n. 2, recita testualmente che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Orbene, la prima questione che si pone all’interprete è se la “riserva di legge processuale” posta dalla Costituzione sia “assoluta”, imponendo cioè una rigida predeterminazione legislativa delle modalità di svolgimento del giudizio, il che comporterebbe l’esclusione dalla materia che ne forma oggetto di ogni normazione regolamentare, ad eccezione soltanto dei regolamenti di stretta “esecuzione” della legge; ovvero se si tratti di una riserva “relativa”, dove gli interventi provenienti da fonte non legislativa sono consentiti, purché la legge abbia disciplinato la materia in modo sufficiente e comunque idoneo a circoscrivere la discrezionalità di chi è autorizzato ad introdurre una formazione secondaria.
Se si aderisce all’orientamento dottrinario largamente maggioritario[7], che attribuisce alla riserva di legge processuale una natura “relativa”, può addivenirsi allora alla conclusione che l’art. 111, comma primo, Cost., pone unicamente il vincolo che il processo (civile, penale, tributario, amministrativo o contabile), debba essere disciplinato da una legge o da un atto avente forza di legge (come il decreto legge ovvero il decreto legislativo), restando tuttavia consentita la possibilità di dettare ulteriori regole di attuazione del rito, anche attraverso fonti regolamentari di natura secondaria[8].
Ora, va detto subito che, a livello di normazione primaria, in Italia esiste una disciplina generale applicabile a tutte le pubbliche amministrazioni – e quindi in linea teorica anche all’amministrazione della giustizia – che si occupa compiutamente di dettare le regole sui documenti digitali e sulla loro trasmissione in via telematica, id est quello che può definirsi il “nucleo essenziale” di qualunque processo telematico: si tratta del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’Amministrazione Digitale (d’ora innanzi il CAD), che prevede appunto norme di principio, tra le altre, sull’identità e domicilio digitale (art. 3-bis), sui pagamenti telematici (art. 4), sui documenti digitali e sulle firme elettroniche (art. 20 e segg.), sulla conservazione dei fascicoli informatici (art. 40 e segg.), sulla posta elettronica certificata (art. 48), sull’accesso ai dati in possesso dell’amministrazione (art. 50 e segg.).
Il CAD, peraltro, nel suo corpo rinvia senz’altro ad altre disposizioni di natura regolamentare: si pensi all’art. 48 CAD che ancora oggi – sia pure, come si dirà tra breve, ad tempus –, in tema di posta elettronica certificata (PEC) richiama il d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, che è appunto un regolamento governativo delegato, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
E si pensi poi all’art. 71 CAD che individua le c.d. “regole tecniche” – cioè una disciplina operativa di dettaglio avente natura squisitamente informatica – necessarie per l’attuazione delle disposizioni di principio contenute nel medesimo codice.
Dette regole tecniche, di rango sicuramente subvalente rispetto alla legge, in origine dovevano essere adottate con uno o più decreti del Presidente del consiglio dei ministri o del ministro delegato per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, di concerto con i ministri competenti, sentita la conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, ed il Garante per la protezione dei dati personali nelle materie di competenza, previa acquisizione obbligatoria del parere tecnico di DigitPA.
Dopo l’ultima novella dell’art. 71 CAD, introdotta dal d.lgs. 13 dicembre 2017, n. 217-Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179, concernente modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, oggi è previsto che le regole tecniche per l’attuazione del CAD siano dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (come detto, con decreto del Presidente del consiglio o di un ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in G.U. (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì nell’apposita area del sito internet istituzionale dell’AgID.
Attualmente, dopo la pubblicazione sul sito dell’AgID, avvenuta in data 12 settembre 2020, delle “Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici”, ai sensi dell’art 1.4 delle medesime linee guida, esse troveranno applicazione a decorrere dal duecento settantesimo giorno successivo alla loro entrata in vigore; dunque dal 9 giugno 2021 devono ritenersi abrogati il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche in materia di sistema di conservazione”, il d.p.c.m. 13 novembre 2014, contenente “Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici” e il d.p.c.m. 3 dicembre 2013, contenente “Regole tecniche per il protocollo informatico[9].
Ora, sebbene appia giustificata una certa cautela nell’incasellare le “Linee guida” nell’ambito di una tra le fonti del diritto, va registrato che già la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di definire le “Linee guida” emanate dall’AgID come «un atto di regolazione di natura tecnica (con) una valenza erga omnes e un carattere di vincolatività», con la conseguenza che le medesime devono ritenersi pienamente giustiziabili dinanzi al giudice amministrativo[10].
3. (Segue) Le fonti sovranazionali
La disciplina di rango primario e subprimario, dettata in Italia dal CAD e dalle c.d. “Linee guida”, risente poi necessariamente delle disposizioni contenute nelle fonti di livello eurounitario, dettate con il preciso obbiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno.
Al riguardo, assumono di certo sicura rilevanza le direttive tese ad incentivare nei singoli stati, l’adozione di norme processuali telematiche comuni in determinati settori del contenzioso civile.
È il caso della direttiva UE n. 1023/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, nonché le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, adottata all’esito dei negoziati e dei triloghi sulla originaria Proposta COM (2016) 723 final del 22 novembre 2016 (la c.d. “direttiva insolvency”), pubblicata sulla G.U. dell’UE il 26 giugno 2019, che all’art. 28 dispone che gli Stati membri assicurino a tutte le parti coinvolte nelle procedure concorsuali, la facoltà di «eseguire attraverso mezzi di comunicazione elettronica» il deposito delle domande di insinuazione al passivo, dei piani di ristrutturazione o di quelli di rimborso e per eseguire le notifiche di rito ai creditori [art. 28, lett. a), b) e c)], nonché le contestazioni e le impugnazioni da parte dei creditori [(art. 28, lett. d)][11].
Ma il pensiero corre anche alle norme direttamente applicabili negli stati membri, come quelle contenute in un regolamento UE che, ai sensi dell’art. 288 del TFUE, «è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».
Così il regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, n. 910 (reg. e-IDAS)[12], in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno, pubblicato nella G.U. dell’UE del 28 agosto 2014 ed entrato in vigore il 1 luglio 2016, stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
Proprio per assicurare la necessaria uniformità tra la disciplina del CAD e quella contenuta nel reg. e-IDAS, è stato adottato il richiamato d.lgs. n. 217 del 2017, che ha novellato diverse disposizioni del Codice e, in particolare, le norme contenute nella sezione I del capo II, dedicata appunto al “documento informatico”.
E sempre tra le norme contenute nel reg. e-IDAS, va ricordata quella (art. 44) che disciplina i “servizi elettronici di recapito certificato qualificati”, destinati a sostituire integralmente la posta elettronica certificata ai sensi del d.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68, cui peraltro ancora oggi rinvia l’art. 48 CAD, in attesa dell’adozione di un decreto del Presidente del consiglio dei ministri, che sancirà l’abrogazione di quest’ultima disposizione[13].
4. L’evoluzione normativa del processo civile telematico in Italia
Come si è accennato in precedenza, la storia del processo telematico non può dirsi certo il frutto di un percorso lineare, avviato dal legislatore con il preciso obbiettivo di informatizzare i processi civili italiani.
Il primo passo di quella che oggi può definirsi, senza tema di smentita, la più importante riforma strutturale intervenuta sul processo civile negli ultimi trent’anni, si fa tradizionalmente risalire alla ormai lontanissima legge 2 dicembre 1991, n. 399-Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l'amministrazione penitenziaria, che modificando l’art. 28 disp. att. c.p.c., affidò al ministro della Giustizia il compito di disciplinare i registri di cancelleria con la previsione, per la prima volta, della possibilità che il registro civile fosse “tenuto in forma automatizzata” (art. 4, della legge n. 399 del 1991).
Tuttavia, solo dopo quasi dieci anni si giunse all’adozione del d.m. 27 marzo 2000, n. 264-Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari, adottato in esecuzione della cennata disposizione, il quale all’art. 3 stabilì – innovando radicalmente la disciplina del processo civile –, che tutti i registri di cancelleria degli uffici giudiziari dovessero essere tenuti in modo informatizzato, secondo le regole procedurali fissate dal medesimo ministero della Giustizia, soggiungendo che la tenuta dei registri su supporto cartaceo restava consentita, previa autorizzazione ministeriale, soltanto in caso di richiesta motivata del capo dell’ufficio interessato e sentito il Responsabile dei sistemi informativi automatizzati (SIA).
Il d.m. 27 aprile 2009-Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell’amministrazione della Giustizia, sostitutivo del precedente d.m. 24 maggio 2001, contiene ancora oggi la disciplina vigente in materia di registri informatici.
Il primo testo normativo ad introdurre una disciplina compiuta e dettagliata sulla formazione e trasmissione dei documenti informatici nel processo civile (ma non in quello penale), fu il d.p.r. 13 febbraio 2001, n. 123-Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.
Si trattò di un regolamento governativo c.d. indipendente, adottato cioè ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera c), della legge n. 400 del 1988, in una materia – quella del rito telematico – in cui mancava appunto una disciplina dettata da una legge o da un atto avente forza di legge; con il detto regolamento venne disciplinato l’uso degli strumenti informatici non solo nel processo civile, ma anche nei processi amministrativi e in quelli innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti (art. 18 del d.p.r. n. 123 del 2001).
L’art. 3, comma 3, del d.p.r. n. 123 del 2001, poi, stabilì che con decreto del ministro della Giustizia, sentita l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, fossero stabilite le “regole tecnico-operative” per il funzionamento e la gestione del sistema informatico civile, nonché per l’accesso ai relativi registri dei difensori delle parti e degli ufficiali giudiziari; venne così adottato prima il d.m. 14 ottobre 2004-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, successivamente sostituito dal d.m. 17 luglio 2008-Regole tecnico-operative per l'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile.
In attesa del concreto avvio del PCT sulla base della disciplina dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, il legislatore si dedicò ad una serie di interventi sporadici sul codice di rito e sulle leggi speciali, sostanzialmente tesi a favorire esclusivamente lo sviluppo delle comunicazioni telematiche di cancelleria: così, prima l’art. 17 d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, limitatamente alle cause soggette al c.d. rito societario, e poi l’art. 2, comma 1, lett. b) n. 2), della legge 28 dicembre 2005, n. 263-Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, con portata generalizzata a tutti i processi, novellando direttamente l’art. 136, comma terzo, c.p.c. e l’art. 170 comma quarto, c.p.c., introdussero la possibilità di eseguire le comunicazioni a mezzo telefax o a mezzo di posta elettronica “nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi”.
Analoga previsione venne inserita nella legge fallimentare riformata, attraverso il d.lgs. 9 gennaio 2006, n 5-Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80.
Ancora, l’art. 5, comma 1, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40-Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80, novellando integralmente l’art. 366 c.p.c. in tema di processo in Cassazione, introdusse un nuovo quarto comma della detta disposizione, a tenore del quale “Le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni tra i difensori possono essere fatte al numero di fax o all’indirizzo di posta elettronica indicato in ricorso dal difensore che così dichiara di volerle ricevere.”
In questo quadro normativo, assai frammentato e ben poco coerente, venne a collocarsi, con una portata altamente innovativa, l’art. 51 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112-Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in forza del quale venne esteso nei singoli uffici giudiziari – previa adozione di un decreto del ministro della Giustizia, sentiti l’Avvocatura Generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e i consigli dell’ordine degli avvocati interessati – l’uso della posta elettronica certificata per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria.
Con la legge 18 giugno 2009, n. 69-Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, invece, il legislatore torna a modificare il codice di rito, stabilendo all’art. 83, comma terzo, che la procura alle liti può essere rilasciata anche telematicamente con firma digitale, prevedendo altresì la facoltà dell’ufficiale giudiziario di notificare anche atti c.d. nativi digitali (art. 137 c.p.c.).
5. (Segue) Il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44
Nel corso dell’anno 2009 il Governo decise di cambiare radicalmente l’approccio al tema del processo telematico, adottando una nuova disciplina – ed estendendone per la prima volta la portata anche a quello penale –, in attuazione dei principi adottati dal CAD e in sostituzione della pregressa normativa dettata dal d.p.r. n. 123 del 2001, peraltro mai concretamente applicata nel processo civile, se non in via sperimentale (e limitatamente al solo procedimento monitorio) in alcuni uffici giudiziari.
Così l’art. 4, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193-Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario, convertito, con modificazioni, nella legge 22 febbraio 2010, n. 24, impose per legge una sostanziale “delegificazione” del diritto processuale telematico, affidando ad un decreto del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, il compito di individuare le «regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione», con l’unico criterio direttivo che siffatte regole fossero adottate «in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni». Restava fermo, poi, che le “regole tecniche” vigenti all’entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2009, continuassero ad applicarsi soltanto fino alla data di entrata in vigore del detto decreto del ministro della Giustizia.
Ancora, il comma 2 dell’art. 4 del d.l. 193 del 2009, innovando decisamente la pregressa disciplina, che era incentrata sulla c.d. “casella di posta elettronica certificata del processo telematico” (CPECPT), sancì che nel processo civile e penale tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica, si dovessero effettuare mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del CAD, nonché del d.p.r. n. 68 del 2005 e delle regole tecniche stabilite con il previsto decreto del ministro della Giustizia.
Sulla scorta della delega del legislatore, è stato così adottato il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44-Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24[14].
Si tratta, per espressa previsione del d.l. n. 193 del 2009, di un regolamento ministeriale ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, che nella sostanza, sulla scia del precedente costituito dal d.p.r. n. 123 del 2001[15], detta la disciplina concreta del processo telematico, sia civile che penale, attraverso la predisposizione di una serie di norme di dettaglio sulla tenuta dei registri informatici di cancelleria, sui depositi telematici degli atti, nonché sulle comunicazioni e notificazioni, comprese quelle tra avvocati.
L’art. 34 del d.m. n. 44 del 2011, poi, affida il compito di individuare le “specifiche tecniche” – cioè le norme di dettaglio di carattere squisitamente tecnico – ad un provvedimento adottato dal Responsabile della Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) del ministero della Giustizia.
Il primo decreto del Direttore generale DGSIA venne adottato il 18 luglio 2011 (pubblicato nella G.U. del 29 luglio 2011); seguito da un nuovo provvedimento datato 16 aprile 2014 (pubblicato nella G.U. del 30 aprile 2014), modificato successivamente il 28 dicembre 2015 (pubblicato nella G.U. del 7 gennaio 2016).
Questa architettura del sistema, congegnata su una norma primaria che pone i principi (l’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009), la quale delega ad un regolamento del ministro della Giustizia la disciplina in concreto del processo telematico, che, a sua volta, affida ad un provvedimento di un direttore generale del medesimo ministero l’adozione delle “specifiche tecniche”, operanti per le questioni di natura puramente informatica, è stata tuttavia messa a dura prova – almeno per il PCT – dal sopravvenire di talune norme, tutte di rango legislativo, intervenute dopo il d.m. n. 44 del 2011 a disciplinare taluni aspetti del processo telematico, già compiutamente trattati nel cennato regolamento ministeriale.
Più in dettaglio, dopo l’entrata in vigore del d.m. n. 44 del 2011, non sono mancati ulteriori micro interventi normativi, del tutto privi di respiro generale, tesi a modificare – reiteratamente – alcune norme del codice di rito civile (specificatamente gli artt. 125, 136, 366 c.p.c.) per favorire l’avvio delle comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC.; si pensi al d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11, il d.l. 13 agosto 2011 n. 138-Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 e, infine, alla legge 12 novembre 2011, n. 183-Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Nel corso dell’anno 2012, la stagione riformista del processo civile telematico ha subito una rapidissima accelerazione dettata da una decretazione d’urgenza di fonte primaria, che con cadenza tendenzialmente annuale almeno fino al 2016, ha finito per riplasmare, rispetto al regolamento ministeriale del 2011, l’attuale assetto del PCT.
Anzitutto, con l’art. 16 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, novellato a brevissima distanza dalla sua conversione in legge, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, vennero abrogati i commi da 1 a 4 dell’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008 e si pongono le basi per l’obbligatorietà dell’uso PEC, per tutte le comunicazioni e notificazioni di cancelleria ai difensori delle parti e ai consulenti tecnici, sia nel processo civile che in quello penale, almeno limitatamente ai tribunali e alle corti d’appello.
L’art. 17 del d.l. 179 del 2012, invece, introdusse una serie di rilevanti novità in tema di notificazioni del ricorso per la dichiarazione di fallimento, generalizzando i depositi telematici nella verifica dello stato passivo e l’uso della PEC nelle comunicazioni del curatore.
Ma la grande novità del nuovo corso sul processo telematico, avviato prima con la cennata legge n. 228 del 2012 e successivamente con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90-Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, cui ha fatto seguito il d.l. 27 giugno 2015, n. 83-Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132 e infine con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59-Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione, convertito con modificazioni dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, fu costituita dalla previsione – per la prima volta nell’ordinamento – dell’obbligatorietà, sia pure con una certa gradualità temporale e limitatamente agli atti c.d. endoprocessuali, del PCT in tutti i tribunali e nelle corti d’appello.
La tecnica utilizzata dal legislatore – assai discutibile – è stata quella di intervenire all’interno della sezione VI del d.l. n. 179 del 2012, intitolata “Giustizia digitale”, con l’introduzione di ben altri dieci articoli (gli artt. 16-bis, 16-ter, 16-quater, 16-quinquies, 16-sexies, 16-septies, 16-octies, 16-novies, 16-decies e 16-undecies); attraverso il susseguirsi della cennata decretazione d’urgenza si è sostanzialmente finito per introdurre, attraverso atti aventi forza di legge, sia pure in maniera alquanto caotica, una complessa disciplina sul PCT, che spazia dalle comunicazioni e notificazioni di cancelleria, all’obbligatorietà dei depositi di tutti gli atti endoprocessuali (compresi quelli del giudice per il procedimento monitorio), fino alle notifiche telematiche a cura degli avvocati, previste dal novellato art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53-Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali.
6. (Segue) Il diritto processuale telematico speciale della pandemia
Infine, non può essere omesso un rapido cenno all’ultima stagione, caratterizzata dalla legislazione emergenziale in tema di PCT, che si è accompagnata alla pandemia che ancora affligge il nostro paese a partire dalla primavera del 2020[16].
Anzitutto, per evitare assembramenti degli avvocati nelle cancellerie degli uffici giudiziari, prima l’art. 2, comma 6, del soppresso d.l. 8 marzo 2020, n. 11 e poi anche l’art. 83, comma 11, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18-Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, hanno stabilito che dal 9 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, negli uffici che avevano la disponibilità del «servizio di deposito telematico», anche gli atti e documenti di cui all'art. 16-bis, comma 1-bis, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 2012, vale a dire gli atti introduttivi del giudizio (atto di citazione, ricorso o comparsa di costituzione), fossero depositati esclusivamente con le modalità della trasmissione telematica. Questa disposizione è stata poi riconfermata dall’art. 221, comma 3, del d.l. 19 maggio 2020, n. 34-Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 e, in forza della proroga disposta prima con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137-Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e poi con il d.l. 1° aprile 2021, n. 44-Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni antiSARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici, ancora in corso di conversione, il deposito telematico degli atti introduttivi è oggi obbligatorio nei tribunali e nelle corti d’appello fino al 31 luglio 2021.
Inoltre, con la legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020, venne introdotto il comma 11.1. dell’art. 83, che ha imposto dal 9 marzo 2020 e fino al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, pendenti innanzi al tribunale e alla corte di appello, il deposito anche degli atti del magistrato esclusivamente con modalità telematiche.
Ancora, va ricordato che sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, fu inserito anche il comma 11-bis dell’art. 83, in forza del quale innanzi alla Corte di cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati «può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. L’attivazione del servizio è preceduta da un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici».
Successivamente, il comma 5 dell’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, ha reintrodotto la medesima disposizione, con efficacia temporale estesa attualmente fino al 31 luglio 2021. In questo modo, con una procedura chiaramente in deroga a quella generale ancora oggi stabilita dell’art. 16-bis, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012 (imperniata sul decreto del ministro della Giustizia), con il provvedimento adottato il 27 gennaio 2021 del Direttore generale della DGSIA, a decorrere dal 31 marzo 2021 è oggi consentito – in via esclusivamente facoltativa – il deposito telematico di tutti gli atti di parte innanzi alla Corte di cassazione.
Meritano solo un cenno, ancora, le disposizioni contenute nell’art. 221, commi 4, 6, 7, del d.l. n. 34 del 2021 e nell’art. 23, commi 8-bis e 9, del d.l. n. 137 del 2020, che – fino al 31 luglio 2021 – autorizzano la celebrazione delle udienze e delle camere di consiglio a distanza, mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale della DGSIA[17], nonché la sostituzione delle udienze civili, comprese quelle innanzi alla Corte di cassazione, attraverso lo scambio di note scritte depositate telematicamente dalle parti (la c.d. “udienza cartolare”).
Infine, vanno menzionate le novità in tema di procura speciale alle liti introdotte, sempre in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020, attraverso il comma 20-ter dell’art. 83.
Secondo la norma in commento, a partire dal 29 aprile 2020 (data di entrata in vigore della legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del 2020) e fino alla cessazione dello stato di emergenza – attualmente fissata al 30 aprile 2021 –, la sottoscrizione della procura speciale potrà essere apposta dalla parte, «anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo di strumenti di comunicazione elettronica».
7. Le attuali fonti di cognizione del processo civile telematico
Se si volesse provare a sistematizzare la complessa e stratificata disciplina del PCT, in attesa di un riordino per via normativa della materia, che appare francamente imprescindibile all’interprete, appare possibile individuare almeno tre gruppi, tendenzialmente omogenei, di disposizioni che rilevano nella ricostruzione del vigente quadro normativo del processo telematico in ambito civile: un primo fascio di tali disposizioni è costituito dagli articoli del codice di rito e della legge fallimentare, via via novellati nel corso degli anni senza un progetto complessivo, ma in maniera addirittura casuale, con l’unico tratto comune di essere stati inseriti, mediante la tecnica della novellazione, nel corpus delle leggi processuali già vigenti prima dell’avvento del PCT; un secondo gruppo di norme può essere riunito sotto il comune oggetto costituito dalla disciplina sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria e sulle notifiche curate dagli ufficiali giudiziari e direttamente dagli avvocati; un terzo gruppo di regole, infine, concerne la forma degli atti processuali telematici e le modalità di deposito nei registri informatici di cancelleria.
8. (Segue) Le norme nel codice di procedura civile e nella legge fallimentare
Assume sicuro rilievo nel Codice di rito civile la norma sulla procura telematica contenuta nell’art. 83, mentre in relazione alle comunicazioni telematiche vanno ricordati, in rapida successione, l’art. 133, secondo comma, sull’inidoneità della comunicazione della sentenza a fare decorrere il termine per l’impugnazione, l’art. 136, comma secondo, che prevede l’uso generalizzato della PEC per le comunicazioni di cancelleria, nonché l’art. 45 disp. att. c.p.c. e gli artt. 137 e 149-bis che disciplinano, rispettivamente, le notifiche cartacee di documenti informatici e le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario; infine, deve essere ricordato l’art. 366, secondo comma, sulle comunicazioni agli avvocati in Cassazione.
Va senz’altro segnalata, per il processo di cognizione, la modifica apportata all’art. 207, comma secondo, c.p.c. che ha eliminato l’obbligo di sottoscrizione del verbale da parte del testimone, al fine dichiarato di favorire la stesura in formato digitale dei verbali di causa.
Numerosi poi gli interventi sul processo esecutivo: si va dalla pubblicità degli avvisi mediante il portale delle vendite pubbliche (art. 490 e art. 161-quater disp. att. c.p.c.), alla ricerca dei beni da pignorare con modalità telematiche (art. 492-bis e artt. 155-bis, 155-ter e 155-quater, 155-quinquies e 155-sexies disp. att. c.p.c.), all’iscrizione a ruolo del processo esecutivo con modalità telematica (art. 159-ter disp. att. c.p.c) alle vendite coattive con modalità telematiche (art. 161-ter).
Anche nella legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) si registra l’intervento su diverse disposizione del legislatore, ispirato all’applicazione dei principi del processo telematico mediante la tecnica della novellazione delle norme vigenti: si pensi alle modalità di notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento (art. 15 l.fall.), alle comunicazioni a cura del curatore, del commissario giudiziale nel concordato preventivo, del commissario liquidatore nelle liquidazioni coatte amministrative, del commissario giudiziale e del commissario straordinario nell’amministrazione straordinaria (artt. 31-bis, 171 e 207 l.fall., artt. 22 e 59 d.lgs. n. 270 del 1999), al deposito telematico dei rapporti riepilogativi del curatore (art. 33 l.fall.), all’informatizzazione integrale del procedimento di verifica dello stato passivo (art. 93 e segg. l.fall.), alle modalità di deposito delle osservazioni dei creditori in sede di rendiconto presentato dal curatore (art. 116 l.fall.), all’adunanza dei creditori nel concordato preventivo celebrata con modalità telematiche (artt. 163, comma secondo, n. 2-bis, e 175 l.fall.).
9. (Segue) Le disposizioni su comunicazioni e notificazioni
La disciplina fondamentale sulle comunicazioni e notificazioni di cancelleria è oggi contenuta nei commi, da 4 a 11, dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, come novellato dalla legge n. 228 del 2012 prima e successivamente dal d.l. n. 90 del 2014.
Ma assumono rilievo anche le norme – introdotte entrambe dal d.l. n. 90 del 2014 – contenute nell’art. 16-ter del d.l. n. 179 del 2012, come da ultimo novellato dall’art. 28, comma 1, lett. c), del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ove si rinviene la specifica indicazione dei “pubblici elenchi” nei quali è consentito ricercare l’indirizzo per notificare via PEC, e nell’art. 16-sexies del medesimo d.l. n. 179, che disciplina in via generale per tutti i processi civili – con l’eccezione di quelli pendenti in Cassazione – il c.d. “domicilio digitale”, così restando superato (almeno in prima battuta) il disposto del vecchio art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37- Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore, sull’elezione del domicilio presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria adita del difensore privo di un suo domicilio nel circondario dell’ufficio giudiziario.
Naturalmente, nell’ambito della disciplina delle comunicazioni e notificazioni, un ruolo fondamentale riveste il d.p.r. n. 68 del 2005, che contiene le norme sull’uso della PEC, cui si accompagna il d.p.c.m. 2 novembre 2005, ove sono illustrate le relative “regole tecniche”; proprio al d.p.r. n. 68 del 2005 fa espresso richiamo l’art. 4, comma 2, del d.l. n. 193 del 2009 per il processo telematico e, in generale, pure l’art. 48 del CAD, norma quest’ultima – come visto in precedenza – in attesa di essere abrogata.
Vi è poi la disciplina secondaria, laddove non derogata dalle norme di legge sopravvenute, contenuta negli artt. l6 e 17 del d.m. n. 44 del 2011, come novellato dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, nonché nelle vigenti “specifiche tecniche” del Direttore Generale DGSIA (provvedimento del 16 aprile 2014, come novellato dal provvedimento del 28 dicembre 2015).
Va inoltre ricordato che per gli uffici giudiziari diversi dai tribunali e dalle corti d’appello, ancora oggi è necessaria l’adozione di un decreto ministeriale, ai sensi del comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, per procedere alle comunicazioni e notificazioni in via telematica[18].
Quanto alle notifiche tra avvocati, il legislatore ha preferito novellare direttamente la legge n. 54 del 1993, adottando la tecnica singolare di introdurre, con il d.l. n. 90 del 2014, l’art. 16-quater nel d.l. 179 del 2012, che a sua volta aveva già inserito l’art. 3-bis nella ridetta legge n. 54 del 1993.
Sempre con norma primaria, il legislatore urgente del d.l. 90 del 2014 ha poi stabilito una regola generale applicabile alle notificazioni telematiche, curate dall’ufficiale giudiziario e, soprattutto, dall’avvocato – visto che ancora non si registrano notifiche da parte del primo –, estendendo le regole temporali sulla notifica cartacea previste dall’art. 147 c.p.c., attraverso l’inserimento dell’art. 16-septies nel d.l. n. 179 del 2012, anziché intervenire direttamente sull’art. 149-bis c.p.c., che attualmente disciplina appunto le notifiche telematiche a cura dell’ufficiale giudiziario.
Fra le norme regolamentari, invece, va ricordato l’art. 18 (intitolato “Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati”) del d.m. n. 44 del 2011, come novellato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209 e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48, che si occupa delle notifiche curate direttamente dagli avvocati; trovano applicazione altresì le specifiche tecniche adottate dal Direttore Generale DGSIA con provvedimento del 16 aprile 2014, come successivamente modificato con provvedimento del 28 dicembre 2015.
10. (Segue) Le regole sui depositi telematici
La norma fondamentale sui depositi telematici di parte nel processo civile, è oggi racchiusa nell’art. 16-bis del d.l. 179 del 2012, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 e, successivamente, modificato dal d.l. 90 del 2014, dal d.l. n. 83 del 2015 e in ultimo dal d.l. n. 59 del 2016.
Quest’articolo, composto da numerosi commi, da un lato sancisce l’obbligatorietà del deposito telematico per gli atti endoprocedimentali delle parti, nei tribunali[19] e nelle corti d’appello[20], nonché l’esclusività del deposito telematico per tutti gli atti (compreso quello introduttivo), di parte e del giudice, in seno al procedimento monitorio[21] e, dall’altro dispone, con l’art. 16-bis, comma 6, che nei restanti uffici giudiziari italiani, l’obbligatorietà del deposito degli atti processuali di parte nei procedimenti civili (e anche del giudice, ma solo per i provvedimenti monitori), venga disposta con decreto del ministro della Giustizia sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati.
Come ricordato in precedenza, peraltro, la legislazione speciale dettata in forza della pandemia da covid-19, ha imposto dal 9 marzo 2020 e – attualmente – fino al 31 luglio 2021, l’obbligo del deposito anche degli atti introduttivi di parte in modalità telematica nei tribunali e nelle corti d’appello (art. 221, comma 3, d.l. n. 34 del 2020), nonché la facoltatività del deposito (a decorrere dal 31 marzo 2021) dei medesimi innanzi alla Corte di cassazione (art. 221, comma 5, d.l. n. 34 del 2020).
Di sicuro rilievo, poi, per la sua portata sistematica che avrebbe meritato una sua collocazione nel codice di rito, l’art. 16-bis, comma 9-octies, introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, a tenore del quale “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”.
Assumono una valenza processuale che va oltre i confini del rito telematico, inoltre, il comma 9-bis dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dal d.l. n. 90 del 2014 e poi novellato dal d.l. n. 83 del 2015, che consente al difensore, al consulente tecnico e al curatore fallimentare di attestare la conformità all’originale informatico della copia analogica di atti digitali estratta dai registri informatici, come pure gli artt. 16-decies e 16-undecies sempre del d.l. n. 179 del 2012, entrambi introdotti dal d.l. n. 83 del 2015, che disciplinano esattamente i poteri di certificazione di conformità delle copie degli atti e dei provvedimenti detenuti in formato analogico, depositati in via informatica dai medesimi professionisti.
Tra le fonti secondarie, infine, vanno ricordate le disposizioni contenute nel Capo III del d.m. 44 del 2011 (intitolato “Trasmissione di atti e documenti informatici”) e in particolare gli artt. da 11 a 15, che descrivono una analitica disciplina del contenuto degli atti processuali telematici, come integrata dalle vigenti specifiche tecniche adottate con provvedimento del direttore generale della DGSIA del 16 aprile 2014.
11. A modo di conclusioni
Il frastagliatissimo quadro normativo sopra descritto impone all’interprete uno sforzo non trascurabile, per assicurare il necessario raccordo tra normativa primaria, secondaria e sovranazionale.
Già a livello di confronto tra norme aventi pari valore di legge, occorre chiedersi se il CAD, quale normazione di principio di rango primario – al quale si richiama espressamente l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, nell’affidare ad un regolamento ministeriale le regole sul PCT –, possa trovare diretta applicazione nella disciplina del processo telematico civile.
E invero, l’orientamento favorevole, pure adombrato in passato dalla giurisprudenza di legittimità[22], deve oggi confrontarsi con le modifiche del medesimo CAD, introdotte dal d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179-Modifiche ed integrazioni al Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell'articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Il detto decreto legislativo, infatti, novellando l’art. 2, comma 6, CAD, ha seccamente stabilito che “Le disposizioni del presente Codice si applicano al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”; inoltre, trattando dei requisiti di validità del documento digitale, l’art. 20, comma 1-quater, CAD, come novellato dal ridetto d.lgs. n. 179 del 2016, dispone oggi che “Restano ferme le disposizioni concernenti il deposito degli atti e dei documenti in via telematica secondo la normativa, anche regolamentare, in materia di processo telematico”.
Dunque, alla luce delle stesse norme riformate del CAD, è consentito forse affermare oggi che è sempre la specialità del processo telematico, civile, penale, amministrativo contabile e tributario, a prevalere, potendo trovare applicazione le regole generali contenute nel ridetto codice, soltanto in mancanza di una espressa disciplina, anche di livello secondario, contenuta nella normativa di settore, ormai decisamente sovrabbondante e spesso di carattere “alluvionale”.
A tutto ciò si accompagna, come visto, il ruolo sempre più incisivo della legislazione sovranazionale in sede europea, che attraverso le sue direttive e i suoi regolamenti enuncia disposizioni all’evidenza idonee a condizionare direttamente – a prescindere dall’intervento di correttivi sul CAD – la disciplina del PCT.
Del resto, le Sezioni Unite della S.C. hanno già avuto modo di segnalare come in tema di firma digitale dei documenti informatici, il principio dell’equivalenza della firma c.d. “CAdES” e di quella c.d. “PAdES” trovi un suo preciso fondamento normativo negli standard previsti dal cennato reg. UE n. 910/2014 e nella relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015[23].
Quanto ai rapporti tra fonti primarie e secondarie, va segnalato come talune regole sul funzionamento del PCT, già contenute nel d.m. 44 del 2011, sono state pedissequamente riprodotte nel complesso articolato che oggi si ritrova nel d.l. 179 del 2012, cioè in una fonte di rango primario, con il risultato di una loro sostanziale duplicazione[24].
Altre norme regolamentari, invece, risultano derogate da quelle di fonte legislativa sopravvenute, a plateale dimostrazione della perdurante incertezza sul rango (di legge o regolamentare) da riservare di volta in volta alla disciplina sul PCT[25].
In altri casi, addirittura, il legislatore è intervenuto per dirimere ogni dubbio sulle modalità di deposito telematico di taluni atti, nascente dalle regole contenute nelle specifiche tecniche, senza tuttavia modificare detta regolamentazione secondaria[26].
Non mancano, infine, disposizioni contenute sempre nel regolamento n. 44 del 2011, che tuttavia rinviano ancora a norme aventi forza di legge, che risultano essere state successivamente abrogate da altre disposizioni di rango primario[27].
Insomma, alla luce di quanto esposto in precedenza, non sembra possano sussistere ulteriori dubbi sulla necessità di procedere ad una “sistematizzazione” delle regole sul PCT, partendo dalle sue variegate fonti di produzione per costituire un corpus unitario, non è decisivo stabilire se con fonte di rango primario o secondario, che detti compiutamente l’intera disciplina in materia, naturalmente sempre nel rispetto dei principi generali contenuti nel CAD e nella legislazione sovranazionale.
*Relazione tenuta al corso "Nomofilachia e informatica" organizzato dalla S.S.M. il 19-20 aprile 2021
[1] L’art. 13, comma 1, delle disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168 - Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la Giustizia amministrativa, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, affidava in origine ad un decreto del presidente del consiglio dei ministri il compito di redigere le “regole tecnico-operative” del processo amministrativo telematico. Successivamente, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28-Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l'introduzione del sistema di allerta Covid-19, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, novellando il comma 1 del detto art. 13, ha affidato ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, il compito di redigere le “regole tecnico-operative” per il processo amministrativo telematico. Con d.p.c.s. 22 maggio 2020, n. 134 (in G.U. del 27 maggio 2020) sono state adottate le Regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti, peraltro rimasto in vigore per pochi mesi, essendo stato integralmente sostituito dal d.p.c.s. 28 dicembre 2020 (in G.U. del 11 gennaio 2021).
[2] In forza dell’art. 13, comma 1-ter, disp. att. c.p.a., come novellato dal d.l. n. 168 del 2016, il PAT è divenuto obbligatorio, davanti ai TAR e al Consiglio di Stato, a decorrere dal 1 gennaio 2017.
[3] L’art. 39, comma 8, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98-Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111, ha previsto l’adozione di un regolamento ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che introduca disposizioni per il più generale adeguamento del processo tributario alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. È stato così adottato dal ministro dell’Economia e delle Finanze il d.m. 23 dicembre 2013, n. 163-Regolamento recante la disciplina dell'uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell'articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Successivamente, con decreto del Direttore generale delle Finanze 4 agosto 2015 sono state approvate le “specifiche tecniche” per il PTT, concernenti principalmente le comunicazioni e notificazioni, nonché i depositi telematici degli atti di parte e degli ausiliari del giudice; ad esso ha fatto seguito il decreto del Direttore generale delle Finanze 6 novembre 2020, recante le ulteriori “specifiche tecniche” in materia di processo tributario telematico, riferite esclusivamente ai provvedimenti giurisdizionali digitali (pgd) e ai processi verbali d’udienza.
[4] L’art. 16, comma 5, del d.l. 24 ottobre 2018, n. 119-Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, ha disposto l’obbligatorietà del PTT per i giudizi «con ricorso notificato a decorrere dal 1° luglio 2019».
[5] L’art. 20-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179-Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, come introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228-Legge di stabilità 2013, ha previsto che con decreto del Presidente della Corte dei conti sono stabilite le regole tecniche ed operative per l’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle attività di controllo e nei giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei conti, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82-Codice dell’amministrazione digitale. Con d.p.c.c. 21 ottobre 2015 sono state adottate le “Prime regole tecniche ed operative per l’utilizzo della posta elettronica certificata nei giudizi dinanzi alla Corte dei Conti”.
[6] L’art. 6, comma 5, del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174-Codice di Giustizia contabile, nel rinviare ad appositi decreti adottati dal presidente della Corte dei conti la disciplina del processo telematico contabile, recita: «si applicano, ove non previsto diversamente, le disposizioni di legge e le regole tecniche relative al processo civile telematico».
[7] Vignera, Principio di legalità ed esercizio della giurisdizione, in www.ilcaso.it, 2009.
[8] È un fatto che, storicamente, le norme di attuazione dei vari codici rito sono state adottate sempre con atti aventi forza di legge: si pensi per il codice di procedura civile al r.d. 18 dicembre 1941, n. 1368-Disposizioni per l'attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie, ovvero alle disposizioni di attuazione del codice del processo amministrativo, adottate con il medesimo d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 con cui è stato approvato il codice, ovvero ancora a quelle del codice di Giustizia contabile, anch’esse approvate con il medesimo d.lgs. 26 agosto 2016, n. 164 con cui è stato adottato il codice. Il codice di procedura penale del 1988 (d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447), invece, ha previsto disposizione di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con il d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, ma accanto ad esse vi è un “regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale” (d.m. 30 settembre 1989, n. 334) che ha invece natura regolamentare.
[9] Ad esclusione degli artt. 2, comma 1 (Oggetto e ambito di applicazione), 6 (Funzionalità), 9 (Formato della segnatura di protocollo), 18, commi 1 e 5, (Modalità di registrazione dei documenti informatici), 20 (Segnatura di protocollo dei documenti trasmessi) e 21 (Informazioni da includere nella segnatura).
[10] Cons. Stato, sez. IV, 8 marzo 2021, n. 1931; già in precedenza si veda il parere 10 ottobre 2017, n. 2122, reso da Cons. Stato, Commissione Speciale, sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179.
[11] L’art. 34 della Direttiva 1023/2019 accorda agli stati membri un termine per conformarsi alle disposizioni contenute nell’art. 28, lettere a), b) e c), entro il 17 luglio 2024 e nell’art. 28, lettera d), entro il 17 luglio 2026.
[12] L’acronimo e-IDAS sta per electronic IDentification Authentication and Signature.
[13] L’art. 65, comma 7 del d.lgs. n. 217 del 2017, stabiliva seccamente l’abrogazione dell’art. 48 CAD a decorrere dal 1° gennaio 2019. Successivamente l’art. 8, comma 5, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, ha modificato il d.lgs. n. 217 del 2017, stabilendo che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti l’Agenzia per l’Italia digitale e il Garante per la protezione dei dati personali, sono adottate le misure necessarie a garantire la conformità dei servizi di posta elettronica certificata di cui agli artt. 29 e 48 del d.lgs. n. 82 del 2005, al regolamento e-IDAS; soltanto dopo l’entrata in vigore del detto d.p.c.m. – che ancora oggi non risulta emanato – l’art. 48 del CAD risulterà abrogato.
[14] Il d.m. n. 44 del 2011 è stato modificato prima dal d.m. 15 ottobre 2012, n. 209, e poi dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48.
[15] Dopo l’entrata in vigore del regolamento n. 44 del 2011, si è avanzato il dubbio che il d.p.r. n. 123 del 2001 – che aveva introdotto per la prima volta una disciplina organica del PCT – fosse ancora vigente, atteso che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 193 del 2009, in virtù del quale è stato adottato il detto regolamento, si limitava a prevedere che le “regole tecniche” del processo civile telematico all’epoca vigenti (quelle del d.m. 17 luglio 2008) si dovevano continuare ad applicare fino alla data di entrata in vigore dei decreti previsti dai commi 1 e 2 del medesimo articolo. In sostanza il d.m. n. 44 del 2011, emanato dal ministro della Giustizia ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, avrebbe determinato l’abrogazione delle regole tecnico-operative di cui al d.m. 17 luglio 2008 e non anche del regolamento governativo di cui al d.p.r. n. 123 del 2001. In direzione contraria, poi, non valeva invocare l’art. 37, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011, che dichiarava espressamente la cessazione dell’efficacia per il processo civile per le disposizioni del d.p.r. n. 128 del 2001, considerato che, ai sensi del terzo comma dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, i regolamenti ministeriali (quale è il d.m. n. 44 del 2011), non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti governativi.
[16] Per un quadro completo delle misure processuali speciali in tempo di pandemia, si vis, Fichera-Escriva, Le quattro fasi del processo civile al tempo della pandemia, su Jiudicium.it, 2021.
[17] Si vedano i vari provvedimenti adottati dal Direttore generale DGSIA, datati 10 marzo 2020 e 20 marzo 2020, 21 maggio 2020 e 2 novembre 2020.
[18] Così, ad esempio, il d.m. 19 gennaio 2016-Attivazione delle notificazioni e comunicazioni telematiche presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'articolo 16, comma 10, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, limitatamente al settore civile, ha previsto che tutte le comunicazioni e notificazioni telematiche presso la Corte Suprema di Cassazione, a decorrere dal 15 febbraio 2016, avvengano esclusivamente in via telematica.
[19] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179 del 2012.
[20] Dal 30 giugno 2015, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-ter, d.l. n. 179 del 2012.
[21] Dal 30 giugno 2014, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 4, d.l. n. 179 del 2012.
[22] Cass., sez. 3, 10 novembre 2015, n. 22871, in Guida dir., 2016, I, 56; secondo la S.C. la firma digitale della sentenza è equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005, resi applicabili al processo civile dall’art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla legge n. 24 del 2010.
[23] Cass., sez. un., 27 aprile 2018, n. 10266, in Giur. it., 2018, 1614; in senso conforme, Cass., sez. 2, 29 novembre 2018, n. 30927.
[24] È il caso della norma sul momento perfezionativo del deposito telematico degli atti. L’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012 recita: «Il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero»; ma già l’art. 13, comma 2, del d.m. n. 44 del 2011 disponeva: «I documenti informatici di cui al comma 1 si intendono ricevuti dal dominio Giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia».
[25] Si tratta dell’art. 13, comma 3, del d.m. n. 44 del 2011 che ancora oggi afferma: «Quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo». Successivamente l’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, come introdotto dalla legge n. 228 del 2012, dispone invece espressamente che «Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza».
[26] Le specifiche tecniche pongono un limite per la dimensione massima (30 mega) del messaggio di PEC (art. 13 del decreto 16 aprile 2014); per superare i dubbi di ammissibilità di ulteriori depositi telematici relativi al medesimo atto, il d.l. n. 90 del 2014, allora, ha inserito nel comma 7 dell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, la seguente precisazione: «Quando il messaggio di posta elettronica certificata eccede la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della Giustizia, il deposito degli atti o dei documenti può essere eseguito mediante gli invii di più messaggi di posta elettronica certificata. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro la fine del giorno di scadenza».
[27] Si pensi all’art. 16, comma 4, e all’art. 17, comma 1, del d.m. n. 44 del 2011, che ancora oggi rinviano all’art. 51 del d.l. n. 112 del 2008, i cui primi quattro commi risultano invece abrogati espressamente dal d.l. n. 179 del 2012.
Perché in Italia l’astreinte non si ama *
di Bruno Capponi
Sommario: 1.- Le origini d’oltralpe e la mentalità del giudice civile italiano. 2.- Lo scarso interesse e i disorientamenti del nostro legislatore. 3.- Astreinte e condanna. 4.- Astreinte e titolo esecutivo. 5.- Le esclusioni. 6.- Astreinte e omissione di pronuncia. 7.- Esiguità delle applicazioni giurisprudenziali. 8.- Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione dell’astreinte in Italia?
1.- Le origini d’oltralpe e la mentalità del giudice civile italiano
L’astreinte venne pretoriamente introdotta dalla giurisprudenza francese circa due secoli fa e soltanto in tempi relativamente recenti ha conosciuto, oltralpe, una regolamentazione dettagliata per legge[1].
Qui da noi – a parte le penalità di mora disseminate in varie leggi speciali[2] – abbiamo atteso sino al 2009 (legge n. 69) per riuscire a varare una figura generale di misura coercitiva, che sarebbe stata accolta dalla giurisprudenza con molta timidezza e, forse, qualche eccessivo sospetto.
Ove se ne vogliano indagare le ragioni, la prima è forse nella stessa inveterata mentalità del giudice civile: la “cognizione” è in apicibus separata dalla “esecuzione” (si parla al riguardo di riparto di competenza per funzioni) e il giudice della cognizione non si preoccupa di come il suo provvedimento verrà o potrà essere attuato; considera esaurito il suo compito con la pronuncia condannatoria, e poi la fase eventuale di esecuzione forzata, con tutti i problemi che si trascina dietro, competerà a un giudice diverso. L’esecuzione-attuazione dei provvedimenti cautelari, che deve avvenire «sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento» (art. 669 duodecies c.p.c.) e che secondo il legislatore del 1990 avrebbe dovuto realizzare una sorta di corsia preferenziale per salvaguardarne l’efficienza[3], ha piuttosto dimostrato l’imbarazzo, o forse il disinteresse, che il giudice della cognizione mostra nei confronti dell’esecuzione (ma i giudici dell’esecuzione sono soliti ripetere che è dalla prospettiva dell’esecuzione forzata che i problemi della cognizione possono essere meglio compresi). Una cosa possiamo dare per certa: il giudice civile italiano non avrebbe mai “inventato” l’astreinte, come invece hanno meritoriamente fatto gli antenati del suo corrispondente d’oltralpe.
2.- Lo scarso interesse e i disorientamenti del nostro legislatore.
Il nostro legislatore non ha dimostrato maggior trasporto per la misura coercitiva. Che forse poneva una questione preliminare: siamo dinanzi a un istituto della cognizione o dell’esecuzione?
La legge n. 69/2009 ha collocato l’art. 614 bis nel Libro III e non nel Libro II (ove avrebbe potuto divenire un art. 282 bis), associando l’astreinte al «provvedimento di condanna». In questo modo: a) ha escluso che l’astreinte potesse essere associata a provvedimenti già ineseguiti alla data di entrata in vigore della legge, e comunque che la misura potesse essere pronunciata dallo stesso (o da altro) giudice separatamente dal provvedimento di condanna; b) ha posto il dubbio per il lodo arbitrale rituale, tema sul quale la dottrina s’è divisa (l’onorato[4] s’è pronunciato per la soluzione positiva, anche prescindendo da una specifica previsione nell’accordo compromissorio); c) ha escluso dal campo di applicazione del nuovo istituto i titoli esecutivi non giudiziali (che, peraltro, non possono prevedere condanne al facere e tale aspetto era dirimente nella versione originaria della norma: v. infra).
Siamo così davanti a un istituto collocato nel Libro III, ma rispetto al quale il g.e. non ha nessuna competenza se non allorché, evolutasi la minaccia in sanzione, si tratti di dare esecuzione al titolo nelle comuni forme dell’espropriazione forzata; mentre, lo diremo tra breve, se quel giudice avesse avuto competenza quantomeno per la liquidazione dell’astreinte (secondo il modello francese, rodato da due secoli di storia), delicati problemi di effettività della misura sarebbero forse stati ovviati.
La rubrica originaria dell’art. 614 bis (versione 2009) recitava «Attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare» (quest’ultimo ha da intendersi sempre infungibile[5]); e sebbene la rubrica delle norme non abbia, per comune opinione, valore esegetico assoluto, si è generalmente ammesso che l’astreinte potesse essere pronunciata soltanto assortita a provvedimenti di condanna per obbligazioni di fare non fungibili[6], sebbene l’articolato, letto in autonomia dalla rubrica, consentisse applicazioni generalizzate. Di qui una corposa limitazione e, al tempo stesso, un’importante conseguenza sistematica circa l’individuazione della nozione stessa della “condanna”: prima dell’art. 614 bis le condanne al facere infungibile – secondo la prevalente opinione, contrastata da parte autorevole della dottrina ma rimasta prevalente – non avrebbero potuto essere pronunciate, per inesistenza/indisponibilità dello strumento di esecuzione forzata corrispondente; dopo l’introduzione della norma, quelle stesse condanne risultavano invece possibili, appunto perché vi poteva venire associata un’astreinte (che consentiva così una sorta di “sdoganamento” di pronunce intrinsecamente violative della regola di corrispondenza tra condanna ed eseguibilità forzata).
Non sappiamo con quanta consapevolezza del problema, nel 2015 (legge n. 132, di conversione del d.l. n. 83/2015) il legislatore ha modificato la rubrica della norma (dedicata ora, più genericamente, alle «misure di coercizione indiretta») facendo sorgere nell’interprete il problema se le condanne al facere infungibile siano tuttora, o, meglio, siano rimaste nel perimetro della norma: ragionando sulla sua evoluzione testuale si direbbe di sì, sull’implicito presupposto che la nuova stesura (della rubrica) non le abbia fatto perdere l’originaria portata; ragionando sul riflesso del principio di eseguibilità forzata la risposta dovrebbe invece essere negativa, perché nulla nell’attuale stesura della norma lascia immaginare che il facere infungibile possa essere associato all’astreinte. In conseguenza la nozione di condanna, che prima ne usciva slabbrata, potrebbe ora recuperare il limite originario; ma l’uso del condizionale è d’obbligo, perché – quale che sia la scelta dell’interprete – il dato di partenza è l’assoluta inconsapevolezza del legislatore, che è anzi ottimisticamente convinto di aver allargato, nel 2015, l’ambito di applicazione della norma, così recependo gli auspici della maggioranza dei commentatori.
3.- Astreinte e condanna.
La successione e trasformazione di disciplina dal 2009 al 2015 segnala un altro problema di individuazione della tutela, questa volta con diretto riferimento all’astreinte: altro è farne uno strumento di esecuzione indiretta per le condanne al facere infungibile, altro è farne lo strumento generale di coercizione indiretta, elettivamente proprio della condanna civile tout court. In altri termini, altro è prevedere uno strumento destinato a operare soltanto là dove l’esecuzione da sola, per propri limiti istituzionali, non potrebbe arrivare, pur scontando il piccolo corto circuito logico che deriva dal qualificare “condanna” un provvedimento di per sé non forzosamente eseguibile a norma degli artt. 612 ss. c.p.c. (questo il problema posto dalla versione 2009); altro è farne uno strumento disponibile sempre, quale che sia la forma tipica di esecuzione introdotta dal titolo esecutivo. Soluzione, questa, che il legislatore del 2015 non ha voluto o saputo perseguire sino in fondo, grazie alle esclusioni (condanna pecuniaria, materia del lavoro) su cui tra breve torneremo.
Il tutto ruota poi attorno al riferimento alla «condanna», che segna l’argine rispetto alle tutele, comunque classificate, non associabili a quella compulsoria. Un piccolo rebus[7] resta il caso dell’art. 2932 c.c., che prevede un capo condannatorio soltanto per l’obbligazione relativa al pagamento del prezzo (esclusa, in quanto condanna pecuniaria, dall’àmbito di applicazione dell’art. 614 bis); il corrispettivo obbligo a contrarre, che trova tutela nella pronuncia costitutiva efficace però soltanto col suo passaggio in giudicato, potrà considerarsi, ai fini dell’astreinte, oggetto di un autonomo capo condannatorio? Il punto è dubbio e il rischio è che si debba continuare a pensare che la tutela prestata dall’art. 2932 c.c. (che è, a seconda della prospettiva, condannatoria o costitutiva) non sia compatibile con l’astreinte (che però sarebbe utilissima per “convincere” il promittente venditore riottoso[8]), perché la sinallagmaticità delle posizioni contrattuali esclude che l’astreinte possa essere pronunciata a carico di una sola parte, posto che l’attuale giurisprudenza di legittimità[9] esclude che la condanna al pagamento del prezzo sia provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c. perché ciò altererebbe il carattere corrispettivo delle prestazioni e il sinallagma contrattuale (scambio della cosa contro pagamento del suo prezzo).
4.- Astreinte e titolo esecutivo.
Altra domanda che l’interprete deve porsi è sull’effettivo carattere di titolo esecutivo dell’astreinte per come attualmente regolata. La norma è chiara («Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza»), ma in modo altrettanto chiaro la giurisprudenza tende a disconoscere all’astreinte la qualità di titolo esecutivo per difetto del requisito della liquidità[10], a volte parlando di condanna da doversi quantificare, cioè liquidare, in una successiva sede di merito[11].
Anche a questo proposito si mostra evidente l’insipienza del nostro legislatore, che avrebbe dovuto far tesoro dell’esperienza maturata, anche in Italia, nella tutela dei brevetti e delle opere dell’ingegno: prevedere un’astreinte “secca”, ove cioè non si distinguono la fase della condanna in futuro e quella della liquidazione a fronte dell’inadempimento, significa scaricare sul creditore della prestazione l’onere di quantificare le conseguenze dell’inosservanza del provvedimento condannatorio assistito dall’astreinte, moltiplicando le opposizioni all’esecuzione in cui si potranno contestare l’esistenza stessa e/o il calcolo di quelle conseguenze[12]. L’esperienza francese al riguardo insegna che la liquidazione dell’astreinte, che ha struttura bifasica, è sempre di competenza del g.e., che vi provvede in esito a cognizione sommaria nel contraddittorio delle parti. E proprio alla luce di quella esperienza si sarebbe dovuta considerare l’utilità di un sistema che assegni al g.e., o anche al g.e., il potere stesso di pronunciare l’astreinte, quale che sia il titolo esecutivo ineseguito e anche a fronte della già conclamata inesecuzione spontanea. Non risponde infatti ad alcuna logica di utilità che il provvedimento possa essere pronunciato soltanto dal giudice della cognizione, e soltanto contestualmente alla condanna; anzi, molte volte proprio il mancato spontaneo adeguamento dell’obbligato può far sorgere l’interesse all’ottenimento dell’astreinte, mezzo di pressione che potrebbe essere opportunamente calibrato proprio alla luce delle circostanze emerse dopo la pronuncia del provvedimento condannatorio. In questo senso l’astreinte diverrebbe strumento proprio dell’esecuzione e, del resto, nulla esclude che esso possa essere disponibile tanto dal giudice della cognizione (in previsione di un mancato spontaneo adeguamento dell’obbligato) quanto dal giudice dell’esecuzione (a fronte di un inadempimento già conclamato).
5.- Le esclusioni.
L’art. 614 bis esclude che l’astreinte possa essere pronunciata per supportare una condanna pecuniaria (e c’è una generale esclusione per le controversie di lavoro anche parasubordinato[13]). Molti giustificano la limitazione sul riflesso dell’esistenza di altre forme di coazione indiretta all’adempimento: in primo luogo l’art. 1284, comma 4, sulla liquidazione degli interessi c.d. commerciali. Ma, mentre da un lato va rilevata l’estrema prudenza con cui la giurisprudenza di legittimità ha accolto la riforma (d.l. n. 132/2014, convertito dalla legge n. 162/2014) che ha introdotto quel comma 4 al fine precipuo di scoraggiare l’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie[14], dall’altro lato va registrato che quella stessa giurisprudenza tende a escludere che il saggio commerciale degli interessi possa essere applicato in relazione all’esecuzione forzata di un titolo giudiziale che non ne preveda già la liquidazione[15]. In conseguenza, dall’ambito di applicazione della norma è esclusa proprio la tutela esecutiva: conseguenza difficile da giustificare razionalmente, perché il ritardo nell’adempimento è tanto più grave – e così più sanzionabile – in presenza di un titolo esecutivo, specie se giudiziale. Altri fanno valere un argomento sociologico tratto da un noto detto olandese («non si può spennare un pollo senza penne») che tuttavia non può evolversi in credibile argomento giuridico: l’esperienza pratica insegna che assai spesso un debitore (specie se si tratta di una pubblica amministrazione[16]) sceglie di non pagare non certo per mancanza di disponibilità, quanto per deliberata volontà di non adempiere o di farlo il più tardi possibile e soltanto se costretti in esito a una procedura giudiziaria. Nell’applicazione dell’astreinte franco-belga non si è invero mai dubitato che una misura coercitiva potesse essere associata alla condanna pecuniaria; oggetto che del resto coincide col suo campo di applicazione più vasto, una volta scartata l’idea – mai propria dell’esperienza d’oltralpe – che l’astreinte sia associabile alla sola condanna al facere infungibile.
6.- Astreinte e omissione di pronuncia.
Chiunque abbia esperienza pratica del processo civile può anche aver avuto modo di verificare che assai spesso il giudice, richiesto dell’astreinte, non si pronuncia al riguardo pur adottando il provvedimento condannatorio richiesto. La possibile spiegazione può essere ricercata ragionando attorno a diversi fattori: a) la tutela giudiziaria si risolve nella pronuncia del provvedimento condannatorio, rispetto al quale soltanto vige il dovere decisorio del giudice che invece non si estenderebbe all’astreinte (art. 112 c.p.c.); b) l’adozione del provvedimento di astreinte è discrezionale, e in tale discrezionalità deve ricomprendersi la possibilità di non motivare il provvedimento negativo; c) la tutela compulsoria è alternativa alla tutela condannatoria; d) vanno limitati gli eccessi di tutela esecutiva mediante la formazione di due distinti titoli ricompresi nello stesso provvedimento che intenda assicurare la stessa utilitas.
Si tratta di argomenti privi di un serio fondamento. Infatti: a) il dovere decisorio del giudice certamente si estende all’astreinte che presuppone una domanda di parte, rispetto alla quale il giudice «fissa» e «determina» l’ammontare della somma: espressioni dalle quali si ricava, indirettamente, il dovere del giudice di motivare anche il provvedimento negativo, dovere che non viene certamente meno sul riflesso che l’astreinte è (non un provvedimento di merito, bensì) una misura a contenuto soltanto processuale; b) non è dubbio che la misura coercitiva richiama l’esercizio di poteri valutativi a contenuto fortemente discrezionale (il richiamo finale a «ogni altra circostanza utile» ne è sintomo più che evidente), ma ciò non implica una discrezionalità nell’adozione stessa della misura, che in sé risponde al principio della domanda con ogni conseguenza sul dovere di pronuncia; c) la misura compulsoria si affianca, sostenendola, alla tutela di condanna, e l’orientamento che ne predica l’alternatività conduce, di fatto, a un’interpretazione abrogatrice della stessa tutela coercitiva che, d’altra parte, non può sopravvivere se non associata alla tutela condannatoria; d) l’astreinte costituisce una condanna in futuro destinata a convivere col provvedimento condannatorio, e si evolve in condanna pecuniaria soltanto se non vi sia spontaneo adeguamento al dictum che la misura intende sostenere.
Ciò posto, sembra evidente che nessuna parte vittoriosa o parzialmente vittoriosa, e quindi attributaria di un provvedimento di condanna, avrebbe interesse ad appellare la sentenza per il solo profilo della mancata pronuncia sull’astreinte: lo strumento dell’appello non è soltanto eccessivo rispetto al contenuto della doglianza, ma risulta soprattutto scarsamente efficace attesi i normali tempi di definizione del gravame. E pure in questo si mostra la scarsa avvedutezza del nostro legislatore, il quale avrebbe dovuto concepire, per l’astreinte, un procedimento semplificato e rapido, anche perché tendenzialmente senza istruttoria.
Tra l’altro, un appello limitato alla sola pronuncia dell’astreinte e non esteso alla condanna “adiuvata” dovrebbe consentire di ridiscutere la sola misura coercitiva e non il merito sostanziale del giudizio: appellata la sentenza sulla sola astreinte (non concessa o concessa in misura minore del richiesto), sarebbe configurabile un appello incidentale che intendesse ridiscutere funditus la condanna principale?
7.- Esiguità delle applicazioni giurisprudenziali.
L’esame della giurisprudenza mostra che, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 614 bis c.p.c., i casi di applicazione elettiva della tutela compulsoria restano quelli che preesistevano alla novellazione del 2009: tuttora, sono il codice della proprietà industriale (d.lgs. n. 30/2005) e la legge sul diritto d’autore a fornire la maggior parte delle occasioni per l’irrogazione della vecchia “penalità di mora”.
Giocano a favore di questa esiguità di casi le espresse esclusioni (soprattutto quella della condanna pecuniaria), certo, ma forse anche una certa vaghezza di contorni della coercizione. In molti casi il giudice civile è abituato a utilizzare formule aperte (es., i “gravi e fondati motivi” di cui all’art. 283, comma 1, c.p.c.; i “gravi motivi” di cui all’art. 615, comma 1, all’art. 624, comma 1, o all’art. 647 c.p.c.; e così via), ma in relazione a tali formule può far capo a orientamenti stabili, che consentono di perimetrare e controllare il suo potere discrezionale. Nel caso dell’art. 614 bis non è facile stabilire quando la misura possa risultare «manifestamente iniqua», non è facile individuare il «danno quantificato o prevedibile», non è chiaro cosa possa intendersi per «ogni altra circostanza utile». L’incertezza e il carattere inedito di tali riferimenti finiscono per scoraggiare il giudice – che in generale non ama esercitare poteri fortemente discrezionali – che, del resto, è convinto di somministrare una tutela aggiuntiva e non essenziale (v. retro). E, verosimilmente, questo suo atteggiamento riflette quello dello stesso legislatore, che ha dato l’impressione di essere stato quasi costretto a introdurre nel nostro sistema l’esecuzione indiretta, che nel 2009 ha ricevuto la disciplina minima pensabile in astratto, e poi nel 2015 ha conosciuto un ampliamento, ma pur sempre in un contesto di scarsa convinzione e di dubbia operatività.
8.- Cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione dell’astreinte in Italia?
Anzitutto, occorrebbe farne lo strumento generale di “assistenza” ai provvedimenti condannatori e anzi ai titoli esecutivi, senza esclusioni. Mantenendo il potere del giudice della cognizione (condanna in futuro), andrebbe riconosciuto un autonomo potere al giudice dell’esecuzione, riferito anche ai titoli esecutivi di formazione non giudiziale. A fronte dell’inesecuzione spontanea dei “comandi” esecutivi – di origine sia giudiziale sia convenzionale sia amministrativa – il g.e. potrebbe calibrare l’astreinte adattandola ai singoli casi, con evidenti risultati di deflazione delle esecuzioni forzate e dei contenziosi che da esse derivano, che non sono affatto trascurabili.
In ogni caso al g.e., sul modello francese, andrebbe riconosciuto il potere di liquidare l’astreinte (anche quella imposta dal giudice della cognizione secondo il modello della condanna in futuro) con un procedimento sommario in cui fosse salvaguardata la garanzia del contraddittorio. Eguale procedimento sommario andrebbe previsto (anche dinanzi al giudice monocratico) per il controllo di adeguatezza del provvedimento, separato dalle impugnazioni ordinarie, con la conseguenza che dell’astreinte si potrebbe discutere, o ridiscutere, sia separatemente da quelle, sia unitamente a quelle (il modello sarebbe quindi quello dell’inibitoria) qualora il gravame avesse un oggetto più esteso. Non è infatti concepibile un’impugnazione ordinaria che abbia per oggetto la sola misura dell’astreinte.
Andrebbe utilizzata una formula meno controvertibile dell’attuale quanto ai presupposti del provvedimento (es.: «il giudice può, su istanza di parte e in presenza di giustificati motivi»), perché il giudice (della cognizione come dell’esecuzione) possa agganciarsi a schemi decisori già noti, pur dovendosene confermare il carattere pienamente e, diremmo, insopprimibilmente discrezionale.
Serve poi nel giudice (soprattutto della cognizione) un cambiamento di mentalità che tenga conto del fatto che il titolo esecutivo è l’istituto che rappresenta quanto di più forte abbiamo per la tutela esecutiva di un diritto, e che, ciononostante, troppo spesso il titolo è rappresentativo di un diritto che resta insoddisfatto.
(*) Testo della conversazione tenuta il 19 marzo 2021 su invito dell’Università di Parma nell’ambito dei “Dialoghi di Diritto processuale civile” organizzati dal prof. Massimo Montanari. Lo scritto è dedicato alla raccolta di Studi offerti al prof. Bruno Sassani, che ha lasciato l’insegnamento di ruolo per raggiunti limiti di età.
[1] Nascosi, Le misure coercitive indirette nel sistema di tutela dei diritti in Italia e in Francia. Uno studio comparatistico, Napoli, 2019.
[2] Ci permettiamo di rinviare al Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 6°ed., Torino, 2020, 33 ss.
[3] Seguendo l’insegnamento di Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1954, I, 253 ss.
[4] Sassani, Possono gli arbitri pronunciare l’astreinte?, in www.judicium.it dal 16 gennaio 2018.
[5] Saletti, Commento all’art. 614 bis, in Commentario alla riforma del c.p.c., a cura dello stesso A. Saletti e di B. Sassani, Torino, 2009.
[6] Tanto che parte della dottrina civilistica si era impegnata nella ricerca di una infungibilità di tipo “processuale”: cfr. Mazzamuto, in Europa e diritto privato, 2009, 947 ss., spec. 962.
[7] Ne abbiamo già trattato in Ancora su astreinte e condanna civile, in www.judicium.it dal 12 settembre 2017.
[8] Consolo, Obblighi a contrarre (ed anche solo a rinegoziare): gli artt. 2932, 2908 e 2909 c.c. e l’alternativa dell’art. 614 bis c.p.c. (ante e post riforma del 2015), in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio a Salvatore Mazzamuto a trent’anni dal convegno palermitano, a cura di G. Grisi, Napoli, 2019, 79 ss.
[9] A partire da Cass., SS.UU. 22 febbraio 2010, n. 4059.
[10] V., ad es., Trib. Roma, 2 febbraio 2017, con nota critica di Corea, Disorientamenti in materia di esecuzione delle misure coercitive indirette ex art. 614 bis c.p.c.: al creditore non basta il titolo esecutivo e l’autoliquidazione nel precetto delle somme dovute ma deve previamente introdurre un giudizio di cognizione per la relativa quantificazione, in www.judicium.it dal 2 maggio 2017.
[11] V., per riferimenti, l’Editoriale che apre il fascicolo n. 3/2021 della Rassegna dell’esecuzione forzata, a firma dei suoi Direttori.
[12] Cfr. Proto Pisani, Note personali e no a margine dell’art. 614 bis c.p.c., in Rass. esec. forz., 2019, 3 ss.
[13] Secondo Proto Pisani, op. loc. cit., ciò pone un problema di costituzionalità.
[14] V., ad es., Cass. 27 settembre 2017, n. 22457, circa l’interpretazione del riferimento agli interessi “legali”; Cass. 7 novembre 2018, n.28409, che ha limitato l’applicabilità del tasso “commerciale” alle sole obbligazioni di fonte contrattuale.
[15] In tal sento Trib. Messina, 2 novembre 2020, nella procedura RGE n. 1540/2018 vertita tra Fondedile s.p.a. in liq. c. Consorzio per le Autostrade Siciliane, inedita.
[16] Non a caso il codice per la giustizia amministrativa disciplina l’astreinte anche per le condanne pecuniarie: Storto, Le misure di coercizione indiretta e l’obbligazione pecuniaria, in Delle Donne (diretto da), La nuova espropriazione forzata, Bologna 2017, 999 ss.
Licenziamento illegittimo. La reintegrazione torna al centro della scena?
Commenti a Corte cost. n. 59/2021 a cura di Luigi Di Paola e Lorenzo Zoppoli
Con la sentenza 59/2021 la Corte costituzionale assesta un primo colpo alla “riforma Fornero” sui licenziamenti. E’ l’ennesima decisione d’incostituzionalità sulle innovazioni legislative avvenute in materia del nuovo millennio. Gli autori dei due commenti s’interrogano sulla portata di questa decisione, con un occhio al quadro generato dalle diverse pronunce e uno sguardo allo scenario che attende l’interprete della disciplina del Jobs Act.
Luigi Di Paola
Per la Corte costituzionale la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro è “doverosa” nell’ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto”
Sommario: 1. Perché la reintegrazione (o no) del lavoratore ingiustamente licenziato? - 2. L’intervento riformatore attuato con la legge “Fornero”: prove di tecnica legislativa - 3. Come “può” interpretarsi la parola “può”? - 4. La giurisprudenza della Suprema Corte - 5. La sentenza della Corte costituzionale - 6. Alla ricerca della volontà del legislatore - 7. L’effetto di “trascinamento” del principio di uguaglianza.
1. Perché la reintegrazione (o no) del lavoratore ingiustamente licenziato?
Vi è stato un tempo in cui la mera previsione di un prezzo del licenziamento ingiustificato è stata ritenuta misura non congrua a compensare il lavoratore del torto subito. Il dibattito, come è noto, si svolse sul terreno di un concettualismo giuridico, per così dire, “qualificato", poiché pervaso dalla vitalità dei principi costituzionali che andavano progressivamente affermando, in concreto, la naturale forza capace di condizionare, anche in ambiti governati da precetti programmatici, la disciplina dei vari fenomeni sociali. Si pervenne così alla conclusione che il lavoratore licenziato ingiustificatamente in aziende di determinate dimensioni avesse il diritto - attese le numerose implicazioni derivanti dalla perdita di lavoro - di continuare a prestare la propria opera alle dipendenze del datore che fosse caduto in un errore di valutazione nell’adozione dell’iniziativa, non essendovi ragione di convalidare una cessazione del rapporto che, in fondo, neppure il datore medesimo avrebbe voluto ove non fosse incorso nell’errore in questione. Sennonché la purezza (o la ingenuità) di quel ragionamento non si rivelò idonea a dipanare le complicazioni del mondo reale, che irrompeva con segnali ben nitidi a richiamare l’attenzione sulla sostanziale scarsa credibilità del costrutto ideologico. Ed infatti, secondo un’impostazione empirica, la ingiustificatezza (o il suo contrario) non poteva efficacemente cogliersi aprioristicamente su di un piano astratto, ma andava soppesata in base a contingenze fattuali - quali, ad esempio, i tempi di svolgimento dei processi, la misura delle abilità nella delineazione delle strategie difensive, l’esito più o meno fortunoso dell’attività di ricerca delle prove utili, ecc … - da cui sarebbe poi derivato un giudizio, comunque umano, in ipotesi non condiviso e, quindi, suscettibile di esser eventualmente vanificato da altro giudizio, altresì umano (benché frutto di più menti pensanti), nel corso di lunghi anni, in un irrequieto incedere dominato dall’incertezza. Si rafforzò quindi il convincimento che il processo - nel suo concreto atteggiarsi - non potesse garantire quel rapido ed incontrovertibile accertamento della ingiustificatezza (o del suo contrario) corrispondente alla sua proiezione ideale, sì da ingenerare la consapevolezza che l’esigenza di oculata programmazione che deve presiedere all’attività di impresa non potesse trovare adeguato soddisfacimento in un contesto di opacità - procrastinabile anche per lungo tempo - determinata dalle numerose variabili del processo stesso.
2. L’intervento riformatore attuato con la legge “Fornero”: prove di tecnica legislativa
Il legislatore della prima riforma non ha optato per una netta inversione di rotta rispetto al passato, e, incline ad operare con quella gradualità che è suggerita dall’istintivo attaccamento alla tradizione e dalla necessità di prevenire reazioni eccessive dei nostalgici, non ha eliminato l’istituto della reintegra, ma ne ha limitato l’ambito di operatività, per di più confezionando, nell’area della ingiustificatezza, norme destinate a conferire all’istituto stesso il valore di una sanzione quasi di taglio penalistico.
Ed infatti non ha guardato tanto - come in diverse e più gravi ipotesi che conducono alla nullità meritevole della tutela più ampia - alle ripercussioni negative del licenziamento ingiustificato sulla sfera del lavoratore, quanto alla gravità della condotta ascrivibile al datore.
La reintegrazione, quindi, pur integrando una misura ristoratrice del danno patito dal lavoratore, ha finito anche per ergersi a pena per il datore intimante un licenziamento “palesemente” ingiustificato.
La eloquente e sintetica espressione (di romanesco sapore) - coniata da mente acuta all’indomani della riforma - del “torto marcio”, evoca plasticamente l’idea del licenziamento irrogato con grave colpa (se non addirittura con dolo) dal datore, ai limiti della pretestuosità.
Era comunque ben chiaro che la descritta nota negativa della condotta datoriale dovesse poter essere stigmatizzata con riguardo ad entrambe le categorie classiche di licenziamento individuale, quello disciplinare e quello per giustificato motivo oggettivo, non essendovi alcuna plausibile ragione per operare differenziazioni di sorta.
Sia l’una che l’altra forma di licenziamento sono infatti regolate da norme (anche di diritto “vivente” forgiato da incursioni giurisprudenziali via via cristallizzatesi nel tempo) che ne disciplinano condizioni e presupposti, la cui violazione consente di ravvisare quella medesima gravità di condotta (che prescinde ovviamente dalla diversità dei presupposti sottesi ai due licenziamenti, che assumono al riguardo valenza neutra) che il legislatore si è premurato di configurare nella ricorrenza della (pur con due diverse gradazioni, per come si vedrà) “insussistenza del fatto”.
Ovviamente anche tale impostazione è stata dominata dall’illusione che quell’insussistenza potesse essere considerata un’entità reale ed incontrovertibile, si da farsi apprezzare addirittura con maggior evidenza ove resasi, nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “manifesta”.
Ma dovendo la realtà dei fatti misurarsi sempre con la verità processuale, ci si è ben presto dovuti rassegnare all’idea che quella insussistenza potesse rivelarsi tale solo all’esito del processo mediante un accertamento condizionato dalla ordinaria dinamica dell’istruttoria e da imprevisti tecnici di vario tipo, nonché - quanto a quella “manifesta” - dalla complessità dello scenario emergente nel corso ed all’esito della prova.
Rimane ad ogni modo il fatto che, a fronte di due condotte egualmente manchevoli e riconducibili ad intenti di medesima intensità lesiva, il legislatore ha inteso mostrare maggiore clemenza, nei confronti del datore, nei casi di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo.
Ed infatti, nel regolamentare la reintegra in tale ambito, ha affiancato alla locuzione “manifesta insussistenza del fatto”, che segna il presupposto di ammissibilità della reintegra stessa, il termine “può”, che letteralmente sembra sottrarre l’ordine del giudice dal vincolo di doverosità.
Sicché, stando alla dicitura della norma, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo avrebbe potuto condurre alla reintegra solo ove la condotta datoriale fosse risultata estremamente grave, per essere il fatto addotto a base del licenziamento insussistente in modo manifesto, e solo ove il giudice avesse ritenuto di disporre la reintegra stessa.
Il che, però, celava l’evidente incoerenza di fondo imperniata sulla concessione al giudice di una ampia libertà di manovra a fronte di una gravità di condotta del datore maggiore di quella in presenza della quale il giudice stesso avrebbe invece dovuto, a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo, disporre la reintegra.
3. Come “può” interpretarsi la parola “può”?
Nella filosofia dell’interpretazione si fronteggiano, da sempre, due impostazioni: quella secondo cui l’interpretazione letterale, quando il dato è chiaro, surclassa quella fondata sugli altri noti criteri, e quella incentrata sull’utilizzo variamente combinato dei criteri stessi, per cogliere la effettiva volontà del legislatore, soprattutto allorquando la lettera della legge esprima un significato non coerente con il sistema normativo di immediato riferimento.
Vi è che i fautori della prima impostazione ebbero, di quella “parolina” non priva di insidie, a valorizzarne il significato naturale, senza però indugiare troppo sui criteri che avrebbero dovuto guidare il giudice nell’esercizio di quella piena discrezionalità.
I sostenitori della seconda, invece, liquidarono la questione sostenendo che quel “può” andava letto come “deve”, sulla base di una interpretazione sistematica e/o funzionale sorretta anche dal comune senso di ragionevolezza; in buona sostanza, la volontà del legislatore non avrebbe potuto, nel caso, essere colta dal senso letterale del termine, da considerarsi il risultato di un tocco di penna “sfortunato”.
In realtà, le argomentazioni tecniche per sostenere che quel “può” potesse essere letto come “deve” erano diverse: a) non di rado il legislatore usa il termine “può” come sinonimo di “deve” (cfr., per un esempio illustre, l’art. 1421 c.c.); b) l’art. 18, comma 7, st.lav., ammette la tutela indennitaria solo “nelle altre ipotesi” in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, ossia quelle diverse dalla “manifesta insussistenza del fatto”; c) allorquando il legislatore ha voluto conferire al giudice un potere discrezionale, ha egli stesso fissato i criteri, pur orientativi, per il relativo esercizio.
4. La giurisprudenza della Suprema Corte
In un primo tempo la Suprema Corte[1] ha optato per la obbligatorietà della reintegra, emettendo poi una sentenza - portatrice, facendo perno sul dato letterale, del mutamento di indirizzo[2] - cui hanno fatto seguito due pronunzie conformi[3] ed una difforme[4].
Nella sentenza in questione si affermava, nella sostanza, che il giudice può disporre la misura a condizione che essa sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente compatibile con la struttura organizzativa dell’impresa e, dunque, non eccessivamente onerosa, secondo il principio generale dell’art. 2058 c.c.
Sennonché, in punto di diritto avrebbe potuto replicarsi che: a) l’art. 2058 c.c., prevedendo un risarcimento per equivalente a quello in forma specifica, si riferisce ad un danno istantaneo, onde non è esportabile nell’area del licenziamento illegittimo sanzionato con tutela reale, non essendo l’indennità un bene equivalente al posto di lavoro; b) salvo i casi in cui la posta risarcitoria è predeterminata convenzionalmente dalle parti in misura eccessiva, al giudice, in via generale, non è dato ridurre l’entità del risarcimento se ciò non è previsto in modo chiaro dalla legge sulla base di criteri ragionevoli; c) la valutazione giudiziale sulla “salute” dell’azienda presuppone un sindacato ben più penetrante di quello inteso a verificare - e, proprio perciò, da sempre escluso - la bontà della scelta aziendale volta al riassetto organizzativo.
In punto di opportunità e di gestione delle controversie era intuibile che non sarebbe stato agevole per il giudice di merito districarsi tra i tanti ipotizzabili parametri alla cui stregua giudicare la “compatibilità”, non potendo neppure escludersi che le varie sensibilità dei giudici esprimibili nell’apprezzamento dell’eccessiva onerosità avrebbero potuto determinare soluzioni diversificate in presenza di situazioni identiche; senza contare, poi, che il possibile capovolgimento degli esiti del giudizio da un grado all’altro sarebbe venuto a dipendere spesso anche dal mutamento di una situazione di fatto in corso d’opera, con buona pace della linearità e speditezza del processo, potendo fondarsi l’impugnazione del datore su una mera “previsione” di difficoltà economica al momento di emissione della sentenza di appello.
Inoltre non era neppure scontata la “cogenza” del criterio dettato dalla Suprema Corte, con possibile divergenza di vedute non solo sulla esatta portata del criterio stesso, bensì sull’utilizzo e combinazione di ulteriori criteri ritenuti concorrenti.
Tale complicato scenario, tuttavia, è rimasto solo nell’immaginazione…
5. La sentenza della Corte costituzionale
La questione è giunta alla Consulta con una articolata ordinanza di rimessione ad opera del giudice di Ravenna, sul necessario presupposto che l’interpretazione letterale del “può” fosse quella “giusta”, tenuto conto anche del diritto vivente consacrato da una maggioranza (pur esigua) di tre pronunzie di legittimità a due.
La Corte, sulla premessa che «La molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni razionali e non sottraggono le scelte adottate dal legislatore al sindacato di questa Corte», ha dichiarato fondata la questione per violazione dell’art. 3 Cost., sul principale rilievo che il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012 e vìola il principio di eguaglianza.
Infatti, secondo la valutazione discrezionale del legislatore, «l’insussistenza del fatto - sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto - rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro. In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto».
Resta quindi fermo che «L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto). Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici».
Il che dovrebbe equivalere a dire che, ove due fatti presentino la stessa gravità, l’identico meccanismo sanzionatorio debba essere ragionevolmente lo stesso anche in punto di obbligatorietà della sua applicazione, giacché il contrario significherebbe ammettere, in alcuni casi, la non operatività del meccanismo stesso; dovrebbe anche conseguirne, in astratto, che l’ipotesi di un allineamento in direzione inversa, che ponga la facoltatività quale termine di raffronto dell’eventuale equiparazione, sia da scartare, poiché incompatibile con la misura della “gravità” prefigurata dal legislatore con la previsione della forma di tutela più intensa, che offre la misura “standard”, anche quanto all’obbligatorietà della sua applicazione, della reazione dell’ordinamento.
La Corte, peraltro, non si è limitata a ragionare sulla norma scritta, ma ha esteso la sua disamina alla norma “integrata” dalla Cassazione, concludendone che «È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore».
Infatti «(…) la diversa tutela applicabile - che ha implicazioni notevoli - discende (…) da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento. Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento. È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria».
In buona sostanza la norma, nata irragionevole, lo è rimasta anche dopo.
6. Alla ricerca della volontà del legislatore
Anche il giudice delle leggi ha ritenuto che il legislatore abbia inteso investire il giudice della massima discrezionalità, per come emerge dal seguente passo della motivazione della sentenza: «L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio legis, così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese».
Pare, pertanto, che nell’alternativa tra la reintegra obbligatoria e tutela indennitaria sia prevalsa una formula di compromesso congegnata in modo tale da responsabilizzare il giudice di una scelta interamente libera, sì da rimandare al momento applicativo la effettiva portata della norma.
Ma in tale situazione (profondamente diversa da quella che si verifica nella liquidazione dell’indennità risarcitoria nel sistema del “Jobs Act”, ove l’esercizio della discrezionalità attinge a collaudati criteri insiti nel sistema e si attua comunque “entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima”[5]), la ricerca della volontà del legislatore diventa opera assai ardua, poiché un verosimile approdo è che, nel caso, si mirasse al “non perseguimento” di una via netta e lineare.
In tal quadro, la eliminazione della richiamata “parolina” non solo scongiura il rischio di interpretazioni irragionevoli della stessa, ma fa opera di “pulizia” nel sistema “giuridico”, la cui immanente razionalità, prodotta da un complesso di norme coerenti e finalisticamente comprensibili, è destinata ad un pericoloso indebolimento ove si procedesse ad interventi normativi non bilanciati rispetto al tutto.
7. L’effetto di “trascinamento” del principio di uguaglianza
Poiché la sentenza della Corte si fonda sul principio di eguaglianza e ragionevolezza, si tratta di valutare, ora, la portata dell’effetto di trascinamento del principio stesso, con riguardo all’impianto delineato dal “Jobs Act”, nell’ambito del quale la reintegra è stata eliminata nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendosi qui sciolta in modo netto quella originaria alternativa di cui parlavamo in precedenza, secondo il già richiamato principio di progressiva gradualità.
La sopravvivenza della reintegra è rimasta, quindi, nel predetto impianto, a sanzionare la condotta grave del datore nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, avendo qui la tradizione fatto sentire ancora il suo peso, forse in ragione del minor impatto statistico di tale tipologia di licenziamenti (al pari di quelli sanzionati con tutela reintegratoria piena) sulla totalità di quelli irrogati.
Potrebbe però sostenersi che nulla cambia tra una equiparazione difettosa, in punto di tutela, tra le due categorie di licenziamento individuale, in presenza di condotte parimenti gravi del datore, e una equiparazione “mancata”.
Potrebbe anzi affermarsi che nel secondo caso l’irragionevolezza è ancora più marcata, poiché il “può”, almeno, in concreto, avrebbe potuto in qualche caso condurre, nel sistema delineato dalla legge “Fornero”, alla reintegra.
Non è chiaro se la Corte, con l’affermazione che a decorrere dal 7 marzo 2015 «si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (…), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele», abbia voluto affermare implicitamente la non esportabilità dell’attuale ragionamento in altri ambiti.
Potrebbe così ritenersi che l’effetto di trascinamento debba operare solo ove il termine di raffronto sia di una certa consistenza e, quindi, non possa rinvenirsi in un un’ipotesi residualissima (quale è quella del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato), sul rilievo che non basta una tutela maggiore di esigua applicazione a portare verso l’alto la tutela riservata ad altre ipotesi.
A tale riguardo, tuttavia, non dovrebbe agire in chiave assolutamente preclusiva la (già richiamata, alla nt. 5) sentenza n. 194 del 2018, ove la disparità di trattamento tra nuovi e vecchi assunti fu esclusa sulla base delle specifiche censure del rimettente, che non aveva sottoposto a critica la disciplina sostanziale del regime posto dal “Jobs Act”, ma solo il criterio di applicazione temporale della stessa.
Quale sarà il futuro, ad ogni modo, si vedrà, dipendendo anche in parte da quale sarà l’approccio al sistema “giuridico”.
Nell’impianto della legge “Fornero” l’equiparazione della tutela conduce a risultati coerenti in alcune ipotesi che potremmo definire “di confine”.
Ad esempio, il licenziamento totalmente immotivato potrebbe considerarsi ingiustificato, conseguendone la reintegra, per insussistenza (certamente manifesta) del fatto - non interessa se di astratto rilievo disciplinare o organizzativo -, che non potrà in alcun modo essere provato in giudizio.
Nell’impianto del “Jobs Act” il passaggio non è invece così scontato, poiché non si conosce quale è il fatto (di rilievo disciplinare o organizzativo) dalla cui accertata insussistenza dipenderebbe il grado di tutela; potendo così pervenirsi all’eventualità che il silenzio, quale equivalente di massima gravità di condotta, possa risolversi sempre in una negazione della reintegra.
Il tutto sta a dimostrare che il sistema “giuridico” non soffre di staticità, ma si avviluppa in una tensione che richiede una gestione attenta dei vari fattori che ne assicurano l’equilibrio, alla quale contribuisce una adeguata considerazione del sistema stesso nella delicata fase di introduzione di nuove disposizioni nel tessuto normativo.
In difetto, occorrerebbe pensare ad una armonia del tutto nuova, che presuppone, però, una netta rottura con i ricordi del passato.
Lorenzo Zoppoli
Corte costituzionale 59/21 e disciplina dei licenziamenti: piccone o scalpello?
Sommario: 1. Un segnale per la cultura giuridica lavoristica - 2. L’uguaglianza applicata alla manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo - 3. Attualità della sanzione reintegratoria e riflessi sul Jobs Act.
1. Un segnale per la cultura giuridica lavoristica
Con la pronuncia del 24 febbraio 2021 n. 59 – depositata il 1^ aprile – siamo al quarto intervento importante della Corte Costituzionale sulla riforma della disciplina dei licenziamenti maturata agli inizi del nuovo millennio (2012/2015)[1]. Quest’ultima sentenza accoglie la questione di incostituzionalità sollevata dal Trib. di Ravenna con un’ordinanza del 7 febbraio 2020 riguardante l’art. 18 Stat. lav. come novellato dalla l. n. 92 del 2012. In particolare viene radicalmente rivisto l’art. 18 c. 7, che prevedeva un’opzione sanzionatoria binaria del licenziamento illegittimo rimessa ad una valutazione abbastanza “libera” del giudice. Secondo questa norma infatti dinanzi ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo basato su un “fatto” di cui avesse verificato la “manifesta insussistenza”, il giudice avrebbe potuto comunque optare per l’alternativa indennitaria in luogo della reintegrazione, senza alcuna precisa indicazione normativa su elementi e circostanze idonee a fondare la scelta sanzionatoria. Insomma un giudice arbitro pressoché assoluto di esiti radicalmente diversi dell’azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore, messo così dinanzi ad una giustizia imprevedibile.
In questo difficile equilibrio normativo meno contava che la medesima imprevedibilità sanzionatoria gravasse pure in capo all’impresa: infatti si trattava in ogni caso di una possibilità in più fornita dal legislatore all’impresa che si fosse avventurata in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo palesemente privo di un qualche elemento fattuale. Possibilità in più perché nella “contigua” fattispecie del licenziamento disciplinare il medesimo legislatore prevede la sanzione reintegratoria nel caso analogo di mera “insussistenza del fatto”, accertata la quale al giudice non resta da far altro che ordinare appunto la reintegrazione (art. 18 c. 4).
Se si hanno chiari i delicatissimi (e fragili) equilibri racchiusi nella c.d. riforma Fornero - primo stadio dell’ultima riforma dei licenziamenti[2] - non si possono aver dubbi sul tipo di segnale di politica del diritto proveniente da questa sentenza della Corte: la reintegrazione in caso di licenziamento carente di requisiti di legittimità non va affatto marginalizzata. Siamo dunque dinanzi ad un altro autorevole stop al processo di “espulsione” della reintegrazione dal moderno diritto del lavoro.
Invece da sottoporre ad una più attenta valutazione mi sembrano due ulteriori aspetti della sentenza 59/2021: a) la coerenza argomentativa rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale sull’intera materia; b) l’emergere di una qualche linea ricostruttiva del sistema rivisitato dalla Corte che conduca ad assetti di una qualche maggiore solidità giuridica.
Nell’analisi non si deve poi a mio parere trascurare un ulteriore elemento di novità: è questa la prima sentenza che colpisce la riforma Fornero sotto il profilo dell’incostituzionalità. Molti altri interventi della giurisprudenza di merito o di legittimità hanno infatti corretto, seppure in modo non sempre univoco e lineare (com’è del resto inevitabile), gli equilibri leggibili inizialmente nel sofisticato mosaico regolativo contenuto nell’ art. 18 novellato nel 2012. Come pure - già si è detto - in un paio di importanti occasioni la Corte costituzionale, chiamata tempestivamente a pronunciarsi, non ha tanto indugiato a correggere norme contenute nel secondo stadio della riforma dei licenziamenti di inizio millennio, cioè il d.lgs. 23/15, pezzo forte del c.d. Jobs Act. Questa distonia tipologica e cronologica negli interventi di ortopedia ordinamentale non possono non farci interrogare anche sulle ragioni di un crescente ruolo nella disciplina del licenziamento del giudice delle leggi rispetto a quello della giurisdizione ordinaria guidata, per quanto oggi possibile, dai guardiani della nomofiliachia. In questo quadro mi pare anche da chiedersi quanto, nella sua opera di armonizzazione della nuova disciplina dei licenziamenti ai principi della Carta del ‘48, la Corte costituzionale non stia procedendo a ritroso, forse costretta a rilevare anche nella legge 92/12 alcune macroscopiche antinomie sistematiche più visibili – e viste - nel d.lgs. 23/15.
Certo è che, pure riguardata dall’angolo visuale della Corte Costituzionale, la nuova disciplina dei licenziamenti non regge il confronto con quella novecentesca che l’ha preceduta, sebbene caratterizzata anch’essa da discutibili compromessi. Mai nel secolo scorso la Corte costituzionale aveva drasticamente bollato di contrasto con i principi costituzionali il sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, nonostante questa avesse conosciuto una evoluzione profondamente innovativa rispetto al codice civile snodatasi almeno in tre tappe (la l. 604/66; la l. 300/70; la l. 108/90), tutte giuridicamente molto problematiche e tutte collocate in fasi socio-politiche delicatissime. In sei anni la Corte è intervenuta sulla materia più volte e in modo più incisivo di quanto non abbia fatto in quasi mezzo secolo.
Mi pare che qui si debba anche cogliere un altro segnale grave che riguarda coerenza e compattezza sistematica del nostro mondo, quello della cultura giuridica e del diritto positivo costruiti con il determinante contributo dei giuristi del lavoro italiani. Se è vero infatti che le leggi le fanno governi e parlamenti, nessuno può pensare che in Italia la politica possa fare a meno di un significativo avallo da parte di almeno alcuni degli specialisti di una determinata materia e del diritto del lavoro in particolare. Forse allora i giuslavoristi hanno aperto varchi eccessivi ad opzioni di politica del diritto poco compatibili con i nostri equilibri ordinamentali, magari con l’attenuante della incontenibile pressione del “formante” socio-economico-tecnologico. La recente giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di sanzioni per i licenziamenti illegittimi evidenzia in modo abbastanza allarmante questa eccessiva cedevolezza dei giuslavoristi “consiglieri del principe” sul piano della conformità delle riforme avallate nell’ultimo decennio ai principi costituzionali. E nessuno può stupirsene più di tanto, dal momento che la dottrina è da tempo solcata da polemiche, nemmeno tanto sotterranee, sulla sostenibilità socio-economica della nostra tavola dei valori e dei principi, così come utilizzata dagli anni ’70 in poi. A parte i dettagli, la Corte ci sta dicendo, già da alcuni anni, che la Costituzione è quella che conosciamo e che non si può né stravolgere né ignorare. Forse occorre ripartire da qui per mettere qualche punto fermo.
2. L’uguaglianza applicata alla manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo
Il primo argomento utilizzato da Corte Cost. 59/21 per accogliere la già illustrata questione di costituzionalità è basato sulla violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
Il principio di eguaglianza è violato in quanto “in un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo comune al presupposto dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto” (punto 9 della motivazione).
Con questo rilievo della Corte io ero d’accordo da tempo ancor prima che la riforma Fornero fosse approvata[3]. Poi però molti avevano spiegato che occorreva comunque differenziare le sanzioni per le diverse fattispecie di licenziamento: da un lato quelle basate su violazione degli obblighi contrattuali del lavoratore (giusta causa e giustificato motivo soggettivo), dall’altro quelle basate su scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore (giustificato motivo oggettivo). Anche se entrambe sono disciplinate dal legislatore italiano come motivazioni necessarie per estinguere ciascun contratto di lavoro isolatamente considerato (cioè entrambe configurano dei licenziamenti individuali), la seconda tipologia risulta attratta, proprio per la motivazione su cui è basata, nell’area dei licenziamenti c.d. economici, che comprende anche la fattispecie dei licenziamenti collettivi o per riduzione di personale. La riforma Fornero trovava qui uno dei suoi punti qualificanti: differenziare radicalmente le sanzioni previste per i licenziamenti economici da quelle previste per gli altri licenziamenti “disciplinari”. E in effetti l’art. 18 c. 7 novellato nel 2012 esclude la reintegrazione per mancanza dei requisiti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo salvo che esso non sia basato su un fatto manifestamente insussistente.
Il punto è che, come giustamente osserva la Corte, i licenziamenti “disciplinari” ricevono un trattamento non molto diverso dal legislatore. Infatti anche la mancanza dei requisiti per il licenziamento disciplinare non è sanzionata con la reintegrazione: salvo due ipotesi, di cui una è pressoché comune al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – l’insussistenza del fatto – e l’altra attiene alla gravità del fatto/infrazione secondo una valutazione che il legislatore stesso rimette ai codici disciplinari aziendali e/o previsti dai contratti collettivi (art. 18 c. 4).
Ora la violazione del principio di eguaglianza deriva secondo la Corte proprio dall’aver diversamente sanzionato un medesimo vizio del licenziamento, cioè l’insussistenza del fatto (che addirittura per il licenziamento per gmo deve essere “manifesta”, cioè, può immaginarsi, più grave), a nulla rilevando la riconducibilità del licenziamento alla sfera soggettiva (del lavoratore) o oggettiva (dell’impresa). E la Corte sembra dire: ciò è conseguenza della scelta del legislatore di inserire per entrambe le fattispecie un medesimo vizio, da considerarsi grave in quanto lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale” e tocca “la persona del lavoratore” coinvolgendola in una medesima “vicenda traumatica”.
Questa parte della motivazione della sentenza io la trovo poco convincente. Non capisco infatti perché si possa valutare la lesione dell’interesse derivante da una rottura del vincolo negoziale illegittima a seconda se l’illegittimità del licenziamento derivi dall’aver addotto un fatto inesistente o dall’aver violato un diverso requisito richiesto dalla legge. Interesse, coinvolgimento e trauma del lavoratore sono delle costanti in ogni caso di estinzione del contratto di lavoro. Non mi pare che su questo piano si possa ragionare di differenziazioni più o meno fondate del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi. Se si dovesse guardare a questi profili, la reintegrazione dovrebbe essere prevista sempre o, al contrario, mai.
Però la Corte aggiunge un altro argomento per sostenere la violazione del principio di eguaglianza, un argomento molto più interno agli equilibri ordinamentali: “l’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.” (e si cita al riguardo la sentenza n. 41 del 2003)[4].
Quindi il fatto da porre a base del recesso è l’ ”elemento comune” che – a differenza di quelli prima richiamati, da considerarsi, nei limiti in cui il termine è accettabile, “ontologici” - può esserci o no nel concreto esercizio del potere di licenziare qualunque sia la tipologia di licenziamento e la cui mancanza può giustificare da parte del legislatore un trattamento sanzionatorio più grave rispetto ad altri vizi del recesso. Però, dice la Corte, essendo elemento comune a tutte le fattispecie, non si può giustificare in alcun modo che quando esso sia insussistente per una fattispecie si lasci al giudice un margine di apprezzamento nella sanzione e per un’altra no.
Qui rileva anche un’ulteriore valutazione, pur sintetica, presente nella motivazione della sentenza 59/21. In effetti molti giudici – compresa la Cassazione – avevano provato a correggere in via interpretativa l’originario art. 18 c. 7, ancorando la scelta del giudice di non ordinare la reintegrazione pur avendo constatato l’insussistenza del fatto ad un’eccessiva onerosità della reintegrazione stessa in considerazione degli assetti organizzativi dell’impresa. Indubbiamente si attenua così l’arbitrarietà della scelta giudiziaria ancorandola a un qualche parametro oggettivo. Questo orientamento interpretativo è coerente con quelle politiche del diritto – molto presenti nelle riforme della materia 2012-2015 – volte a ridimensionare il ruolo del giudice nel controllo sulla legittimità dei licenziamenti in nome dell’esigenza imprenditoriale della calcolabilità dei costi[5]. Lo è meno invece rispetto a quelle proposte – non sospette di partigianeria pro business - che invece segnalavano l’opportunità di lasciare al giudice un certo margine di scelta, anche nei meccanismi sanzionatori, un po’ sulla falsariga di altri ordinamenti, come ad esempio quello tedesco[6]. La Corte costituzionale in precedenti sentenze (194/18 e 150/20) ha espresso un orientamento non drasticamente contrario a riconoscere un certo ruolo del giudice nel definire almeno l’entità della sanzione per il licenziamento illegittimo. Nella sentenza 59/21 invece bolla drasticamente le interpretazioni correttive dell’arbitrarietà giudiziale nello scegliere tra reintegrazione e indennità, dicendo che: “è sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore”[7]
Qui c’è un altro principio di rilievo: quando il vizio del licenziamento è comune a varie fattispecie, non c’è spazio per una discrezionalità sanzionatoria di tipo giudiziale sul piano del principio di eguaglianza.
Però l’argomentazione potrebbe apparire troppo drastica e persino contraddittoria con quella utilizzata dalla Corte nelle sentenze 194/18 e 150/20. Come ha subito scritto Pietro Ichino, sostenendo pure che la Corte, avendo rilevato differenziazioni incostituzionali, avrebbe però potuto e dovuto uniformare al ribasso le tutele sanzionatorie[8].
Come spesso mi capita, non concordo con le pur brillanti osservazioni critiche di Ichino. Infatti la contraddizione con le precedenti sentenze non c’è, per il semplice fatto che lì la Corte ha colpito la predeterminazione legislativa del danno causato al lavoratore, rilevando nella sanzione un’ingiustificata compressione del diritto riconosciuto a qualsiasi contraente in misura anche maggiore. E ha restituito al giudice il potere di parametrare la sanzione all’entità del danno seppure entro margini fissati dalla legge. Sul punto la motivazione della sentenza n. 59 è cristallina: “in un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale” tanto che nelle precedenti sentenze citate “al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione della particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi consolidata” (punto 10.1.).
Sembrerebbe invece che la Corte sostenga che il vulnus causato dall’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento sia tanto grave da non consentire differenziazioni sanzionatorie rimesse al giudice. Resta da capire se davvero la Corte ritiene che quel danno grave debba per forza sempre e comunque essere sanzionato con la reintegrazione. O se invece – come preferirebbe Ichino – potrebbe sempre prevedersi una sanzione indennitaria.
3. Attualità della sanzione reintegratoria e riflessi sul Jobs Act
La questione non viene affrontata in modo esplicito nella sentenza 59. Qualche elemento in più si può però ricavare dall’argomentazione riguardante la violazione del principio di ragionevolezza. In effetti è proprio questa parte del percorso argomentativo ad essere decisiva. Come sappiamo tante volte la Corte, anche in materia di licenziamenti, ha escluso la violazione del principio di eguaglianza perché, pur rilevando differenze di disciplina, le ha ritenute rispondenti a criteri di ragionevolezza. Nel caso di specie invece non rinviene né nella norma di legge né nel “diritto vivente” un fondamento razionale che possa giustificare la diversa ampiezza del potere “sanzionatorio” del giudice.
Sulla tipologia di licenziamento già s’è detto. Disciplinare o economico ciò che conta è l’insussistenza del fatto addotto come motivazione del licenziamento. Questo vizio è talmente grave secondo la Corte da ledere lo stesso principio della necessaria giustificazione del licenziamento. Su questa linea di ragionamento si potrebbe persino andare oltre: se il fatto addotto è inesistente perché allora si può giustificare l’esclusione della reintegrazione per la disciplina della materia prevista dal Jobs Act? Il d.lgs. 23/15 esclude infatti la reintegra per tutti i casi di licenziamenti economici illegittimi salvo per quelli con vizio di forma, cioè anche quando si rivelasse insussistente il fatto posto a base di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo o di un licenziamento collettivo. A colpire gli equilibri del Job Act la sentenza 59 non arriva né sarebbe potuta arrivare visto che la questione controversa riguardava l’art. 18 comma 7 dello Statuto. Ma l’argomento della “razionalità” porta ad estendere la valutazione della Corte ad ogni ipotesi di licenziamento destituita di un fondamento “fattuale”. E a poco rileva che nel Jobs Act la reintegrazione per il licenziamento disciplinare sia prevista solo per insussistenza del “fatto materiale”. La stessa espressione, con tutte le sue persistenti ambiguità, si potrebbe usare per tutti i licenziamenti riguardanti i contratti a tutele crescenti. Certamente per i licenziamenti economici individuali; ma anche per quelli collettivi, fermo restando il problema dell’eventuale accordo sindacale che rendesse la fattispecie “acausale”, come suol dirsi.
Questa digressione ci consente di rispondere ad uno dei quesiti che ci siamo posti in precedenza: la sentenza 59 non riguarda solo la riforma Fornero, ma può riflettersi anche sul Jobs Act.
Resta però il punto più delicato: la necessità di trattare allo stesso modo tutti i licenziamenti che risultassero privi di fondamento fattuale comporta la necessità di prevedere per tutti la sanzione reintegratoria?
Come si diceva qui la sentenza 59 aiuta poco. Infatti La Corte, nel valutare la ragionevolezza dell’alternativa risarcitoria nell’art. 18.7 Stat.lav. si limita a fare tre rilievi: a) il giudice non può essere arbitro assoluto della scelta tra due regimi sanzionatori radicalmente diversi; b) il criterio dell’eccessiva onerosità non pone rimedio “all’indeterminatezza della fattispecie” e non si attaglia a soppesare un risarcimento da considerare equivalente alla reintegrazione in forma specifica di cui all’art. 2058 comma 2 c.c.. Infatti l’eccessiva onerosità “non serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione e l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo”; c) il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa non è un parametro per valutare l’eccessiva onerosità della reintegrazione, essendo rimesso a una scelta del tutto libera di una delle parti e non essendo necessariamente sincronica rispetto al licenziamento: è cioè “un fattore contingente” rimesso “alle scelte del responsabile dell’illecito”. Infine la Corte aggiunge che il potere discrezionale del giudice tradisce la stessa finalità dichiarata della legge 92/12, cioè realizzare un’equa distribuzione delle “tutele dell’impiego”.
In astratto a me pare che la 59/21 – coerentemente con tutta la giurisprudenza costituzionale in materia – neanche con riferimento all’insussistenza del fatto contestato ritenga costituzionalmente doverosa la reintegrazione. Piuttosto parte dal rilevare che nel sistema della legge Fornero il legislatore ha ritenuto che l’insussistenza del fatto è normalmente sanzionata dal legislatore con la reintegrazione. E, quindi, ha uniformato la disciplina delle due fattispecie in ragione del vizio comune.
Però la Corte fa qualche passo in più, laddove considera giustamente reintegrazione e risarcimento indennitario caratterizzati da “statuto eterogeneo”. Si intravede qui una chiara gradualità dei possibili meccanismi sanzionatori, del resto già presente negli assetti legislativi. E nell’argomentazione della Corte si coglie un accorto colpo di scalpello - più che di piccone - laddove si dice che per i vizi più gravi il giudice non deve avere alcuna discrezionalità sanzionatoria[9]. Il passo non è lungo se se ne deduce che nei vizi più gravi non c’è spazio per una sanzione che non sia in forma specifica o per equivalente. Quindi non per una sanzione indennitaria contenuta entro un range predefinito dal legislatore.
Se così è, dal materiale alquanto informe derivante dalle riforme del licenziamento di inizio millennio comincia a emergere una figura un po’ più definita. Ad esempio una ricognizione dei vizi gravi che possono inficiare il licenziamento e che sono da sanzionare con la reintegrazione (pure ancora al suo interno articolata: tra l’altro, la Corte dice che “ben può il legislatore delimitare l’ambito applicativo della reintegrazione”), tra i quali non ci sono più solo discriminazioni e nullità, ma anche insussistenza del fatto posto a base della decisione datoriale.
Certo la materia prima fornita dall’arrembante legislatore di inizio secolo continua a richiedere un profondo lavoro di sgrossatura e rifinitura. Proprio il riferimento al fatto - che compare in tre diverse formulazioni (fatto insussistente, fatto manifestamente insussistente e fatto materiale) - fornisce la misura di ciò che resta da fare[10]. E la Corte, anche se acquisisse con lo scalpello la maestria di un Michelangelo, difficilmente potrà farcela da sola. Ci vorrebbe un legislatore che reclutasse qualche altro scultore: ma dovrebbe assomigliare a un Canova o, magari, a un Rodin. Insomma scultori con tecniche solide e moderne, che esonerino la nostra Corte costituzionale dal difficile compito di scrivere sentenze michelangiolesche.
[1] Cass. 14 luglio 2017, n. 17528.
[2] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435.
[3] Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930 e Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366.
[4] Cass. 13 marzo 2019, n. 7167.
[5] Cfr. Corte cost. 8 novembre 2019, n. 194. [6] Per gli altri tre interventi v. Corte Cost. n. 194/18; 150/20; 254/20. Solo l’ultimo non accoglie la questione di costituzionalità sollevata dai giudici a quo.
[1]Per gli altri tre interventi v. Corte Cost. 194/18; 150/20; 254/20. Solo l’ultimo non accoglie la questione di costituzionalità sollevata dai giudici a quo.
[2] Da ultimo v. Giubboni, Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi, Giappichelli, 2020.
[3] V. L. Zoppoli, La flexicurity dell’Unione europea: contenuti e implicazioni per la riforma del mercato del lavoro in Italia, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona.IT” – 141/2012, poi in Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima, durante e dopo, Editoriale scientifica, 2012, p. 38 (ma anche 154).
[4] Di recente attribuisce una marcata valenza costituzionale a questo requisito Saracini, Reintegra monetizzata e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato , Editoriale scientifica, 2018.
[5] V. per tutti Ichino, La questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, in www.pietroichino.it - NWSL, 7 agosto 2017 n. 448.
[6] V. Per una buona modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Lavoro e diritto, 2012, p. 438-439
[7] Sui complessi intrecci della disciplina dei licenziamenti con la tutela della dignità v., da ultimo, R. Casillo, Diritto del lavoro e dignità , Editoriale scientifica, 2020, p. 221 ss.
[8] v. Ichino, No, non è vero che la Consulta ha demolito la legge Fornero, ne il Foglio, 3 aprile 2021.
[9] Questo intento forse spiega anche la preferenza per sentenze di accoglimento piuttosto che interpretative di rigetto: v. sul punto Ferrante, Non c’è alternativa alla reintegra, in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, in DRI, 2021.
[10] v. Ferrante, op.ult.cit.
Qualificazione del rapporto di lavoro e tutele dei magistrati onorari alla luce della sentenza della Corte di Giustizia (seconda sezione), 16 luglio 2020, C-658/18, UX
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Edoardo Ales, Umberto Gargiulo, Marco Macchia e Carla Musella
1. Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il magistrato onorario italiano rientra nella nozione eurounitaria di giudice, come ha riconosciuto la recente sentenza della Corte di Giustizia (seconda sezione), 16 luglio 2020, C-658/18, UX, della quale parleremo diffusamente più avanti. Qual è la vostra opinione in proposito?
Edoardo Ales
La risposta alla domanda potrebbe essere estremamente sintetica: la qualificazione dell’organismo di rinvio come “giurisdizione”, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, costituisce applicazione del Diritto dell’Unione Europea e, quindi, nel momento in cui la Corte di Giustizia UE la afferma, come nel caso del giudice di pace italiano, il discorso è chiuso. Ciò non toglie, tuttavia, che si possa, almeno sul piano della riflessione scientifica, sindacare la valutazione della Corte e i suoi presupposti, non prima, però, di aver ricordato gli elementi che la Corte stessa tiene in considerazione per giungere ad una simile conclusione: l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, lo svolgimento in contraddittorio dei procedimenti dinanzi ad esso, l’applicazione, da parte dell’organo medesimo, di norme giuridiche, nonché e soprattutto la sua indipendenza. Degli elementi enunciati, nel caso del giudice di pace remittente, quello problematico è, a mio avviso, l’ultimo: non nel senso della autonomia di giudizio, ampiamente garantita dal sistema giudiziario nazionale, checché ne dica il remittente stesso; quanto, per usare le parole della Corte, nella prospettiva dell’imparzialità, da intendersi come “equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica”. La Corte, nel propendere per l’imparzialità del giudice di pace rispetto alla controversia in oggetto, non si esprime direttamente, ma rinvia a suoi precedenti, insistendo, come d’altronde proposto dall’Avvocato Generale, sull’esistenza di una competenza in materia da parte del remittente, la quale, automaticamente, pare di capire, escluderebbe il conflitto di interessi. Conflitto che, invece, a mio avviso risulta evidente. Non tanto per l’ipotesi, pur avanzata dal Governo italiano, di una ‘pastetta’ tra giudici di pace (il remittente e la parte del giudizio), alla quale mi piace non credere, quanto piuttosto per l’almeno teorica comunanza di interessi a veder riconosciuta la natura di lavoratore ai sensi del Diritto dell’Unione, comunanza che esclude, appunto, “l’equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima”.
Umberto Gargiulo
Come già è stato segnalato, il riconoscimento operato dalla Corte di Giustizia della qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE è funzionale alla verifica della sussistenza delle caratteristiche che abilitano la promozione dell’istanza di rinvio pregiudiziale e dunque non può essere caricato di significati ulteriori ed esteso oltre l’ambito del Diritto dell’Unione.
Nello specifico, la Corte, confermando la propria giurisprudenza precedente, ha accertato il ricorrere dei caratteri della giurisdizione nel diritto europeo, al fine, è bene ripeterlo, di accertare la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale e quindi che il rinvio fosse stato azionato da un soggetto legittimato. La Corte, pertanto, controlla che l’organo abbia origine legale, carattere permanente, che la sua giurisdizione sia obbligatoria, che vi sia il rispetto del contradditorio nel procedimento, che l’organo applichi norme giuridiche e, non ultimo, la sua indipendenza.
È scontato rilevare che, avendo la Corte già deciso per la ricevibilità del rinvio, la discussione assuma un valore “teorico”. Non si può non segnalare come, dei diversi profili sui quali si erano appuntate le eccezioni del Governo italiano – cioè le caratteristiche del procedimento nel quale si era prodotta l’esigenza di accertamento pregiudiziale (un procedimento monitorio, a contraddittorio, in quella fase, meramente eventuale e dunque non integro), ma soprattutto le valutazioni sull’indipendenza dell’organo remittente – sollevino non poche perplessità, particolarmente quanto alla terzietà dell’organo in questione rispetto alla decisione oggetto del ricorso: aspetto quest’ultimo, che attiene, invero, non tanto all’indipendenza in senso lato, quanto all’interesse rispetto alla questione oggetto di rinvio; profilo che conferma, però, come il controllo operato dalla Corte sia intrinsecamente funzionale unicamente alla verifica della legittimazione alla promozione dell’istanza di pronuncia pregiudiziale.
Non appare tuttavia opportuno indugiare più di tanto su un argomento ormai chiuso. Per converso, è utile ribadire che il riconoscimento della giurisdizione nazionale in capo al giudice di pace che aveva azionato il rinvio vada letto per ciò che è, dunque nell’ambito della verifica di legittimazione poc’anzi descritta. Sarebbe infatti improprio ricavarne ricadute sul diritto nazionale, al fine di trarne indicazioni per la qualificazione di un soggetto come “giudice” sul piano dell’ordinamento interno.
Marco Macchia
Il riconoscimento della qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE – abilitata come tale a promuovere istanza di rinvio pregiudiziale nel diritto dell’Unione europea – è un concetto che non deve essere confuso con quella di “giudice” in base al diritto nazionale. Essi integrano due nozioni diverse, innanzitutto rilevante una nell’ordinamento sovranazionale e l’altra nel sistema domestico. La nozione di giurisdizione delineata a livello europeo è in altre parole autonoma rispetto agli ordinamenti nazionali. Per costante giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, come è stato già ricordato, affinché un organo possa ricadere nella definizione di “giurisdizione” ai sensi dell’art. 267 TFUE, occorre tenere conto di un insieme di elementi, quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente. È altresì necessario che l’organo in questione si trovi in posizione di terzietà rispetto all’autorità che ha adottato la decisione che costituisce oggetto del ricorso.
Se si tiene a mente tale premessa, non è inusuale che un organo pubblico, il quale non rappresenti un giudice a livello nazionale, sia qualificato “giurisdizione” ai meri fini della domanda di pronuncia pregiudiziale. Basti pensare al caso del Consiglio nazionale forense italiano, che non è giudice, ma è “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 e, pertanto, la Corte di giustizia è competente a rispondere alle questioni sottoposte da tale organo. Lo stesso vale per il Tribunal Económico-Administrativo Central in Spagna, competente a conoscere in prima e ultima istanza dei reclami proposti avverso decisioni adottate da alcune autorità tributarie centrali. Molto si è discusso anche per attribuire la medesima qualifica altresì alle autorità nazionali di concorrenza, sebbene la tendenza europea sia di dichiarare irricevibile la domanda di rinvio pregiudiziale sollevata da queste ultime per assenza dei necessari presupposti soggettivi.
Per tornare ai giudici onorari italiani, sulla scorta dei requisiti sopra indicati appare ragionevole che gli stessi siano indicati come “giurisdizione” secondo l’art. 267, avendo una base legale, un carattere permanente, operando secondo diritto, in modo indipendente e nel rispetto del contraddittorio, nonché in posizione di terzietà rispetto agli organi che hanno svolto l’attività istruttoria, nel caso di specie gli uffici del Ministero della Giustizia le cui determinazioni sono qui impugnate. Nondimeno, non deve essere eccessivamente valorizzata la natura europea di “giurisdizione” – dato che nella prospettiva sovranazionale è interesse comune ampliare il novero dei soggetti abilitati ad attivare il giudizio pregiudiziale – bensì deve essere preservata l’autonomia nazionale di definire le condizioni alla ricorrenza delle quali un organo può essere definito “giudice”.
Carla Musella
Le argomentazioni della Corte di Lussemburgo in base alle quali il giudice di pace è stato ritenuto rientrante nella nozione eurounitaria di giudice ai sensi dell’art. 267 del Trattato non sono tutte condivisibili, per quel che rileva su questo punto. La Corte ha, invero, superato tutte le obiezioni poste nel procedimento relativamente alla sua ricevibilità sicché, come già osservato da chi mi ha preceduto, sotto tale profilo non resta che prenderne atto.
Occorre, tuttavia, rammentare che la Corte di giustizia detiene una parte essenziale del potere legislativo nell’ambito dell’Unione Europea e le sue decisioni contengono disposizioni generali di diritto eurounitario caratterizzate dall’astrattezza e dalla generalità come la legge.
Ne consegue la rilevanza e l’interesse del procedimento di formazione di tali disposizioni generali contenute nelle sentenze della Corte, se non altro perché si tratta dei confini del potere legislativo nell’ambito dell’Unione Europea; confini e potere che dipendono anche dall’ampiezza del concetto di “giurisdizione nazionale” ritenuto idoneo dalla Corte a consentire la sua decisione nel merito.
La Corte, a mio avviso, non ha risposto adeguatamente alle obiezioni del Governo italiano e della Commissione europea esposte nella sentenza UX ai punti 36, 37 e 38 e proprio alla stregua della nozione di giurisdizione elaborata dalla stessa Corte di giustizia vi era quantomeno più di un dubbio sulla possibilità di definire il giudice di pace di Bologna che ha sollevato la questione pregiudiziale come “giurisdizione” ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Il concetto di giurisdizione ai fini dell’art. 267 TFUE va desunto unicamente dal Diritto dell’Unione, afferma la Corte di Giustizia. Ciò implica la indifferenza del Diritto dell’Unione alle eventuali definizioni nazionali in quanto la Corte compie la sua valutazione unicamente sul Diritto dell’Unione e tiene conto di un insieme di elementi rilevanti a tal fine.
La Corte per valutare se l’organo del rinvio possegga le caratteristiche di una giurisdizione ai sensi dell'articolo 267 TFUE, tiene conto degli elementi già più volte menzionati in precedenza e sottolineati dalla stessa Corte al punto 42 della motivazione della sentenza UX.
Iniziando dall’ultimo elemento - indipendenza del magistrato - nella sentenza UX si fa ampio riferimento sia alla sua componente esterna, vale a dire all’indipendenza da ogni altro potere, che a quella interna, cioè tale da porre il giudice in una condizione di imparzialità e terzietà rispetto alla vicenda concreta sottoposta al suo esame. Quest’ultimo elemento non può che fare riferimento al caso concreto e non certo alle caratteristiche astratte dell’organo che effettua il rinvio pregiudiziale, vale a dire che la terzietà si misura sul caso concreto.
Il giudice di pace di Bologna nell’ordinanza 6 ottobre 2018 non è affatto terzo, trattandosi di questione relativa (anche) al proprio rapporto di lavoro, con concreto interesse alla questione pregiudiziale proposta che ovviamente vale per tutti i giudici di pace e quindi anche per quello che ha emesso l’ordinanza.
Come già osservato da Edoardo Ales, il giudice di pace che ha sollevato la questione non poteva definirsi “terzo” ed imparziale rispetto alla questione esaminata riguardante proprio il rapporto di lavoro dei giudici di pace e quindi anche il proprio rapporto di lavoro. Ma la Corte ha risposto alla questione richiamando propri precedenti in cui non era stato ritenuto ostativo il coinvolgimento del magistrato nella questione dallo stesso sollevata (punto 56 della sentenza UX e pronunce ivi richiamate).
Tuttavia, nel caso in esame, a mio avviso, vi erano ulteriori elementi concreti da valutare che rafforzavano la mancanza di terzietà nella vicenda.
1.1. Vuole spiegarci meglio questi elementi con specifico riferimento al caso concreto del giudice di pace rimettente?
Carla Musella
Come osservato dal Governo italiano (punto 37 della sentenza), il giudice di pace che ha sollevato la questione non aveva neppure la “competenza” a decidere della questione sollevata, riguardante, in ipotesi, la condanna al pagamento della retribuzione per le ferie previo riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato. La domanda di ingiunzione di pagamento proposta dal giudice di pace UX al giudice di pace di Bologna presuppone, dunque, un accertamento della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato rientrante nella competenza del giudice del lavoro. Questo aspetto riguarda l’obbligatorietà della giurisdizione.
La lettura della ordinanza del giudice di pace di Bologna evidenzia che la domanda risarcitoria proposta da UX è strettamente collegata all’accertamento della illegittimità della condizione di precario del giudice di pace istante, secondo la disciplina giuridica applicata al rapporto da parte dello stato italiano, e dunque all’accertamento del diritto irrinunciabile alle ferie. Non è, pertanto, condivisibile la sentenza della Corte di giustizia laddove afferma che la competenza del giudice di pace non era esclusa per le cause di risarcimento danni (punto 59 della sentenza). Il titolo risarcitorio per l’inadempimento dello Stato italiano alle direttive comunitarie appare, nell’ordinanza che solleva la pregiudiziale, strettamente collegato con l’accertamento pregiudiziale di un rapporto di lavoro subordinato assimilabile a quello del magistrato togato e del diritto alla retribuzione spettante per il periodo di ferie quantificata sulla base di quella percepita dal giudice togato. La lettura delle argomentazioni compiute nell’ordinanza di rinvio, che contiene ampi riferimenti alla quantità di lavoro svolto dal giudice di pace UX e al comportamento dello Stato italiano nei confronti del c.d. precariato pubblico incluso quello scolastico, evidenzia la materia del contendere del procedimento monitorio diretta anche all’accertamento pregiudiziale della esistenza di un rapporto di lavoro rientrante non certo nella competenza del giudice di pace.
Ma se su questo singolo aspetto potrebbe obiettarsi ancora che la causa risarcitoria per inadempimento dello stato italiano alle direttive comunitarie non è collegata necessariamente al rapporto di lavoro e può anche essere una causa civile ordinaria (si veda in tal senso Cass. 23 marzo 2012, n. 4712), tuttavia in questo caso vi era comunque un rapporto di lavoro da accertare, tant’è che nel ricorso per decreto ingiuntivo UX rivendica l’esistenza di tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato, chiedendo l’equiparazione al magistrato ordinario di terza valutazione di professionalità.
La questione di competenza andava valutata, inoltre, a mio avviso, sia in relazione alla dedotta mancanza di terzietà e sia pure valutando l’aspetto ulteriore della mancanza di contraddittorio nel procedimento monitorio. Sotto tale profilo condivido il punto di vista del Governo italiano (richiamato nel punto 38 sentenza UX). Ritengo, pertanto, che gli elementi carenti sopra menzionati (carenza di terzietà e di obbligatorietà della giurisdizione) siano notevolmente rafforzati dalla carenza di contraddittorio nel procedimento principale.
Il procedimento principale – procedimento monitorio - è un procedimento inaudita altera parte a contraddittorio eventuale, come è stato precisato in precedenza, sicché mancava anche il requisito del contraddittorio che, proprio secondo la Corte di giustizia, è uno dei requisiti essenziali per verificare l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 267 TFUE.
La mancanza di terzietà appare, dunque, confermata, oggettivamente, dalla dubbia competenza e dall’assenza di contraddittorio. Sul punto va osservato che nel caso di specie, la incompatibilità tra il procedimento monitorio e la pregiudiziale comunitaria deriva proprio dal carattere eccezionale del procedimento monitorio che richiede per l’ emissione della ingiunzione di pagamento la certezza, liquidità ed esigibilità del credito e che ha proprio la funzione di garantire al creditore la possibilità di conseguire, il più rapidamente possibile, il titolo esecutivo; funzione che viene meno nel momento in cui il procedimento viene sospeso per l’invio della pregiudiziale comunitaria.
In assenza dei presupposti legittimanti, la domanda proposta con il ricorso monitorio va respinta, proprio per l’eccezionalità della carenza di contraddittorio. La carenza di contraddittorio era quindi una leva importante e concreta per ravvisare, nel contesto di una probabile incompetenza del giudice di pace nel procedimento principale, la mancanza di terzietà del giudice di pace atteso che il principio del contraddittorio ha una valenza internazionale come caratteristica costante del procedimento civile in tutte le costituzioni e nei sistemi legislativi di tutto il mondo e non solo quindi nell’art. 111 della nostra Costituzione [ v. sul punto A. Do Passo Cabral, Il principio del contraddittorio come diritto di influenza e dovere di dibattito, in Riv. dir. proc., 2005, pp 449 ss.].
La risposta della Corte con il riferimento ai propri precedenti (punto 64 della sentenza UX) in cui ha ritenuto ricevibile la pregiudiziale avanzata in un procedimento di ingiunzione è molto formale e non tiene conto del caso di specie dove, diversamente dagli altri due casi citati, erano claudicanti anche la terzietà del giudice e la obbligatorietà della sua giurisdizione.
In definitiva una valutazione complessiva degli elementi che la stessa Corte indica come richiesti dall’art. 267 TFUE avrebbe potuto dar luogo ad una pronuncia diversa.
2. Quello dei magistrati onorari è un rapporto di servizio o un rapporto di lavoro, nei termini tradizionali ai quali siamo abituati a considerarli? Cosa significa “onorario” nell’esercizio delle funzioni pubbliche?
Edoardo Ales
La risposta alla domanda, estremamente complessa, si può dare, a mio avviso su due piani diversi.
Sul piano teorico, rispetto al quale mi pare evidente che l’onorarietà dell’ufficio (Amt, per usare l’espressione tedesca) possa configurare esclusivamente un rapporto di servizio (Dienst), la cui ‘causa’ sta proprio nell’onore (Ehre) di concorrere con la propria professionalità (Kompetenz) all’esercizio di una funzione di pubblica utilità tra le più alte, quale quella giurisdizionale. Si tratta, quindi, di un’attività prestata ehrenamtlich (a titolo onorifico) per lo svolgimento della quale l’incaricato non deve percepire alcun compenso, traendo la propria soddisfazione dall’onore derivante dallo svolgimento della funzione. In questa prospettiva, l’accesso alla funzione stessa non dovrebbe richiedere alcuna formazione contenutistica specifica, consistendo l’attività da prestare nella messa a disposizione di una professionalità (Kompetenz) già in possesso di colui che volontariamente si offre. Una breve ‘infarinatura’ rispetto agli elementi procedurali dovrebbe bastare. Questa visione dell’onorarietà dell’ufficio si avvicina molto alla condizione del volontario, al quale, in base alla legislazione vigente, non è dovuta alcuna retribuzione o indennità, ma il solo rimborso delle spese eventualmente sostenute.
Sul piano pratico, mi pare che il discorso sia molto diverso. La legislazione vigente, non diversamente da quella precedente, riconosce una vera e propria remunerazione (di questo avviso anche la Corte di giustizia), a cottimo o sotto forma di indennità onnicomprensiva, che esclude dalla ‘causa’ del rapporto l’elemento onorifico prima richiamato, rendendo l’attività un vero e proprio lavoro, in quanto tale, protetto dalla Repubblica in tutte le sue forme ed espressioni (art. 35, Cost.). Ciò comporta una contraddizione in termini: il giudice o il procuratore onorario tali non possono essere in quanto, al di là dell’elemento soggettivo che li muove (il sentirsi onorati), ottengono dal loro impegno una remunerazione. A meno che non vi rinuncino (ma ciò oltre che improbabile sembrerebbe essere anche ‘impossibile’, alla luce dell’impianto legislativo), il compenso che derivano dall’attività svolta ne esclude il carattere onorario, riportandola, come detto, nell’alveo del lavoro, costituendo, così un rapporto di lavoro che sostituisce quello di servizio. Non certamente perché lo priva della qualità professionale, quanto, piuttosto, perché lo connota in termini sinallagmatici di do ut des concreto e non solo ideale (il prestigio che deriva dall’esercitare gratuitamente una certa funzione di rilevanza collettiva).
Questa riflessione vale a prescindere dalla consistenza numerica, pur impressionante, della magistratura onoraria rispetto a quella professionale. Infatti, in altri ordinamenti, i giudici cosiddetti laici che affiancano la magistratura professionale non sono da meno quanto a numero. Essi, tuttavia, svolgono la loro funzione o in quanto portatori di interessi specifici, come nel caso delle controversie di lavoro, essendo indicati dalla parte sindacale e datoriale, o in quanto esperti della materia, nelle corti di legittimità, livello al quale contribuiscono ad elaborare il principio di diritto. Nell’un caso e nell’altro, la funzione giurisdizionale è esercitata dal magistrato professionale, la cui posizione, di norma, consente di risolvere l’empasse creato dal ‘pareggio’ delle opinioni contrastanti o di dare forma di sentenza al principio di diritto proposto dal giudice laico (spesso professore universitario). Si tratta, quindi, di un ruolo, per quanto importante, pur sempre di affiancamento che richiede anche un inserimento organizzativo meno impegnativo nel sistema giudiziario di quanto non pretenda, invece, la posizione monocratica del giudice onorario italiano.
La mia conclusione, quindi, è che non si tratti di un giudice onorario nel senso teorico sopra esposto.
Umberto Gargiulo
La risposta a questa domanda impone, a mio avviso, tre piani di riflessione.
Innanzitutto, occorre partire dal disegno del Costituente. Nella prospettiva dell’art. 106, Cost. il ricorso alla magistratura onoraria era destinato a un impiego “straordinario” e limitato, sicché, in coerenza con altre funzioni attribuite a titolo onorario, anche per la magistratura onoraria le caratteristiche distintive avrebbero dovuto essere la gratuità (non necessariamente in conflitto con qualche forma di compenso a carattere indennitario), la temporaneità, l’impiego a tempo parziale, il carattere non professionale e non continuativo dell’attività prestata.
Come pure è stato rilevato, quindi, l’ambito elettivo della magistratura onoraria era, tradizionalmente, quello della giustizia c.d. minore; inoltre non poteva essere “indiscriminato”, perché il limite di utilizzo dei magistrati onorari si arrestava in primo grado dinanzi alla competenza del tribunale, giudice collegiale all’epoca dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, che infatti vieta l’assegnazione al magistrato onorario delle «funzioni attribuite a giudici singoli».
Fa eccezione, ma ne è chiara la ratio, la previsione (il 3° comma dell’art. 106, Cost.) che consente ai professori ordinari di materie giuridiche e agli avvocati con quindici anni d’esercizio, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, di essere designati dal CSM, per meriti insigni, ad integrare le Sezioni della Corte di Cassazione.
Vi è stata, poi, com’è noto, un’evoluzione nel ricorso alla magistratura onoraria, puntualmente ricostruita, da ultimo, dalla Consulta nella sentenza n. 41 del 2021. E veniamo così alla seconda prospettiva di osservazione, che considera, appunto, l’utilizzo “massivo” dei giudici onorari per sopperire alle croniche carenze della giustizia, i cui dati di contenzioso non hanno pari, quanto meno a livello europeo, così che l’allargamento del novero dei soggetti chiamati a esercitare la funzione giurisdizionale è servita ad evitare la paralisi del sistema, soprattutto nel settore civile, ma è stata possibile grazie a un impiego tutt’altro che parziale, temporaneo e, dunque, straordinario di queste figure.
Come sta dimostrando plasticamente il contenzioso sviluppatosi proprio a ridosso della decisione della Corte di giustizia, si è avuto per decenni un inserimento sovente, continuativo, sul piano della quantità, e significativo, sul versante della qualità delle funzioni, nell’organizzazione del settore giustizia, con l’esercizio di attività non solo, e non sempre, di c.d. giustizia minore, e con compensi, connessi alla quantità dell’attività prestata, che hanno superato la caratteristica dell’indennità, per assumere connotazioni e continuità di vero e proprio corrispettivo. In questo senso, riprendendo i concetti riportati nella domanda, non credo si possa escludere, aprioristicamente e, forse, pregiudizialmente, che l’attività svolta abbia di fatto assunto i tratti di «un rapporto di lavoro, nei termini tradizionali». Ne discende che, con riferimento a queste situazioni, che sono al contempo “patologiche” – se riferite a un funzionamento ordinario dell’attività giurisdizionale – ma strutturali, se si guarda alla durata e alla consistenza che ha avuto negli anni, la verifica della possibilità di riconoscere diritti che presuppongano la qualificazione di lavoratore subordinato non può essere, ripeto, esclusa in linea di principio e va invece, come ricordano proprio i giudici di Lussemburgo, verificata dal giudice nazionale, caso per caso.
Altro e differente discorso è poi quello della possibilità di rendere stabile questo inserimento nell’organizzazione, che tocca un aspetto ancora diverso, che si affronterà più avanti.
C’è però il terzo profilo di osservazione, che prende le mosse dall’ultimo, in ordine di tempo, assetto normativo della magistratura onoraria: il legislatore del 2017, sebbene attraverso disposizioni non sempre ineccepibili e forse migliorabili, riconduce queste figure a una dimensione più aderente alla ratio istitutiva della magistratura c.d. laica, più coerente con il dettato costituzionale e, probabilmente, meno foriera di abusi.
Marco Macchia
Confesso sin d’ora che ho qualche difficoltà rispetto ai termini e ai concetti impiegati nella domanda. Nella prospettiva pubblicistica chi presta la propria attività al servizio di pubbliche amministrazioni vanta un duplice rapporto: di servizio, che sta ad indicare la prestazione lavorativa offerta in cambio di una retribuzione, e d’ufficio, in quanto titolare di una componente dell’organizzazione amministrativa e di una sfera di funzioni pubbliche. Seguendo questa prospettiva, il personale onorario potrebbe essere definito come quello “non professionale”, nel senso che vanta un rapporto di ufficio mentre il rapporto di servizio è secondario, quasi inesistente. L’esempio dell’assessore è emblematico: il ruolo è conferito secondo un criterio di rappresentanza politica, è a termine, il compenso non è un corrispettivo del servizio prestato ma un’indennità, e lo scambio tra lavoro e retribuzione (l’aspetto professionale) è ridotto: per fare un esempio, l’assessore non è tenuto al rispetto di un preciso orario di lavoro. In altre parole, è titolare di un ufficio pur non vantando un rapporto di servizio.
Visto in questi termini, per rispondere all’interrogativo, l’“onorarietà” nell’esercizio delle funzioni pubbliche è la titolarità di un ufficio secondo un criterio di rappresentanza politica o di rappresentanza di interessi in cui l’obbligo di prestare il proprio servizio a favore dell’amministrazione sorge in corrispondenza del rapporto di ufficio e si estingue con quest’ultimo. Essa risponde al principio democratico, e non a quello meritocratico tipico del personale professionale.
Se ciò è vero, il magistrato onorario dovrebbe vantare unicamente un rapporto d’ufficio, mentre il rapporto di servizio dovrebbe essere assolutamente recessivo, dato il diverso inquadramento della magistratura onoraria rispetto a quella “di professione”. Ne sono una dimostrazione la nomina per chiamata, la temporaneità, il regime indennitario. Qui però emerge un punto di crisi rilevante, nel senso che il funzionario onorario dovrebbe essere impiegato a tempo parziale, mentre sempre più spesso l’esercizio delle funzioni del giudice onorario assorbe l’intera capacità lavorativa del titolare dell’ufficio. Questa situazione di fatto deforma la costruzione teorica sopra narrata, con l’effetto che il rapporto di servizio cacciato dalla “porta”, rientra dalla “finestra”. Per tale via il rapporto di servizio onorario del giudice assomiglia sempre più ad un rapporto di lavoro, addirittura subordinato, a cui la Corte di giustizia tende di conseguenza a riconoscere le misure minime di tutela proprie dell’ordinamento europeo. Non vi è dubbio che l’urgenza della “natura delle cose”, dimostrata dal carico di lavoro della giustizia onoraria, venga a snaturare e a confondere l’originaria onorarietà del titolare dell’ufficio.
Carla Musella
La forzatura relativa alla ricevibilità della pregiudiziale che ho evidenziato nella precedente risposta nasce peraltro da lontano ed è il punto di arrivo di una vicenda che parte, volendo concentraci sugli ultimi anni, dalla richiesta della Commissione europea del 16 ottobre 2015 in cui venne contestato formalmente all’Italia il trattamento giuridico dei giudici onorari proprio sotto il profilo dell’assenza di un periodo di ferie retribuito, di una disciplina dell’orario di lavoro e della mancanza di un trattamento previdenziale ed assistenziale. Il Governo italiano ha risposto il 30 novembre 2015 negando l’esistenza di un rapporto di lavoro per l’assenza di direttive, definendo appunto i magistrati come funzionari onorari che svolgono mansioni semplici rispetto a quelle dei magistrati professionali e che esercitano spontaneamente le funzioni per dovere civico [sul punto si veda A. Proto Pisani, La magistratura onoraria tra Commissione europea e (tentata) furbizia italiana, in Foro it., 2018, V, 42 ss].
È evidente che la situazione attuale di fatto della magistratura onoraria non corrisponde alla figura del funzionario onorario. Basta leggere i dati contenuti nelle relazioni dei Presidenti di Corte d’appello che inaugurano l’anno giudiziario per verificare la mole di contenzioso civile definito dai giudici di pace e dai giudici onorari in generale e la conferma di tale “deviazione” viene indirettamente dalla sentenza n. 41/2021 della Corte costituzionale ove si afferma la contrarietà alla Costituzione delle norme che hanno previsto la istituzione dei giudici aggregati di Corte d’appello, inseriti nei collegi, laddove l’art. 106, Cost. contempla solo lo svolgimento delle funzioni monocratiche per i giudici onorari [per una lettura critica della vacatio stabilita da questa sentenza, in una analisi di insieme del ruolo di “decisore politico” che talvolta assume il giudice costituzionale, si veda l’articolo di A. Ruggeri, pubblicato in questa Rivista, il 13 aprile 2021, Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021).
Il vero nodo è che la giustizia civile italiana, per i numeri elevatissimi del contenzioso, non può reggere con i soli magistrati togati e d’altro canto questa situazione, che si è accentuata negli ultimi anni, è comune ad altri paesi europei che fanno largo uso della c.d. magistratura laica, termine certamente preferibile a quello di onoraria, che peraltro è contenuto nella Costituzione italiana. Se questo era vero già nel 1991 quando è stato istituito il giudice di pace, ancor di più lo è adesso che vi è una pressione fortissima a rendere più veloce la risposta della giustizia soprattutto civile.
Da ultimo vorrei sottolineare che questo problema è ancor più accentuato nel contesto della pandemia da COVID – SARS 2 con le difficoltà di tenere e portare a completamento il concorso per il reclutamento dei magistrati togati, a suo tempo rinviato, e per la crescita dell’arretrato dovuto alle chiusure degli uffici giudiziari e ai rinvii imposti dalla pandemia.
Quindi non si può negare che i giudici onorari svolgano un’attività di lavoro considerevole. Dalla più volte citata ordinanza di rinvio del giudice di pace di Bologna risulta che la ricorrente aveva depositato oltre 400 sentenze penali e oltre 1000 decreti di archiviazione tenendo due udienze monocratiche settimanali anche in materia di immigrazione. Parlare in questi casi di dovere civico sembra una ipocrisia giuridica.
Se dal piano del fatto e dell’innegabile esistenza di un’attività di lavoro, a volte intensa, dei giudici onorari sia di pace, che di Tribunale e aggregati di Corte d’appello, con inserimento nell’organizzazione degli uffici giudiziari, ci trasferiamo sul piano giuridico e della giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale riscontriamo una pacifica definizione del giudice onorario come funzionario onorario.
Appare opportuno richiamare una delle tante sentenze del giudice di legittimità per delineare proprio la figura del giudice di pace come funzionario onorario. Si tratta di una vicenda in cui è stato respinto un ricorso proposto avverso una sentenza che aveva negato al giudice di pace la corresponsione della indennità prevista dall’art. 11, c. 3 della legge n. 374/1991 richiesta per il periodo di non attività per la sospensione dei termini processuali.
Nella sentenza 20 settembre 2019, n. 25767 la Corte di Cassazione sui giudici di pace così motiva “pur non potendo sussistere dubbi sul fatto che la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari e che di tale categoria fanno parte sia i giudici di carriera che quelli onorari (v. gli artt. 102,104 e 105 Cost) - non è casuale la circostanza che, già prima dell'entrata in vigore della Carta Fondamentale del 1948, il RD 30 gennaio 1941 n. 12 art. 4, distinguesse “in due diversi commi le due categorie di magistrati ordinari, stabilendo nel comma 1 che l’ordine giudiziario “è costituito” dai magistrati cd. togati e nel secondo che “appartengono all’ordine giudiziario” anche gli altri magistrati cd. Onorari” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., 9 novembre 1998, n. 11272).
Da tale premessa poi la Corte ricava l’affermazione della “non omogeneità tra la figura del funzionario onorario e quella del pubblico dipendente (qual è, invece, il magistrato togato), “perché la prima si rinviene ogni qualvolta esista un rapporto di servizio con attribuzione di funzioni pubbliche, ma manchino gli elementi caratterizzanti dell’impiego pubblico, quali la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico-discrezionale); l’inserimento strutturale del dipendente nell’apparato organizzativo della P.A. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario); lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso); la diversità concerne anche la durata, che è tendenzialmente indeterminata nel rapporto di pubblico impiego, a fronte della normale temporaneità dell’incarico onorario” (così, tra le tante, in motivazione, Cass. Sez. Lav., 5 febbraio 2001, n. 1622; per un’applicazione recente si veda anche, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 31 maggio 2017, n. 13721).
Concludendo sul punto, non vi è dubbio che la Costituzione delinei come funzionari onorari i giudici onorari e tale lettura è in un certo senso avallata dalla sentenza ultima della Corte costituzionale n. 41/2021 che traccia un excursus storico del ruolo di tali magistrati onorari ribadendo l’importanza del secondo comma dell’art. 106, Cost., con esclusione di qualsiasi lettura evolutiva della norma fondamentale, laddove affida ai giudici onorari solo le funzioni attribuite ai giudici singoli.
Tuttavia, è innegabile, a mio avviso, che il ruolo di fatto della magistratura onoraria nel nostro ordinamento renda spesso non coincidente la figura “astratta” del funzionario onorario con i giudici non togati.
3. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso la possibilità di riconoscere al magistrato onorario lo status giuridico di pubblico dipendente a tempo pieno o parziale nell’ambito della magistratura. Condividete questo orientamento o lo ritenete superabile, e sulla base di quali argomenti?
Edoardo Ales
Da quanto evidenziato in precedenza mi pare ovvio derivare, sul piano teorico, che il magistrato realmente onorario non può essere classificato come pubblico dipendente al pari di un magistrato professionale. Sul piano pratico, invece, il discorso è, come detto, molto diverso e passa, inevitabilmente, come sottolineato dal Consiglio di Stato, dalla Corte di Cassazione e, in apicibus, dalla Corte Costituzionale, da una riflessione sul tema del reclutamento. Il ‘vero’ magistrato onorario si presta, non è reclutato. Il sistema in vigore prevede, invece, degli elementi di selezione non comparabili al pubblico concorso che, però, preludono all’inserimento in un ‘ruolo’ con tanto di dotazione organica che ricorda, appunto, il reclutamento, richiedendo anche l’esito positivo di un tirocinio e determinando l’assegnazione a una sede. Sta di fatto, tuttavia, che non presentando caratteri di analogia con il reclutamento dei magistrati professionali, non può dare accesso alla magistratura professionale.
Umberto Gargiulo
Il quesito qui incrocia la problematica del reclutamento e il ruolo che s’intende oggi attribuire al concorso pubblico: tematica che, ovviamente, travalica i confini di questa riflessione, ma che richiede, a mio avviso, un approccio pragmatico, quanto al tema più in generale, e per converso - non sembri una contraddizione - di estremo rigore, quanto allo specifico ambito esaminato.
Sul primo fronte è indubbio come lo strumento del concorso pubblico richieda, oggi più che mai, un serio ripensamento che accantoni qualsiasi approccio ideologico per importare un’ampia e diversificata strumentazione di verifica delle competenze: in questo senso, forse, gli strumenti selettivi impongono una revisione sostanziale, che investe tutto il comparto pubblico e la sua capacità di selezionare i soggetti più idonei a ricoprire le funzioni da assegnare.
Al contempo però, come ha ricordato la Consulta proprio con riferimento alla categoria dei giudici onorari, in sostanza il pubblico concorso qui viene in rilievo non tanto, e non solo, come strumento per la scelta dei “migliori” – e dunque in una prospettiva strumentale a garantire imparzialità e (in questo senso, soprattutto) buon andamento – ma risulta funzionale «a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza» (così Corte Cost. n. 41/2021) quale elemento fondante l’assetto ordinamentale della Repubblica.
La previsione di una selezione che – dietro la pressione dei “numeri” – volesse realizzare le predette finalità, finirebbe allora per rimettere in discussione la caratteristica stessa, onoraria, dell’attribuzione di talune funzioni giurisdizionali, radicando come strutturale una soluzione che il Costituente disegna come straordinaria, nel senso letterale del termine.
Va anche aggiunto che le ipotesi di cui si discute sono in qualche modo connesse al tentativo, sin qui fallito, di “stabilizzazione” della magistratura onoraria; un termine, quello di stabilizzazione, che sotto un’unica etichetta raccoglie forme diverse di superamento del precariato, buona parte delle quali non avallate dalla giurisprudenza costituzionale, proprio per il rischio di aggiramento del sistema del concorso pubblico, che dovrebbe essere tendenzialmente aperto, e per il coevo rischio di trattare in maniera omogenea posizioni per le quali l’inserimento nell’organizzazione ha avuto luogo con forme e modalità tra loro molto distanti.
Marco Macchia
A mio parere non è il Consiglio di Stato ad aver escluso la possibilità di riconoscere al magistrato onorario lo status giuridico di pubblico dipendente, bensì è il legislatore. Quest’ultimo ha chiaramente statuito, con l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 116/2017, nell’esercizio della propria potestà discrezionale che l’incarico di magistrato onorario non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego. Dal che se ne deduce che l’inquadramento della magistratura onoraria è assimilabile alla magistratura professionale unicamente sotto un profilo funzionale, e non anche per lo status giuridico, in conformità alla regola derivante dai principi costituzionali per i quali l’esercizio delle funzioni giurisdizionali è svolto in via istituzionale da magistrati di professione, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario e la cui nomina avviene per concorso (art. 102, comma primo, e art. 106 comma primo, Cost.). Pertanto, lo status di magistrato deve essere tenuto distinto dall’esercizio concreto delle funzioni giudicanti, giacché il legislatore nella sua autonomia ha escluso per i magistrati onorari la costituzione in via di fatto di un rapporto di pubblico impiego. A questa scelta seguono coerentemente le altre in tema di indennità riconosciuta ai magistrati onorari, di disciplina degli oneri previdenziali (rientranti nella gestione separata), di sanzioni disciplinari e di ambito di competenza dei giudici di pace. Si ritiene che vi sia armonia tra tale decisione del legislatore e la regola costituzionale dell’art. 106 secondo cui il principio di equiparazione tra magistratura onoraria e professionale vale solo dal punto di vista funzionale (e non in termini di status), confermando che “i magistrati ordinari costituiscono l’ordine giudiziario, mentre i magistrati onorari vi appartengono”, come si ricava dall’art. 4 della legge sull’ordinamento giudiziario.
Personalmente ritengo che detta opzione legislativa sia condivisibile a patto che quest’ultima sia posta in equilibrio con alcune tutele lavoristiche da riconoscere al giudice onorario, preso atto del ruolo essenziale da questo svolto per il buon funzionamento del sistema giustizia. Come d’altronde riconosciuto nella comunicazione della Commissione Europea nel caso EU Pilot 7779/15/EMPL in cui era preannunciata l’apertura di una procedura di infrazione a danno dell’Italia per contrasto con la disciplina eurounitaria della disciplina nazionale sul servizio prestato dai magistrati onorari, ovvero nella comunicazione della Presidente della Commissione in risposta alle petizioni del Parlamento europeo in cui si invitava l’Italia a trovare un equo compromesso sulla “situazione lavorativa” dei giudici di pace, ovvero ancora nella Raccomandazione CM/Rec (2010)12 del Comitato europeo per i diritti sociali in punto di remunerazione dei giudici onorari in caso di malattia, maternità o paternità e a seguito del pensionamento.
Addivenire per scorciatoie ad una parità di trattamento in ragione della (presunta) parità di funzioni – concetto quest’ultimo non condivisibile, come sta a dimostrare la pronuncia della Corte costituzionale sull’impossibilità di assegnare i magistrati onorari a un collegio di appello – sarebbe inammissibile e contrario alla certezza del diritto. Ragionare, invece, su un differente assetto della giustizia onoraria da parte del legislatore (magari anche superando il concetto stesso di onorarietà e temporaneità, pure per non sprecare le competenze già acquisite), all’interno di una riforma complessiva del processo in un’ottica di snellimento e forte riduzione dei tempi, appare fortemente auspicabile.
Carla Musella
Fin quando nel nostro ordinamento rimarrà la regola del pubblico concorso per l’accesso alla magistratura professionale, ai giudici onorari non può essere riconosciuto lo status giuridico di pubblico dipendente a tempo pieno o parziale nell’ambito della magistratura.
Il Consiglio di Stato differenzia la magistratura, rispetto al pubblico impiego, con argomentazioni condivisibili laddove (sentenza 9 dicembre 2020 n. 7772) afferma che quella del magistrato professionale è una carriera speciale di diritto pubblico (art. 3 d.lgs. n.165/2001) in quanto sottende un rapporto di servizio inerente ad una funzione espressiva di sovranità. Funzione espressiva di sovranità: è su questo elemento della inerenza della magistratura professionale ad una funzione espressiva di sovranità che occorre soffermarsi per comprendere la particolare delicatezza della funzione giurisdizionale espressione di un potere autonomo e indipendente dagli altri poteri. Questo orientamento del giudice amministrativo non credo sia superabile proprio perché attiene ai fondamenti dello stato democratico. Non vi è solo la regola del pubblico concorso, così come in tutto il settore pubblico, ma la necessità che la funzione giurisdizionale sia, in linea di massima svolta da magistrati professionali. In proposito vorrei richiamare proprio la sentenza della Corte costituzionale n. 41/2021 laddove afferma: “Tale assetto, che deriva dall’art. 106, primo e terzo comma, Cost., costituisce, come si evince anche dai lavori preparatori, il punto di arrivo di un complesso dibattito, in sede di lavori dell’Assemblea Costituente, riguardo alle modalità più idonee di assunzione dei magistrati in coerenza con le scelte fondamentali in ordine all’autonomia e all’indipendenza dell’ordine giudiziario da ogni altro potere (art. 104, primo comma, Cost.) e alla soggezione del giudice solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), nonché al divieto di istituzione di giudici straordinari o giudici speciali (art. 102, secondo comma, Cost.). La regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell’ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell’ordinamento della Repubblica.”.
In altri termini il pubblico concorso non è solo la modalità con cui si realizza la scelta dei migliori, con un percorso comune a quanto previsto per le assunzioni nella pubblica amministrazione (art. 97), ma è anche strettamente funzionale ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri.
4. Ritenete possibile, in una prospettazione alternativa e subordinata, il riconoscimento del rapporto di impiego pubblico nell’ambito del personale amministrativo del Ministero della Giustizia?
Edoardo Ales
Al di là della più volte evidenziata contraddizione sul piano teorico, sul piano pratico la soluzione del riconoscimento di un rapporto (contrattualizzato) analogo a quello del personale amministrativo del Ministero della Giustizia non mi pare percorribile per l’evidente incommensurabilità delle prestazioni svolte dai due gruppi professionali. In particolare, non mi sembra assimilabile l’amministrazione della giustizia con l’esercizio della funzione giurisdizionale. In più, una simile soluzione proporrebbe un notevole problema legato alla natura subordinata del rapporto di lavoro, tipica del personale contrattualizzato, che risulta del tutto incompatibile con il requisito dell’indipendenza inteso nel senso di autonomia decisionale del giudice.
Umberto Gargiulo
Tenderei ad escludere questa possibilità perché si tratta di una soluzione che forse riuscirebbe ad aggirare parte degli ostacoli esaminati in precedenza, ma provocando due diverse incoerenze di sistema: per un verso determinerebbe l’assimilazione, sul piano della regolazione, del rapporto di lavoro di soggetti cui sono assegnati compiti assai differenti e, soprattutto, riconducibili a due diversi ambiti d’intervento dello Stato, con una sovrapposizione tutt’altro che positiva in un contesto, quello della separazione dei poteri, la cui centralità è stata ribadita di recente dal Giudice delle leggi (Corte Cost. n. 41/2021); per altro verso rischierebbe di incidere proprio sul profilo dell’indipendenza, centrale nella vicenda esaminata, che costituisce un requisito fondamentale (anche) dell’attività giurisdizionale rimessa ai giudici onorari e ne risulterebbe potenzialmente compromesso.
Marco Macchia
Non mi sembra ci sia spazio alcuno per riconoscere ai magistrati onorari un rapporto di impiego pubblico nell’ambito del personale amministrativo del Ministero della Giustizia. In primo luogo, detto personale ministeriale vanta un rapporto di lavoro privato con l’amministrazione, ossia nel rispetto dei contratti collettivi, e non di impiego pubblico. In secondo luogo, le funzioni svolte sono diverse: il magistrato onorario ha competenze tecnico-giuridiche per redigere la sentenza, istituisce interamente il processo e decide la causa, mentre non ha competenze amministrative. In terzo luogo, essa costituirebbe una sorta di stabilizzazione automatica in assenza del requisito concorsuale (sebbene sia noto che anche i magistrati onorari instaurano il loro rapporto con l’amministrazione in seguito al superamento di un concorso per titoli, in passato previsto dagli artt. 4 e 4-bis l. n. 374 del 1991) contraria alla regola meritocratica dell’art. 97, Cost. In quarto luogo, tale riconoscimento rappresenterebbe una palese violazione dell’obbligo costituzionale di indipendenza dell’ordine giudiziario, a cui i magistrati onorari “appartengono” come sopra precisato.
Carla Musella
Riterrei di no perché questo non corrisponde alla funzione giurisdizionale svolta dai giudici onorari. Sarebbe un ennesimo pasticcio all’italiana perché il giudice onorario svolge funzioni giurisdizionali e non amministrative. Occorre riportare tuttavia, e questo è un nodo fondamentale, la magistratura onoraria nell’alveo delle regole costituzionali, anche se questo è l’aspetto più problematico e difficile che richiede uno sforzo di riforma dell’intera giustizia civile.
5. La Corte di Cassazione, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, ha costantemente affermato che il servizio onorario non è equiparabile al rapporto di impiego pubblico, pena l’alterazione della configurazione tipica della struttura dell’ordinamento giudiziario italiano che si fonda sui due pilastri della magistratura togata, di tipo professionale, e della magistratura onoraria. I magistrati onorari, quindi, sono giudici “semiprofessionali” che restano fuori dal perimetro del rapporto di pubblico impiego e della subordinazione?
Edoardo Ales
Fermo restando quanto detto sul piano teorico, dal punto di vista pratico, il problema di fondo è costituito non tanto dalla astratta qualificazione del rapporto, ma dalla modalità concreta di inserimento della prestazione offerta dal magistrato onorario all’interno dell’ordinamento giudiziario. In particolare, una volta esclusa la subordinazione derivante dal contratto di lavoro o l’inserimento organico frutto di un atto amministrativo, l’unica soluzione che rimane è quella del coordinamento di una prestazione autonoma consistente, in concreto, nell’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale. D’altro canto, questa sembrerebbe anche essere la soluzione adottata dal legislatore, almeno sul versante previdenziale, laddove prevede l’iscrizione del giudice onorario alla Gestione Separata dell’INPS in assenza di obblighi assicurativi derivanti dall’iscrizione ad albi professionali. Questa soluzione, tuttavia, si scontra con il divieto, per me inspiegabile, di ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative da parte delle Pubbliche Amministrazioni, sostituite dalle collaborazioni autonome. Queste ultime, tuttavia, escludono qualsiasi forma di coordinamento negoziato tra le parti del rapporto, contrariamente a quanto previsto, ora in forma esplicita, dall’art. 409 c.p.c., e possono essere utilizzate esclusivamente per attività di studio o di consulenza. De iure condendo, la soluzione mi parrebbe essere quella della reintroduzione, anche soltanto per i giudici e procuratori ‘onorari’, della possibilità di ricorrere alle collaborazioni coordinate e continuative, predisponendo un modello di accordo di coordinamento che salvaguardi le esigenze dell’amministrazione e dia concreta attuazione ai limiti legali già imposti rispetto allo svolgimento della prestazione nell’ottica di consentire la pluricommittenza in favore del giudice.
Umberto Gargiulo
Credo vadano tenuti ben distinti i due profili interessati dalla domanda. Un aspetto è la possibilità di qualificare il magistrato onorario quale dipendente pubblico, altro e ben distinto aspetto è se la prestazione resa, quanto al profilo oggettivo – più che la figura che pone in essere l’attività sul piano soggettivo – resti fuori dal perimetro della subordinazione.
Se, per tutte le ragioni dette, che richiamano una giurisprudenza assolutamente granitica, coerente con la ratio istitutiva della magistratura onoraria, va escluso un riconoscimento “di fatto” di un rapporto di lavoro pubblico, in assenza di procedura concorsuale di accesso all’impiego e alla luce delle caratteristiche fisiologiche di qualsiasi servizio onorario, che è privo dei connotati di continuità, esclusività, stabilità, discorso più articolato riguarda il tema della subordinazione.
In realtà, i tratti caratterizzanti la magistratura onoraria, come delineati dal legislatore del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116 sembrano in grado di assicurare un’adeguata coerenza tra l’impegno richiesto (settimanalmente e complessivamente, stanti i limiti massimi di utilizzo), le incompatibilità imposte e l’impiego per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali minori.
Altro discorso riguarda il concreto utilizzo che si ha o, forse meglio, si è avuto negli anni, di talune figure di magistrati onorari (si pensi ai giudici di pace, ma non solo). Su questo versante, seppure vada negata la conversione del rapporto a termine, non può escludersi che vi sia stato un ricorso alla magistratura onoraria in certo qual modo “distorto” – proprio quanto ai profili della continuità d’impegno richiesto, della frequenza di esso, che veniva semmai ad assumere caratteri tali da impedire (ancora una volta “di fatto”) lo svolgimento di altra attività lavorativa, congiunti al grado di relazione con l’ufficio di riferimento – che porti a rinvenire, nel singolo caso, una continuità d’inserimento nell’organizzazione idonea a costituire la premessa del riconoscimento di un vincolo di subordinazione: una qualificazione che, non a caso, ci ricorda la stessa Corte di giustizia, «spetta, in ultima analisi, al giudice nazionale».
Sul versante interno, del diritto nazionale, escludere aprioristicamente la qualificazione sarebbe impossibile, stante il vincolo d’indisponibilità del tipo; quanto alla disciplina eurounitaria ancor meno può escludersi, come meglio si vedrà, l’applicazione di singole discipline che presuppongono criteri tutt’altro che stringenti, in presenza di «prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisca indennità aventi carattere remunerativo» per usare le parole della Corte di giustizia.
È però evidente che situazioni siffatte, non prive di connotati patologici, riguardino soprattutto il passato e non a caso hanno investito i tribunali in seguito all’accantonamento del tentativo di stabilizzazione di tali figure.
Marco Macchia
Come sopra precisato, l’appartenenza “meramente funzionale” della magistratura onoraria all’ordine giudiziario non implica in alcun modo la costituzione di un rapporto di impiego pubblico. La legge lo vieta espressamente, perciò i giudici onorari restano per forza fuori da questo perimetro.
Discorso più complesso, invece, è se tali giudici “semiprofessionali” restino fuori anche dalla subordinazione. Teoricamente, il rapporto di servizio onorario esula dalla nozione giuridica di rapporto di lavoro, sia subordinato che autonomo (Cass., Sez. Un., n. 5431/2008). In concreto, però, i magistrati onorari, al pari dei magistrati ordinari, esercitano la giurisdizione in materia civile e penale alle medesime condizioni (in quanto tenuti rispetto delle tabelle indicanti la composizione dell’ufficio e degli ordini di servizio del capo dell’ufficio e dei provvedimenti organizzativi del C.S.M., giudicati sulla base dei medesimi criteri di valutazione di professionalità, tenuti alla costante reperibilità, soggetti, sotto il profilo disciplinare ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati professionali). Orbene, proprio questo profilo è stato valorizzato dalla Corte di giustizia, la quale afferma che «i giudici di pace svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»; difatti, un giudice di pace, nell’ambito delle sue funzioni, «effettua prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo», per cui «può rientrare nella nozione di “lavoratore”». (punti 112 e 113).
In questi termini, emerge una evidente contraddizione tra il concetto nazionale di “onorarietà” e la lettura sostanzialistica offerta dalla Corte di giustizia. Secondo quest’ultima, a prescindere dalla qualificazione giuridica data dall’ordinamento statale, i giudici onorari sono soggetti a precise condizioni di lavoro, sono sottoposti a potere disciplinare, devono rispettare le tabelle che indicano la composizione dell’ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. Per queste ragioni vanno considerati “lavoratori” ai sensi della direttiva dell’Unione. Nondimeno, ciò non pregiudica la facoltà degli Stati di prevedere l’esistenza di uno statuto particolare che disciplini l’ordine della magistratura, a patto che si rispettino le tutele minime del lavoro.
Carla Musella
Da quanto esposto al punto precedente non vedo come si possa superare questo assetto costituzionale. Al tempo stesso su un piano più strettamente giuslavoristico vorrei sottolineare come proprio la nozione di lavoratore eurounitario comporta il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ai magistrati onorari e, al tempo stesso, la possibilità di risarcire il danno in caso di abuso del lavoro a tempo determinato.
Mi sembra condivisibile la strada indicata da Edoardo Ales di una configurazione de iure condendo per alcune figure di magistrati onorari della collaborazione coordinata e continuativa, tenendo conto anche dell’evoluzione del diritto del lavoro, alimentata dal diritto eurounitario, del progressivo avvicinamento delle tutele tra i diversi tipi di lavoro attraverso l’estensione di diritti fondamentali, un tempo applicabili solo al lavoro subordinato, a vari tipi di attività lavorativa.
6. La Corte costituzionale, con la sentenza 18 novembre 2020, n. 267, ha dichiarato illegittimo l’art. 18, c.1, d. l. 25 marzo 1997, n. 67, conv. in l. 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui non prevede che il Ministero della Giustizia rimborsi al giudice di pace le spese di difesa sostenute nei giudizi di responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi per fatti di servizio e definiti con provvedimento di esclusione della responsabilità, considerando del tutto irragionevole l’esclusione dei magistrati onorari dalla tutela accordata solo ai magistrati togati, in considerazione dell’identità della funzione del giudicare e della sua primaria importanza costituzionale, nonché della necessità di garantire un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici conseguenti ad azioni di responsabilità infondate.
Ritenete che questa pronuncia possa aprire le porte a nuove questioni di legittimità costituzionale o che l’iniziativa spetti ora al Parlamento?
Edoardo Ales
Alla luce di quanto risposto in precedenza, mi pare di poter ritenere assolutamente condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la Corte costituzionale, attenendo la garanzia in questione all’esercizio della funzione giurisdizionale, del quale non vi è possibilità di dubitare. Questo principio vale per tutte le disposizioni che attengono detto esercizio e, dunque, dovrebbe essere affermato o eventualmente opportunamente circoscritto sulla base di considerazioni oggettive, dal legislatore, onde evitare il susseguirsi di questioni di costituzionalità.
Umberto Gargiulo
La decisione della Corte costituzionale è pienamente condivisibile, in quanto inerente all’esercizio della funzione giurisdizionale e dunque alla necessità di tutelare la “serenità” di chiunque la eserciti, anche quale elemento di garanzia indiretta della terzietà e della stessa indipendenza. In questo senso la decisione della Consulta, centrata sulla ratio dell’istituto esaminato, prescinde dalla qualificazione giuridica delle posizioni del giudice professionale e del giudice onorario, collegandosi piuttosto alla funzione esercitata, che viene ad essere tutelata. Da questo punto di vista la previsione normativa, all’esito dell’intervento della Corte, non è dissimile da quanto accade anche in altri contesti pubblici, ove è previsto il rimborso delle spese di patrocinio ai dipendenti dell’amministrazione, al ricorrere di talune condizioni.
Per questo motivo, la vicenda non appare destinata a generare ulteriori connessioni con i profili più generali della questione inerente alla qualificazione della figura dei giudici onorari.
L’intervento del Parlamento non appare, a rigore, necessario per l’operatività della norma, che è destinataria di una pronuncia d’illegittimità parziale; altro discorso è se, nell’esercizio della discrezionalità propria del legislatore, si dovesse provvedere a una diversa delimitazione dei requisiti di accesso a quanto previsto dalla disposizione.
Marco Macchia
L’estensione dell’obbligo legale di rimborso al giudice onorario delle spese di difesa sostenute nei giudizi di responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi per fatti di servizio e conclusisi con provvedimento di esclusione della responsabilità, è coerente con la regola della parità di funzioni rispetto ai magistrati ordinari. Svolgendo i giudici onorari la “funzione magistratuale” in concreto, a prescindere dall’appartenenza ad una precisa categoria, emergono nei fatti finalità di difesa che sono identicamente avvertite dai magistrati onorari e da quelli ordinari.
Corre, però, l’obbligo di precisare che tale diritto al rimborso delle spese è figlio appunto dell’equiparazione funzionale – cioè lo svolgimento dell’ “attività giurisdizionale” nel suo complesso – che nulla a che vedere con lo status ovvero con il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato. In questa logica, la sentenza del giudice delle leggi si inserisce in un solco già tracciato e non mi sembra apra le porte a nuove questioni di legittimità costituzionale. Appare, invece, sotto tale profilo molto più dirompente l’arresto della Corte di giustizia che riconosce ai fini europei la natura di lavoro subordinato dell’incarico di magistrato onorario.
Resta comunque il fatto che un’iniziativa legislativa al riguardo è altamente auspicabile, data l’evidente complessità allo stato attuale della disciplina giuridica della giustizia onoraria.
Carla Musella
La soluzione adottata dalla Corte costituzionale è ineccepibile ed è fondata proprio sulla funzione di giudicare che è identica per il giudice ordinario e per il giudice di pace. Ed è lo svolgimento della funzione giurisdizionale che comporta il riconoscimento di alcune regole e benefici anche ai giudici onorari, come quella del rimborso delle spese di patrocinio che è prevista per tutti i dipendenti dell’amministrazione statale. La Corte costituzionale ha emesso una sentenza di parziale incostituzionalità, sicché non credo sia indispensabile l’intervento del legislatore perché già sulla base della sentenza e qualora ricorrano i presupposti dell’art. 18, c.1, d. l. n. 97/1997, i giudici di pace possono ottenere il rimborso delle spese legali sopportate. Il giudice delle leggi ha tenuto conto della sentenza UX e quella di una estensione di volta in volta di alcune prerogative ai giudici onorari può essere una soluzione pragmatica al problema molto intricato di dare un assetto uniforme generale ed astratto alla magistratura onoraria che oltre tutto conosce diverse situazioni di fatto e diversa intensità di lavoro.
7. Tornando alla “sistemazione” della magistratura onoraria nell’ambito dell’ordinamento italiano, quali sono le direttive comunitarie applicabili in base alla nozione di lavoratore eurounitario, a prescindere dalla qualificazione del rapporto in termini di impiego?
Edoardo Ales
Ritengo che, a seguito della sentenza UX, le Corti italiane, laddove adìte dai giudici onorari, dovrebbero procedere, ove possibile, a adottare un’interpretazione conforme della normativa nazionale, attuativa del Diritto dell’Unione, della quale si richieda l’applicazione. Mi pare, infatti, che, una volta verificato, da parte del giudice nazionale che un giudice di pace, nell’ambito delle sue funzioni, effettui prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, questi possa rientrare nella nozione eurounitaria di “lavoratore”, anche al di là dell’ambito di applicazione delle direttive in materia di orario di lavoro e di contratto a termine. Ciò che mi sentirei di escludere, invece, è l’applicazione del principio di parità di trattamento retributivo con i magistrati professionali, proprio in considerazione delle ragioni oggettive relative alle “diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati [onorari] devono assumere la responsabilità”. Ciò non vuol dire affermare la condizione di lavoratore subordinato, non essendoci coincidenza con la nozione eurounitaria di lavoratore. Infatti, come efficacemente dimostrato in dottrina (M. Menegatti, The Evolving Concept of “worker” in EU Law, in ILLeJ, 2019, 71), detta nozione si concentra sulla messa a disposizione per una certa durata delle prestazioni piuttosto che sul vincolo di sottoposizione gerarchico-tecnica del lavoratore.
Umberto Gargiulo
Ritengo che, proprio alla luce della decisione della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, il giudice nazionale non possa prescindere dalle indicazioni fornite dalla stessa Corte in merito all’applicazione della normativa interna che sia attuativa del Diritto dell’Unione. In questo senso condivido l’opinione che non preclude l’applicazione ai giudici onorari delle direttive che presuppongano la nozione eurounitaria di lavoratore elaborata dalla giurisprudenza europea (in materia di libera circolazione), cioè di soggetto (a quei fini) che eroga «prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisca indennità aventi carattere remunerativo» e che «fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra [persona] e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in cambio delle quali percepisca una retribuzione»; direttive in relazione alle quali la Corte di Lussemburgo ha segnalato, ancora una volta, la necessità di un’applicazione uniforme sul territorio dell’Unione.
La stessa Corte, tuttavia, nel ripetere che spetta al giudice nazionale la qualificazione, ribadisce che «quest’ultimo deve fondarsi su criteri obiettivi e valutare nel loro complesso tutte le circostanze […] riguardanti la natura sia delle attività interessate sia del rapporto tra le parti in causa». In questo senso, con riguardo al tema della parità di trattamento e di quella retributiva in particolare, occorre domandarsi se vi siano quelle «ragioni oggettive»: ragioni che giustificano la differenza di trattamento tra magistrati togati e magistrati onorari che, se non possono consistere nella mera temporaneità del rapporto dei secondi, potrebbero rinvenirsi, a tacer d’altro, nelle modalità di accesso alla magistratura di carriera rispetto a quella onoraria e all’assenza del vincolo di esclusività per quest’ultima (seppure nell’ambito di un regime d’incompatibilità particolarmente stringente), che osterebbero a una comparazione piena tra le due posizioni.
Discorso più delicato, che pure in tal caso non può essere trattato per schemi generali o sulla base di petizioni di principio e che in questa sede non può essere compiutamente affrontato per ragioni di spazio, è quello della comparabilità dei compiti. Accertato che la magistratura onoraria non si occupi affatto soltanto di controversie c.d. bagatellari, va rilevato come i limiti di competenza e gli snellimenti procedurali che accompagnano l’attività giurisdizionale di talune figure di giudici, sono assenti in relazione ad altre figure di magistrati onorari, che si trovano a sostituire, in tutto e per tutto, il corrispondente “togato”.
È evidente, poi, che il dibattito, allo stato, risulti influenzato da quanto sin qui accaduto. Occorre, invece, a mio avviso, distinguere le due situazioni: un discorso è valutare la comparabilità della figura del magistrato onorario prevista attualmente dalla legge, altro è verificare se l’utilizzo prolungato, praticamente continuativo, dei magistrati onorari nel recente passato – un utilizzo che per quantità e qualità d’impegno ha finito per coincidere, in molti casi, con un’attività esclusiva e, di fatto, stabilmente inserita nell’organizzazione considerata – svilisca significativamente le «ragioni oggettive» di differenziazione economica tra le due categorie. Ma qui siamo nuovamente sul piano di una verifica in concreto dalla quale non pare opportuno ricavare un’estensione “regolativa” di carattere generale.
Marco Macchia
Prima di rispondere alla domanda, mi sembra utile soffermarmi su un aspetto.
L’art. 2 della direttiva 89/391/CEE, relativa alle misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, nel definire i settori oggetto di interesse precisa che la direttiva «concerne tutti i settori d’attività privati o pubblici», però «non è applicabile quando particolarità inerenti ad alcune attività specifiche nel pubblico impiego, per esempio nelle forze armate o nella polizia, o ad alcune attività specifiche nei servizi di protezione civile vi si oppongono in modo imperativo». In questo caso «si deve vigilare affinché la sicurezza e la salute dei lavoratori siano, per quanto possibile, assicurate, tenendo conto degli obiettivi della presente direttiva». La direttiva 2003/88, sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro (incluse le ferie annuali), contiene il medesimo campo di applicazione. La direttiva 1999/70 si applica ai lavoratori a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione e prevenendo gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato.
Il punto critico, a parere di chi scrive, riguarda proprio tale regime di eccezione, ossia quelle attività specifiche del pubblico impiego che sono escluse dall’ambito di applicazione delle direttive. Per la Corte di giustizia conta la «natura specifica» dei compiti particolari svolti dai lavoratori dei settori considerati, natura che teoricamente potrebbe giustificare una deroga alle norme in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori per un’efficace tutela della collettività. Da qui conclude che «nulla giustifica l’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 89/391 nei confronti dei giudici di pace e la loro esclusione generalizzata dall’ambito di applicazione di tali due direttive».
Francamente tale affermazione non convince da un punto di vista giuridico. È noto, infatti, che il principio di libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE) prevede un’eccezione per gli accessi agli impieghi nella pubblica amministrazione. Per evitare situazioni di disparità nello spazio europeo, la Corte di giustizia ha dato una propria interpretazione della nozione di pubblica amministrazione contenuta nell’art. 45. Solo ove vi sia esercizio di poteri pubblici, non si applica il principio di libera circolazione. Nel concreto ciò avviene nelle funzioni tipiche dello Stato, come la difesa, la giustizia, la sicurezza e gli affari esteri.
La mia impressione è che, quando la direttiva menziona le “attività specifiche nel pubblico impiego” (come fa nella direttiva 89/391), citando a mero titolo di esempio le forze armate o di polizia, faccia in verità riferimento a tutti quegli impieghi che implicano lo svolgimento di attività specifiche dei poteri pubblici, ossia funzioni tipiche dello Stato, sottratte al principio di libera circolazione, tra cui proprio il servizio giustizia e quello dei magistrati onorari.
Se questa è la mia impressione, è chiaro però che l’orientamento della Corte di giustizia è differente, giacché riconosce ai giudici onorari la qualifica autonoma di “lavoratore” propria del Diritto dell’Unione, sulla scorta dell’assunto che la natura giuridica sui generis di un rapporto di lavoro riguardo al diritto nazionale non può avere alcuna conseguenza sulla qualità di lavoratore ai sensi del Diritto dell’Unione. Secondo questo orientamento, sono certamente applicabili le direttive sulle condizioni di lavoro, sul diritto alla sicurezza sociale e sui contratti a termine. Con riguardo poi alla direttiva 1999/70, occorre precisare che essa mira a prevenire gli abusi legati alla successione di plurimi contratti a termine; mentre la durata delle funzioni dei giudici di pace è soggetta per legge ad un mandato di quattro anni, rinnovabile alla scadenza per la medesima durata.
Carla Musella
In realtà ritengo che la nozione di lavoratore eurounitario prescinda dal concetto di pubblico impiego e quindi potenzialmente tutte le direttive in materia di lavoro sono applicabili al giudice onorario che svolga un’attività di lavoro continuativa. In particolare, sono applicabili le direttive sulle condizioni di lavoro e orario, diritto alla sicurezza sociale. Non credo siano applicabili le norme a tutela del recesso ingiustificato che presuppongono un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ribadisco che la via giudiziale, sulla scorta della sentenza UX, può essere risolutiva almeno dei casi di magistrati onorari che lavorano con grande intensità e può rispondere meglio di una difficile soluzione legislativa unitaria.
8. Sul piano del trattamento economico, tenuto conto anche del contenuto dell’attività giurisdizionale svolta dai magistrati onorari, ritenete possibile, e in quali limiti, un adeguamento? Alcuni giudici di merito, pur in assenza del riconoscimento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (a tempo pieno o parziale e indeterminato), talvolta facendo leva sull’art. 36 Cost. e sull’art. 2126 cod. civ., hanno riconosciuto il diritto alla retribuzione spettante al magistrato di prima nomina, non essendo previste valutazioni di professionalità come per i magistrati togati. Ritenete giusto e coerente questo criterio di determinazione o avete una proposta alternativa da formulare?
Edoardo Ales
Alla luce di quanto detto e della possibilità (anzi della quasi certezza da parte del legislatore) dello svolgimento di altre attività da parte del giudice onorario, anche sul piano pratico ritengo le indennità attualmente previste adeguate a remunerare la prestazione così come limitata nel tempo da parte del legislatore. Dette indennità potrebbero fungere da riferimento per la risoluzione di controversie economiche relative al pregresso.
Umberto Gargiulo
Va ricordato come il d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, all’art. 1 preveda che l’attività dei giudici onorari si realizzi «in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali» e l’impegno complessivamente richiesto è limitato sul piano temporale proprio per assicurare questo scopo. Sicché, fino a “prova del contrario”, si deve presupporre l’adeguatezza del criterio di determinazione dei compensi adottato dal legislatore.
Qualora vi fossero esigenze diverse di determinazione del compenso, connesse a particolari ed effettive situazioni di esercizio della funzione, pertanto, si potrebbero utilizzare parametri differenti di quantificazione del corrispettivo; da questo punto di vista non appare condivisibile l’importazione tout court del “tabellare retributivo” del magistrato di prima nomina, stante l’esclusività che caratterizza l’attività del giudice togato, che si contrappone proprio al tendenziale svolgimento di altra attività, presupposto invece dal legislatore quale condizione “ordinaria” del giudice onorario, seppure nell’ambito dei vincoli d’incompatibilità, tutt’altro che ridotti, previsti dalla legge (all’art. 5). A ragionare diversamente, si potrebbe pervenire, invero, a un evidente paradosso: che il magistrato ordinario che assuma le funzioni al termine del tirocinio, vincolato all’esclusività, verrebbe ad essere retribuito in maniera identica al magistrato onorario, chiamato a un impegno che, anche per effetto del limite settimanale previsto per legge, potrebbe utilmente integrare i propri guadagni svolgendo altra attività.
Quanto ai parametri normativi utilizzati a giustificazione di tale estensione (l’art. 36 Cost. e l’art. 2126 cod. civ.) essi presuppongono la risoluzione della questione, di fondo, circa la natura del rapporto, laddove così si finisce per invertire il piano logico e giuridico di qualificazione della fattispecie.
Ciò non vuole dire che non vi siano situazioni nelle quali le caratteristiche “anomale” di utilizzo del giudice onorario non giustifichino il ricorso a differenziali “retributivi”, ma essi vanno utilizzati pur sempre, a mio avviso, come parametri di determinazione del compenso, qualora si ritenga – in una sorta di prospettiva risarcitoria – che la prestazione onoraria resa non presenti alcun elemento di differenziazione da quella propria della magistratura togata. Non vale, invece, la proposizione inversa: le caratteristiche strutturali distintive delle due figure di magistrato, così come ribadite anche di recente dalla giurisprudenza costituzionale, non possono determinare l’equiparazione “automatica” della remunerazione delle funzioni.
Marco Macchia
Non ritengo giuridicamente corretto riconoscere ai giudici onorari il diritto alla retribuzione del magistrato di prima nomina. La richiesta della parità di trattamento retributivo con il magistrato togato si scontra con il fatto che un magistrato professionale non sembra propriamente integrare – nel rispetto delle nozioni della direttiva – quel “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” perché addetto ad un’occupazione identica o simile tenuto conto delle qualifiche. Ciò in quanto,a mio parere, se è vero che entrambi esercitano la funzione giurisdizionale, la qualifica non appare la medesima, adempiendo il magistrato professionale alla risoluzione di controversie di valore più elevato e quello onorario alla “giustizia minore”. In altre parole, seppure siano impegnati teoricamente nella medesima occupazione, la difficoltà delle questioni da risolvere e il valore della controversia si riflettono in condizioni di lavoro che permangono divergenti, il che non può che rilevare sotto il profilo retributivo.
Al contempo, è evidente che la retribuzione del giudice onorario deve essere proporzionata alle prestazioni effettuate. Essi beneficiano di indennità a carattere remunerativo per le pronunce, per ciascuna udienza civile o penale, per l’attività di apposizione dei sigilli, nonché per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo. Inoltre, essi percepiscono indennità per ciascun mese di effettivo servizio a titolo di spese per l’attività di formazione, aggiornamento e per l’espletamento dei servizi generali di istituto. In questo quadro, spetta ai giudici nazionali valutare se gli importi percepiti in concreto presentino un carattere remunerativo idoneo a procurare al giudice onorario un beneficio materiale e garantiscano il suo sostentamento.
Carla Musella
Condivido quanto affermato da alcune sentenze di merito (ad es. quella del Tribunale Napoli 11 gennaio 2021, n. 6015/2020), ma ritengo che il giudice onorario debba provare anche la esclusività di fatto del lavoro svolto. Nella realtà penso che alcuni giudici di pace e giudici onorari di tribunale svolgano di fatto esclusivamente questa attività, ma ovviamente ci sono anche situazioni diverse.
Sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto in base all’art. 36, Cost mi sembra condivisibile, dunque, la soluzione adottata da alcune sentenze di merito, ma sono situazioni da verificare caso per caso perché è vero che l’esclusività dell’attività non è un elemento costante nel rapporto dei magistrati onorari che sono spesso avvocati, iscritti alla Cassa Previdenza Forense. In tali casi potrebbe essere sufficiente la indennità prevista dalla legge. Il punto è di provare la quantità del lavoro svolto; prova, del resto, abbastanza facile perché si dimostra con le sentenze scritte, le udienze tenute, i documenti organizzativi dirigenziali degli uffici giudiziari.
9. Riconosciuta illegittima la reiterazione degli incarichi a termine per i magistrati onorari, in ragione delle numerose proroghe disposte prima della riforma del 2017, alcuni giudici del lavoro hanno riconosciuto il risarcimento dei danni in misura variabile di alcune mensilità, determinate sulla base degli stessi parametri della maggiore retribuzione riconosciuta, applicando la disposizione di cui all’art. 32, c. 5 e ss., l. 4 novembre 2010, n. 183, poi trasfusa nel vigente art. 28, c. 2, d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, quale sanzione economica dissuasiva per l’illegittima reiterazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato di tipo privato o pubblico privatizzato, nell’impossibilità della loro conversione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
Ritenete giuridicamente corretta questa impostazione?
Edoardo Ales
L’applicazione, in via analogica, dell’art. 32 mi pare assolutamente condivisibile, in quanto esito ultimo di una riflessione pluriennale frutto di un fitto dialogo tra giudici nazionali e Corte di giustizia. Proprio il giudizio di adeguatezza formulato, a più riprese, da quest’ultima porta a sconsigliare l’avventurarsi in diverse determinazioni, le quali, a loro volta, richiederebbero il vaglio positivo della Corte. D’altro canto, al di là della qualificazione del rapporto di lavoro, la presenza della Pubblica Amministrazione, quale parte, giustifica ampiamente il ricorso all’analogia e, dunque, all’utilizzo dell’art. 32, nell’applicazione operata dalla Corte di Cassazione.
Umberto Gargiulo
Il ricorso al criterio di determinazione del risarcimento contenuto nell’art. 32, l. 183/2010 (oggi nell’art. 28, d.lgs. 81/2015) è sicuramente una soluzione dotata di una propria razionalità. Si tratta di un meccanismo che assume ormai una sorta di valenza generale, nella duplice funzione di dissuasione rispetto all’abuso nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato e di risarcimento del danno, per la quantificazione del quale si può tener conto di quanto applicabile in «un ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo» (Cass., Sez. Un., n. 5072/2016), seguendo dunque il percorso, ormai sufficientemente assestato, della giurisprudenza nazionale, in dialogo con quella della Corte di Giustizia.
Un diverso approccio, pur astrattamente corretto, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte UE in tema di abuso del contratto a termine da parte delle pubbliche amministrazioni, presupporrebbe peraltro anch’esso il raggiungimento di un condiviso approdo quanto al dirimente profilo della qualificazione.
Marco Macchia
L’applicazione dell’art. 32 della l. n. 183 del 2010 (ora art. 28, d.lgs. n. 81/2015) consente una tutela per equivalente causata dalla mancata stabilizzazione del rapporto di lavoro, riconoscendo ai precari una misura equiparabile a quella riconosciuta a lavoratori che si trovano in situazioni analoghe nel settore privato. Del resto, è certamente ammissibile il riconoscimento del risarcimento dei danni nell’impossibilità della conversione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato, da parte delle pubbliche amministrazioni. Come è noto, la direttiva 1999/70 sul lavoro a tempo determinato non sancisce l’obbligo assoluto di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato illegittimi. Anzi agli Stati è consentito, nella loro discrezionalità, individuare altre soluzioni, nel rispetto dei limiti dell’effettività, della proporzionalità e dell’idoneità delle sanzioni predisposte per prevenire gli abusi nel ricorso ai contratti a termine.
Non potendo operare il meccanismo della stabilizzazione del contratto, pertanto, data la natura pubblica del datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, come statuisce l’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Non solo. Stando a quanto riconosciuto dalla Corte di giustizia (ord. 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia), non è compatibile con il diritto dell’Unione europea la normativa nazionale che, nell’ipotesi di utilizzo abusivo da parte di un datore di lavoro pubblico di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto per il lavoratore interessato di ottenere il risarcimento del danno ove il rimedio risarcitorio, a causa degli oneri probatori gravanti sul lavoratore, si presenti tale da rendere per quest’ultimo “praticamente impossibile o eccessivamente difficile” ottenere il risarcimento del danno medesimo. Perciò il lavoratore può limitarsi a fornire elementi di fatto idonei a fondare, in modo preciso e concordante, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, mentre spetta all’amministrazione l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso.
Di conseguenza, il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di “disposizioni imperative” deve essere interpretato nel senso che la nozione di danno applicabile deve essere quella di “danno comunitario”. La tutela risarcitoria riconosciuta al lavoratore in luogo della conversione del contratto presenta tratti di specialità rispetto all’ordinaria disciplina civilistica, nel senso che non può ricadere sul lavoratore l’onere di provare la perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante. In altre parole, il risarcimento si configura come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, in conformità con i canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte delle amministrazioni di contratti a termine.
Carla Musella
L’applicazione della sanzione dissuasiva per l’utilizzazione abusiva del contratto a tempo determinato è una modalità ormai costante nella giurisprudenza nell’ambito del lavoro pubblico. Del resto, questo è il vero nodo della questione: l’abuso della figura del rapporto a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni, allargate anche al Ministero della Giustizia, che dà luogo al fenomeno del precariato. Sotto questo profilo vorrei segnalare la irrilevanza per il diritto comunitario e per la nozione eurounitaria di lavoratore della differenza pubblico/ privato e finanche della funzione sovrana connessa all’esercizio delle funzioni giurisdizionale. E’ questa la principale caratteristica della nozione eurounitaria e la sua potenzialità assimilatrice tra i vari paesi membri, proprio perché la sovranità statale è un concetto interno da cui discende appunto la differenza tra magistrati togati e magistrati onorari prevista dall’art. 106, Cost. e ribadita con enfasi dall’ultima sentenza della Corte Costituzionale.
Tuttavia, quando dal piano interno ci spostiamo su quello eurounitario si recupera il valore giuslavoristico dell’attività lavorativa svolta di fatto e la irrilevanza, sotto tale profilo, delle differenze tra lavoro pubblico e lavoro privato più volte ribadita in relazione all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
10. Sul piano squisitamente processuale mi sembra rilevante il problema della giurisdizione. Se non c’è domanda di costituzione del rapporto di impiego di diritto pubblico è pacifica quella ordinaria come stabilito dalle prime sentenze di merito?
Edoardo Ales
In assenza di una chiara presa di posizione del legislatore e della giurisprudenza di legittimità sulla natura giuridica del rapporto di lavoro del giudice di pace, la questione mi pare destinata a provocare non pochi problemi. Perdurando l’incertezza, una strategia processuale utilitaristica sarà quella di incardinare procedimenti presso il giudice amministrativo e quello ordinario, al fine di verificarne l’atteggiamento. Non sarebbe la prima volta, infatti, e mi pare che ciò si stia verificando anche in questa circostanza, che entrambi affermino la propria giurisdizione, giungendo a conclusioni potremmo dire fisiologicamente opposte, la coesistenza delle quali, tuttavia, evidenzierebbe lo stato patologico del sistema. Ovviamente, a mio avviso, alla luce di quanto sora evidenziato la giurisdizione dovrebbe essere quella del giudice ordinario (secondo il rito del lavoro) ex art. 409, n. 3 c.p.c.
Umberto Gargiulo
Non mi pare ci siano strade diverse. Qualora nel petitum vi fosse la richiesta di costituire un rapporto d’impiego di diritto pubblico, sarebbe necessario rivolgersi al giudice amministrativo: si tratta però di una strada, quella dell’assimilazione alla magistratura togata, che mi pare tuttora priva di via d’uscita, chiusa da una giurisprudenza assolutamente granitica del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione.
Per converso, se il giudice onorario percorre la strada del riconoscimento di singoli diritti alla luce di previsioni delle direttive di volta in volta invocate – siano esse relative alle ferie, piuttosto che all’abuso del contratto a tempo determinato – giocoforza dovrà rivolgersi al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro. Questo è del resto lo spazio aperto proprio dalla decisione della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, sebbene in quel caso il ricorso alla Corte sia passato, discutibilmente, attraverso un rinvio da parte del giudice di pace.
Marco Macchia
La giurisdizione sulle controversie relative ai funzionari onorari non segue la materia (come accade invece nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le categorie non privatizzate del pubblico impiego), ma è ripartita sulla base della situazione giuridica soggettiva lesa. Le richieste dei giudici onorari nel caso di specie attengono al rapporto di servizio che gli stessi ritengono leso, ove essi vantino un diritto soggettivo a ricevere un maggior compenso in ragione dell’attività svolta o il diritto alle ferie oppure ancora il riconoscimento di una prestazione sociale. Perciò, nel caso di specie, dato che la situazione soggettiva vantata è di diritto soggettivo, mi sembra che vada affermata chiaramente la giurisdizione del giudice ordinario.
Carla Musella
Ritengo non fisiologico l’andamento, ormai molto diffuso da qualche anno, di adire contemporaneamente il giudice amministrativo e quello ordinario con petitum e causa petendi differenziati in relazione ad una medesima controversia, perché questo crea una lievitazione abnorme dei processi e nuoce alla ragionevole durata di essi.
Alla luce della sentenza UX e della pronuncia n. 41/2021 della Corte Costituzionale, riterrei una battaglia persa quella diretta ad ottenere per i giudici di pace e gli altri giudici onorari il riconoscimento del rapporto di pubblico impiego e la stabilizzazione per via giudiziaria con piena assimilazione tra magistrato togato e magistrato onorario. È ovvio che se la domanda viene prospettata come riconoscimento di un rapporto di pubblico impiego assimilabile a quello del magistrato togato, si radichi la giurisdizione amministrativa seguendo la tesi del petitum sostanziale. Tuttavia, questa possibilità dovrebbe essere ormai superata proprio sulla base di una granitica giurisprudenza di legittimità e del Consiglio di Stato. La stessa Corte di giustizia nella sentenza UX non afferma la assimilazione e rimette al giudice nazionale la valutazione delle differenze.
La giurisdizione ordinaria nel nostro sistema costituzionale è quella che prevale in base all’art. 102, Cost. Una volta ottenuta l’affermazione in sede eurounitaria dell’applicabilità delle direttive che riguardano il lavoro tout court nell’ambito di un rapporto di lavoro ascrivibile proprio all’art. 409, n. 3, c.p.c., non si vede perché non dovrebbe essere il giudice ordinario, giudice del lavoro, ad avere giurisdizione sulla domanda del giudice onorario. Ed infatti vorrei ribadire che, a mio avviso, la domanda di risarcimento dei danni proposta da UX per il mancato pagamento delle ferie era domanda rientrante nella competenza del giudice del lavoro e non del giudice di pace.
11. Ritenuta la giurisdizione ordinaria, la competenza è attribuita al giudice del lavoro ai sensi di quanto disposto dall’art. 409, n. 3, c.p.c., come avete risposto. Ma questa impostazione non potrebbe contraddire l’impostazione generale, sottesa alla sentenza della Corte di Giustizia del 16 luglio 2020 UX, secondo la quale i magistrati onorari sono equiparati, quanto a funzioni esercitate, se non proprio a statuto giuridico e normativo, ai magistrati togati?
Edoardo Ales
Non direi. L’equiparazione mi pare funzionale piuttosto che strutturale, rimanendo ciascuno Stato membro libero di organizzare il proprio sistema giudiziario. La preoccupazione, condivisibile, della Corte di giustizia è quella di evitare che la qualificazione giuridica del rapporto determini l’esclusione di alcuni soggetti, che pure svolgono un’attività continuativa all’interno di un’organizzazione altrui mediante una remunerazione, dall’ambito di applicazione delle direttive in materia di protezione sociale dei lavoratori. Direi, anzi, che la competenza del giudice del lavoro risponde pienamente, se vogliamo più di quella del giudice amministrativo, all’esigenza evidenziata dalla Corte.
Umberto Gargiulo
Non rinvengo una contraddizione, perché in effetti la Corte di Giustizia non effettua una completa equiparazione della magistratura onoraria a quella togata, bensì rileva, nell’applicare una specifica direttiva, l’esistenza di una discriminazione non altrimenti giustificata rispetto a lavoratori che svolgono un lavoro «identico o simile», tant’è che la medesima Corte si esprime in termini di comparabilità: valutazione quest’ultima rimessa al giudice nazionale con margini talora più stringenti, talaltra piuttosto ampi, come testimoniato proprio dalla decisione dalla quale prende avvio la nostra riflessione.
Da questo punto di vista, la giurisdizione ordinaria appare rispondere pienamente alle esigenze di tutela che, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto, rimessa al giudice nazionale, vengono riconosciute dalla Corte. Del resto, anche il contenzioso che si è sviluppato negli ultimi mesi sembra svolgersi lungo questa linea, muovendo quasi sempre da un’istanza risarcitoria conseguente al mancato rispetto delle previsioni, con riferimento alle quali si può registrare la disparità ingiustificata tra i due gruppi di lavoratori.
Marco Macchia
Siamo proprio sicuri che per il giudice sovranazionale i magistrati onorari siano equiparati, quanto a statuto giuridico e normativo, ai magistrati togati? Vediamo meglio la sentenza, passo per passo, per non cadere nella trappola diventando “più realisti del re”. Secondo la Corte di giustizia il giudice onorario rientra nella nozione eurounitaria di lavoratore e il fatto che, ai sensi del diritto nazionale, l’attività professionale sia qualificata come “onoraria” non ha rilevanza per l’applicazione a quest’ultimo dell’accordo quadro europeo, del quale devono beneficiare tutti i giudici non professionali che effettuino prestazioni reali ed effettive, che non siano né puramente marginali né accessorie, e che comportino indennità a titolo di corrispettivo, a tutela del principio di parità di trattamento.
Detto ciò, il principio di non discriminazione impone appunto di non privare i lavoratori a termine dei diritti riconosciuti a quelli a tempo indeterminato, purché le situazioni siano comparabili altrimenti situazioni diverse meritano di essere trattate in maniera difforme. Il test di comparabilità deve essere svolto dal giudice nazionale, la Corte di giustizia si limita a mettere a disposizione degli elementi di cui tener conto.
A favore della comparabilità, riscontriamo che i giudici onorari svolgono un’attività giurisdizionale «equivalente a quella di un magistrato ordinario, con le medesime responsabilità sul piano amministrativo, disciplinare e fiscale, continuativamente inserito nell’organico degli uffici giudiziari » (sentenza UX). In più, «al pari di un magistrato ordinario, il giudice di pace è, in primo luogo, un giudice che appartiene all’ordine giudiziario italiano e che esercita la giurisdizione in materia civile e penale, nonché una funzione conciliativa in materia civile. In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, della legge n. 374/1991, il giudice di pace è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari. In terzo luogo, il giudice di pace, al pari di un magistrato ordinario, è tenuto a rispettare tabelle indicanti la composizione dell’ufficio di appartenenza, le quali disciplinano dettagliatamente ed in modo vincolante l’organizzazione del suo lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. In quarto luogo, sia il magistrato ordinario che il giudice di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio, nonché i provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM. In quinto luogo, il giudice di pace è tenuto, al pari di un magistrato ordinario, ad essere costantemente reperibile. In sesto luogo, in caso di inosservanza dei suoi doveri deontologici e d’ufficio, il giudice di pace è sottoposto, al pari di un magistrato ordinario, al potere disciplinare del CSM. In settimo luogo, il giudice di pace è sottoposto agli stessi rigorosi criteri applicabili per le valutazioni di professionalità del magistrato ordinario. In ottavo luogo, al giudice di pace vengono applicate le stesse norme in materia di responsabilità civile ed erariale previste dalla legge per il magistrato ordinario» (sentenza UX).
A sfavore della comparabilità, resta il fatto che «le controversie riservate alla magistratura onoraria, e in particolare ai giudici di pace, non hanno gli aspetti di complessità che caratterizzano le controversie devolute ai magistrati ordinari. I giudici di pace tratterebbero principalmente cause di minore importanza, mentre i magistrati ordinari che svolgono la loro attività in organi giurisdizionali di grado superiore tratterebbero cause di maggiore importanza e complessità. Inoltre, ai sensi dell’articolo 106, secondo comma, della Costituzione italiana, i giudici di pace possono svolgere soltanto le funzioni attribuite a giudici singoli e non possono quindi far parte di organi collegiali» (sentenza UX).
Sulla base di un quadro così puntuale resta tuttavia l’interrogativo di fondo. Il magistrato onorario è comparabile ad un magistrato ordinario (che ha superato la terza valutazione di idoneità professionale e maturato un’anzianità di servizio di almeno quattordici anni)? E in caso positivo, ci sono ragioni oggettive, sulla base di elementi concreti e di una reale necessità, che giustifichino la differenza di trattamento? La Corte di giustizia non risponde a queste domande, perché non le compete dal momento che il suo compito è l’interpretazione del Diritto dell’Unione. Il Governo italiano afferma che la differenza di trattamento si giustifica con l’assenza del concorso per gli onorari e le differenti condizioni di accesso. Al riguardo i giudici europei si limitano a notare che gli Stati hanno autonomia nello stabilire le condizioni di accesso alla magistratura e che «talune disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all’esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità» (sentenza UX), purché non sia meramente motivato con la durata determinata del rapporto di lavoro. Anzi, le «differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale e, più specificamente, dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni» (sentenza UX).
Insomma, in conclusione, le differenze sembrano essere giustificate da ragioni oggettive e l’equiparazione non può certamente essere automatica.
Carla Musella
La risposta negativa al quesito sulla esistenza di una contraddizione deriva dal fatto che, a mio avviso non può parlarsi di equiparazione tra magistrati ordinari e magistrati onorari neppure nella sentenza UX, la quale valuta l’attività di lavoro sulla base del Diritto dell’Unione.
Infatti, permane, secondo la legge italiana, la impossibilità di configurare un rapporto di impiego pubblico in mancanza di identiche modalità concorsuali di reclutamento e tenuto conto proprio della differenza che l’art. 106 della Costituzione fa tra magistrati togati e magistrati onorari, ribadita anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41/2021, con riferimento ad argomenti che attengono alla separazione dei poteri disegnata nella Carta costituzionale, come più volete detto.
Del resto, qualunque idea si voglia avere sulla magistratura onoraria è evidente che l’equiparazione non può essere identificazione, se non altro tenuto conto dei limiti che la giurisdizione esercitata dai giudici onorari incontra, limiti ribaditi dal giudice delle leggi nella sentenza n. 41/2021.
La sentenza della Corte di giustizia non equipara inoltre lo statuto giuridico e normativo dei magistrati onorari ai magistrati ordinari. Piuttosto valorizza il contenuto lavorativo del servizio reso nell’ambito dell’amministrazione della giustizia ai fini della fruizione delle ferie e dell’applicazione del principio di non discriminazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
La competenza del giudice del lavoro, una volta esclusa la giurisdizione del giudice amministrativo mi sembra correttamente radicata sull’art. 409, n. 3, c.p.c.
La non punibilità delle vittime di tratta di esseri umani: la prima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla posizione giudiziaria della vittima ai sensi dell’art.4 CEDU
di Marta Durante
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 16 febbraio 2021, si pronuncia per la prima volta sul rapporto tra gli obblighi positivi gravanti sugli Stati Parte in adempimento dei divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il principio di non punibilità delle vittime di tratta, in casi avvenuti nel 2009 in Regno Unito ove due minori, vittime di tratta di esseri umani, erano stati condannati per reati che erano stati costretti a commettere in forza della loro condizione di sfruttamento.
Inserendosi nel solco di quella giurisprudenza convenzionale sempre più attenta ad accordare massima tutela alle vittime di tratta, la sentenza costituisce uno storico passo avanti verso l’inquadramento della posizione, anche giudiziaria, della vittima.
Sommario: 1. I fatti del giudizio. 2. La sentenza della Corte EDU: a) il quadro normativo di riferimento. 2.1. (segue): l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae. 2.2 (segue): gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 CEDU. 3. Il cuore della decisione della Corte EDU. 4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione. 5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie. 6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità. 7. Conclusioni
1. I fatti del giudizio
Con la sentenza del 16 febbraio 2021 (ric. n. 77587/12 e n.74603/12), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in seguito Corte EDU), in accoglimento dei ricorsi depositati da due cittadini vietnamiti, V.C.L. e A.N. (rispettivamente il primo ed il secondo ricorrente), ha riconosciuto la violazione degli artt.4 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (da ora in poi anche la Convenzione o CEDU) da parte del Regno Unito per non avere adottato adeguate misure operative in favore dei due ricorrenti, ed in particolare, per averli sottoposti a processo penale e successivamente condannati, ancorché fossero stati riconosciuti dalle Autorità Competenti quali vittime di tratta.
Nella vicenda che ha originato la decisione, V.C.L. e A.N. erano giunti clandestinamente dal Vietnam al Regno Unito nel 2009, rispettivamente all’età di 15 e 17 anni. Lo stesso anno, venivano sottoposti entrambi a procedimento penale per il reato di produzione di droga in quanto, nel corso di due raid antidroga, la polizia britannica li aveva scoperti a lavorare come giardinieri presso piantagioni di cannabis. Una volta accertata la minore età dei ricorrenti, venivano instaurati i procedimenti penali e gli avvocati di V.C.L. e A.N. riferivano loro che sostenere lo stato di coercizione non sarebbe stata una linea difensiva proficua. Ciò in quanto gli uffici della Procura, nonostante l’accertamento della minore età e la revisione dei casi, non erano intenzionati a recedere dalla decisione di portare avanti i procedimenti.
Nelle more del procedimento di primo grado, l’Autorità Competente si pronunciava autonomamente sui fatti che avevano coinvolto V.C.L. identificandolo come vittima di tratta ai sensi dell’art.3 del Protocollo di Palermo e dell’art.4 della Convenzione di Varsavia. Tuttavia, questa conclusione non era stata condivisa né dalla Procura della Corona né dalla Corte inglese che avevano invece ritenuto prevalente l’interesse pubblico la prosecuzione del procedimento.
Sicché, dopo essersi dichiarati entrambi colpevoli dietro consiglio delle proprie difese, V.C.L. e A.N. venivano condannati in primo grado, rispettivamente, alla pena di 20 mesi e di 18 mesi di reclusione.
Solo dopo la condanna in primo grado, A.N. veniva identificato come vittima di tratta e ciò grazie all’intervento del nuovo avvocato che aveva riferito il caso all’Autorità Competente.
Conclusi i procedimenti di primo grado, i ricorrenti venivano ammessi ad impugnare le sentenze di condanna davanti la Corte d’Appello inglese, ancorché fossero già spirati i termini: si trattava infatti dei primi casi, dopo l’entrata in vigore della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, in cui venivano in rilievo azioni vertenti sulla tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento lavorativo. Tuttavia, la Corte d’Appello respingeva i motivi di impugnazione, che vertevano sull’applicabilità nei casi di specie del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Il giudice di secondo grado si limitava a richiamare le decisione assunte dalla Procura e negava ogni automatismo tra la qualifica di vittima di tratta di esseri umani e la non punibilità penale[1].
Si rilevavano parimenti infruttiferi i tentativi di adire la Corte Suprema, così come il secondo appello presentato da V.C.L., nel 2016.
Una volta esperite tutte le vie di ricorso interne V.C.L. e A.N. hanno adito la Corte EDU lamentando il mancato adempimento da parte del Regno Unito degli obblighi di protezione in favore delle vittime di tratta derivanti dall’art.4 della Convenzione e dai divieti ivi previsti[2]. In particolare, le autorità giudiziarie, alla luce delle circostanze fattuali in cui avevano avuto luogo gli arresti ed una volta accertata la minore età dei ricorrenti, avrebbero dovuto riconoscere loro la qualità di vittime di tratta ed applicare conseguentemente il principio di non punibilità delle vittime di tratta di cui all’art.26[3] della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani firmata a Varsavia nel 2005 (cd. Convenzione di Varsavia). Tali mancanze avevano impedito a V.C.L. e A.N. di accedere agli strumenti di recupero a cui le vittime di tratta hanno diritto in quanto scaturenti dai divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 CEDU e dagli obblighi di tutela e protezione sanciti dalle norme internazionali in materia di tratta. I ricorrenti, ritenevano infine che la mancata adozione di misure operative per garantire loro protezione avevano inficiato, ai sensi del’art.6, par. 1 della Convenzione, anche l’equità dei processi a cui gli stessi erano stati sottoposti.
2. La sentenza della Corte EDU: a) Il quadro normativo di riferimento
La Corte EDU, prima di passare all’esame dei motivi di inammissibilità dei ricorsi, ha dedicato una parte consistente della motivazione all’individuazione del quadro normativo di riferimento all’interno del quale sussumere i casi dei ricorrenti. Partendo dalla normativa interna, sono state richiamate quelle pronunce giurisprudenziali che avevano implementato la non-punishment provision, di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia, tramite tre strumenti: l’applicazione della causa di giustificazione dello stato di coercizione e di necessità (cd. duress circumstances); la predisposizione di reports[4] da parte delle forze dell’ordine e di guide interne al Crown Prosecution Service ove venivano individuate le circostanze in presenza delle quali l’imputazione penale di vittime di tratta – effettive o potenziali – poteva risultare inopportuna e non corrispondente all’interesse pubblico necessario per l’avvio dell’azione penale; ed infine, il potere del giudice penale di sospendere il processo, ove il pubblico ministero non avesse correttamente adempiuto ai propri doveri di valutazione (abuse of process) di cui alle guide interne sopra richiamate.
Inoltre, viene dato atto che l’ordinamento britannico, già dall’1 aprile 2009 aveva implementato un Meccanismo Nazionale di Referral[5] al fine di procedere, tramite le Autorità competenti all’uopo istituite, ad una pronta identificazione delle vittime di tratta e fornire loro adeguato supporto.
Passando all’esame delle fonti internazionali rilevanti, la Corte EDU ha ricordato l’art.3 del Protocollo di Palermo[6] - ratificato dal Regno Unito nel 2006 – che fornisce la definizione internazionalmente accettata di tratta individuandone, tre elementi costitutivi, ossia l’azione (reclutamento, trasporto, trasferimento, ospitare o accogliere persone), i mezzi (l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione ecc.) ed il fine (lo sfruttamento della vittima); salvo poi specificare, che ove un minore di diciotto anni sia fatto oggetto di sfruttamento, si configurerà in ogni caso il reato di tratta pur non sussistendo l’uso di mezzi di coercizione.
Vengono successivamente richiamate, la definizione di lavoro forzato fornita dall’art.2 della Convenzione dell’OIL sul lavoro forzato e obbligatorio, la non-punishment provision prevista dall’art.4 del Protocollo del 2014, gli indicatori di lavoro forzato[7] elaborati dall’Organizzazione medesima ed i programmes of actions, di cui all’art.6 della Convenzione del 1999 dell’OIL sulle forme peggiori di lavoro minorile.
La Corte EDU si è infine dedicata alla Convezione di Varsavia ed alla Direttiva 2011/36[8] dell’Unione Europea. Si tratta di fonti internazionali che hanno predisposto degli standard minimi di tutela di cui la vittima di tratta deve essere destinataria. Vengono richiamati, in particolare, gli artt.10 e 35 della Convenzione di Varsavia, nei quali si fa esplicito riferimento alla necessità che gli Stati si aprano a strumenti di effettiva cooperazione con le organizzazioni non governative ed adoperino personale qualificato che proceda, inter alia, ad una pronta identificazione della vittima di tratta. In tale quadro, vengono infine ricordati il già citato art.26 della Convenzione di Varsavia e l’art.8[9] della Direttiva 2011/36. Entrambe le norme da ultimo citate sollecitano gli Stati firmatari e gli Stati Membri ad accordare alle autorità giudiziarie la possibilità di non procedere penalmente nei confronti delle vittime di tratta per i reati che le stesse sono state costrette a commettere quale conseguenza diretta della situazione di sfruttamento in cui versano.
2.1. (Segue): b) l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae dei ricorsi
I ricorsi sottoposti al vaglio della Corte EDU hanno richiesto il preliminare accertamento della sussistenza delle condizioni di ammissibilità, ed in particolare la verifica della sussistenza dello status di “vittima” di cui all’art.34 della Convenzione[10] e della competenza ratione materiae.
Per quanto concerne il primo motivo di inammissibilità, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti la qualità di vittime di tratta, potenziali prima ed effettive poi, e quindi l’ammissibilità dei ricorsi ratione personae. La Corte EDU ha fatto leva, in primo luogo, sull’esistenza di reports interni[11] che avevano individuato la coltivazione di cannabis quale attività spesso svolta da minori di origine vietnamita vittime di tratta. In secondo luogo, ha messo in evidenza le conclusioni a cui erano giunte le Autorità Competenti, le quali - nonostante la fermezza delle decisioni della Procura, nel caso del primo ricorrente, e la condanna penale medio tempore intervenuta nel caso del secondo ricorrente - non avevano mai negato a V.C.L. e A.N. la qualifica di effettive vittime di tratta.
Per quanto riguarda il secondo requisito di ammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha richiamato i propri precedenti giurisprudenziali[12] che avevano delineato i rapporti intercorrenti tra le fonti internazionali in materia di tratta di esseri umani e l’art.4 della Convenzione[13]. In proposito, la Corte EDU ha dato per assodato che l’art.4 della Convenzione - ancorché non ne faccia menzione - ricomprende il divieto di tratta di esseri umani e che possono pertanto sorgere violazioni dell’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, solo ove siano presenti tutti gli elementi costitutivi di tale fenomeno criminoso come individuati dal Protocollo di Palermo e dalla Convenzione di Varsavia[14]. Pertanto, l’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, non può essere interpretato isolatamente, con la conseguenza che la Corte EDU è competente a procedere ad una lettura sistematica del citato art. 4 in combinato disposto con le altre norme internazionali pertinenti, tra cui rientrano la Convenzione di Varsavia, gli obblighi di protezione della vittima ivi previsti e come interpretati dal GRETA, ossia dall’organo istituito al fine di dare loro applicazione[15].
2.2.(Segue): c) Gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 della Convenzione EDU
Una volta liberato il campo di indagine dalle questioni di inammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha ribadito la sua dottrina sugli obblighi positivi, secondo cui non è sufficiente che gli Stati si astengano dal violare i diritti convenzionalmente garantiti, ma devono anche adottare misure positive a tale riguardo[16]. Vengono così individuati gli obblighi sostanziali e procedurali posti a carico degli Stati Parte della Convenzione, specificando che gli obblighi scaturenti dall’art.4 CEDU, fermo restando il limite della proporzionalità, devono seguire una triplice direzione: vietare e punire penalmente la tratta ed i suoi responsabili; adottare, in determinate circostanze, misure operative per proteggere le vittime, effettive o potenziali; ed infine indagare su fatti di potenziale tratta di persone.
3. Il cuore della decisione della Corte EDU
Così inquadrato il campo di indagine, la Corte EDU ha iniziato la sua prima considerazione sul principio di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono state costrette a commettere inquadrandolo nell’ambito del secondo gruppo di obblighi che possono, in certe circostanze, scaturire dall’art.4 della Convenzione. Alla luce del tenore letterale delle disposizioni internazionali che la prevedono e delle circostanze che devono sussistere affinché sorga l’obbligo di attivare misure operative, la Corte EDU ha escluso che la non-punishment provision faccia sorgere un obbligo generale e assoluto di non perseguire le vittime di tratta.
Alla luce di ciò, la Corte EDU ha ridimensionato le questioni che le erano state sottoposte, precisando che nel caso di specie non si trattava di valutare, sic et simpliciter, la mancata adozione da parte del Regno Unito di un sistema di non punibilità rivolto alle vittime di tratta ex art.26 della Convenzione di Varsavia, ma piuttosto di stabilire se le circostanze del caso avevano fatto sorgere doveri operativi di protezione in favore dei ricorrenti, e se quindi la loro mancata attivazione avesse dato luogo ad una violazione dell’art.4 CEDU.
La risposta positiva all’interrogativo offerta dalla Corte EDU si fonda, in primo luogo, sul test che la sua giurisprudenza ha formulato[17] per individuare il momento a partire dal quale sorge l’obbligo di adottare misure operative. A riguardo, deve farsi riferimento al momento in cui le autorità dello Stato avrebbero dovuto avere conoscenza di circostanze che fanno sorgere un sospetto credibile che la persona identificata è stata o potrebbe essere vittima del reato di tratta così come definito dall’art.3 del Protocollo di Palermo e dall’art.4 della Convenzione di Varsavia (par.152). La necessità di anticipare il sorgere del dovere di intervento in favore della vittima - effettiva o potenziale –si spiega, secondo la Corte EDU, in ragione delle esigenze di protezione e prevenzione che emergono a chiare lettere dalla Convenzione di Varsavia e dalla Direttiva 2011/36 e da cui deriva che gli Stati sono chiamati a proteggere le vittime di tale fenomeno criminoso da ulteriori danni, inserendola in un percorso di recupero sociale, fisico e psicologico.
Nell’applicare tali principi ai fatti che hanno visto coinvolti V.C.L. e A.N., la Corte EDU ha affermato che vi erano chiari indizi sulla qualità dei ricorrenti come vittime di tratta. Già all’epoca degli arresti, i reports interni avevano identificato i giovani vietnamiti come gruppo a rischio tratta, spesso impiegato nelle piantagioni di cannabis. Inoltre, dalla minore età dei ricorrenti doveva dedursi il loro status di vulnerabilità. Se quindi nel caso di V.C.L., le autorità avrebbero dovuto capire fin dall’inizio che si trattava di una vittima di tratta (par.118 e 163)[18]; nel caso di A.N., ancorché questi avesse dichiarato di essere nato nel 1972, tali sospetti dovevano sorgere al più tardi nel momento in cui (solo 9 giorni dopo il suo arresto) ne era stata accertata la minore età. Ancora, per la Corte EDU non sono passate inosservate le dichiarazioni di A.N. il quale aveva precisato che la piantagione era sorvegliata all’esterno, di non essere pagato per il lavoro che svolgeva e di avere ricevuto minacce di morte quando aveva manifestato l’intenzione di smettere di lavorare. Si trattava quindi di elementi a chiara dimostrazione dell’esistenza della sopraffazione e del controllo continuativo della persona esercitato uti dominus che caratterizza l’elemento oggettivo del reato di tratta.
Accertato che era sorto l’obbligo di adottare misure operative da parte del Regno Unito, la Corte EDU ha analizzato le circostanze in presenza delle quali potrebbe non prodursi una violazione delle libertà dell’art.4 CEDU. Viene in proposito chiarito che l’adempimento del dovere di intervento implica l’immediato deferimento della persona individuata alle autorità istituite nell'ambito del Meccanismo Nazionale di Referral, sì che il soggetto possa essere valutato da persone qualificate e formate a tal fine. Pertanto, qualsiasi decisione sull'opportunità o meno di avviare il procedimento penale a carico della vittima deve essere assunta solo dopo che tale valutazione viene completata. Inoltre, la Corte EDU ha chiarito che ove sia ritenuto prevalente l'interesse pubblico all'instaurazione dell'azione penale, una simile decisione deve fornire argomentazioni coerenti con le definizioni di tratta di cui al Protocollo di Palermo e alla Convenzione di Varsavia.
Alla luce di ciò, la Corte EDU è stata molto critica nei confronti del Crown Prosecution Service per avere mancato di coordinarsi con le Autorità Competenti e con il Meccanismo Nazionale di Referral e per aver fornito giustificazioni periferiche che non andavano al cuore dell'assenza degli elementi costituenti la tratta. Una tale mancanza è apparsa ancor più ingiustificabile in considerazione dell’età dei ricorrenti da cui avrebbe dovuto conseguire l’applicazione della presunzione dell’esistenza dell’uso dei mezzi di coercizione e dello stato di vulnerabilità, secondo quanto previsto dalla normativa internazionale in materia. La Corte EDU infine non ha mancato di censurare aspramente l'operato delle Corti inglesi per non avere tenuto fede ai precedenti giurisprudenziali sull’applicazione dell’istituto dell’abuse of process alle vittime di tratta e per essersi, invece, limitate a fornire una motivazione ri-propositiva delle già insufficienti ragioni offerte dal Crown Prosecution Service.
In sintesi, la tardività dell’intervento identificativo delle Autorità Competenti imputabile alla Procura ed alle forze dell’ordine e l’assenza di un’esaustiva motivazione da parte delle autorità giudicanti hanno costituito una violazione dell’obbligo di proteggere le vittime di tratta che nel caso di specie ha inficiato l’instaurazione dei procedimenti penali e l’adozione delle sentenze di condanna a carico dei ricorrenti. In presenza di tali circostanze, è stato chiaro alla Corte EDU che la sottoposizione a processo di soggetti identificati come vittime di tratta, si pone in contrasto con l’obbligo di adottare misure operative per proteggere tali soggetti sì da garantire il raggiungimento di quell’obiettivo di recupero sociale, fisico e psicologico, che si pone alla base delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU.
Riconosciuta la violazione dell’art.4 della Convenzione, la Corte EDU è passata ad analizzare le denunciate violazioni dell’art.6 par.1 della Convenzione. Anche in questo caso, la Corte ha accolto le istanze dei ricorrenti, concludendo nel senso che l’equità dei procedimenti penali era stata pregiudicata dall’assenza di consapevolezza dei fatti sottostanti alle ammissioni di colpevolezza [19] e dalle carenti motivazioni fornite dalla Procura e dalle Corti per proseguire i procedimenti penali.
Conclusivamente, alla luce delle accertate violazioni della Convenzione, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti il diritto al risarcimento dei danni pari a 25.000 euro ciascuno.
4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione
La Corte EDU nel ricondurre il principio di non punibilità nel novero delle misure operative che gli Stati Parte, in determinate circostanze, sono chiamati ad adottare in adempimento degli obblighi scaturenti dall’art.4 della Convenzione, giunge ad una conclusione che si pone in linea di continuità con quel “cambio di passo”[20] che, dagli inizi del secondo decennio del ventunesimo secolo, ha reso la giurisprudenza convenzionale in materia di tratta di persone una guida per gli Stati Parte verso un ampio inquadramento della tratta; un fenomeno criminale che viene delineato tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del caso, e che richiede l’intervento non solo delle norme penali, ma dell’intero ordinamento
Già a partire dallo storico caso Rantsev c. Russia e Cipro [21], la Corte EDU - dopo avere affermato che la tratta di persone quale forma moderna di schiavitù rientra indubbiamente nel campo di applicazione dei divieti dell'art. 4 della Convenzione– aveva sottolineato la necessità che gli Stati Parte adottassero, nell’ambito della misure operative di lotta alla tratta, un “comprehensive approach” funzionale a tutelare i diritti fondamentali delle vittime di tale fenomeno criminoso. Applicando la nota dottrina del vacuum (isolamento)[22], la Corte EDU richiamava il Protocollo di Palermo e la Convenzione di Varsavia quali fonti da cui trarre la definizione del reato di tratta[23] e da cui dedurre la necessità di un approccio non limitato all’adozione di misure di repressione penale, ma anche finalizzate a proteggere le vittime. Era chiaro pertanto, fin da allora, che l’obbligo di criminalizzare e perseguire la tratta fosse solo uno dei vari impegni assunti dagli Stati Parte nel contrasto a tale fenomeno criminoso e che la portata degli obblighi positivi derivanti dai divieti sanciti dall’art. 4 della Convenzione doveva essere considerata in tale più ampio contesto.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte EDU concludeva pertanto nel senso che lo stato russo e quello cipriota avevano violato l’at.4 della CEDU per non avere condotto indagini appropriate sulla morte di una ragazza russa, vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale ed e per non essersi muniti di sistemi idonei a punire tali reati e a proteggerne le vittime.
Successivamente a tale pronuncia, gli interventi della Corte EDU sul tema della tratta - sollecitati anche del disastroso espandersi del fenomeno[24] - sono andati sempre più spingendosi verso una interpretazione estensiva della definizione di tratta e, conseguentemente, degli standard di tutela spettanti alla vittima a garanzia delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In tale contesto, si inserisce il caso S.M. c. Croazia[25] ove la Grande Camera della Corte EDU, oltre ad ampliare ulteriormente l’ambito applicativo dell’art.4 CEDU includendovi il divieto di cd. tratta interna, delinea - sempre in un’ottica di favor victimae - il ruolo dell’abuso di vulnerabilità nell’ambito degli elementi costitutivi del reato di tratta. Nel caso di specie, la Corte EDU ha riscontrato la violazione dell’art.4 da parte della Croazia per non avere adottato misure operative a protezione della ricorrente la quale era stata sfruttata sessualmente da un ex poliziotto croato e aveva visto mandare assolto il suo sfruttatore in quanto le sue dichiarazioni erano state considerate inattendibili, pur non essendo state svolte ulteriori indagini a suffragio dei denunciati fatti di sfruttamento. Viene precisato che l’abuso dello stato di vulnerabilità della vittima costituisce un indizio - ancorché spesso poco tangibile - della presenza dell’elemento strumentale della tratta e dell’esecuzione di un’attività di lavoro forzato, e ciò anche quando la vittima si sia offerta volontariamente, quantomeno in un primo momento, per lo svolgimento del lavoro. Sicché la scarsa attendibilità delle dichiarazioni della vittima non potrà giustificare il mancato compimento di indagini approfondite su sospettabili fatti di tratta o la mancata adozione di misure protettive in favore della sua vittima.
Infine, anche nel recentissimo caso Affaire A.I. c. Italia[26] la Corte EDU è tornata ad affrontare il tema della vulnerabilità della vittima di tratta in una vicenda concernente la perdita della potestà genitoriale da parte della ricorrente. Nel caso di specie, la maggiore protezione che la vittima necessita in ragione dello stato di vulnerabilità in cui versa è un elemento che, agli occhi della Corte EDU, ha reso inaccettabile l’avere impedito alla ricorrente di intrattenere rapporti con i propri figli i quali erano stati nel frattempo dati in adozione.
Orbene, appare evidente che la prospettiva vittimologicamente orientata[27] che emerge dall’analisi della giurisprudenza in materia di tratta è la stessa che si pone alla base della decisione del 16 febbraio 2021. Coerentemente con un approccio integrato alla tratta, la non-punishmenti provision viene incorporata nell’art.4 CEDU quale ulteriore standard convenzionale di tutela dei diritti della vittima, il primo afferente la sua posizione giudiziaria. In un contesto in cui le cause di giustificazione - come le duress circumstances britanniche o lo stato di necessità dell’ordinamento italiano[28] - sono insufficienti per tutelare tempestivamente la vittima di sfruttamento ai fini di “criminalità forzata”[29], si avverte la necessità di rafforzare l’emersione internazionale del principio di non punibilità. Gli obiettivi di protezione verrebbero infatti frustrati dalla sottoposizione a processo della vittima a cui verrebbe inibito l’accesso agli strumenti di assistenza, favorendone anzi il (re)inserimento entro episodi di sfruttamento.
5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie
Quanto detto tuttavia non vuole dedurre dalle parole della Corte EDU affermazioni generalizzabili in merito all’applicabilità tout court del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Per quanto la non punishment provision sia entrata, come sopra esposto, nel novero delle misure operative da adottare a tutela della vittima di tratta, è altrettanto vero che tale incorporazione è tutto fuorché assoluta. Ciò è testimoniato non solo dalla formulazione letterale delle norme internazionali che ad essa fanno riferimento, ma anche dalla circostanza che la Corte EDU si è molto concentrata sulle “certain circumstances” in presenza delle quali la mancata applicazione del principio di non punibilità potrebbe non entrare in contrasto con libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In proposito, assumono rilievo da un lato l’identificazione[30] del soggetto indagato - da effettuarsi tramite le autorità all’uopo istituite e prima dell’adozione di decisioni giudiziarie in merito all’opportunità di sottoporre a processo penale vittime di tratta - e, dall’altro lato, il coordinamento effettivo ed efficace tra i vari attori impiegati nella lotta alla tratta (da compiersi tramite una tempestiva attivazione dei Meccanismi Nazionali di Referral e l’adozione di esaustive decisioni delle autorità giudiziarie che siano attinenti alla definizione di tratta e alle conclusioni a cui sono giunte le autorità competenti).
Si tratta di indicazioni di non poco rilievo e da cui emerge l’intento del giudice europeo di guidare le autorità nazionali verso una prospettiva di contrasto multilivello, che nella ricerca dell’equilibrio tra la tutela (penale) dell’ordine pubblico e la prevenzione di fenomeni di tratta tramite protezione delle sue vittime, mette in rilievo la dignità della persona, quale meta-valore ordinamentale[31]. In particolare, la pronta identificazione della vittima tramite personale qualificato e il repentino intervento dei Meccanismi di Referral sono elementi che richiamano l’attenzione sulle politiche dell’immigrazione concernenti l’identificazione[32] sollecitando un’analisi critica di quei sistemi giuridici che si mostrano meno inclini ad una visione preventivo-assistenziale e più orientati verso dinamiche di repressione penale e di puro contenimento dell’immigrazione[33].
Peraltro, a quest’ultima categoria sembra potersi in parte ricondurre il Regno Unito[34]. Infatti, sebbene la violazione della Convenzione accertata con la sentenza in commento non abbia inficiato l’intero sistema operativo messo in atto dall’ordinamento britannico a protezione delle vittime di tratta, le istanze di prevenzione manifestate dalla Corte EDU non sembrano trovare riscontro nella riforma anti-trafficking del 2015. Il Modern Slavery Act 2015, se per un verso ha introdotto un sistema di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono stati costretti a commettere[35], per altro verso si è focalizzato principalmente su un impianto di repressione penale, incentrato sulla definizione del reato di tratta, che continua a relegare l’intervento del Meccanismo Nazionale di Referral in una fase post factum.
Così, ad esempio, la riforma nulla ha previsto in merito al cd. Tied Visa System del 2012, ossia il sistema di concessione dei visti per i domestic workers che crea un legame quasi indissolubile (e da qui il nome) tra la legittimità dello status del ‘migrante lavoratore domestico’, giunto tramite richiesta di un cittadino britannico, e il datore di lavoro. Si tratta di un sistema che ha reso i lavoratori domestici sovente vittime di tratta e di ogni genere abuso (lavorativo, sessuale e criminale) da parte del datore di lavoro. A riguardo, la riforma del 2015 si è limitata solo a prevedere che ove il soggetto sia fatto oggetto di sfruttamento lavorativo, sessuale o criminale, potrà rivolgersi alle Autorità Competenti ed al Meccanismo Nazionale di Referral – sempre che ne conosca l’esistenza - per essere identificato come vittima di tratta ed ottenere la proroga del visto[36]. Viene così creato un sistema generatore di abusi e di sfruttamento che si autoalimenta, ove il Meccanismo Nazionale di Referral deve individuare quelle vittime che sono state create dallo stesso legislatore nazionale.
Orbene, ancorché sia evidente che continuano ad incontrare numerosi ostacoli quelle istanze di protezione e prevenzione provenienti da strumenti esterni alla Convenzione EDU, tra cui inter alia la Convenzione di Varsavia e la Direttiva n.2011/36, la Corte EDU con la sentenza in commento e tramite la delimitazione del ruolo svolto dai Meccanismi Nazionali di Referral si è resa cauta portavoce di tali esigenze, ora non più relegate entro i limiti di strumenti di “soft law” [37]. In particolare, la vincolatività di cui sono dotate le decisioni dei giudici europei dovrebbe sensibilizzare i legislatori nazionali verso una politica anti-tratta che si basi su un approccio human rights-based ed in cui l’applicazione del principio di non punibilità delle vittime di tratta dovrebbe costituire l’extrema ratio a fronte di un sistema che dovrebbe tutelare preventivamente le vittime di tali crudeltà.
6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità delle vittime di tratta
La mancanza di assolutezza del principio di non punibilità delineato dalla Corte EDU nella sentenza in commento è inoltre testimoniata dall’assenza di precisazioni (e non potrebbe che essere così) circa le ulteriori sfide che il principio di non punibilità deve affrontare. Soggiace infatti a questo istituto una valutazione frutto di un bilanciamento non solo tra fatti penalmente rilevanti ma anche tra beni giuridici.
In particolare, i casi sottoposti al vaglio della Corte EDU vertevano sulla commissione di un reato, quale la produzione di stupefacenti, che rientra tra quei delitti che sovente sono connessi a vicende di tratta di esseri umani. È difficile pertanto ritenere che le indicazioni fornite dalla Corte EDU siano sufficienti per dare risposta (punibilità o non punibilità) a quelle ipotesi in cui la vittima di tratta venga costretta o persuasa a trasformarsi essa stessa in sfruttatore (fenomeno di cd. “cycle of abuse”[38]), facendosi soggetto attivo di condotte lesive di quegli stessi diritti e libertà che l’art.4 CEDU intende tutelare. Ciò potrebbe verificarsi nei casi in cui venisse lesa l’integrità fisica della persona (gravi lesioni personali e omicidio).
In tali ipotesi, soprattutto le più gravi, un diverso e più pregnante rilievo nell’opera di bilanciamento presupposta dal principio di non punibilità, dovrebbe essere accordato, in linea teorica, all’interesse all’avvio dell’azione penale, quantomeno ove già nella fase delle indagini e previo parere delle autorità competente, manchi quello stato di costrizione della vittima/carnefice su cui il principio di non punibilità si fonda. Diversamente argomentando, si correrebbe di svilire i nobili scopi della non-punishment provision rendendola un comodo escamotage elusivo della responsabilità penale.
7. Conclusioni
Il Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con questa innovativa decisione manifesta la presa di coscienza la una maggiore tutela delle vittime, anche sul piano giudiziale, è un passo necessario da compiere per adempiere alla missione di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e favorire l’emersione e la prevenzione dei fenomeni di tratta. Per quanto parte della dottrina[39] abbia criticato – in nome del principio della certezza del diritto – la forza espansiva di cui viene dotato l’art.4 CEDU, non può comunque negarsi che norme convenzionali aventi natura di jus cogens – in cui rientra a pieno titolo l’art.4 della Convenzione - richiedono che alle stesse sia accordata la capacità di adattarsi all’evoluzione della realtà fenomenica per fare fronte alle istanze di tutela della libertà e della dignità dell’essere umano a cui sono volte.
In chiave comparatistica, si può notare che l’attenzione riservata dalle Corte EDU all’istituto della non punibilità della vittima del reato di tratta per i reati che la stessa è stata costretta a commettere, non è la stessa che si riscontra nella normativa processuale italiana. Sul punto, l’Italia è stata già ripresa dal GRETA[40], senza che tuttavia il legislatore sia intervenuto sul punto. Pertanto, per quanto ammirevoli siano gli sforzi finora compiuti dall’ordinamento italiano nella lotta alla tratta[41], alla luce dei passaggi argomentativi della sentenza in esame, deve scorgersi la necessità che il sistema italiano incrementi la tutela, anche giudiziaria, della vittima.
[1] Venivano in ogni caso rimodulate le pene originariamente afflitte ai due ricorrenti: Mr. V.C.L. veniva condannato alla pena di 14 mesi di reclusione, mentre a A.N. veniva ridotta la pena da 18 a 4 mesi di reclusione.
[2] Ai sensi dell’art.4 par. 1 e 2 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo: “Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio.
[3] Ai sensi del citato art.26: “Ciascuna delle Parti stabilisce, in conformità con i principi fondamentali del proprio sistema giuridico nazionale, la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette”.
[4] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report”del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.
[5] Al fine di adempiere agli oneri di prevenzione e protezione scaturenti dalla Convenzione di Varsavia e dalla Dir.2011/36, la maggior parte dei paesi europei ha istituito i cd. Meccanismi Nazionali di Riferimento (Referral), ossia meccanismi di cooperazione che procedono all’identificazione dei soggetti vittime di tratta, basati su accordi di collaborazione con le organizzazioni della società civile attraverso i quali gli attori statali, adempiono ai loro obblighi di protezione e promozione dei diritti umani delle vittime. Per l’Italia cfr. le Linee Guida per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral elaborate dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e l’U.N.H.C.R.
[6] A norma dell’art.3 del Protocollo di Palermo: “«tratta di persone» indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi”.
[7] I sei indicatori sviluppati dall’OIL costituiscono il punto di riferimento nell’identificazione del lavoro forzato. Questi indicatori sono la minaccia di violenza o l’effettiva violenza fisica nei confronti della vittima, la restrizione della libertà di movimento dei lavoratori, la schiavitù per debiti, la trattenuta dei salari, la confisca di passaporti o documenti d’identità e la minaccia di denuncia alle autorità, nei casi in cui il lavoratore abbia lo status di migrante irregolare.
[8] La Direttiva 2011/36 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime è stata adottata in sostituzione della previgente Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI.
[9] Ai sensi dell’art.8: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai principi fondamentali dei loro ordinamenti giuridici, per conferire alle autorità nazionali competenti il potere di non perseguire né imporre sanzioni penali alle vittime della tratta di esseri umani coinvolte in attività criminali che sono state costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all’articolo 2”.
[10] L’art.34 CEDU recita quanto segue: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto”
[11] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report” del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.
[12] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, ric. n. 25965/04 e Caso Chowdury e altri c. Grecia, 30 marzo 2017, ric. 21884/15.
[13] In particolare, il Regno Unito aveva sostenuto che la Corte EDU avrebbe esulato dai propri poteri giurisdizionali, ove avesse importato all’interno dell’ambito applicativo dell’art.4 CEDU norme quali la non-punishment provision di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia.
[14] Ai sensi dell’art.4, lett. a) della Convenzione di Varsavia: “L’espressione “tratta di esseri umani” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l’inganno, con l’abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l’espianto di organi”.
[15] Il Group of Experts on Trafficking in Human Being, cd. GRETA è un gruppo multidisciplinare di esperti istituito dall’art. 36 della Convenzione di Varsavia al fine vigilare sull’applicazione delle norme ivi previste e sull’efficacia delle azioni promosse dagli Stati firmatari. È composto da professionisti scelti tra personalità di elevata moralità, conosciute per la loro competenza nel campo dei diritti umani, dell’assistenza e della protezione delle vittime e della lotta contro la tratta di esseri umani o che possiedano una specifica esperienza professionale nel campo della tratta.
[16] Cfr. Positive Obligations under the European Convention on Human Rights, A guide to the implementation of the European Convention on Human Rights, Council of Europe: Human rights handbooks, N.7, 2007
[17] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. par.
[18] Infatti non era mai stata messa in dubbio la minore età di V.C.L., dovendosi solo chiarire in questo caso se l’indagato avesse 17 o 15 anni.
[19] La Corte EDU pur prendendo atto che le carenti linee difensive seguite dai ricorrenti erano imputabili ai loro avvocati difensori, non ha ritenuto tali elementi sufficienti per mandare esente lo Stato dalle sue responsabilità.
[20] Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 59(4), 1763-1802.
[21] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. La vicenda riguardava una cittadina russa, la quale, una volta recatasi a Cipro con un visto artistico per lavorare in un locale notturno, era deceduta in circostanze misteriose. Il padre adiva la Corte EDU lamentando la violazione dell'art 4 da parte dello stato russo e di quello cipriota, in quanto non avevano rispettato l'obbligo positivo di proteggere i cittadini dal traffico di esseri umani e non erano stati in grado di svolgere indagini appropriate circa i fatti che hanno visto il coinvolgimento della figlia.
[22] Corte europea dei diritti dell’uomo [GC], Hassan v. the United Kingdom, 16 settembre 2014, ric. n. 29750/09, par. 77: “(…) the Convention cannot be interpreted in a vacuum and should so far as possible be interpreted in harmony with other rules of international law of which it forms part”.
[23] La Corte nel caso di specie non ha spiegato con precisione in che modo la tratta rientra nell’ambito di applicazione dell’art.4 e quale sia il nesso con le condotte di schiavitù, servitù e lavoro forzato ivi previste. Si è limitata ad evidenziare che la tratta è un crimine che lede la dignità e la libertà umana e in quanto tale deve considerarsi incompatibile con la Convenzione (Caso Rantsev, par. 282). Per una critica a riguardo cfr. inter allia Milano V., Un approccio integrale per combattere la tratta degli esseri umani? Il contributo della Corte Europea e Interamericana dei diritti umani, in DEP, n. 40/2019.
[24] Se nel 2010 gli Stati Membri dell’Unione Europea totalizzavano c.a. 9.500 vittime di tratta, nel biennio 2017-2018 sono state registrare 26.268 vittime di tratta. cfr. Eurostat, Trafficking in Human Beings, 2013 reperibile sul sito https://ec.europa.eu/eurostat/documents/3888793/5856833/KS-RA-13-005-EN.PDF.pdf/a6ba08bb-c80d-47d9-a043-ce538f71fa65?t=1414780383000 e il Data collection on trafficking in human beings in the EU, elaborato a settembre 2020 dalla Commissione Europea, reperibile sul sito https://ec.europa.eu/anti-trafficking/sites/default/files/study_on_data_collection_on_trafficking_in_human_beings_in_the_eu.pdf
[25] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (GC), Caso S.M. c. Croazia, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.
[26] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso A.I. c. Italia, 1 aprile 2021, ric.70896/17.
[27] Cfr. Vitarelli F., Vittime vulnerabili e art.4 CEDU – La Grande Camera estende l’ambito di operatività dell’art.4 CEDU: verso una sempre maggiore tutela delle vittime vulnerabili in contesti di sfruttamento, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, dicembre 2020, p.2116
[28] Cfr. GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy pubblicato il 25 gennaio 2019, par.234.
[29] Cfr. Seconda relazione della Commissione la Parlamento europeo e al Consiglio relazione sui progressi compiuti nella lotta alla tratta di esseri umani (2020) a norma dell'art.20 della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, Bruxelles, 20.10.2020.
[30] Anche in merito alla centralità accordata all’identificazione del soggetto sospettato di essere vittima di tratta, sembra che la Corte EDU abbia tratto ispirazione dal Caso Chowdury cit., par.88 ove si evidenzia che, ai sensi dell’art.4 della Convenzione, sorge in capo agli Stati l’obbligo di procedere ad una pronta identificazione delle vittime di tratta.
[31] Cfr. Militello V., La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2018, pag. 86.
[32] Appaiono emblematiche le parole del GRETA nel Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by the United Kingdom (2012): “Victims of trafficking must be identified and recognised as such in order to avoid police and public authorities treating them as “irregular migrants” or criminals. Victims should be granted physical and psychological assistance and support for their reintegration into society”.
[33] Cosi anche nello studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking pubblicato nel 2013 dall’Office of the Special Representative and Co-ordinator for Combating Trafficking in Human Beings dell’OSCE: “the application of the principle depends on the extent to which States prioritize the fight against trafficking in human beings over the punishment of victims. More broadly, the application of the principle clearly correlates to the extent to which States put the protection of the rights of trafficked persons at the centre of their anti-trafficking efforts”, par.68.
[34] Cfr. Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, cit.
[35] Con preciso riferimento ai minori di età, il Regno Unito ha accordato loro l’immunità penale per i reati dagli stessi commessi quando sono diretta conseguenza dello sfruttamento e cioè quando una persona ragionevole con le stesse caratteristiche del minore avrebbe fatto lo stesso. Simili disposizioni vengono altresì previste anche con riferimento a soggetti adulti, ancorché in tal caso si richiede che vi sia una precisa connessione tra la costrizione e la tratta.
[36] Cfr. Demetriou D., ‘Tied Visas’ and Inadequate Labour Protections: A formula for abuse and exploitation of migrant domestic workers in the United Kingdom’, in Anti-Trafficking Review, maggio 2015, p. 69–88, www.antitraffickingreview.org.
[37] Il GRETA, ancorché si impegni tramite i suoi reports triennali nel valutare le misure legislative e di altro tipo adottate o che devono essere implementate per dare effetto alle disposizioni della Convenzione di Varsavia, è privo di ogni potere vincolante in grado di incidere effettivamente sugli assetti ordinamentali interni.
[38] Cfr. Lo studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking, cit. par. 55.
[39] Cfr. V. Stoyanova, Dancing on the Borders of Article 4: Human Trafficking and the European Court of Human Right in the Rantsev case, in Netherlands Quarterly of Human Rights, 2012.
[40] GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy cit., par.234.
[41] La Convenzione di Varsavia è stata ratificata dallo Stato italiano con la L.108/2010. Inoltre, in attuazione della direttiva 2011/36, il 26 febbraio 2016 il Consiglio dei ministri ha adottato il Piano d’azione nazionale contro la tratta ed il grave sfruttamento di esseri umani 2016-2018 che stabilisce le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nell’ambito della tratta di esseri umani e disposizioni comuni per gli Stati membri della Ue, mirando a rafforzare, da un lato, la prevenzione e la repressione del reato, e dall’altro la protezione delle vittime.
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