ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Denunciare l’estorsione in Sicilia: fatto ordinario o “rivoluzionario”?
Intervista di A. Apollonioa Giuseppe Condorelli
Giuseppe Condorelli è titolare dell'omonima azienda dolciaria siciliana, nota in tutto il mondo per i suoi torroncini. Ma è anche colui che di recente ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa, consentendo alla giustizia di fare il suo corso. Qualche anno prima aveva agito nello stesso modo: gli era stato chiesto il pagamento di una tangente e lui era corso a denunciare i fatti. Oggi, con moto d'orgoglio e d'ammirazione, viene cercato dai media del Paese per raccontare la sua esperienza, ma il cavaliere Condorelli si limita a dire: "ho fatto una cosa che dovrebbe essere normale".
Abbiamo cercato di capire in che cosa consista questo tipo di normalità, oggi in Sicilia.
Lei ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa e ha fatto arrestare i responsabili. La notizia ha suscitato un notevole clamore: alcuni parlamentari hanno sventolato in aula i torroncini Condorelli, i giornali e le testate nazionali sono accorse ad intervistarla, l'opinione pubblica la vede come un “eroe”. Lei si sente tale?
Assolutamente no. Non mi sento affatto un “eroe”, anzi sono rimasto alquanto esterrefatto dell’eco mediatica che ha avuto la notizia. Da cittadino nonché imprenditore siciliano, ho sempre creduto nella legalità quale valore imprescindibile nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Già in passato aveva subito richieste estorsive, e puntualmente aveva denunciato. Lo Stato, e quindi la magistratura e le forze dell'ordine, ieri e oggi, si sono rivelate pronte a fronteggiare le minacce e i pericoli che lei denunciava?
Anche in occasione di esperienze negative di tale genere, ho potuto constatare l’efficienza e l’efficacia nelle azioni delle istituzioni e delle Forze dell’Ordine a tutela dei cittadini che denunciano atti intimidatori e/o tentativi estorsivi.
Lei è un imprenditore di primo piano, i suoi prodotti sono esportati in tutto il mondo: chi in Italia non conosce i torroncini Condorelli? Dal suo punto di vista, privilegiato, che differenza corre tra essere imprenditore in Sicilia e altrove? E quanto pesano le dinamiche criminali della sua terra?
Certamente, non volendo essere retorico e non volendo esternare “ovvietà”, posso affermare che fare l’imprenditore in Sicilia è ancora più difficile che altrove. In Sicilia , l’imprenditore è consapevole di dover lottare non solo contro le dinamiche criminali, ma anche contro le inefficienze burocratiche degli apparati pubblici e, talvolta, anche contro il deficit infrastrutturale e logistico.
Nel linguaggio mafioso, l'operatore economico è in regola quando è sotto la “protezione” di qualcuno. Questo modo di pensare risale agli albori ottocenteschi del fenomeno, in cui i grandi proprietari terrieri dell'Isola erano costretti ad affidare la protezione dei loro interessi ai mafiosi con la coppola e la lupara. Eppure siamo nel 2021....
Sappiamo che le origini della Mafia in Sicilia risalgono alla fine dell’ottocento con i primi movimenti dei “fasci” e successivamente con l’incedere dei mafiosi che taglieggiavano i grandi proprietari terrieri. Oggi sono cambiati i soggetti mafiosi e le loro dinamiche operative, ma fortunatamente c’è una maggiore coscienza civica nella lotta contro ogni forma di estorsione .
L'imprenditore siciliano come percepisce il fenomeno mafioso? Come un retaggio storico, un passato lontano, oppure un rischio concreto per l'attività di impresa? E come, dal suo punto di vista, l'imprenditore dovrebbe intendere il fenomeno mafioso?
L’imprenditore operoso, onesto e che ama il suo lavoro non può e non deve scendere a compromessi con i soggetti mafiosi.
Cosa si sente di dire ai suoi colleghi che, pur con le difficoltà del momento, nell'esercizio dell'attività di impresa credono sia “meglio” pagare il pizzo?
Direi che “denunciare conviene”! Oggi, la denuncia è l’unica azione che deve intraprendere l’imprenditore se vuole salvaguardare la propria impresa e soprattutto il futuro della stessa.
Lei, dalle colonne di un giornale, ha affermato rivolgendosi ai suoi estorsori se li avesse avuti di fronte: “Capisco che nella vita si può anche sbagliare, ma gli direi che non è questo il modo di vivere. La strada corretta è quella della dignità, dei valori, del lavoro. Non c'è alternativa, devono cambiare”. Le sue parole sono disarmanti, straordinariamente semplici, e da esse si coglie un messaggio di speranza per l'intera Sicilia: non c'è alternativa alla legalità. Vale per i mafiosi, per gli imprenditori, per le istituzioni. E' così?
Assolutamente sì! Nella vita di ogni uomo esistono dei valori fondamentali quali: dignità, legalità e onestà. Ecco perché anche i soggetti mafiosi possono redimersi nel tempo e possono cambiare.
Pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della morte di Giovanni Falcone: egli all'inizio degli anni Novanta affermava sconsolato: “Oggi in pratica quasi tutti pagano la tangente”. Se oggi Falcone fosse ancora tra noi, e avesse davanti la nuova imprenditoria siciliana, pronuncerebbe le stesse parole?
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i veri “eroi” dei nostri tempi. Grazie a loro che hanno pagato un prezzo elevatissimo con le loro vite spezzate da un vile e barbaro attentato nel 1992, oggi la Sicilia e gli imprenditori siciliani hanno preso le distanze dai fenomeni mafiosi. Credo che, anche oggi, Falcone avrebbe continuato la sua lotta contro la mafia con lo stesso impegno e con la stessa caparbietà di allora.
Sono stati giorni difficili, in cui i riflettori erano puntati su di lei. Una domanda forse molto personale: la sera, prima di addormentarsi, a cosa pensa?
Penso alla mia famiglia, alla mia azienda e al bene sviscerato che provo nei confronti della mia terra. Sogno un futuro migliore per i miei figli e soprattutto un futuro scevro da qualsiasi forma di sopruso e prepotenza.
È stato detto che l'invincibilità della mafia non esiste, dipende da noi: è così?
Non credo che la mafia sia invincibile, perché, il successo della lotta dipende solo da noi.
Occorre cambiare la cultura sociale soprattutto nei soggetti più giovani e per fare ciò occorre anche l’aiuto e la collaborazione di chi ci governa.
Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98) di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo - 2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale - 3. La questione all’esame della Consulta - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo.
Con la sentenza n. 98, pubblicata il 14 maggio scorso, la Corte costituzionale (Presidente Coraggio, redattore Viganò) ha segnato un importante punto fermo sulla delimitazione dei confini tra potere giurisdizionale e potere legislativo, quanto meno in ambito sanzionatorio.
Il tema è evidentemente di massimo interesse anche per il diritto amministrativo sotto diversi profili.
La prima, di più immediata evidenza, è data dalla progressiva estensione dell’ambito delle “pene amministrative”: oltre all’aumento delle sanzioni pecuniarie per effetto del processo di depenalizzazione degli illeciti contravvenzionali (a partire dalle leggi n. 317 del 1967, 706 del 1975 e, soprattutto, 689 del 1981, seguite da vari interventi successivi, come il d.lgs. n. 8 del 2016), si assiste invero a una proliferazione di sanzioni interdittive[1] (categoria nella quale evidentemente rientra anche la sottospecie – dai confini estremamente labili e incerti - dell’incapacità di contrarre con le pubbliche amministrazioni di chi si sia reso responsabile di precedenti illeciti o di falsità o omissioni dichiarative) e di misure eccezionalmente ostative alla fruibilità delle regole generali a tutela del legittimo affidamento in forza di pretese violazioni dell’obbligo di “autoresponsabilità” dichiarativa (come quelle previste dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i. per l’operatività del limite temporale di esercizio del potere di annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di ammissione a vantaggi economici e del potere di controllo postumo sulla s.c.i.a.).
La seconda è la tendenza - troppe volte purtroppo vanamente criticata - della giurisprudenza amministrativa a debordare dai confini dell’interpretazione, per esercitare, in inaccettabile concorso con il legislatore, una vera e propria funzione “creativa” di regulae iuris, anche in malam partem[2] e la denunciata “ritrosia” della Corte di cassazione a rilevare l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
Il tema assume peraltro massima attualità e importanza in un momento in cui vi è assoluto bisogno di assicurare “certezza” ai cittadini e agli operatori economici, quantomeno sulle conseguenze giuridiche dei loro comportamenti. Perché, come ho cercato ripetutamente di segnalare, non si può sperare in una ripresa economica in un sistema che continua a tessere “trappole” e incertezze, esponendo i cittadini e gli operatori economici al costante rischio di una “riscrittura giurisprudenziale” in malam partem di disposizioni ambigue – e dunque interpretabili in buona fede anche in senso diverso e più favorevole all’agente – o, addirittura, caratterizzate da un dettato letterale assolutamente chiaro, stravolto dal giudice solo perché ritenuto “irragionevole” [3]. È emblematica, per tutti, la giurisprudenza sui richiamati limiti temporali al potere dell’amministrazione di rimuovere i propri atti (o dichiarare l’inefficacia delle s.c.i.a.) per vizi originari di legittimità, la quale, per un verso, propone indebite interpretazioni estensive delle eccezioni (come tali di stretta interpretazione) alla regola generale di consumazione del potere alla scadenza del termine stabilito dalla legge (nel 2015, 18 mesi, ora ridotti a 12[4] e, per gli atti legati al Covid-19, addirittura a 3[5]) per presunti “falsi o mendaci” dei soggetti istanti o segnalanti e, per l’altro verso, a fronte di una disposizione che inequivocabilmente individua il dies a quo per la decorrenza del termine nell’adozione del provvedimento originario, senza distinguere tra provvedimenti già adottati e provvedimenti successivi all’entrata in vigore della norma, lo ha, dopo qualche iniziale (e più corretta) interpretazione secundum litteram, prevalentemente posticipato a quest’ultima data e, in alcune pronunce, ne ha addirittura negato – contra legem – l’applicazione ai provvedimenti adottati prima della novella[6]. E non sono certamente meno gravi le interpretazioni estensive delle ipotesi di illecito ostative alla stipula di contratti pubblici (esemplari, per tutte, la confusione, opportunamente fermata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, tra false dichiarazioni e dichiarazioni erronee o reticenti e l’assimilazione analogica del rappresentante del socio unico persona giuridica al “socio unico persona fisica”) o, con riferimento a una materia di confine tra il diritto amministrativo e il diritto penale, le interpretazioni estensive del concetto di attività edilizia senza titolo, mediante un’indebita attrazione in tale ipotesi di illecito delle attività realizzate in base a titolo illegittimo[7].
2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale.
Merita dunque grande attenzione e massimo apprezzamento la sentenza in epigrafe, nella quale il Giudice delle leggi ha, giustamente, messo in relazione il principio di stretta legalità delle pene enunciato dall’art. 25, co. 2, Cost. (operante, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale[8] e sovranazionale[9], per tutte le misure afflittive, a prescindere dalla “etichetta” data loro dai singoli ordinamenti) e “l’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981)”, ravvisando nel divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice “l’ovvio pendant” del suddetto “mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice” e sottolineando come la Corte abbia “recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018)”.
Si evidenzia pertanto che l’imperativo dell’art. 25, co. 2, cit. “mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004)”. In questa prospettiva, la sentenza ha stigmatizzato il giudice rimettente, che, “nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio (omissis) omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998)”. La Corte ha dunque affermato in termini molto netti che “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”. Dopo aver rimarcato la valenza generale del principio, anche negli altri ordinamenti, confermata dal richiamo alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, la sentenza ha, ancora, ribadito che “Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale” (significativamente richiamando, in particolare, accanto alle sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, anche la sentenza n. 121 del 2018, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo), mettendo specificamente e molto opportunamente in luce il fatto che tali corollari sono “posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988)”. E ha significativamente aggiunto che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale (da intendersi, come detto, riferita anche alle sanzioni amministrative) verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, sottolineando come la richiamata garanzia soggettiva che il suddetto mandato costituzionale di determinatezza della legge penale vuole assicurare a ogni consociato sarebbe evidentemente svuotata laddove fosse consentito al giudice “assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.
3. La questione all’esame della Consulta.
La questione portata alla Consulta, pur legata a un dubbio di incostituzionalità di una norma processuale (art. 521 c.p.c.), investiva, indirettamente, l’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. - che prevede un regime sanzionatorio delle condotte abusive nei confronti delle “persone della famiglia” più grave rispetto a quello contemplato dall’art. 612-bis, co. 2, dello stesso codice per le condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente - anche alle persone “conviventi” con l’autore del reato[10]. Di fronte al chiaro riferimento della fattispecie criminosa descritta dal richiamato art. 572 alle “persone della famiglia”, il Garante della Costituzione, sulla scorta delle considerazioni sopra riportate, ha dunque correttamente ritenuto “il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato”, mettendo in luce come essa si sostanzierebbe in una interpretazione analogica della norma punitiva a sfavore dell’autore della condotta sanzionata: “una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost”. La Corte ha conseguentemente ritenuto che il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in senso sfavorevole al reo in relazione al caso di specie si traducesse in una carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni prospettate, implicandone l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del2021).
In estrema sintesi, la “giustizia sostanziale” nei confronti della vittima, in nome della quale la Suprema magistratura penale (nelle numerose pronunce richiamate dal giudice remittente e citate nella sentenza in commento) ha ritenuto che l’ipotesi di reato descritta dall’art. 572 c.p. possa comprendere anche le condotte abusive nei confronti della persona convivente, non è dunque un elemento sufficiente a superare (recte, violare) il limite di stretta legalità e chiara prevedibilità nel quadro legislativo stabilito dall’art. 25, co. 2, Cost. e il principio di separazione dei poteri. Analogamente, e a più forte ragione, il richiamo alla “ragionevolezza” e alla pretesa esigenza primaria di tutela dell’interesse pubblico non possono giustificare una lettura “creativa” in malam partem di norme amministrative a contenuto sanzionatorio.
4. Conclusioni.
Si tratta, come anticipato in apertura, di un principio molto importante per la certezza del diritto e per la tutela dei confini tra i poteri voluta dalla nostra Costituzione: un’importanza tanto maggiore nel momento in cui, proprio all’esito della nota sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno, come noto, investito la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione dell’ambito di operatività del ricorso alle Sezioni Unite contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Come evidenziato in sede di commento all’ordinanza di rinvio al Giudice sovranazionale[11], la posizione di “chiusura” della Corte costituzionale era stata in quell’occasione verosimilmente determinata dalla prospettazione della questione in termini di derogabilità al limite di sindacato delle Sezioni Unite sul potere di “interpretazione” del giudice amministrativo, sul presupposto – a mio avviso non condivisibile – che il confine tra “creazione” e “interpretazione” non sia di fatto mai tracciabile. Ora, quantomeno per le norme penali chiare, la Corte costituzionale ha smentito questo assunto ed è quindi auspicabile che anche la Corte regolatrice della giurisdizione apra finalmente la strada, almeno nei casi limite della giurisprudenza creativa in malam partem, all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
[1] Categoria estesa, inter alia, dal codice dei contratti pubblici, dal d.lgs. n. 231 del 2001 e dall’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020 (su cui v. La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, giugno 2020.
[2] Mi si consenta il rinvio, anche per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, inter alia, alle considerazioni svolte in M.A. SANDULLI, Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 2017; Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 3/2018, 687 e ss; Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.;
Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza del diritto, in M.A. SANDULLI, F. FRANCARIO (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305 e ss.; 27; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, e in giustizia-amministrativa.it, 2019; Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, in Giustiziainsieme, ottobre 2020; Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme, novembre 2020.
[3] Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e p A o il Recovery è inutile, Intervista a Il dubbio, 7 maggio 2021, leggibile anche su Giustiziainsieme, maggio 2021, e Sanità, misure abilitanti generali sulla semplificazione e giustizia, Intervento al webinar AIPDA su Next Generation EU. Proposte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, 28 aprile 2021, in corso di pubblicazione sul sito AIPDA.
[4] Art. 63 del d.l. semplificazioni approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 maggio scorso.
[5] Art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 18 luglio.
[6] Cfr. C. DEODATO, Annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, 2 ed., Milano, 2017 e M. SINISI, Autotutela in M.A. SANDULLI (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed., Milano, 2020.
[7] M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, cit..
[8] A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, seguita dalla sentenza n. 104 del 2014. Sull’applicabilità alle sanzioni amministrative delle garanzie di stretta legalità, proporzionalità, irretroattività e favor rei previste per le sanzioni penali (su cui cfr. già M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 e Le sanzioni amministrative pecuniarie, Principi sostanziali e procedimentali, Napoli 1983), v., tra le più recenti, Corte cost., sentt. nn. 20 e 63 del 2019 e ord. n. 117 del 2019, su cui cfr., anche per ulteriori richiami, E. BINDI e A. PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, novembre 2019. Per una sintesi dell’evoluzione giurisprudenziale sulle sanzioni amministrative e per i richiami alla bibliografia essenziale, cfr. da ultimo, S. CIMINI, Sanzioni amministrative, Treccani on-line 2019.
[9] A partire dalla nota sentenza della Corte EDU Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel. c. Paesi Bassi, seguita dalle altrettanto note sentenze 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostic c. Italia, e 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. La posizione è stata pacificamente abbracciata anche dalla Corte di Lussemburgo: cfr. da ultima, la sentenza della Grande Sezione 2 febbraio 2021, in C-489/19, sulla questione sollevata dalla Corte costituzionale nella citata ord. 117 del 2019 (e definita dalla sentenza n. 84 del 2021). Sull’ampia nozione di sanzione penale (afflittiva) secondo la Corte EDU, cfr., tra gli scritti più recenti, M. LIPARI, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014/104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017), in federalismi.it, aprile 2018; F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, 3 ed., Torino, 2018; nonché lo stesso F. VIGANO’, Il nullum crimen conteso: legalità “costituzionale” vs legalità “convenzionale”, in Atti del convegno su “Il rapporto problematico tra giurisprudenza e legalità”, BUP, 2017, 9 ss, il quale rileva come “i due fasci di garanzie sottesi alla legalità penale di fonte, rispettivamente, costituzionale e convenzionale, non debbano essere considerati come antinomici, ma piuttosto come complementari, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriva dalla combinazione tra Costituzione e carte internazionali dei diritti, prima fra tutte la Convenzione europea; e che, pertanto, l'impatto del principio di legalità europeo sul sistema penale italiano comporti in linea di principio un innalzamento complessivo del livello di tutela dell'individuo nei confronti della potestà punitiva statale, rispetto al livello ricavabile dalla sola Carta costituzionale” (p. 11)..
[10] In particolare, come riporta la sentenza in commento, secondo il giudice remittente, “una tale interpretazione sarebbe, anzi, l’unica compatibile con l’art. 3 Cost., dal momento che sarebbe «irragionevole tutelare la vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da vincoli fondati sul matrimonio, anche in quei casi in cui il rapporto sia ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima», e «non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte formali, ma caratterizzati comunque dalla attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima». Del resto, le altre ipotesi previste dall’art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad autorità o affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero esercizio di una professione o di un’arte) prescinderebbero tutte dall’elemento della convivenza”.
[11] Guida alla lettura, cit
Giustizia e comunicazione. 3)
La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero
di Giovanni Melillo
Con il contributo odierno, gentilmente offerto da Giovanni Melillo, prosegue il percorso di riflessioni avviato dalla rivista Giustizia Insieme in ordine alle forme di comunicazione della giustizia attraverso l’Editoriale (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1733-giustizia-e-comunicazione-editoriale), l’intervento di Giovanni Canzio sul linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1738-il-linguaggio-giudiziario-e-la-comunicazione-istituzionale-di-giovanni-canzio) e l’intervista a Rosaria Capacchione (https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1750-giustizia-e-comunicazione-2-fare-cronaca-giudiziaria-intervista-di-maria-cristina-amoroso-a-rosaria-capacchione).
Di assoluta e stringente attualità è senza dubbio la relazione esistente tra la giustizia penale e l’informazione e, in questo ambito, appare ineludibile una compiuta elaborazione circa le modalità di comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero. In particolare, si avverte il pericolo di un interesse massimo della collettività nella fase delle indagini preliminari, interesse che appare scemare progressivamente nel corso dello sviluppo processuale.
Occorre, dunque, declinare la comunicazione pubblica della fase investigativa con particolare riguardo al delicato rapporto - e al conseguente bilanciamento - tra il segreto istruttorio e il diritto all’informazione, da contemperare naturalmente con le garanzie poste a tutela delle persone sottoposte ad indagine, seguendo scrupolosamente, con equilibrio e misura, quanto indicato dal C.S.M. nelle Linee Guida, approvate con delibera dell’11 luglio 2018, le quali dettano una disciplina uniforme che trae spunto anche da molteplici documenti elaborati in sede sovranazionale, attese le scarne previsioni legislative nazionali.
Allo stato tre appaiono i temi maggiormente meritevoli di considerazione con i quali gli uffici di procura dovranno certamente, o almeno auspicabilmente, confrontarsi e sui quali vi è necessità di un’attenta meditazione.
In primis, occorre mettere in rilievo la giurisprudenza della Corte E.D.U. che, anche di recente, con sentenza dell’1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, ha ribadito il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti.
In secondo luogo, risulta particolarmente interessante osservare gli sviluppi della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, al cui recepimento l’Italia ha provveduto solo con la legge di delegazione europea 2019-2020 (legge n. 53 del 22 aprile 2021, in vigore dall’8 maggio 2021).
Infine, un nuovo terreno comunicativo investe gli uffici di procura: la rendicontazione sociale attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale. Tale strumento di "accountability" consente di portare all’esterno l’organizzazione dell’ufficio e le attività svolte, anche con riferimento ai risultati conseguiti e alle spese sostenute, e, lungi dall’assumere una visione aziendalistica - prospettiva assolutamente incompatibile con l’essenza della funzione giurisdizionale - può inverare un momento di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti a beneficio del popolo in nome del quale si amministra giustizia, anche per contribuire a recuperare la fiducia nell’istituzione in parte perduta.
Donatella Palumbo
Sommario: 1. Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale – 2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari – 2.1. La disciplina nazionale – 2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali – 3. Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura – 4. Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione – 5. La tutela della riservatezza – 6. Conclusioni. Il bilancio di responsabilità sociale.
1.Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale
La complessità della trama concettuale delle relazioni fra giustizia penale e informazione, ampiamente visibile già nei riflessi delle numerose norme costituzionali di imprescindibile riferimento (artt. 21, 24, 97, 101, 111 Cost.), non potrebbe considerarsi appieno senza riconoscere la sua prima, fondamentale connotazione patologica, propria essenzialmente della realtà italiana: il controllo sociale sulla giurisdizione, reso possibile dal dispiegarsi della libertà di informazione, è inversamente proporzionale allo sviluppo del processo, in quanto massimo durante la fase delle indagini preliminari, che dovrebbero avere una funzione preparatoria del processo, di regola, invece, assai attenuato nella successiva fase delle verifica in contraddittorio della fondatezza dell’accusa formulata all’esito delle investigazioni preliminari.
Naturalmente, le cause di tale fenomeno sono complesse, sia sul versante della disciplina processuale che della fenomenologia dell’informazione, ma conviene additarlo subito come uno dei principali fattori di distorsione e di ostacolo al bilanciamento fra libertà di informare e diritto di essere informati, da un lato, e gli altri valori costituzionali, poiché, con evidenza, un irragionevole distanziamento temporale della conoscenza e del clamore delle indagini preliminari dall’esito del processo acuisce enormemente i costi sociali ed individuali del corto circuito insito in un rapporto di proporzionalità inversa fra tempo del procedimento e pressione mediatica, che nello stesso modo contribuisce a determinare l’accumularsi e l’acutizzarsi delle tensioni polemiche e istituzionali attorno al ruolo del pubblico ministero e all’incedere delle investigazioni.
Spetta ad autorevoli processualisti[1] il merito di aver descritto limpidamente i rischi dell’affiancamento al processo ordinario del processo mediatico, per l’assoluta diversità dei rispettivi caratteri e codici narrativi, fornendo alcune essenziali chiavi di accesso alla comprensione del reale valore deontologico dei comportamenti dei soggetti del processo nel rapporto con l’informazione e, per tale via, dell’intensità del rischio di deragliamento della sorte reale delle garanzie e degli stessi ruoli processuali collegato all’ingresso sulla scena mediatica di fattori obiettivamente distorsivi, poiché funzionali al rischio di condizionamento della percezione di accadimenti ancora da sottoporre alla valutazione del giudice.
Nel contempo, conviene ricordare che si deve ad un giornalista[2] l’aver posto anche il problema della “ecologia” della professione giornalistica: non solo quando essa pretende di avere il diritto-dovere di pubblicare “qualunque notizia giunga nel proprio ambito di percezione, a prescindere da qualunque altra valutazione sulle conseguenze della pubblicazione sulle persone e sui relativi procedimenti”, ma anche quando, “coi mille trucchi dell’omissione chirurgica, del sapiente sottointeso, dell’ingigantimento di circostanze prive di rilievo ed il nascondimento di cose serie, rinuncia alla verità per le tante ragioni, dal piccolo cabotaggio della concorrenza fra testate e giornalisti alle campagne orchestrate per ragioni commerciali o di lotta politica”.
Accanto ad una dimensione patologica, vi è però anche un valore sociale ed istituzionale della relazione fra giustizia ed informazione che sarebbe oltremodo sbagliato trascurare, anche e soprattutto con riferimento all’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, poiché attiene alla necessità di non oscurare agli occhi del cittadino l’esercizio della giurisdizione, aprendo alla conoscenza della sua struttura e del suo funzionamento. Ciò apre la porta verso aree problematiche tanto importanti quanto sovente oscurate, che chiamano in causa innanzitutto la trasparenza delle logiche che presiedono al funzionamento degli uffici giudiziari, sovente considerate ius repositum in penetralibus pontificum, anziché snodi fondamentali del rapporto con la collettività e le altre istituzioni democratiche[3]. Ma sul punto converrà ritornare in seguito, essendo preminente l’urgenza di considerare il versante delle prassi della comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari.
2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari
In astratto, la materia si presta ad agevole definizione. Potrebbe semplicemente dirsi che la comunicazione deve essere deontologicamente impeccabile ed insieme efficace nel restituire il senso dell’iniziativa giudiziaria di volta in volta in rilievo. Ma non faremmo grandi passi in avanti, perché, come è stato sottolineato, la realtà ha mostrato e mostra ancora molti esempi di comunicazione efficacissima, ma sicuramente scorretta, perché lesiva delle ragioni di altri e talvolta anche della verità, così come esempi di segno opposto, nei quali una comunicazione correttissima risulta priva di qualsiasi interesse per i media[4].
Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale.
Naturalmente, anche così dicendo, i nodi problematici che abbiamo di fronte sono ben lungi dall’essere avviati a scioglimento, collocandosi in una dimensione delle prassi scarsamente attinta dalla legge ed anzi resi ancor più intricati da aporie, contraddizioni, incertezze ed anche ipocrisie normative.
Collocandosi sul terreno delle prassi investigative, in talune circostanze, la consapevolezza della delicatezza degli interessi in gioco dovrebbe spingere a serbare il silenzio assoluto, che, tuttavia, può risultare impraticabile, perché incompatibile con la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati.
Anche per questo appare senz’altro necessario accogliere l’invito[5] a metter da parte l’idea di poter fungere da disciplinati seguaci del settecentesco abate Dinoaurt, autore del famoso libretto L’Arte del silenzio.
Al di là del valore pedagogico e filosofico di molte delle acute riflessioni di quell’elegante intelletto ecclesiastico, infatti, è bene subito fissare che, ai nostri fini, riserbo e correttezza sono concetti diversi e talvolta contrastanti con quello di silenzio, che esprime piuttosto una pretesa - un po’ altezzosa, un po’ comodamente difensiva ed un po’ ipocritamente ispirata a visioni sacerdotali del lavoro giudiziario incompatibili con le moderne democrazie - di tenere lontana dal magistrato la responsabilità per la comunicazione pubblica.
Una comunicazione ben regolata e, così, ancorata a principi di equilibrio, sobrietà e prudenza è possibile ed appare anzi necessaria. Anche per recuperare la fiducia in parte perduta dei cittadini nell’amministrazione della giustizia.[6]
Naturalmente, tutto si fa più difficile nell’era della connessione globale del web e del diffondersi incontrollabile di campagne di disinformazione su vasta scala[7], ma anche i pericoli e le minacce proprie di questa fase dello sviluppo tecnologico contribuiscono a rendere ancor più evidente ed urgente la necessità di disporre di criteri di orientamento delle prassi della comunicazione maggiormente capaci di misurarsi con la complessità e la delicatezza dei valori e degli interessi complessivamente in gioco.
Se, dunque, non possiamo limitarci al silenzio, per progredire nella ricerca di un sempre incerto, ma più avanzato equilibrio, occorre piuttosto considerare il monito insito nel paradosso plotiniano del millepiedi, costretto, come noto, per evitare di inciampare, a non interrogarsi sull’ordine del movimento delle proprie zampe.
Il ricordo della paradossale condizione del povero artropodo dalle troppe zampe e dalle troppo povere capacità elettive può aiutare a dimostrare che non è conveniente muoversi senza disporre di un preciso orientamento metodologico e di strumenti di indirizzo delle prassi degli uffici giudiziari.
2.1. La disciplina nazionale
L’esperienza dimostra che può non bastare esser consci delle difficoltà e persino operare con correttezza e rigore. Vi è bisogno di regole e di procedure, per quanto sia evidente che anch’esse possono essere travolte nello scontro con la realtà. Se la comunicazione è un campo di battaglia, quella relativa alla giustizia è fra i terreni di scontro più frequenti ed insidiosi. Dunque, occorre convenire che, effettivamente, se l’indagine e il processo toccano interessi e centri di potere politici, economici, criminali, sarà oltremodo agevole constatare che, anche toccandosi l’apice della correttezza della comunicazione, sarà ben difficile evitare attriti, reazioni, polemiche, conflitti.
Non di meno, resta intatto il bisogno di custodire quotidianamente valori e regole di condotta fondamentali per la trasparenza e l’imparzialità dell’agire giudiziario.
Certamente, vengono in primaria considerazione i canoni normativi essenziali per la tenuta del principio di legalità processuale nella fase delle indagini e per l’effettività del relativo ruolo di garanzia proprio anche del pubblico ministero, ma la ricerca di solidi ancoraggi normativi non è destinata ad offrire approdi confortanti se si sposta dal terreno della deontologia a quello dell’organizzazione degli uffici e dell’orientamento delle prassi.
Come noto, il dato legislativo (art. 5 del d.lgs. 106/2006)[8] è assai laconico e si limita ad attribuire al capo dell’ufficio requirente la esclusiva responsabilità della comunicazione. Rivelando una discreta dose di rassegnata indifferenza ovvero di ipocrisia, nulla dice sul quomodo. Né, a ben vedere, molto aggiunge la previsione del d.lgs. 109/2006, la quale, prevedendo il rilievo disciplinare di una serie di comportamenti del magistrato (fra le quali altresì la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di notizie non pubblicabili[9]), si colloca in una prospettiva obiettivamente lontana dall’organizzazione razionale delle prassi.
Non molto di più, al momento, dicono le norme secondarie del sistema dell’autogoverno, anche se non poche, ed anche importanti indicazioni possono trarsi, come si dirà oltre, dalle pur non stringenti “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera dell’11 luglio 2018[10].
2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali
Naturalmente, anche nella consapevolezza che, ad ogni latitudine, non esistono dispositivi normativi che garantiscano dai rischi tipici della informazione giudiziaria, alcuni passi in avanti possono farsi guardando, innanzitutto, alle regole enucleabili dalla giurisprudenza della C.E.D.U. e da documenti internazionali importanti, pur se privi di ogni valore immediatamente precettivo[11].
Sul primo versante, si ritrovano ampie tracce di alcuni principi fondamentali, fissati dalla Corte di Strasburgo attorno, da un lato, al valore della libertà di stampa, intesa secondo la classica (ed un po’ retorica) formula del “cane da guardia della democrazia” (William Goodwin v. UK, 27 marzo 1996) e, dall’altro, alla necessità di equilibrio degli assetti reali dei sistemi nazionali, essendo buon andamento della amministrazione della giustizia, privacy e presunzione di innocenza[12] valori protetti dalla Convenzione, ma chiamati a fare i conti con un’ampia tutela del diritto di cronaca (almeno a far tempo dalla famosa sentenza del 26 aprile 1979 - Sunday Times v. UK - che ricordò a tutti che i tribunali non possono funzionare nel vuoto, perché i loro compiti suscitano naturalmente il dibattito pubblico e devono confrontarsi con il diritto del pubblico ad essere informato).
Del resto, della sussistenza dell’interesse pubblico non può che decidere il giornalista, come ovvio assumendone la responsabilità, quando l’interesse pubblico ritenuto sussistente per legittimare la pubblicazione entri in conflitto con altri interessi e diritti, quali quella alla privacy e alla reputazione (si veda, ad esempio, il caso Furst-Pfeifer v. Austria del 17 maggio 2016 ove si discuteva della legittimità, riconosciuta dalla C.E.D.U., della pubblicazione di notizie sulla salute mentale di una psichiatra che agiva come consulente sui minori dell’autorità giudiziaria)[13].
Sul secondo versante, alcuni parametri fondamentali di un’informazione corretta delle Procure della Repubblica è dato individuarli nei contenuti del parere reso, sotto l’egida del Consiglio d’Europea, dal Comitato Consultivo dei Procuratori Europei nel 2013 (parere n. 8/2013)[14], intervenuto quattro anni dopo la Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica”[15] predisposta appunto a Bordeaux, in seduta comune dei Gruppi di lavoro del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (C.C.J.E.) e del Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (C.C.P.E.), ed adottata ufficialmente dal C.C.J.E. e dal C.C.P.E. a Brdo il 18 novembre 2009[16].
Potrà sembrare banale il preliminare avvertimento che da tali documenti potremo solo in controluce ricavare gli antidoti della comunicazione clandestina o più abilmente ricercata a fini di promozione mediatica di figure e destini personali, occupandosi i medesimi di orientare correttamente i canoni pratici della comunicazione giudiziaria ufficiale, ma sarebbe ancor più facile constatare che l’ampiezza del gioco dell’una significativamente dipende dagli spazi non occupati dalla seconda.
In tale prospettiva, si coglie tutta l’importanza dei canoni di orientamento dell’applicazione pratica dei principi convenzionali enucleabili dalla lettura dell’uno e dell’altro documento[17].
In definitiva, trova limpida affermazione in quei documenti il principio secondo il quale la trasparenza delle funzioni del p.m. e dell’organizzazione delle indagini e degli uffici che hanno la responsabilità è una “componente essenziale dello Stato di diritto e al tempo stesso una delle garanzie del giusto processo”.
Naturalmente, resta affidata alla considerazione personale di ciascuno ogni riflessione sulla distanza della realtà quotidiana delle prassi applicative di quei valori, certo particolarmente visibile nella rappresentazione degli esiti delle indagini con enfasi e perentorietà di toni non compatibili con la natura della fase procedimentale e la dimensione giurisdizionale dell’azione del pubblico ministero[18], ancorché sovente ricercati in logiche di comunicazione proprie delle società nelle quali si indeboliscono i fattori di difesa e diffusione della cultura della presunzione di innocenza e della dignità delle persone, pur se accusate di gravissimi delitti.
Tuttavia, l’aperto e continuo richiamo ai principi della Dichiarazione di Bordeaux operato dalle successive Linee guida del C.S.M. consente, pur essendo tale strumento per sua natura dotato di relativa capacità di vincolante indirizzo, di cogliere il valore innovativo dell’approccio al problema e di talune delle soluzioni prospettate, consentendo di proiettare l’uno e le altre nella concreta dimensione dell’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e di ridurre il rischio di divaricazioni e contraddizioni delle prassi operative.
3.Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura
Innanzi tutto, il documento[19] muove dal ripudio dell’idea che la comunicazione sia materia accantonabile nel lavoro di ogni magistrato.
All’elogio del silenzio e alla stantia ed ipocrita massima secondo la quale i magistrati dovrebbero parlare solo con i loro provvedimenti (nella realtà sovente esposizioni di enormi masse informative e di valutazioni difficili da comprendersi per i più), si sostituisce l’invito ad una parola equilibrata, misurata, responsabile, ispirata al rispetto della funzione giudiziaria e dei diritti dei cittadini.
Naturalmente, ciò non copre tutta la dimensione della comunicazione del magistrato, che comunica con tutti i suoi comportamenti, non solo professionali, come ci ricordano le bellissime pagine introduttive alla pubblicazione del pluridecennale dialogo epistolare di un giudice con una persona condannata alla pena perpetua[20], ma anche conducendo o partecipando all’udienza e con ogni altro atteggiamento percepito dal cittadino a vario titolo coinvolto nel procedimento.
In altri termini, come è stato altresì ben detto[21], la percezione sociale del magistrato e della giustizia si nutre sempre più del costume giudiziario, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano e si relazionano con i soggetti del processo e nel dibattito pubblico.
In questa dimensione, nella quale, quasi quotidianamente, la magistratura perde piccole quote di credibilità e fiducia dei cittadini, il dovere di difendere strenuamente la libertà di manifestazione del pensiero del cittadino magistrato anche su temi politicamente sensibili ed esposti al rischio della polemica deve potersi associare alla possibilità di criticare e tenere lontane da sé le tentazioni a presentarsi come depositari di verità e dell’etica pubblica e a non cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.
Le Linee guida, dunque, per quanto generiche e bisognose di traduzione in documenti di chiaro valore precettivo, hanno un rilievo obiettivo e si potrebbe ritenere non eludibile per i dirigenti degli uffici giudiziari, imponendosi la necessità di valutare la necessità di precisi interventi organizzativi, essenziali all’orientamento trasparente delle forme di esercizio della loro responsabilità della comunicazione pubblica.
Ecco allora, trattandosi di informazione sulle attività del P.M., vedere la luce nella sede dell’autogoverno della magistratura alcuni pur generici, ma chiarissimi, principi, agevolmente suscettivi di progressione precettiva: dal divieto di discriminazioni tra giornalisti o testate e di canali informativi privilegiati alla tutela della dignità delle persone vulnerabili dal rischio di pressioni vessatorie dei media, dal dovere di una comunicazione reattiva, finalizzata a correggere o smentire informazioni errate, false o distorte, fino al dovere (del dirigente dell’ufficio) di coinvolgere gli altri magistrati nelle valutazioni di modalità ed impatti della comunicazione pubblica.
In altri termini, di alcuni dei principi dedotti nelle ricordate Linee Guida è ben possibile tentare di assicurarne la reale condivisione e l’uniforme applicazione, riducendo i margini della scivolosa dimensione di informalità che abitualmente caratterizza i rapporti con i media.
La considerazione del rischio di diffusione di fotografie e video ritraenti il volto di persone arrestate in esecuzione di ordinanze applicative di misure cautelari ovvero arrestate in flagranza di reato o sottoposte a fermo di polizia giudiziaria[22] può, ad esempio, utilmente porsi a fondamento di formali direttive ai servizi di polizia giudiziaria, così collocandosi apertamente la doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini in condizioni di particolare vulnerabilità, da un lato, nella sfera di diretta responsabilità dei vertici degli organi di polizia giudiziaria e, dall’altro, al centro delle funzioni di direzione e controllo delle investigazioni proprie dell’ufficio del pubblico ministero.
Nella medesima prospettiva, i progetti organizzativi degli uffici di Procura, vieppiù quando risultanti dall’effettiva partecipazione di tutti i magistrati che ne fanno parte al relativo processo di elaborazione, si offrono naturalmente (al pari delle opportunità di indirizzo uniforme delle prassi insite nelle funzioni di vigilanza spettanti ex art. 6 d.lgs. 106/2006 ai procuratori generali presso le corti d’appello) alla costruzione di chiare e trasparenti regole organizzative interne per la gestione dei rapporti con i media, imprimendo alla comunicazione pubblica dell’Ufficio il valore aggiuntivo della consapevole contribuzione dei sostituti assegnatari dei singoli affari alla definizione dei contenuti delle informazioni da rendere in ordine alle procedure che - in ragione della particolare delicatezza, gravità, rilevanza e comunque idoneità a coinvolgere l’immagine dell’Ufficio o per le questioni di diritto, nuove ovvero di speciale complessità e delicatezza o per la loro rilevanza per la tutela dei diritti delle persone coinvolte - maggiormente esigono la più ampia collaborazione, anche attraverso specifiche riunioni, all’analisi dei dati e delle informazioni suscettivi di divulgazione. Ciò rende evidente che il principio di responsabilità del Procuratore della Repubblica, lungi dall’esprimere istanze di esclusione, esige invece, per la sua stessa effettività di nutrirsi della partecipazione degli altri magistrati alla sua concreta declinazione, vieppiù rilevante allorquando si imponga rendere con tempestività e precisione le comunicazioni sempre più necessarie per correggere informazioni ed interpretazioni errate e dannose per l’efficacia delle indagini o per la tutela dei diritti delle persone coinvolte, nonché dell’immagine di indipendenza, imparzialità e correttezza dell’Ufficio.
4.Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione
Soprattutto, per quanto il tema sembri accantonato nella loro definizione, le Linee Guida del C.S.M. rivelano chiaramente l’ineludibilità della questione della regolazione dell’accesso diretto dei giornalisti agli atti non segreti, aprendosi per tale via la strada alla condivisione delle istanze da tempo mosse dal giornalismo più attento e colto e dalla dottrina più rigorosa e lungimirante.
Da tempo è stato autorevolmente sollevato il problema dell’irragionevolezza della distinzione normativa, ancora attuale, fra “atto”, non pubblicabile, e “contenuto pubblicabile”, sulla quale si fonda l’art. 114 c.p.p., indicando l’accesso diretto (e controllato nelle forme dell’art. 116 c.p.p.) del giornalista agli atti del procedimento come condizione per un esercizio autonomo e responsabile della libertà di informazione[23].
Si staglia così una dimensione problematica che non può che essere affidata al legislatore, poiché coincidente con l’individuazione della linea problematica cruciale alla sdrammatizzazione del rapporto fra comunicazione ed indagini: rendere pubblicabile tutto ciò che non è più segreto ed assicurare l’effettività della protezione di ciò che invece è segreto (in tale direzione muovendosi il superamento del tradizionale quanto ipocrita divieto di pubblicazione dell’ordinanza applicativa di misure cautelari), superando le istintive obiezioni correlate alla sorte della presunzione di innocenza e della serenità delle successive valutazioni del giudice, essendo realisticamente assai difficile riconoscere fondamento razionale tanto al mito della verginità cognitiva del giudice quanto al timore che le campagne di stampa colpevoliste sarebbero significativamente alimentate dalla rimozione di un divieto, quale quello di pubblicazione, costantemente violato e ridicolmente sanzionato.
Ma al tema in esame è collegata anche una dimensione non eludibile responsabilmente nel concreto atteggiarsi delle prassi giudiziarie, direttamente riferibile, nelle condizioni normative date, al riconoscimento della possibilità di accesso diretto del giornalista a ciò che non è più segreto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p.p. e, dunque, attraverso l’esercizio, responsabile e trasparente, di potestà processuali, spettanti, nella fase delle indagini preliminari, all’ufficio del pubblico ministero, sollevando il giornalista e la libertà di stampa [24]dal peso di “situazioni di sostanziale sudditanza”[25] e ponendo fine ad un obiettivo sistema di scambi immorali[26], quale quello che si realizza in una sorta di mercato clandestino delle informazioni, secondo le condizioni tipicamente proprie dei regimi proibizionistici, che si nutrono delle violazioni della loro impossibile pretesa di attuazione reale.
Per tale via, e dunque ancor prima ed indipendentemente dalla maturazione delle condizioni di una consapevole e moderna regolazione legislativa del rapporto fra segreto d’indagine e diritto all’informazione, non soltanto la figura del giornalista può essere emancipata dalla necessità di attingere clandestinamente alle proprie fonti e messa in grado di poter accedere in condizioni di parità e trasparenza alle informazioni contenute in provvedimento non più segreti, ma si riduce significativamente il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità.
Naturalmente, non si tratta di una sorta di vaccino utile contro virus proteiformi e resistenti ad ogni profilassi, ma certo di un rimedio apprezzabile nella logica della riduzione dei danni correlati al mondo delle relazioni clandestine fra stampa e soggetti del processo. Anche in tal caso, la strada sembra attraversare l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, esigendosi una regolamentazione delle modalità di esercizio della discrezionalità giudiziaria essenziale al migliore bilanciamento degli interessi complessivamente coinvolti nella singola procedura. L’esperienza, del resto, rivela che alle prassi in tal senso orientate non corrispondono inconvenienti o doglianze di sorta. Nessun rimedio miracoloso né tanto meno definitivo, dunque, ma uno strumento di inoculazione di una dose aggiuntiva di trasparenza e responsabilità della quale sembra difficile poter negare la necessità.
5.La tutela della riservatezza
Ancor più naturalmente, non essendo l’accesso diretto dei giornalisti agli atti non coperti da segreto panacea di ogni male, perdura immutata l’importanza di un rigoroso controllo delle tecniche di selezione delle informazioni e dei dati sensibili acquisiti nel corso delle indagini ai fini della formazione dei provvedimenti giudiziari, essenziale anche per ridurre le tensioni che ruotano attorno alla radicale divaricazione fra il criterio di giudizio che dovrebbe guidare le valutazioni del pubblico ministero e del giudice e i parametri della cronaca giudiziaria, che non possono che essere più ampi, coincidendo con l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, così come valutato dagli organi di informazione.
Restano altresì intatti i rischi collegati al governo delle tecnologie impiegate nel processo penale, l’uso delle quali pone problemi di responsabilità del trattamento dei dati personali in passato impensabili ed oggi largamente inesplorati, soprattutto con riguardo all’intervento di ausiliari e servizi privati il rilievo decisivo dei quali ai fini delle investigazioni pone sovente gli Uffici giudiziari in una posizione di dipendenza cognitiva e subalternità operativa, venendo in rilievo la gestione di sistemi informativi retti da logiche d’impresa ed ancora lontani da una sfera di effettiva controllabilità dell’amministrazione della giustizia.
Sul primo terreno si pone nitidamente il tema della separazione dei destini dei due diversi campi di giudizio, assicurando l’allontanamento della giurisdizione da ciò che, esorbitando dall’accertamento del reato, attiene invece all’etica dei comportamenti ed al loro disvalore morale, attraverso la cura scrupolosa nella ricognizione di ciò che effettivamente rileva ai fini del processo penale, di ciò necessitando la stessa autorevolezza della funzione giudiziaria, perché l’attribuzione o più spesso l’autoassegnazione al magistrato di impropri e persino improbabili ruoli di autorità morale[27] mette in crisi la distinzione fra etica e diritto penale la chiarezza della quale è invece baluardo della legalità processuale.
Sul secondo piano di riflessione si colloca invece il fattore di dilatazione delle tensioni fra esigenze investigative e tutela della riservatezza e dei dati personali delle persone a vario titolo coinvolte nel procedimento penale rappresentato nell’era della connessione globale alla rete dall’ingresso in scena dei big data e dell’intelligenza artificiale nelle attività di ricerca della notizia di reato e di successiva acquisizione probatoria e dal trascinamento nel processo penale di enormi masse informative e di dati sensibili coincidenti con l’intera sfera esistenziale delle persone coinvolte nelle attività di indagine. A tale dimensione problematica apparterranno anche le prossime, ancor più grandi ed ormai visibili fibrillazioni polemiche intorno alla disciplina delle indagini preliminari e ai limiti, insiti nell’imprescindibile legame di proporzionalità ed adeguatezza fra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali, delle più invasive potestà di acquisizione probatoria[28].
6.Conclusioni. La rendicontazione sociale
Ultime considerazioni vanno riservate al profilo della comunicazione degli Uffici del Pubblico Ministero afferente alla relativa organizzazione e all’attività svolta, che il già ricordato parere del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei consente di valorizzare ponendo l’applicazione del principio di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti come elemento essenziale per assicurare la fiducia del pubblico, richiedendo ciò la più ampia diffusione delle informazioni sui criteri prescelti di esercizio delle relative attribuzioni istituzionali e prettamente processuali.
Un’indicazione offuscabile attraverso approcci retti da finalità di cosmesi e autocelebrazione, ma non a lungo eludibile, imponendosi l’apertura ad una conoscenza diffusa e agevole del lavoro giudiziario, dando conto dei criteri e dei risultati ottenuti, illustrando le ragioni che regolano l’ordine di trattazione delle procedure, la durata delle medesime procedure, le modalità di impiego delle risorse, secondo modelli condivisi ed omogenei, che consentano la comparazione e l’analisi delle diverse prassi.
Anche in questo modo, attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale[29], la giurisdizione “rende conto” (nell’accezione anglosassone di accountability) della propria azione al popolo nel nome del quale è amministrata, sottoponendosi ad un controllo democratico che è il necessario contrappeso all’indipendenza e alla autonomia della magistratura.
[1] Glauco Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989; ID., Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007; ID., L’informazione giudiziaria non soltanto distorce la realtà rappresentata, ma la cambia, in Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali italiane (a cura di), L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016, 82; Carlo E. Paliero, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Rivista di diritto penale e procedura penale, 2006, 2, 467 ss.; Tullio Padovani, Informazione e giustizia penale: dolenti note, in Diritto penale e processo, 2008, 689 ss.; Ennio Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, 2016.
[2] Luigi Ferrarella, Non per dovere, ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi, in Questione Giustizia, 2018, 4, 311; ID., Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 4 ss..
[3] Sul punto si segnalano le considerazioni di Elisabetta Cesqui, Farsi capire da Adam Henry e da tutti gli altri, in Questione Giustizia, 2018, 4, 236 ss. secondo la quale “la comunicazione della attività e delle decisioni è un gesto di trasparenza e la trasparenza, quando riguarda il potere, è un esercizio di democrazia che può che giovare alla società” (p. 237). Ed ancora “non è vero che i giudici parlano solo con le sentenze, parlano anche con i loro comportamenti, con il modo in cui si pongono nei confronti di chi, vittima o reprobo che sia, incrocia il loro cammino nei luoghi della giustizia e non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire” (p. 242).
[4] Giuseppe Pignatone, Comunicazione della Procura della Repubblica: una garanzia anche per l’imputato, in Questione Giustizia, 2018, 4, 262 e ss..
[5] Nello Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione Giustizia, 2018, 4, 245 e ss..
[6] In tale senso, altresì, Donatella Stasio, Il dovere di comunicare dei magistrati: la sfida per recuperare fiducia nella giustizia, in Questione Giustizia, 2018, 4, 213 e ss.
[7] Sul tema, assume peculiare rilievo l’elaborazione in corso in ambito sovranazionale (cfr. European Commission contribution to the European Council, Action Plan against Disinformation, 5 dicembre 2018; European Parliament, Study requested by the LIBE committee, Disinformation and propaganda – impact on the functioning of the rule of law in the EU and its Member States, febbraio 2019).
[8] Si riporta il testo integrale dell’art. 5 del d.lgs. 106/2006 (concernente “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Rapporti con gli organi di informazione”: “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. 2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 3. E' fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio. 4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.”
[9] Si riporta il testo dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 (concernente “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”, limitatamente alle lettere u) e v): “u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando é idonea a ledere indebitamente diritti altrui; v) pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.
[10] Sul tema, Edmondo Bruti Liberati, Un punto di arrivo o un punto di partenza?, in Questione Giustizia, 2018, 4, 318 e ss.; Vincenza (Ezia) Maccora, Un percorso che deve coinvolgere l’agire quotidiano dei magistrati per costituire una effettiva svolta culturale, in Questione Giustizia, 2018, 4, 218 ss., la quale opportunamente osserva che “il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato - giudice o pm - deve misurarsi, non solo con gli strumenti “ordinari”, a cominciare dal rendere sempre comprensibile la motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica”.
[11] Per un quadro di riferimento generale: Mariarosaria Guglielmi, Uno sguardo oltre i confini. Principi ed esperienze della comunicazione giudiziaria in Europa, in Questione Giustizia, 2018, 4, 278 ss..
[12] Al riguardo si segnala anche la Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Tale Direttiva, composta da 51 considerando e 16 articoli, doveva essere recepita dagli Stati membri entro l’1 aprile 2018, stante il tenore dell’art. 14. Tuttavia l’Italia ha provveduto solo con la Legge di delegazione europea 2019-2020 (Legge n. 53 del 22 aprile 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 23 aprile 2021 e in vigore dall’8 maggio 2021), contenente la delega al Governo al recepimento anche della predetta Direttiva sulla presunzione di innocenza (cfr. art. 1 comma 1 della L. 53/2021 e allegato A alla medesima legge). Ai fini della presente trattazione appare rilevante soprattutto il contenuto dell’art. 4 della Direttiva rubricato “Riferimenti in pubblico alla colpevolezza” di cui si riporta il testo integrale: “1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità. 2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell'obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l'articolo 10. 3. L'obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale o per l'interesse pubblico”.
[13] Da ultimo deve essere menzionato il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti, come ribadito nella sentenza C.E.D.U., 1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, a commento della quale si segnala il seguente articolo: Marina Castellaneta, La C.E.D.U. e i limiti alle intercettazioni dirette nei confronti di giornalisti (a proposito di Corte edu, 1 aprile 2021, Sedletska contro Ucraina), in questa Rivista, 5 maggio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/130-main/diritti-umani/1707-la-cedu-e-i-limiti-alle-intercettazioni-dirette-nei-confronti-di-giornalisti-di-marina-castellaneta. Con riferimento allo stesso tema, si segnala anche la precedente sentenza C.E.D.U., 6 ottobre 2020, Jecker v. Svizzera, e il commento della medesima Autrice, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della C.E.D.U.. Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera), in questa Rivista, 14 novembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu.
[14] Parere n. 8/2013 del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei reperibile in lingua inglese al seguente indirizzo: https://www.procuracassazione.it/procurageneraleresources/resources/cms/documents/CCPE_20131009_Opinion_8_en.pdf.
[15] In particolare, degno di rilievo il punto 11: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”. Il testo integrale della Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica” è reperibile all’indirizzo: https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/CCPE_20091208_Opinion_4_it.pdf.
[16] Nella scia di tali organi consultivi di quell’organizzazione paneuropea si collocano anche i documenti dell’European Network of Councils for the Judiciary (E.N.C.J - acronimo in lingua francese R.E.C.J.), a far tempo dal “Justice, Society and the Media – Report 2011-2012”, il cui testo è reperibile in lingua inglese al seguente indirizzo https://www.encj.eu/images/stories/pdf/GA/Dublin/encj_report_justice_society_media_def.pdf, nonché al più recente - per come rilevante ai fini della presente trattazione - “Public Confidence and the Image of Justice – Report 2017-2018”, approvato a Lisbona l’1 giugno 2018, nell’ambito del quale si sviluppa ampiamente la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e si suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, tra l’altro, si raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.
[17] Sinteticamente: l’informazione data ai media non deve minare l’integrità delle investigazioni, l’esercizio dell’azione e le loro finalità; l’informazione data ai media non può danneggiare o influenzare la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; le relazioni con i media devono essere costruite sulla base del reciproco rispetto, dell’eguale trattamento e della responsabilità, operando con imparzialità e uguaglianza nei confronti dei giornalisti; dunque, trasparenza di queste relazioni, senza tessitura di rapporti personali o di pratiche selettive finalizzate ad assicurare maggiore risalto all’azione del P.M.; l’informazione data ai media deve essere rispettosa delle decisioni del giudice e, segnatamente, “i membri dell’ufficio del pubblico ministero devono rispettare l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici; in particolare, essi non possono esprimere dubbi sulle decisioni giudiziali o ostacolare la loro esecuzione, salvo quando esercitano i loro diritti di appello o invocano altre procedure declaratorie”.
[18] Armando Spataro, Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica, in Questione Giustizia, 2018, 4, 294 e ss.. Sul punto anche Giovanni Canzio, in questa Rivista, 19 maggio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-comunicazione/1738-il-linguaggio-giudiziario-e-la-comunicazione-istituzionale-di-giovanni-canzio.
[19] Il testo delle “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal C.S.M. con delibera dell’11 luglio 2018, è reperibile al seguente indirizzo: https://www.csm.it/documents/21768/87316/linee+guida+comunicazione+%28delibera+11+luglio+2018%29/4e1cd7cc-a61b-66b0-3f0e-46cba5804dc3?version=1.0.
[20] Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2015.
[21] Armando Spataro, cit., p. 294.
[22] Naturalmente, il tema ha diretta incidenza anche nello statuto deontologico dei giornalisti, che prevede espressamente che “Salva l'essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona (...) salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riproduce né riprende immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere rappresentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”, per quanto sia chiaro che in ogni caso la trasmissione agli organi di stampa delle foto segnaletiche di persone scattate in occasione dell’arresto possa integrare, in mancanza di comprovate finalità di giustizia, di polizia o di motivi di interesse pubblico, una violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (come già sancito nella sentenza della C.E.D.U. dell’11 gennaio 2005 - ricorso n. 50774/99 - in procedura instaurata nei confronti dell’Italia), integrando la violazione di un divieto ribadito anche in numerosi provvedimenti dell’Autorità di garanzia della protezione dei dati personali (ex plurimis, provvedimento n. 179 del 5.6.2012).
[23] Francesco C. Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 139 e ss..
[24] Naturalmente, l’accesso agli atti potrà essere assicurato, secondo la medesima clausola normativa ed analoga tecnica di motivato bilanciamento degli interessi coinvolti, oltre che al giornalista, altresì all’informazione digitale che si realizza senza la mediazione dell’appartenenza ordinistica del soggetto istante, altresì in corrispondenza alle esigenze di analisi criminologica e statistica proprie di istituzioni accademiche e di ricerca.
[25] Francesco C. Palazzo, ivi, 142.
[26] Luigi Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario, cit., 6 ss.
[27] Armando Spataro, cit., p. 297.
[28] Per una rassegna degli irrisolti nodi giurisprudenziali in materia di intercettazione delle comunicazioni telematiche e di acquisizione investigativa dei dati accumulati nei relativi dispositivi, cfr. Pierluigi Di Stefano, Il Trojan horse nel processo penale in questa Rivista, 28 ottobre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/122-main/processo-penale/1364-il-trojan-horse-nel-processo-penale
[29] Per un approfondimento sullo strumento del bilancio di responsabilità sociale applicato agli uffici requirenti: Paolo Ricci e Pietro Pavone, The experience of social reporting in Italian judicial offices. The laboratory of the public prosecutor’s office in Naples, in International Journal of Public Sector Management, 2020 (DOI 10.1108/IJPSM-04-2020-0102); Id. The Accountability in the Judicial System: Have Times Really Changed? Reflections From an Italian Social Reporting Experience, in Public Integrity, 2021 (https://doi.org/10.1080/10999922.2021.1872991).
Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management
di Giuseppe Martinico e Leonardo Pierdominici*
Sommario: 1. Introduzione e obiettivi dello scritto - 2. La genesi della teoria dell’acte clair e dei criteri CILFIT: inquadramento comparato - 3. Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management - 4. Il contesto in cui si inseriscono le conclusioni dell’avvocato generale Bobek - 5. Conclusioni.
1. Introduzione e obiettivi dello scritto
In questo saggio si cercherà di contestualizzare e analizzare in maniera critica le conclusioni dell’avvocato generale Bobek al caso Consorzio Italian management[1], prestando particolare attenzione alle questioni che lo hanno indotto a suggerire alla Corte di giustizia dell’Unione europea un parziale superamento della nota giurisprudenza CILFIT[2].
Nel farlo, divideremo il saggio in quattro parti. Dopo la presente introduzione allo storico caso del 1982, nella seconda parte ripercorreremo le motivazioni che portarono la Corte a CILFIT, per poi, nella terza, esporre le ragioni insite nelle conclusioni dell’avvocato generale Bobek alla luce di considerazioni comparatistiche. Infine, inquadreremo queste conclusioni all’interno di una stagione (lunga) di ripensamento dei pilastri di quello che si potrebbe definire un diritto processuale “complesso”[3], frutto, cioè, dell’intreccio normativo prodotto, negli anni, dal processo di integrazione europea.
CILFIT è il prodotto di un’epoca di grande attivismo giudiziale in cui la Corte di Lussemburgo ha cercato, dopo aver posto le basi della specialità del diritto comunitario, di razionalizzare - vedremo in che modo - il rapporto con i giudici comuni. Nel farlo, la Corte ha in parte riscritto la disposizione dell’attuale art. 267 TFUE (a quel tempo art. 177 TCEE), ridisegnando le “regole d’ingaggio” che devono caratterizzare la cooperazione fra giudici nazionali e l’interprete qualificato del diritto dell’UE.
CILFIT appartiene all’Olimpo dei grands arrêts[4], una pronuncia analizzabile da vari punti di vista che ha il merito di aver aiutato la Corte a incanalare le energie giudiziali presenti in un ordinamento multilivello[5].
Nelle parole della Corte di giustizia, l’allora art. 177 TCEE, - e dunque l’attuale art. 267 TFUE -:
«Va interpretato nel senso che una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l'ordinamento interno è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere il suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all'interno della Comunità».
Con CILFIT, quindi, la Corte di giustizia individuava alcune eccezioni a quanto stabilito dalla lettera della norma fondamentale in tema di procedimento pregiudiziale, vero e proprio pilastro dell’ordinamento dell’UE, come confermato, fra l’altro, anche nel Parere 2/13 della Corte di giustizia, ove se ne è sottolineata l’importanza nella «rete strutturata di principi, di norme e di rapporti giuridici mutualmente interdipendenti, che vincolano, in modo reciproco, l’Unione stessa e i suoi Stati membri, nonché, tra di loro, gli Stati membri»[6].
Proprio prendendo spunto da CILFIT e sulla scia di una copiosa letteratura processualistica[7], si è altrove sostenuto[8] che una delle più evidenti manifestazioni dell’efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte di giustizia consista proprio nella trasformazione della posizione del giudice nazionale di ultima istanza, in seguito alla presenza di una precedente pronuncia della Corte di giustizia: nel passaggio, quindi, da una situazione giuridica configurabile in termini di obbligo (una situazione di ăgĕre dēbēre, di necessità) ad una qualificabile in termini di discrezionalità[9]. CILFIT produce una situazione di possibilità limitata per il giudice che, nel caso in questione, può seguire la previa giurisprudenza o problematizzare la cooperazione, chiedendo una nuova interpretazione alla Corte di giustizia qualora non ne condivida una pregressa o creda che le circostanze del suo caso siano diverse. Più in generale si potrebbe dire che, in presenza di una pronuncia della Corte sul punto, le già limitate chance ermeneutiche dei giudici nazionali (anche quelli non di ultima istanza) si riducano ancora di più.
Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek sono state già oggetto di attenti commenti da parte della dottrina italiana[10], ma in questo saggio cercheremo di leggerle in maniera sistematica, non soltanto dando conto di alcuni recenti sviluppi processuali, ma anche tenendo in considerazione circostanze di contesto - peraltro, come segnaleremo, già all’attenzione del Bobek studioso e comparatista -.
2. La genesi della teoria dell’acte clair e dei criteri CILFIT: inquadramento comparato
Come accennato, riteniamo necessario, per la migliore comprensione delle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso C-561/19, procedere con un inquadramento comparato: del resto - potrebbe dirsi quasi a mo’ di slogan - parliamo di conclusioni di un illustre comparatista[11], che invitano la Corte di giustizia dell’Unione a una profonda riconsiderazione di una dottrina storica, quella elaborata con la sentenza CILFIT[12], che è nata come reazione a dinamiche applicative sorte col sovrapporsi del sistema di giustizia sovranazionale con quelli peculiari degli stati membri, dottrina che è declinata mediante il richiamo rivolto ai giudici nazionali ad un’interpretazione che si nutra anche dell’indagine comparatistica, e che è finalizzata a disciplinare aspetti istituzionali di quel sistema che possono comprendersi appieno solo ampliando, per così dire, la prospettiva di analisi.
Come già s’è accennato, la sentenza CILFIT della Corte di giustizia verteva sul tema dell’interpretazione di quello che oggi è l’art. 267 comma III TFUE, ed in particolare sul tema del gradiente di obbligatorietà da riconoscersi in capo alla giurisdizione nazionale di ultima istanza rispetto all’effettuazione del rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Lussemburgo, e di possibili eccezioni a quell’obbligatorietà per come disposta expressis verbis dal Trattato. La questione fu all’epoca posta dalla Corte di Cassazione italiana, che con ordinanza richiese se l’obbligo di rinvio pregiudiziale sancisse «un obbligo di rimessione che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo»[13], traendo spunto da questione interpretativa invero assai semplice, tanto da essere qualche anno dopo delibata in camera ristretta e con sentenza lapidaria[14].
La Corte di giustizia intese disporre una certa attenuazione rispetto alla rigida obbligatorietà disposta dal Trattato: eccezioni potevano e possono porsi ove la giurisdizione nazionale di ultima istanza, che a ciò è chiamata, constati la non pertinenza della questione, la sua natura già esplorata dall’interprete qualificato del diritto sovranazionale, o la sua evidenza indubbia.
Nella vulgata, la Corte di giustizia è apparsa con ciò aderire alle teorie, di marca francese, dell’acte eclairé e dell’acte clair[15] (oltre che a un’opportuna costruzione del requisito della rilevanza tipica di tutti i sistemi fondati sul rinvio ad altra giurisdizione[16]): e dunque, parve aver colto l’occasione del rinvio da parte della Corte di Cassazione per statuire rilevanti eccezioni ad un obbligo troppo rigido imposto dal Trattato. Ciò, però, è vero solo in parte: e una ricostruzione delle circostanze che portarono alla decisione - secondo un’analisi storico-comparata nel solco di linee di ricerca oggi emergenti[17] - può raccontare una storia ben più variegata.
La Corte di giustizia, invero, colse la palla al balzo del rinvio italiano, ma non tanto per porre dirette eccezioni alla lettera del Trattato, quanto per arginare certe tendenze interpretative, perniciose per il sistema di controllo sovranazionale, provenienti dalle giurisdizioni nazionali. Già dal 1964, con il noto caso Shell-Berre[18], il Conseil d’État francese aveva infatti preteso di applicare la teoria dell’acte clair - originatasi dell’ordinamento francese quale eccezione al rinvio da parte del giudice al Ministère des affaires étrangères in punto di interpretazione dei trattati internazionali[19] - nell’ambito dei rapporti con la Corte di giustizia, pretendendo autonomamente di denegare in tal senso l’esistenza di una valida «questione» interpretativa ai sensi e per gli effetti dell’(allora) art. 177 TCEE e, pertanto, di un suo obbligo di rinvio. Analoga presa di posizione pervenne, nel 1970, dal Bundessozialgericht tedesco nel noto Widow’s pension case[20] - che la stessa dottrina locale ricondusse al trapianto delle teorie francesi[21] - ed ancora nel 1974 dalle giurisdizioni britanniche[22], già solo pochi mesi dopo l’accesso del Regno unito nelle Comunità. Sorse un dibattito accademico in materia che coinvolse esponenti illustri quali l’ex avvocato generale francese Lagrange su posizioni difensive delle prassi nazionali[23] e il già allora giudice della Corte Pierre Pescatore su posizioni critiche[24]. Fu persino presentata una interrogazione scritta al Parlamento europeo, cui la Commissione rispose con note simpatetiche rispetto all’autonomia delle giurisdizioni nazionali[25] (che poi replicò nelle osservazioni dinanzi alla Corte nel procedimento CILFIT, aderendo alle prese di posizione dei governi nazionali[26]).
Va considerato insomma che CILFIT fu decisa con riferimento a tale retroterra fattuale: e ve n’è traccia, a ben vedere, anzitutto nelle conclusioni dell’avvocato generale Capotorti, che perorò la causa di un rigetto pieno della teoria dell’acte clair non solo su basi teoriche, ma anche espressamente al fine di sconfessarne le abusive strumentalizzazioni fatte in sede nazionale, e al fine di un pieno effet utile delle fondamentali disposizioni sul rinvio pregiudiziale[27]. Ma ve n’è traccia, a ben intendere, anche nella storica sentenza, che non è certo un’adesione pedissequa alle teoriche francesi, ma una loro astuta declinazione rispetto alle specificità dell’architettura giurisdizionale sovranazionale.
Se l’adesione alla teoria dell’acte eclairé, peraltro confermativa delle statuizioni classiche di Da Costa[28], nasceva dalla consapevolezza dell’esistenza di un sostrato di giurisprudenza comunitaria ormai abbastanza robusto, e si traduceva nel mandato conferito ai giudici nazionali di conoscerlo e valutarlo, i c.d. criteri CILFIT relativi all’acte clair venivano tanto puntualizzati da circoscriverne fortemente, in realtà, l’applicazione. Demandare al giudice nazionale di ultima istanza la verifica della configurabilità di un acte clair «in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità» voleva dire demandare - e qui arriviamo al secondo punto sopra accennato - un’indagine comparatistica piena sulla possibilità che l’interpretazione propalata non possa essere sconfessata in altri ordinamenti nazionali, per le loro specificità, e ciò anche rispetto alle caratteristiche proprie di un ordinamento giuridico composito come quello sovranazionale, tra cui l’esistenza di una peculiare terminologia non collimante con quella (già di per sé diversa) degli ordinamenti nazionali, l’esistenza di più versioni linguistiche di ogni normativa tutte egualmente autentiche (all’epoca della sentenza sei, oggi ventiquattro), la prassi tipica di un’interpretazione del diritto sovranazionale contestuale e teleologica, il possibile variabile stadio di evoluzione del diritto sovranazionale al momento in cui va data applicazione alla disposizione che viene in gioco[29]. Un mandato d’indagine comparatistica demandato al giudice nazionale di difficile se non improbo adempimento[30] (secondo una tecnica tipica, oggi rinvenibile anche in altri casi assai discussi in materia di rispetto della rule of law[31]), che già alcuni avvertiti commentatori dell’epoca ricondussero propriamente ad un fittizio mantenimento dello status quo[32], e che altri autori, tra cui proprio Bobek prima del suo mandato alla Corte, hanno stigmatizzato come ormai tecnicamente impossibile anche alla luce dei progressivi allargamenti geografici dell’Unione[33]. Per di più, a differenza che nel passato, un mandato oggi presidiato, per i casi di sua eventuale violazione, da più strumenti, quali il rimedio risarcitorio predisposto dalla giurisprudenza Köbler[34], il controllo politico da parte della Commissione mediante procedura di infrazione inaugurato col caso C-416/17[35] (contro la Francia, per violazione dell’art. 267 TFUE perpetrata proprio dal Conseil d’État), il rimedio dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione da parte dello stato della giurisdizione non referente dell’art. 6 CEDU, inaugurato con il caso Ullens de Schooten[36], oltre che, in certi ordinamenti nazionali, dalla possibilità di accesso diretto alla giurisdizione costituzionale per sancire la propria violazione dei diritti a un equo processo o al giudice natura precostituito per legge stante la mancata adizione della giurisdizione comunitaria[37].
Ma se dunque v’è prova storica del fatto che CILFIT sia arresto giurisprudenziale posto dalla Corte di giustizia al fine non tanto di limitare ex se, ma di regolare l’afflusso dei casi in Lussemburgo da parte delle giurisdizioni nazionali apicali, tenendo ben saldo il proprio ruolo di guardiana della corretta ed uniforme applicazione del diritto comunitario nei vari stati membri (la quale sarebbe pregiudicata laddove all’interno dei vari ordinamenti nazionali si consolidassero orientamenti ermeneutici difformi), è comunque certo vero che un’altra ratio coesiste con questa, ed è quella relativa, appunto, ad una più efficace gestione delle proprie risorse istituzionali rispetto alle richieste provenienti dalle giurisdizionali nazionali: una ratio che, nella letteratura in lingua inglese, va comunemente sotto il nome di docket control.
La Corte di giustizia oggi sovraintende la corretta ed uniforme applicazione del diritto dell’Unione in ventisette ordinamenti nazionali; è certo ampiamente mutata, come istituzione, nel corso dei decenni, ma rimane una giurisdizione con discrete ma limitate risorse. Essa pubblica annualmente le statistiche relative alla propria attività, da cui s’apprende che la giurisdizione che promana dai rinvii pregiudiziali da parte dei giudici nazionali è non solo quella ampiamente preponderante[38], ma anche quella foriera di attività sempre in crescita: permangono dubbi dei commentatori sull’utilizzo corretto ed effettivo del fondamentale strumento del rinvio pregiudiziale da parte di almeno un’ampia aliquota degli operatori nazionali, anche di nuova generazione[39], il che ha sinora portato alla Corte appunto a operare con molta cautela nel disincentivo ai giudici nazionali al rinvio; ma è certo vero che i rinvii pregiudiziali destinati in Lussemburgo sono stati (a far data dalle adesioni dei paesi dell’Est) ampiamente crescenti, ed ossia 265 nel 2007, 288 nel 2008, 302 nel 2009, 385 nel 2010, 423 nel 2011, 404 nel 2013, 450 nel 2013, 428 nel 2014, 436 nel 2015, 470 nel 2016, 533 nel 2017, 568 nel 2018, 641 nel 2019, 556 nel 2020[40].
L’idea di una Corte «vittima del proprio successo»[41] è antica, e persino caricaturale rispetto al grado di autonomia istituzionale di cui essa gode nel regolare le conseguenze di quel successo[42]. Sicuramente la gestione del flusso dei casi che riceve mediante posizione di proprie dottrine interpretative è parte importante di questa autonomia: essa ha fatto parlare, genericamente includendo CILFIT, anche in passato di una sua attività di docket control paragonata un po’ improvvidamente a quello di altre giurisdizioni ben diversamente organizzate[43]; ma, s’è accennato, quella gestione coinvolge la delicata questione dei rapporti con le corti nazionali e la fiducia che v’è implicita, va adoperata con cautela - e la Corte ne è consapevole - onde evitare nuove sacche di disobbedienza quali quelle che hanno condotto alla sentenza CILFIT, e coinvolge anche la varietà di rapporti che la Corte intrattiene con giurisdizioni di ordinamenti differenti, giacché è dimostrato che ben diversi sono i rinvii pregiudiziali posti, ad esempio, da giudici di common law e civil law in punto di ampiezza delle domande, permeabilità tra questioni di fatto e di diritto, intellegibilità del rinvio[44].
Questa questione - che pure nel passato ha specificamente interessato l’avvocato generale Bobek nei panni di studioso[45] - è sinora stata affrontata (proprio per non reprimere l’afflusso dei casi e non arretrare dinanzi al ruolo nomofilattico per la corretta ed uniforme applicazione del diritto dell’Unione) mediante soluzione tendenzialmente neutrali rispetto ai rapporti con i giudici nazionali e adoperate sul versante organizzativo-istituzionale: ad es., si è creato il Tribunale di prima istanza per sollevare la Corte di giustizia dall’ampia mole del contenzioso in via d’azione, s’è organizzata la Corte in camere anche minute per la gestione dei casi di minor spessore e s’è più recentemente dotata di un vicepresidente per la gestione più snella della composizione delle camere stesse[46], si sono previste procedure più snelle con possibilità di pronunzia mediante ordinanza motivata (in condizioni speculari a quelle dei criteri CILFIT, ossa in caso di acte clair o eclairé)[47], o ancora senza previa udienza pubblica[48], o senza previe conclusioni dell’avvocato generale[49]. Misure, come ha opinato un esperto membro della Corte come Christiaan Timmermans, tese sempre e solo allo scopo di «organize and maintain continuity»[50], senza arrischiarsi a disciplinare specificamente, come pure più volte anche autorevolmente suggerito[51], il delicato ma fondamentale sistema di comunicazione del rinvio pregiudiziale, mai nemmeno subappaltato al Tribunale di prima istanza nonostante la possibilità sia prevista dai Trattati[52]: i rapporti con le giurisdizioni nazionali, per non inibirne l’impiego, sono sempre stati affidati al più a linee guida, quali le «Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale» pubblicate dalla Corte[53], comunque non cogenti, o quali appunto i criteri CILFIT, anch’essi con tutti i limiti di pregnanza di cui s’è detto.
3. Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management
Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek si innestano sulle precedenti considerazioni, che vengono affrontate esplicitamente, quasi col piglio dell’accademico - in coerenza con le precedenti sue prese di posizione in ambito dottrinale, che abbiamo richiamato - e come del resto può essere considerato tipico della funzione[54].
Va del resto rimarcato che CILFIT è sentenza capostipite ma che ha conosciuto sviluppi singolari: più avvocati generali, e di ciò Bobek dà conto (par. 174), ne hanno proposto il superamento[55]; la Corte ne ha invece sempre propugnato la piena applicazione, anche recentemente ribadendola ed anzi persino rafforzandola mediante la richiesta di «prova circostanziata» di assenza di ragionevole dubbio sulla soluzione interpretativa propugnata senza accedere al rinvio[56]. D’altra parte, la Direzione ricerca e documentazione della Corte (vedremo che non è circostanza solo aneddotica) ha pubblicato nel 2019 un articolato studio comparatistico sull’applicazione dei criteri CILFIT da parte delle giurisdizioni nazionali d’ultima istanza, ed in particolare sull’interpretazione del concetto ivi esposto di «ragionevole dubbio» interpretativo (ossia in sostanza sull’applicazione della teoria dell’acte clair), con partita analisi di ogni ordinamento nazionale[57]: lo studio - uno dei primi pubblicati dalla Corte rispetto alle analisi della Direzione ricerca e documentazione tradizionalmente confinate ad uso interno - non solo testimonia di per sé l’esistenza di un dibattito mai sopito, ma espressamente conclude rilevando l’inesistenza di un impiego specifico ed espresso dei criteri CILFIT da parte delle giurisdizioni nazionali, le quali spesso parrebbero evitare il rinvio pregiudiziale laconicamente esplicitando l’assenza di ogni «ragionevole dubbio» che sia, ma senza argomentare ulteriormente a riguardo nelle proprie decisioni.
Forse non è un caso allora che il proposto cambio di paradigma dell’avvocato generale Bobek arrivi in questa temperie, e, per vero, cogliendo l’occasione di un rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato italiano i cui confini sembravano peraltro ben più ridotti, coinvolgendo la limitata (ed invero pacifica) questione dei rapporti tra obbligatorietà del rinvio ex art. 267 comma III TFUE, eventuali preclusioni processuali nel giudizio a quo, eventuale configurabilità di fattispecie d’abuso del diritto nella possibilità delle parti in causa di eccepire a più riprese, anche successivamente a un primo rinvio pregiudiziale disposto, nuove questioni interpretative di diritto dell’Unione passibili di rinvio da parte del giudice d’ultima istanza[58].
L’avvocato generale nelle conclusioni liquida difatti velocemente la questione specifica fatta oggetto di rinvio da parte del Consiglio di Stato: richiama la pacifica competenza del giudice nazionale a sottoporre d’ufficio uno o più quesiti alla Corte di giustizia, per l’interpretazione o la validità di disposizioni sovranazionali, senza che la sollecitazione di una parte del giudizio, che pure è prassi, comporti un obbligo di rinvio (par. 23); rammenta la discrezionalità, pure pacifica, del giudice nazionale nel delibare sulla rilevanza e nel determinare il contenuto del quesiti da porre con l’ordinanza di rinvio, come anche la discrezionalità nel determinare la fase del processo in cui promuoverlo (con preferenza per una fase in cui s’è instaurato il contraddittorio tra le parti, anche al fine di agevolare l’intervento della Corte e promuoverne l’utilità, parr. 24-25); infine, evidenzia l’obbligo per il giudice remittente di disapplicare eventuali regole nazionali che limitino od ostacolino l’adempimento dell’obbligo ex art. 267 comma III TFUE, al fine di garantire la piena efficacia alle disposizioni sovranazionali (parr. 26-27). Applicando questi pacifici postulati, la soluzione al quesito effettivamente posto per il caso Consorzio Italian Management è presto offerta: un rinvio pregiudiziale può essere sottoposto alla Corte in qualsiasi momento e dunque in qualunque stato e grado del giudizio a quo, «indipendentemente da una precedente sentenza pregiudiziale della Corte pronunciata nell’ambito dello stesso procedimento, sempre che il giudice del rinvio ritenga che la risposta della Corte sia necessaria per consentirgli di pronunciare la propria sentenza»; ciò alla luce di una determinazione del giudice nazionale alla luce di «ogni ragionevole dubbio che esso possa ancora nutrire riguardo alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nella causa di cui è investito» (par. 31).
Stabilito siffatto approdo mediante la sillogistica applicazione di noti precedenti arresti della Corte, le conclusioni dell’avvocato generale prendono poi ad analizzare un «livello più profondo» della questione, ed ossia se, sul piano normativo, «dovrebbe sussistere ancora un obbligo di rinvio pregiudiziale in casi come quello di specie» (par. 32): ciò anche alla luce delle sollecitazioni, rese espresse, dei governi nazionali intervenienti, in specie quello italiano e quello francese, che hanno chiamato con le loro osservazioni ad una rimeditazione dei criteri CILFIT (a differenza di Commissione e governo tedesco) alla luce dei presidi oggi esistenti in caso di violazione dell’art. 267 comma III TFUE, che già sopra abbiamo richiamato, ed anzi proprio alla luce della necessità di meglio definire quando si consumi una vera e propria violazione di quei disposti e quando ne consegua la possibilità di accedere a quei presidi.
È qui che il profilo dello studioso già critico sulla materia e dell’avvocato generale paiono fondersi: e Bobek invita, in sostanza, la Corte a gridare che il re è (ed è sempre stato) nudo, che i criteri CILFIT altro non incarnano che la fictio posta a presidio del suo ruolo che già sopra s’è descritta (in specie par. 99), e a meditare se quei criteri abbiano oggigiorno ancora senso, anche rispetto alle esigenze sempre più pressanti di controllo dell’afflusso dei casi (espressamente cennate, par. 122) e alla necessità di presidiare ragionevolmente un ruolo nomofilattico rispetto a giurisdizioni molteplici e con sensibilità ben disparate, ad es. in punto di differenziazione tra giurisdizioni di common law e civil law quanto al tema di precedente (par. 163, anche qui espressamente esponendo quando dottrinalmente s’era già arguito in proposito, v. supra).
La rimeditazione si svolge sui binari di una possibile “pubblicizzazione” del ruolo della Corte di giustizia nel sistema di controllo cooperativo svolto mediante la procedura di rinvio pregiudiziale interpretativo – a latere il sistema necessariamente centralizzato, e che tale dovrà rimanere, del rinvio pregiudiziale di validità[59] -. Una “pubblicizzazione” da leggersi come riparametrazione dei fini stessi dell’azione di supervisione della Corte attraverso la procedura interpretativa ex art. 267 TFUE, e da attuarsi mediante un ripensamento dei criteri di obbligatorietà del rinvio delle giurisdizioni nazionali d’ultima istanza nel solco di tre linee distintive: alcune già sostanzialmente tracciate dalla giurisprudenza pregressa, altre tutte da costruire. La prima: la distinzione tra «ragionevoli dubbi» interpretativi oggettivi o puramente soggettivi, e dunque tra necessità di intervento rispetto a rischi di strutturale radicarsi di giurisprudenze contrarie al diritto UE o solo rispetto a difformità del caso di specie (par. 133). La seconda, consonante: la distinzione tra supervisione sulla corretta e uniforme interpretazione del diritto UE e supervisione sull’applicazione minuta, case-by-case (par. 145). La terza: la distinzione tra possibili divergenze interpretative all’interno di un ordinamento nazionale membro e potenziali divergenze transnazionali, ossia che coinvolgano più globalmente l’intero ordinamento dell’Unione (par. 147).
Le conclusioni di Bobek - attraverso l’esplicitazione della natura sostanzialmente fittizia dei criteri CILFIT e delle effettive esigenze di docket control della Corte (che si riconoscono non essere certo garantite dalla capostipite sentenza del 1982) - propugnano una focalizzazione sulla finalità pubblicistica del rinvio pregiudiziale nel solco delle tre linee suddette. Mediante una riscoperta e valorizzazione della giurisprudenza Hoffmann-La Roche[60], la Corte dovrebbe indirizzare il proprio intervento e le proprie limitate risorse anzitutto nei confronti di ragionevoli dubbi interpretativi oggettivi - lasciando per il resto ai giudici nazionali d’ultima istanza la responsabilità del corretto adempimento al loro mandato europeo[61], e la distinzione tra dubbi oggettivi o meramente soggettivi, questi ultimi da potersi sanare mediante risorse interne[62]. Il tutto mentre ai criteri CILFIT, per loro natura, sarebbe connaturata «una buona dose di soggettivismo non accertabile e quini non riesaminabile» (par. 104). Sempre secondo l’impianto originario di Hoffmann-La Roche, pure la Corte dovrebbe concentrarsi, specie ove provengano da rinvii di giudici d’ultima istanza, su interventi diretti a sanare la corretta e uniforme interpretazione del diritto UE, dunque determinandone portato e scopo, e non tanto la corretta applicazione a fatti specifici. Ciò riscoprendo una distinzione tra questioni di fatto e di diritto immanente al sistema di rinvio pregiudiziale, ma spesso obliterata proprio dai giudici nazionali, con linee di demarcazione anche rispetto alle loro culture giuridiche d’appartenenza[63]; e dunque, anche in quest’ottica, lasciando ai giudici nazionali d’ultima istanza la responsabilità di tale actio finium regundorum. Da ultimo, e conseguentemente, concentrando le proprie risorse alla sanatoria di divergenze interpretative che interessino potenzialmente l’ordinamento dell’Unione in quanto tale, e non mere sacche interne di divergenza complementari, nel medesimo stato membro, ad indirizzi corretti, giacché quest’ultime comunque sanabili altrimenti rispetto ad un intervento autoritativo dal Lussemburgo.
Il tutto conducendo al suggerimento di una ricostruzione, in positivo anziché in negativo, dei criteri d’obbligatorietà del rinvio ex art. 267 comma III TFUE, passando dal vaglio dell’inesistenza di un «ragionevole dubbio soggettivo quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione riguardo a una specifica controversia» al vaglio dell’esistenza di una «divergenza oggettiva individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che pone quindi in pericolo l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea» (par. 133); e richiamando altresì i giudici nazionali d’ultimo grado - rispetto alle grame risultanze dello studio della Direzione documentazione e ricerca della Corte già pubblicato e cui s’è cennato - all’obbligo di adeguata motivazione in materia, ricondotto al rispetto dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (par. 171).
Un empito di ulteriore realismo chiude del resto le conclusioni, esplicitando la loro ratio di riconduzione dell’istituto processuale agli unici obbiettivi di sistema davvero perseguibili: ritenendo «che l’uniformità ex sentenza CILFIT quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione in ciascun caso di specie sia un’utopia», ritenendo che «tenuto conto del carattere decentralizzato e diffuso del sistema giudiziario dell’Unione, il meglio che si possa mai raggiungere è una ragionevole uniformità nell’interpretazione del diritto dell’Unione, in quanto questo tipo di uniformità è già un compito piuttosto arduo», e arguendo che «quanto all’uniformità nell’applicazione e nei risultati, la risposta» ad ogni interrogativo scettico sia «piuttosto semplice: “nessuno può perdere ciò che non ha mai avuto”» (par. 180).
È forse proprio alla luce di tale chiarezza che può sciogliersi il dubbio - presente nei primi commenti della dottrina italiana - tra chi vede nelle proposte di Bobek una «proposta ribelle» capace di condurre ad una «revisione completa delle condizioni di esenzione dall’obbligo di rinvio, riformulate in modo da renderle - a detta dell’avvocato generale - più applicabili da parte del giudice nazionale e concettualmente più adatte a quello che sembra essere inteso come il “nuovo ruolo” del rinvio pregiudiziale nell’ordinamento dell’Unione»[64], e chi vi scorge solo una «finta rivoluzione» frutto di «un complesso esercizio dialettico, la cui portata non risulta però chiara»[65].
A chi scrive, la proposta pare potenzialmente dirompente - e per ciò, di non scontata accettazione da parte della Corte - giacché in più versi coinvolgente un vero e proprio cambio di paradigma, e una rimeditazione del rapporto tra centralizzazione e decentralizzazione del sistema giudiziario europeo che è immanente alla questione[66]. Essa è esplicitamente tesa a conformare non solo il nuovo ruolo dei giudici nazionali d’ultima istanza nell’architettura giudiziale (proto)federale europea[67], ma anche, in prospettiva, il ruolo della stessa Corte di giustizia in ogni rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 267 TFUE, e dunque, ancora, il rapporto di questa con tutti i giudici nazionali, indirettamente richiamati a più fattiva cooperazione. In tal senso, la proposta travalica non solo, come s’è detto, i limitati scopi dell’ordinanza di rinvio che l’ha originata, ma potenzialmente anche, a ben vedere, il limitato portato del comma III dell’art. 267 TFUE e della sua obbligatorietà: rivolgendosi certo direttamente ai giudici d’ultima istanza, quali fondamentali e sempre più frequenti contraddittori della Corte[68], affinché si facciano più attenti e responsabili guardiani, nell’adempimento del loro mandato europeo, della corretta e uniforme interpretazione ed applicazione del diritto UE (nella propria giurisdizione, ai casi di specie); ma rivolgendosi anche, seppur indirettamente, ad ogni giudice nazionale quale giudice europeo, giacché è tradizionalmente noto che statisticamente siano i giudici di prime cure quelli più propensi all’impiego del rinvio pregiudiziale[69].
Il vero interrogativo che si pone dinanzi a simili coraggiose proposte, cui anche la dottrina scettica accenna[70], è invero quello della concreta applicabilità di simili riconfigurati criteri applicativi, non tanto in punto di loro congenita astrattezza[71], quanto di sufficiente maturità del sistema giudiziario europeo, e dunque di solidità dell’apparato dei giudici nazionali quali giudici europei, per l’incamminarsi rispetto a tale riconfigurazione. Si tratta di un tema su cui, riconosciute le pressioni istituzionali quantitative sulla Corte che ne hanno fatto da una «bit of a family» ad una «bit of a factory»[72], anche illustri membri attuali del Kirchberg hanno criticamente riflettuto, ponendo in dubbio, ancora dopo decenni, la capacità dei giudici nazionali di trasformarsi in attori con più alto grado di autonomia rispetto alla supervisione sovranazionale,[73] e su cui lo stesso Bobek si interroga (par. 127).
Un timore sotteso, questo ultimo, che corre in parallelo e fa da contraltare a quello pressante relativo al docket control, nella cui ottica sarà di grande interesse conoscere le riflessioni della Corte, e che ci conduce, come ripromesso, a qualche ultima riflessione su certe linee di tendenza giurisprudenziali provenienti dal Lussemburgo rispetto alle quali può scorgersi una certa complessiva coerenza.
4. Il contesto in cui si inseriscono le conclusioni dell’avvocato generale Bobek
Le conclusioni del caso Consorzio Italian Management vanno, in effetti, opportunamente contestualizzate nell’ambito di linee di tendenza più ampie che, negli ultimi anni, hanno portato al ripensamento di altre giurisprudenze consolidate che hanno governato il rapporto fra giudici nazionali e Corte di giustizia, in un’opera continua di definizione e ridefinizione delle “regole di ingaggio” su cui si fonda la cooperazione giudiziale ex art. 267 TFUE.
Ci riferiamo in particolare a due veri e propri pilastri, con CILFIT, di quello che abbiamo denominato il diritto processuale “complesso”: Rheinmühlen I[74] e Simmenthal[75], due sentenze capostipite che hanno finito, però, per produrre sempre maggiori resistenze a livello interno, anche alla luce degli ultimi sviluppi del diritto costituzionale europeo.
Volendo partire da Simmenthal, è ovvio il richiamo alle recenti evoluzioni nel rapporto fra Corti costituzionali nazionali e Corte di giustizia dovute alla crescente importanza della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nella giurisprudenza nazionale.
Oggi le stesse Corti costituzionali statali riconoscono la sostanza costituzionale del diritto europeo, in particolare della Carta dei diritti. Nel farlo, per altro, non hanno mai rinunciato a una sana dialettica con la Corte di giustizia, a dimostrazione di come il processo di integrazione possa essere sviluppato nel rispetto delle sovranità nazionali:
«Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri)[76]».
Il passaggio della Corte costituzionale italiana citato proviene da una sentenza, la n. 269 del 2017, che ha fatto tanto discutere la dottrina nazionale[77] e che era caratterizzata da passaggi critici, poi (in parte, almeno) assorbiti dalla giurisprudenza seguente[78]. Il passaggio della 269 citato sopra contiene affermazioni importanti, che confermano la centralità del diritto europeo nella garanzia dei diritti; come dimostrato, del resto, anche dal ragionamento delle corti britanniche nella saga Miller[79] che hanno giustificato il necessario intervento del Parlamento inglese proprio sulla base del fatto che uscire dal Regno Unito implicava la sottrazione di diritti attribuiti da fonti europee.
In questo senso, la stessa Carta dei diritti fondamentali ha scontato il prezzo del proprio successo, scatenando persino episodi di concorrenza fra corti a proposito di chi debba avere l’ultima parola sull’interpretazione di quel testo, così simile e sovrapponibile alle disposizioni costituzionali nazionali.
In altre parole, la crescente importanza della Carta dei diritti fondamentali nella giurisprudenza nazionale ha portato alcune giurisdizioni, tra cui in primis le Corti costituzionali austriaca e italiana, a rivendicare maggiore centralità interpretativa quando a essere in gioco sia il possibile conflitto fra una disposizione nazionale e un bene costituzionale tutelato anche da una disposizione della Carta. Tutto ciò ha un evidente impatto sul mandato Simmenthal, già messo in discussione dal caso Melki[80] relativo al presunto contrasto del diritto UE con una legge organica francese (n. 58-1067, relativa al Conseil Constitutionnel francese, come modificata dalla legge organica n. 2009-1523)[81]. Secondo il modello disegnato dalla riforma sulla question prioritaire de constitutionnalité, un giudice comune francese che dubitasse dalla costituzionalità di una disposizione nazionale doveva sottoporre la questione alla Cour de cassation (se giudice ordinario) o al Conseil d’État (se giudice amministrativo), affinché queste valutassero la necessità di sollevare la questione al Conseil Constitutionnel, nell’ottica di un c.d. modello di controllo di costituzionalità incidentale “filtrato”. Il “punto” della riforma contestato, per quel che qui interessa, riguardava un aspetto puntuale della question prioritaire, quello per cui «in ogni caso il Conseil d’État o la Cour de cassation, quando sono dedotti motivi che contestano la conformità di una disposizione legislativa, da un lato, con i diritti e le libertà garantiti dalla Costituzione e, dall’altro, con gli obblighi internazionali della Francia, deve pronunciarsi in via prioritaria sul rinvio della questione di legittimità costituzionale al Conseil constitutionnel» (art. 23-5, L.O.N. 2009-1523). Tale meccanismo finiva, secondo la Corte di Cassazione francese - giudice a quo nel caso Melki - per minacciare il “mandato europeo” del giudice nazionale, e sulla base di queste considerazioni fu sollevata questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. Poco prima dell’intervento della Corte di giustizia il Conseil Constitutionnel fornì un’interpretazione “adeguatrice” (in realtà sostanzialmente “abrogatrice”, come rilevato in dottrina[82]) del testo della riforma, che lo rese compatibile con il diritto dell’UE. Tale interpretazione si fondava sul potere cautelare di sospendere ogni effetto pregiudizievole della legislazione sospetta di contrarietà al diritto dell’Unione nell’attesa della delibazione dell’organo deputato del controllo di costituzionalità[83].
Prendendo atto di questa decisione, la Corte di giustizia si pronunciò successivamente, riaffermando nominalmente la validità della linea interpretativa Simmenthal, Rheinmühlen I e Foto Frost, ma pure concludendo, nella sostanza, per la non incompatibilità della questione prioritaria di costituzionalità (come interpretata dal Conseil Constitutionnel) con il diritto UE[84].
Si trattava di una pronuncia fondata su una sorta di appello lanciato ai giudici comuni per un maggiore e più incisivo controllo sulla corretta interpretazione ed applicazione del diritto sovranazionale, nella prospettiva di una sostanziale attenuazione delle rigidità di Simmenthal.
Un altro colpo a Simmenthal arrivò dalla giurisprudenza costituzionale austriaca che avrebbe dato origine al caso A c. B[85].
Questo caso ci ricorda che anche Corti costituzionali sicuramente aperte e cooperative, come quella austriaca - che da sempre ha dimostrato di concepire il rinvio pregiudiziale come strumento centrale del proprio operato - hanno recentemente assunto posizioni simili a quelle della nostra Corte costituzionale[86]. Non a caso la Corte costituzionale italiana, sempre nella sentenza n. 269/2017, scriveva a questo proposito di «trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali». Si tratta di un cambiamento che, come si vede ancora più chiaramente nella sentenza n. 63/2019, ha anche dei risvolti positivi, che si concretizzano, per esempio, nel riconoscimento delle garanzie offerte da una pronuncia con efficacia erga omnes al diritto fondamentale equivalente tutelato.
Anche se il nucleo di Simmenthal è stato sempre confermato dalla Corte di giustizia, proprio in A c. B. si chiariva un punto importante, vero compromesso fra le esigenze di centralità delle Corti costituzionali e quelle di uniformità interpretativa e di primato del diritto UE:
«Per contro, il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una siffatta normativa nazionale se i suddetti giudici ordinari restano liberi di […] adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e disapplicare, al termine di un siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione»[87].
Da questo passaggio, confermativo di Melki, si evince che l’unico modo di ammettere la non disapplicazione immediata prima del termine del procedimento incidentale è garantire al giudice l’esperibilità di una «misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione». Questo è quello che sembra suggerire anche la pratica francese all’indomani di Melki. Solo in questo modo il mandato Simmenthal può essere salvato. Simmenthal, del resto, non riguarda solo l’istituto della disapplicazione della norma interna contraria a quelle del diritto UE, ma indubbiamente verte sul più organico obbligo, per il giudice nazionale, di «garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale»[88].
Per cogliere il nesso esistente fra Simmenthal e Rheinmühlen I va richiamato un contesto forse ancora più complesso. In Rheinmühlen I la Corte di giustizia aveva stabilito che
«I giudici nazionali godono della più ampia facoltà di rinviare alla Corte di giustizia - sia d’ufficio che su domanda di parte - questioni sorte nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, e vertenti sull’interpretazione o sulla validità di norme di diritto comunitario. Essi non possono esserne privati da norme di diritto interno che li vincolino al rispetto di valutazioni giuridiche espresse da un giudice di grado superiore»[89].
Per certi versi, si potrebbe dire che Simmenthal trovi un suo risvolto processuale in Rheinmühlen I che - nelle parole dell’avvocato generale Cruz Villalón nelle conclusioni al caso Elchinov - aveva «introdotto una sorta di controllo decentralizzato della “comunitarietà” non già delle norme, bensì delle decisioni giurisdizionali»[90].
Con Rheinmühlen I la Corte poneva le basi per la creazione di un rapporto davvero diretto con i giudici nazionali, in particolare con quelli di prima istanza che hanno avuto, si è già detto sopra, più delle corti apicali un ruolo centrale nello sviluppo della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.
In quest’ottica il diritto interno non può creare ostacoli che si frappongano a tale rapporto diretto. Su questa base la Corte di giustizia ha sviluppato altre sentenze storiche come Factortame, in cui si sanciva che «la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario»[91].
Si noti che la Corte così finiva per riconoscere il ruolo dei poteri cautelari del giudice nazionale - la cui centralità abbiamo appena discusso analizzando Melki e A c. B - quale giudice di diritto dell’UE.
Rheinmühlen I è stata quindi la premessa che ha portato allo sviluppo di una giurisprudenza sempre più invasiva nei confronti delle dinamiche processualistiche nazionali – la cui autonomia può essere definita ormai un vero e proprio «paradiso perduto»[92] - fino ad arrivare a toccare territori che si supponevano invalicabili: quelli del giudicato nazionale.
Su questo sfondo, già nelle conclusioni al caso Elchinov[93] del 2010, l’avvocato generale Pedro Cruz Villalón aveva insistito sulla necessità di rivisitare Rheinmühlen I alla luce della querelle sull’intaccabilità del giudicato nazionale dopo sentenze come Köbler[94], Kühne & Heitz[95], Kempter[96] e Kapferer[97].
Il nocciolo del problema (rinviando ad altra sede per l’analisi estesa della questione[98]) era ed è il seguente: all’indomani di Köbler (e poi di Traghetti del Mediterraneo[99]), la dottrina si era posta il problema della possibile tangibilità del giudicato nazionale in seguito all’avvenuta condanna statale per violazione del diritto comunitario “perpetrata” attraverso un organo giudiziale nazionale.
La Corte di giustizia sul punto si è trovata dinanzi ad un dilemma: la lotta per l’uniformità del diritto europeo, così centrale anche nei criteri CILFIT, può spingersi fino al punto da minacciare il principio del giudicato nel diritto interno[100]?
La questione si era ripresentata con forza nel caso C-453/00, Kühne & Heitz, in cui il giudice nazionale chiedeva alla Corte di giustizia se il diritto comunitario comportasse l’obbligo per un organo amministrativo di rivedere una decisione divenuta definitiva, al fine di assicurare la completa efficacia del diritto comunitario, «così come quest’ultimo deve essere interpretato, in base a quanto risulta dalla soluzione data ad una successiva domanda di pronuncia pregiudiziale»[101].
La Corte di giustizia rispondeva ricordando che la certezza del diritto rientrava tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e che il carattere definitivo di una decisione amministrativa contribuiva a tale certezza, legando a questa premessa la conseguenza per cui «il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo»[102].
A questa generale regola, la Corte aggiungeva delle eccezioni. Nelle parole della Corte di giustizia:
«Il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Ce impone ad un organo amministrativo, investito in una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora:
- disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;
- la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;
- tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata, senza che la Corte fosse adita a titolo pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234 Ce, n. 3, e
- l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza»[103].
Questo rinvio al diritto nazionale rivelava la preferenza espressa dalla Corte di giustizia per la revisione del giudicato al fine di assicurare l’effettività del diritto comunitario, ma mostrava anche quanto il giudice del Lussemburgo fosse consapevole della delicatezza di una tale operazione, sì da “suggerirla”, ma solo per il caso in cui il sostrato normativo interno lo permettesse. Quanto detto in quella occasione veniva confermato nella sentenza Kempter[104], mentre in Kapferer la Corte di giustizia distingueva fra la decisione amministrativa definitiva e la pronuncia di un giudice passata in giudicato[105], limitando così l’applicazione del principio di Kühne & Heitz al caso di una decisione giurisdizionale[106].
Con quest’ultima precisazione relativa alla non immediata applicabilità del principio di Kühne al versante del giudicato giurisdizionale, la Corte di giustizia sembrava avere rassicurato i molti commentatori preoccupati dal tentativo della Corte di costruire un sistema giudiziario quasi federale[107]. Poco dopo, tali timori sarebbero però stati confermati dalla pronuncia Lucchini[108], in cui la Corte di giustizia concludeva riconoscendo la prevalenza dell’interesse all’applicazione uniforme del diritto comunitario sul principio dell’autorità nazionale del giudicato, come in quel caso espresso dall’art. 2909 del codice civile italiano, «nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva»[109].
Il giudicato nazionale non sembrava più un ostacolo insormontabile dopo Lucchini; va però detto che il contesto di Lucchini era particolare: nell’ambito di quella controversia il giudice aveva adottato palesemente un atto non di sua competenza, chiaramente ultra vires, come la Corte di giustizia aveva avuto modo di rimarcare anche in altre sedi[110]. Se però il caso Lucchini poteva rimanere un’eccezione, nuovi timori si aggiunsero dopo il caso Fallimento Olimpiclub[111] della Corte di giustizia, in cui essa tornò a “colpire” l’art. 2909 del c.c. italiano, o meglio l’interpretazione che ne veniva data dai giudici italiani. In quell’occasione alla Corte di giustizia veniva chiesto se l’interpretazione dell’art. 2909 c.c[112], offerta in materia fiscale dai giudici italiani, si ponesse in contrasto con il principio di effettività comunitario, e la Corte concludeva constatando che il diritto comunitario «osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta»[113].
Proprio le preoccupazioni suscitate da sentenze come Fallimento Olimpiclub e Cartesio ponevano le basi per le conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón al caso Elchinov[114], in cui quest’ultimo suggeriva di contestualizzare e superare la rigidità imposta da Rheinmühlen I.
Le ragioni di un possibile superamento di Rheinmühlen I venivano ricercate dall’avvocato generale nella giurisprudenza Köbler[115], che aveva introdotto un nuovo rimedio nel diritto processuale complesso, trasformandone «lo scenario di fondo»[116] (in modo similare a quanto può dirsi oggi per CILFIT, rispetto ai nuovi rimedi sopravvenuti e sopra evidenziati).
In quell’occasione l’avvocato generale si premurava anche di chiarire il rapporto fra la soluzione proposta e la sentenza Cartesio[117], che già aveva a sua volta rivisto Rheinmühlen I, stabilendo che la possibilità di sollevare questioni alla Corte ex art. 267 TFUE «sarebbe rimessa in discussione se, riformando la decisione che dispone il rinvio pregiudiziale, rendendola priva di effetti e ordinando al giudice che ha emanato tale decisione di riprendere la trattazione del procedimento sospeso, il giudice dell’appello potesse impedire al giudice del rinvio di esercitare la facoltà di adire la Corte conferitagli dal Trattato CE»[118]. Nelle sue conclusioni l’avvocato generale Cruz Villalón distingueva in quest’ottica fra fase ascendente (a cui si riferiva Cartesio) e discendente di una lite[119].
In quell’occasione, infatti, si tracciava un parallelo tra sviluppi istituzionali, per cui «man mano che i giudici di ultima istanza cominciano a rispondere direttamente delle loro decisioni che risultano contrarie al diritto dell’Unione, il sacrificio della certezza del diritto e dell’autonomia processuale dei giudici nazionali perde la priorità rispetto all’obiettivo di garantire l’effettività dell’ordinamento dell’Unione»[120]. In quell’occasione, infatti, anche l’avvocate generale Cruz Villalón menzionava - come Bobek nelle conclusioni qui commentate - le ragioni di fondo legate a insopprimibili questioni organizzative e all’«aumento del carico di lavoro cui è esposta la Corte di giustizia». In questo senso, già nell’ottica di Cruz Villalón «l’elevato numero di questioni pregiudiziali che giungono alle porte di questa istituzione, nonché l’istituzione di procedimenti urgenti destinati a ricevere una risposta in termini più brevi, rendono probabilmente più impellente l’esigenza che la nostra giurisdizione condivida alcune funzioni con i giudici nazionali»[121].
Questo è un elemento che anima anche le conclusioni dell’avvocato generale Bobek e che nasce dalla necessità di rafforzare le dinamiche cooperative fra giudici in un ordinamento che è molto cambiato nel corso degli ultimi venti anni.
Come noto, le proposte dell’avvocato generale Cruz Villalón non furono sposate dalla Corte nella sentenza Elchinov[122]. Vedremo se la Corte di giustizia, dopo più di dieci anni, considererà in Consorzio Italian Management maturi i tempi per un nuovo passo nell’ottica della cooperazione con i giudici nazionali.
5. Conclusioni
In questo saggio, dopo aver ricordato le origini della giurisprudenza CILFIT, abbiamo cercato di offrire un commento alle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management. La ricchezza delle riflessioni dell’avvocato generale non può che condurre ad un’analisi sfaccettata: nel cui ambito non si è voluta azzardare una previsione rispetto alle scelte da compiersi da parte della Corte di giustizia, ma con cui si è però inteso contestualizzare la proposta ridefinitoria inclusa in quelle conclusioni e le scelte di fondo cui la Corte è chiamata.
La contestualizzazione - che, si è visto, è storico-comparatistica e investe certe linee di tendenza nello sviluppo della giurisprudenza della Corte - è in fondo tutta centrata sul grado di maturazione degli apparati giudiziari nazionali rispetto al corretto adempimento del loro “mandato europeo”: e dunque, potenzialmente, rispetto ad un ruolo di complemento ed ausilio a quanto la Corte di giustizia, vittima ma anche artefice del proprio successo, non può gestire efficacemente per naturali pressioni istituzionali. Ciò, se vogliamo, in un’ottica di riparametrazione dei confini del concetto stesso di «nomofilachia integrata» che viene a imporsi, e dei compiti che vi sono sottesi per i vari attori giurisdizionali[123].
Va certo chiosato che questa nuova tappa della continua ridefinizione dei rapporti interni all’architettura giudiziaria europea, e al suo diritto processuale “complesso”, arriva in una temperie in cui si discute e si giudica, in Lussemburgo, addirittura sulla fedeltà di certi ordinamenti nazionali e di certi loro apparati giudiziari ai principi più basilari della rule of law[124]. In tal contesto, la Corte suole richiamare gli Stati membri al rispetto delle proprie obbligazioni sistemiche ex art. 19 TUE proprio per garantire il funzionamento pacifico del sistema del rinvio pregiudiziale[125], affetto da una «inherent weakness»[126] nella sua dipendenza dalla leale cooperazione dei giudici nazionali, eppure così fondamentale anche per fronteggiare fenomeni di democratic backsliding[127].
Potrebbe non essere, insomma, il momento più opportuno per una nuova e ampia ridefinizione del meccanismo ex art. 267 TFUE come quella, coraggiosa, proposta da Bobek: non è però escluso che la chiamata ad una cooperazione più stretta ed equilibrata arrivi proprio in simile frangente, anche per saggiare la tenuta del sistema complessivo.
L’occasione della sentenza Consorzio Italian Management sarà, nel caso, il momento per aggiornare le nostre valutazioni in proposito.
* Giuseppe Martinico è professore ordinario di diritto pubblico comparato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Leonardo Pierdominici è assegnista di ricerca in diritto pubblico comparato all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Il presente contributo è il prodotto di comuni riflessioni, ma, nello specifico, Giuseppe Martinico è autore dei paragrafi 1 e 4, Leonardo Pierdominici è autore dei paragrafi 2 e 3, mentre il paragrafo 5 è stato redatto congiuntamente. Desideriamo ringraziare Umberto Lattanzi e Marta Simoncini per i loro commenti.
[1] Conclusioni dell’avvocato generale Michal Bobek, presentate il 15 aprile 2021, causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi c. Rete Ferroviaria Italiana SpA.
[2] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335.
[3] Nel senso descritto in G. Martinico, The Tangled Complexity of the EU Constitutional Process. The Frustrating Knot of Europe, Routledge 2012.
[4] Come testimoniato anche dalle considerazioni fatte nel volume di L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, Hart Publishing 2010, 171 ss.
[5] I. Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution Making Revisited?, in Common Market Law Review 1999, 703.
[6] Parere 2/13 (Accession of the European Union to the ECHR) del 18 dicembre 2014 (Digital Reports) ECLI:EU:C:2014:2454, par. 167.
[7] Fra i vari si vedano, in particolare: G. Vandersanden, A. Barav, Contentieux communautaire, Bruylant 1977, 312-315; A. Trabucchi, L’effet erga omnes des décision préjudicelles rendues par la Cour de justice des Communautés européennes, in Revue trimestrielle de droit européen 1974, 56; G. Floridia, Forma giurisdizionale e risultato normativo del procedimento pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali 1978, 1; P. Pescatore, Il rinvio pregiudiziale di cui al 177 del Trattato C.E.E. e la cooperazione fra Corte di giustizia e giudici nazionali, in Foro italiano I pt. 5 1986, 26, 41; A. Briguglio, Pregiudiziale comunitaria, Enciclopedia giuridica Treccani, XXIII 1997, ad vocem, 1, 13; G. Bebr, Preliminary Rulings of the Court of Justice: Their Authority and Temporal Effect, in Common Market Law Review 1981 475; F. Ghera, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Giurisprudenza costituzionale 2000, 1292.
[8] G. Martinico, L’integrazione silente. La funzione interpretativa della Corte di giustizia e il diritto costituzionale europeo, Jovene 2009, 114.
[9] Discrezionalità ex art. 267 comma III TFUE che, come noto, oggi molto fa discutere anche a livello interno, cfr. Cass. civ. Sez. un. 18 settembre 2020 n. 19598, su cui v. M. Lipari, L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in Giustamm – rivista di diritto pubblico 2021, p. 1, e, con riflessioni a livello sistematico, P. Biavati, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107), in Giustizia Insieme 2021.
[10] R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, in rivista.eurojus.it, 19 aprile 2021; E. Gambaro, I. Bellini, Rinvio pregiudiziale e giudice di ultima istanza: occorre ripensare i criteri “CILFIT”?, in gtlaw.com, 29 aprile 2021; P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in Il diritto dell’Unione europea – Osservatorio europeo, 15 maggio 2021.
[11] Cfr. almeno M. Bobek, Comparative Reasoning in European Supreme Courts, Oxford University Press 2013, M. Bobek (cur.), Selecting Europe's Judges: A Critical Review of the Appointment Procedures to the European Courts, Oxford University Press 2015, e, per quel che qui interessa, M. Bobek, Learning to Talk: Preliminary Rulings, the Courts of the New Member States and the Court of Justice, in Common Market Law Review 2008, 1611, e M. Bobek, The Court of Justice, the National Courts, and the Spirit of Cooperation: Between Dichtung und Warheit, in A. Lazowsk, S. Blockmans (cur.), Research Handbook on EU Institutional Law, Edward Elgar 2016, 353-375.
[12] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335.
[13] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335, par. 4.
[14] Sentenza del 29 febbraio 1984, CILFIT (77/83, Rec. 1984 p. 1257) ECLI:EU:C:1984:91.
[15] Cfr. T. Millett, European Court of Justice Adopts Doctrine of Acte Clair, in New Law Journal 198, 443, nella dottrina italiana N. Catalano, La pericolosa teoria dell'"atto chiaro", in Giustizia civile 1983, p. 12, e le riflessioni recenti di D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, in L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, op. cit., 173, su quella che che l’ex giudice scozzese della Corte definisce come una pronuncia «frequently misunderstood»; e cfr. l’ancora più recente intervento del Vicepresidente del Conseil d’État francese Jean-Marc Sauvé al Congresso per il 25° anniversario della Europäische Rechtsakademie di Trèves del 19 ottobre 2017, disponibile all’indirizzo https://www.conseil-etat.fr/actualites/discours-et-interventions/l-autorite-du-droit-de-l-union-europeenne-le-point-de-vue-des-juridictions-constitutionnelles-et-supremes#:~:text=3.,la%20technique%20des%20renvois%20pr%C3%A9judiciels, ove si sostiene che «La théorie de l’acte clair, qui résulte d’une jurisprudence du Conseil d’État, ensuite admise par la Cour de justice de l’Union européenne, permet quant à elle un recours raisonné à la technique des renvois préjudiciels».
[16] Sul riferimento al modello del controllo incidentale di costituzionalità per la creazione dell’istituto del rinvio pregiudiziale sia concesso il rimando a L. Pierdominici, Genesi e circolazione di uno strumento dialogico: il rinvio pregiudiziale nel diritto comparato sovranazionale, in federalismi.it 20/2020, 226, oltre che, a contrario rispetto a trapianto in contesto diverso che ha finito per modificare le caratteristiche dell’istituto, alle notazioni nelle conclusioni dell’avvocato generale Francesco Capotorti, presentate il 13 luglio 1982, causa CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI: ECLI:EU:C:1982:267.
[17] Cfr. M. Rasmussen, Rewriting the History of European Public Law: The New Contribution of Historians, in American University International Law Review 2013, 1187; A. Vauchez, The Force of a Weak Field: Law and Lawyers in the Government of the European Union (For a Renewed Research Agenda), in International Political Sociology 2008, 128; A. Vauchez, B. de Witte (cur.), Lawyering Europe. European Law as a Transnational Social Field, Hart Publishing 2013; F. Nicola, B. Davies (cur.), EU Law Stories: Contextual and Critical Histories of European Jurisprudence, Cambridge University Press 2017.
[18] Case Re Societé des Petroles Shell-Berre and Others, Conseil d’État, 1964-06-19, (1964) CMLR 462.
[19] Cfr. sul punto G. Lebrun, Office du juge administratif et questions préjudicielles. Recherche sur la situation de juge a quo, L.G.D.J 2017.
[20] Case BSG 1970-01-22, 4 RJ 109/69 (Re French Widow’s Pension Settlement), (1971) CMLR 530.
[21] E. Schober, Die Lehre vom ‘Acte Clair’ im franzosischen Recht, in Neue Juristische Wochenschrift 1966, 2252.
[22] Court of Appeal, 22 May 1974, HP Bulmer Ltd & Anor v. J. Bollinger SA & Ors (1974) EWCA Civ 14.
[23] M. Lagrange, Cour de Justice et Tribunaux nationaux. La theorie de l’acte clair pomme de discorde ou trait d’union, in Gazette du Palais 1971; M. Lagrange, The Theory of Acte Clair: A Bone of Contention or a Source of Unity?, in Common Market Law Review 1971, 313.
[24] P. Pescatore, L’interpretation du droit communautaire et la doctrine de l’acte clair, in Bullettin des juristes Européens 1971, 49; P. Pescatore, Interpretation of Community Law and the Doctrine of ‘Acte Clair’, in Legal Problems of an Enlarged European Community 1972, 46.
[25] Risposta all'interrogazione scritta n. 608/78 dell'onorevole Krieg (GU C 28 del 31 gennaio 1979), di cui dà conto nella parte in fatto la stessa Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335, p. 3425.
[26] D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, op. cit., 177.
[27] Conclusioni dell’avvocato generale Francesco Capotorti, presentate il 13 luglio 1982, causa C-283/81, CILFIT / Ministero della Sanità (ECLI:EU:C:1982:267), par. 4: «Infine, non va trascurata la testimonianza dei fatti: essi dimostrano che la teoria dell'atto chiaro, messa in pratica con riferimento all'articolo 177, ha avuto un'applicazione che non esito a definire aberrante. Il Consiglio di Stato francese, che di quella teoria rimane il principale utilizzatore, si spinse già nel 1967 fino ad affermare che la nozione di misure di effetto equivalente a una restrizione quantitativa all'importazione, ai sensi dell'articolo 30 del Trattato CEE — una delle nozioni più tormentate di questo Trattato, come la giurisprudenza della nostra Corte dimostra — non richiedeva alcuna interpretazione (decisione 27. 1. 1967, Syndicat national des importateurs français en produits laitiers, Recueil Lebon, 1967, p. 41) (…) Tutto ciò dimostra, io credo, che la teoria dell'atto chiaro porta lontano: porta in sostanza a svuotare di significato il terzo comma dell'articolo 177. Non è dunque partendo da questa teoria — infondata ed ambigua — che si può sperare di rispondere correttamente al quesito proposto dalla Corte di Cassazione italiana».
[28] Sentenza del 27 marzo 1963, Da Costa en Schaake NV e.a. / Administratie der Belastingen (28 à 30-62, Rec. 1963 p. 61) (NL1963/00063 DE1963/00060 IT1963/00059 EN1963/00031 DA1954-1964/00395 EL1954-1964/00893 PT1962-1964/00233 ES1961-1963/00365 SVI/00171 FII/00173) ECLI:EU:C:1963:6.
[29] D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, op. cit., 178.
[30]«Condizioni molto rigorose, apparentemente persino diaboliche» sono i criteri CILFIT secondo G. Tesauro, Diritto comunitario, CEDAM 1995, 210.
[31] Si pensi alla discussa sentenza del 25 luglio 2018, Minister for Justice and Equality (Défaillances du système judiciaire) (C-216/18 PPU, Publié au Recueil numérique) ECLI:EU:C:2018:586, in cui si demanda al giudice nazionale il vaglio autonomo dell’«esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo garantito dall’articolo 47, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente» un mandato d’arresto europeo, in sostanza richiamandolo all’aderenza agli accertamenti delle istituzioni sovranazionali sul punto.
[32] Cfr. H. Rasmussen, The European Court’s Acte Clair Strategy in C.I.L.F.I.T.; Or, Acte Clair, of Course! But What Does it Mean?, in European Law Review 1984, 242; G.F. Mancini, D.T. Keeling, From CILFIT to ERT: The Constitutional Challenge Facing the European Court, in Yearbook of European Law 1991, 4.
[33] M. Bobek, On the Application of European Law in (Not Only) the Courts of the New Member States: “Don’t Do as I say”?, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies 2007-2008, 1; X. Groussot, Spirit, Are You There? Reinforced Judicial Dialogue and the Preliminary Ruling Procedure, Eric Stein Working Paper n. 4/2008, disponibile al sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1279367, 7.
[34] Sentenza del 30 settembre 2003, Köbler (C-224/01, Rec. 2003 p. I-10239) ECLI:EU:C:2003:513.
[35] Sentenza del 4 ottobre 2018, Commission / France (Précompte mobilier) (C-416/17) ECLI:EU:C:2018:811.
[36] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 20 settembre 2011, n. 3989/07 e 38353/07, Ullens de Schooten et al. c. Belgio.
[37] Cfr. in Spagna, Tribunal Constitucional, 19 aprile 2004, STC 58/2004 (ECLI:ES:TC:2004:58); nella Repubblica ceca, Ústavní soud, 8 gennaio 2009, n. II. ÚS 1009/08; in Slovacchia, Ústavný súd, sentenza del 18 aprile 2012, n. II. ÚS 140/2010; in Slovenia, Ustavno sodišče, decisione n. Up 1056/11 del 21 novembre 2013, ECLI:SI:USRS:2013:Up.1056.11; in Croazia, Ustavni sud Republike Hrvatske, decisione n. U III 2521/2015 del 13 dicembre 2016; in Germania, Bundesverfassungsgericht, ordinanza del 9 maggio 2018 – 2 BvR 37/18; in dottrina v. le analisi comparate in L. Coutron (cur.), L’obligation de renvoi préjudiciel à la Cour de justice: une obligation sanctionnée?, Bruylant 2014, e C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Larcier 2020, 109 ss.
[38] Si cfr. la Relazione annuale della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’attività giudiziaria 2020, disponibile al sito https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2021-04/ra_jud_2020_en.pdf, specialmente quanto alle statistiche alle pagg. 206 e ss.: si noti, in particolare, rispetto all’afflusso dei casi cui s’è fatto riferimento, il numero sempre crescente d’arretrato relativo ai rinvii pregiudiziali a pag. 222, con 575 casi pendenti al 2015, 661 al 2017, 709 al 2018, 749 al 2019, 771 al 2020.
[39] S. Prechal, National Courts in EU Judicial Structures, in Yearbook of European Law 2007, 429, 432-433.
[40] Relazione annuale della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’attività giudiziaria 2020, op. cit.
[41] Secondo la nota definizione di T. Koopmans, La procédure préjudicielle - victime de son succès?, in F. Capotorti, C. Ehlermann (cur.), Du droit international au droit de l’integration - Liber amicorum Pierre Pescatore, Nomos Verlagsgesellschaft 1987, 347.
[42] Sia consentito in tal senso il rinvio alle specifiche riflessioni in L. Pierdominici, The Mimetic Evolution of the Court of Justice of the EU. A Comparative Law Perspective, Palgrave Macmillan 2020, 229 ss.
[43] T. Kennedy, First Steps towards a European Certiorari?, in European Law Review 1993, 121; L. Heffernan, The Community Court Post-Nice: A European Certiorari Revisited, in The International and Comparative Law Quarterly 2003, 907.
[44] G. Davies, Abstractness and Concreteness in the Preliminary Reference Procedure, in N. Nic Shuibhne (cur.), Regulating the Internal Market, Edward Elgar Publishing 2006, 210; L. Pierdominici, The Mimetic Evolution of the Court of Justice of the EU. A Comparative Law Perspective, op. cit., 229 ss.
[45] Cfr. le riflessioni critiche in M. Bobek, Of Feasibility and Silent Elephants: The Legitimacy of the Court of Justice through the Eyes of National Courts, in M. Adams, H. de Waele, J. Meeusen, G. Straetmans (cur.), Judging Europe’s Judges: The Legitimacy of the Case Law of the European Court of Justice, Hart Publishing 2013, 197.
[46] Regolamento (UE, Euratom) n. 741/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 agosto 2012, che modifica il protocollo sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e il relativo allegato I, che espressamente menziona in parte motiva l’aggravio di lavoro assommatosi sulla Corte e sulla sua presidenza.
[47] Art. 99 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «Quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata».
[48] Art. 76(2) del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «Su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, la Corte può decidere di non tenere un’udienza di discussione qualora essa giudichi, a seguito della lettura delle memorie o delle osservazioni depositate durante la fase scritta del procedimento, di essere sufficientemente edotta per statuire».
[49] Art. 20 u.c. dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea: «Ove ritenga che la causa non sollevi nuove questioni di diritto, la Corte può decidere, sentito l’avvocato generale, che la causa sia giudicata senza conclusioni dell’avvocaro generale»; 82(1) del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «In caso di svolgimento di un’udienza di discussione, le conclusioni dell’avvocato generale sono presentate dopo la chiusura di quest’ultima».
[50] C. Timmermans, The European Union’s Judicial System, in Common Market Law Review 2004, 393, 405.
[51] Cfr. le proposte di riforma di J.P. Jacqué, J.H.H. Weiler, On the Road to European Union - A New Judicial Architecture: An Agenda for the Intergovernmental Conference, in Common Market Law Review 1990, 185; di F.G. Jacobs, già membro britannico della Corte, nella sua audizione dinanzi alla House of Lords, European Union Committee, 14th Report of Session 2010–11, “The Workload of the Court of Justice of the European Union”, le cui risultanze sono disponibili al sito http://www.publications. parliament.uk/pa/ld201011/ldselect/ldeucom/128/128.pdf; ed in particolare il report su “The Future of the Judicial System of the European Union (Proposals and Reflections)” della Corte di giustizia dell’Unione stessa, del 1999, pubblicato in A. Dashwood, A. Johnston (cur.), The Future of the Judicial System of the European Union, Hart Publishing 2001, p. 145, e il Report del Working Party on the Future of the European Communities’ Court System, 2000 (il c.d. Ole Due Report). In una risoluzione del 9 luglio 2008 sul ruolo del giudice nazionale nell’architettura giudiziaria europea (2007/2027(INI)), lo stesso Parlamento europeo s’è espresso in favore di una soluzione quale la c.d. green light procedure: «31. Considers that, in a decentralized and mature Community legal order, national judges should not be marginalized but rather given more responsibility and further encouraged in their role as first judges of Community law; therefore urges consideration of a “green light” system whereby national judges could include their proposed answers to the questions they refer to the Court of Justice, which could then decide within a given period whether to accept the proposed judgement or whether to rule itself in the manner of an appellate court»).
[52] Cfr. l’art. 256 par. 3 TFUE: «Il Tribunale è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali, sottoposte ai sensi dell'articolo 267, in materie specifiche determinate dallo statuto», rimasto inapplicato nonostante le successive clausole di salvaguardia secondo cui «Il Tribunale, ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione, può rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia affinché si pronunci» e «Le decisioni emesse dal Tribunale su questioni pregiudiziali possono eccezionalmente essere oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto, ove sussistano gravi rischi che l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione siano compromesse».
[53] Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (2019/C 380/01), disponibili al sito https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2019_380_R_0001.
[54] Cfr. le riflessioni dello stesso Bobek sul ruolo dell’avvocato generale quale “ricercatore interno” alla Corte ed innovatore in M. Bobek, A Fourth in the Court: Why Are There Advocates-General in the Court of Justice?, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies 2011–2012, 529; in tal senso v. anche L. Clément-Wiltz, La fonction de l’avocat général près la Cour de justice, Bruylant 2011, in particular at 53 et seq., che parla di funzioni di «mise à l’épreuve» e «mise en cohérence de la jurisprudence» della Corte.
[55] Conclusioni dell’avvocato generale Ruiz Jarabo Colomer nella causa Gaston Schul Douane expediteur (C 461/03, EU:C:2005:415, paragrafo 52) nonché́ conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa Wiener SI (C 338/95, EU:C:1997:352, paragrafi 59 e 60).
[56] Sentenza del 28 luglio 2016, Association France Nature Environnement (C-379/15) ECLI:EU:C:2016:603, par. 52.
[57] Research Note of the Directorate-General for Library, Research and Documentation of the Court of Justice of the EU «Application of the Cilfit case-law by national courts or tribunals against whose decisions there is no judicial remedy under national law», disponibile al sito https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-01/ndr-cilfit_synthese_en.pdf.
[58] Secondo una linea interpretativa della magistratura amministrativa in tema di presunto «abuso del rinvio pregiudiziale» recentemente conclamatasi: cfr. Consiglio di Stato sez. IV 7 agosto 2020 n. 4970, e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana sez. giurisdizionale 26 aprile 2021 n. 371.
[59] Rispetto al quale non può che rimanere saldo il necessario sistema di centralizzazione statuito con la sentenza del 22 ottobre 1987 Foto-Frost / Hauptzollamt Lübeck-Ost (314/85, Rec. 1987 p. 4199) (SVIX/00233 FIIX/00235) ECLI:EU:C:1987:452, sulla cui ratio, giustapposta a quella di CILFIT, si v. almeno D. Sarmiento, Cilfit and Foto-Frost: Constructing and Deconstructing Judicial Authority in Europe, in L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, op. cit., 192.
[60] Sentenza del 24 maggio 1977, Hoffmann-La Roche / Centrafarm (107/76, Rec. 1977 p. 957) (EL1977/00275 PT1977/00333 ES1977/00243 SVIII/00375 FIIII/00401) ECLI:EU:C:1977:89.
[61] Secondo la nota definizione di M. Claes, The National Courts’ Mandate in the European Constitution, Hart Publishing 2006; cfr. anche G. Slynn, What Is a European Community Law Judge?, in Cambridge Law Journal 1993, 234.
[62] Cfr. sul rapporto tra obbligatorietà ex art. 267 comma III TFUE e precedenti difformi in ambito nazionale la sentenza 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e.a. (C-160/14) ECLI:EU:C:2015:565.
[63] Cfr. sempre G. Davies, Abstractness and Concreteness in the Preliminary Reference Procedure, op. cit.
[64] R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, op. cit.
[65] P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, op. cit., 11-12, la quale pure però osserva «l’elevato rischio di snaturare la collaborazione tra Corte e giudici nazionali, mettendo in discussione i cardini su cui si instaura il dialogo» insito della proposta delle conclusioni di Bobek.
[66] D. Sarmiento, Cilfit and Foto-Frost: Constructing and Deconstructing Judicial Authority in Europe, op. cit., 194-195.
[67] J. Komárek, Federal Elements in the Community Judicial System - Building Coherence in the Community Legal Order, in Common Market Law Review 2005, 9.
[68] Si vedano le risultanze dei recenti studi di A. Dyevre, M. Glavina, A. Atanasova, Who Refers Most? Institutional Incentives and Judicial Participation in the Preliminary Ruling System, in Journal of European Public Policy 2020, 912, e M. Ovádek, W. Wijtvliet, M. Glavina, Which Courts Matter Most? Measuring Importance in the EU Preliminary Reference System, in European Journal of Legal Studies 2020, 121.
[69] A. Stone Sweet, T.L. Brunell, The European Court and the National Courts: a Statistical Analysis of Preliminary References, 1961–95, in Journal of European Public Policy 1998, 66.
[70] P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, op. cit., 11-12.
[71] Ibid.
[72] L’espressione è dell’attuale giudice olandese della Corte, già referendaria, Sacha Prechal, nella sua intervista “Part I: Working at the CJEU” del 18 dicembre 2013, disponibile al sito https://europeanlawblog.eu/2013/12/18/interview-with-judge-sacha-prechal-of-the-european-court-of-justice-part-i-working-at-the-cjeu/.
[73] S. Prechal, National Courts in EU Judicial Structures, op. cit., 432–433.
[74] Sentenza del 16 gennaio1974, Rheinmühlen Düsseldorf / Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel (166/73, ECR 1974 p. 33) (EL1974/00017 PT1974/00017 ES1974/00015 SVII/00195 FIII/00195) ECLI:EU:C:1974:3, pag. 33.
[75] Sentenza del 9 marzo1978, Amministrazione delle finanze dello Stato / Simmenthal (106/77, ECR 1978 p. 629)
(EL1978/00239 PT1978/00243 ES1978/00223 SVIV/00075 FIIV/00073) ECLI:EU:C:1978:49.
[76] Corte costituzionale, sentenza n. 269/2017 (ECLI:IT:COST:2017:269).
[77] Cfr., tra i vari, almeno A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Rivista di Diritti comparati 2017, 234; D. Tega, La sentenza n. 269 del 2017: il concorso di rimedi giurisdizionali costituzionali ed europei, in Quaderni costituzionali 2018, 197; L.S. Rossi, La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in federalismi.it 3/2018, 2; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di Giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti 2/2019; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti 2/2019; G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, in Rivista AIC 4/2019.
[78] Fra le altre si vedano Corte costituzionale sentenza n. 20/2019 (ECLI:IT:COST:2019:20) e sentenza n. 63/2019 (ECLI:IT:COST:2019:63).
[79] R (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union [2016] EWHC 2768 R (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union [2017] UKSC 5.
[80] Sentenza del 22 giugno2010, Melki and Abdeli (C-188/10 and C-189/10, ECR 2010 p. I-5667) ECLI:EU:C:2010:363..
[81] Su questo si veda F. Fabbrini, Kelsen in Paris: France’s Constitutional Reform and the Introduction of a posteriori Constitutional Review of Legislation, in German Law Journal 2008, 1297 ss.
[82] F. Fabbrini, Sulla ‘legittimità comunitaria’ del nuovo modello di giustizia costituzionale francese: la pronuncia della Corte di giustizia nel caso Melki, in Quaderni costituzionali 2010, 840-842.
[83] Conseil Constitutionnel, decisione n. 2010-605, 12 maggio 2010, www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/les-decisions/acces-par-date/decisions-depuis–1959/2010/2010–605-dc/decision-n–2010–605-dc-du–12-mai–2010.48186.html (par. 14); «Il (le juge) peut ainsi suspendre immédiatement tout éventuel effet de la loi incompatible avec le droit de l’Union, […] l’article 61-1 de la Constitution pas plus que les articles 23 1 et suivants de l’ordonnance du 7 novembre 1958 susvisée ne font obstacle à ce que le juge saisi d’un litige dans lequel est invoquée l’incompatibilité d’une loi avec le droit de l’Union européenne fasse, à tout moment, ce qui est nécessaire pour empêcher que des dispositions législatives qui feraient obstacle à la pleine efficacité des normes de l’Union soient appliquées dans ce litige».
[84] Sentenza del 22 giugno 2010, Melki and Abdeli (C-188/10 and C-189/10, ECR 2010 p. I-5667) ECLI:EU:C:2010:363, dispositivo: «L’art. 267 TFUE osta ad una normativa di uno Stato membro che instaura un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale delle leggi nazionali, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire – tanto prima della trasmissione di una questione di legittimità costituzionale all’organo giurisdizionale nazionale incaricato di esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di siffatto organo giurisdizionale su detta questione – a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte. Per contro, l’art. 267 TFUE non osta a siffatta normativa nazionale, purché gli altri organi giurisdizionali nazionali restino liberi:
– di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento che ritengano appropriata, ed anche al termine del procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale, qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria,
– di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e
– di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione.
Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere interpretata conformemente a siffatti precetti del diritto dell’Unione».
[85]Sentenza dell’11 settembre 2014, A (C-112/13) ECLI:EU:C:2014:2195.
[86]Österreichische Verfassungsgerichtshof, U 466/11-18; U 1836/11-13. In questo senso assume rilevanza il rinvio alla giurisprudenza austriaca contenuto nella 269 della nostra Corte costituzionale.
[87] Sentenza dell’11 settembre 2014, A (C-112/13) ECLI:EU:C:2014:2195, par. 46.
[88] Sentenza del 9 marzo 1978, Amministrazione delle finanze dello Stato / Simmenthal (106/77, ECR 1978 p. 629) (EL1978/00239 PT1978/00243 ES1978/00223 SVIV/00075 FIIV/00073) ECLI:EU:C:1978:49, par. 24.
[89]Sentenza del 16 gennaio 1974, Rheinmühlen Düsseldorf / Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel (166/73, ECR 1974 p. 33) (EL1974/00017 PT1974/00017 ES1974/00015 SVII/00195 FIII/00195) ECLI:EU:C:1974:3, pag. 33.
[90] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 21: «Difatti, i giudici di grado inferiore le cui decisioni fossero state annullate da un organo superiore potevano, facendo leva su tale dottrina e qualora la causa venisse loro rinviata, ignorare la dichiarazione di annullamento allorché questa, a loro giudizio, risultava contraria al diritto dell’Unione. Nell’ambito del conflitto tra l’autonomia processuale nazionale e l’opportunità, che in tal modo si riapriva, di affermare la prevalenza del diritto europeo, si doveva privilegiare quest’ultima».
[91]Sentenza del 19 giugno 1990, The Queen / Secretary of State for Transport, ex parte Factortame (C-213/89, ECR 1990 p. I-2433) (SVX/00435 FIX/00453) ECLI:EU:C:1990:257, par. 21.
[92] D. U. Galetta, L'autonomia procedurale degli Stati membri dell'Unione europea: Paradise Lost?, Giappichelli 2009. Si veda anche M. Simoncini, Challenges of Justice in the European Banking Union. Administrative Integration and Mismatches in Jurisdiction, in Yearbook of European Law, 2021, 1-25, 9.
[93] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889.
[94] Sentenza del 30 settembre 2003, Köbler (C-224/01, ECR 2003 p. I-10239) ECLI:EU:C:2003:513.
[95]Sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz (C-453/00, ECR 2004 p. I-837) ECLI:EU:C:2004:17.
[96]Sentenza del 12 febbraio 2008, Kempter (C-2/06, ECR 2008 p. I-411) ECLI:EU:C:2008:78.
[97]Sentenza del 16 marzo 2006, Kapferer (C-234/04, ECR 2006 p. I-2585) ECLI:EU:C:2006:178.
[98] G. Martinico, Constructivism, Evolutionism and Pluralism: Europe’s Constitutional Grammar, in King’s Law Journal 2009, 309.
[99] Sentenza del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo (C- C-173/03, ECR 2006 p. I-05177) ECLI:EU:C:2006:391.
[100] Sempre in argomento, in Köbler la Corte di giustizia aveva sottolineato che «un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata. Infatti, il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno. In ogni caso, il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno» (par. 39).
[101] Sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz (C-453/00, ECR 2004 p. I-837) ECLI:EU:C:2004:17, par. 19. Il caso scaturiva da una questione pregiudiziale sollevata dal College van Beroep alla Corte di giustizia nell’ambito di una controversia che opponeva la Kühne & Heitz NV al Productschap voor Pluimvee en Eieren, e relativa al pagamento di restituzioni all’esportazione. La questione, ai nostri fini, riguardava la possibilità di rivedere una decisione amministrativa definitiva fondata su una interpretazione errata del diritto comunitario.
[102] Ivi, par. 24.
[103] Ivi, par. 27: «Il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Ce impone ad un organo amministrativo, investito in una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora:
- disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;
- la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;
- tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata, senza che la Corte fosse adita a titolo pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234 Ce, n. 3, e
- l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza».
[104] La questione pregiudiziale era stata sollevata dal Finanzgericht di Amburgo nell’ambito di una controversia tra Willy Kempter KG e lo Hauptzollamt (ufficio doganale). La domanda di pronuncia mirava a scoprire se l’art. 10 TCE (sostituito dall’art.4 TFUE) osti o meno all’applicazione degli articoli 48 e 51 della legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) riguardante le condizioni e limiti temporali che gravano su un ricorrente interessato alla riapertura di un procedimento amministrativo conclusosi con un atto definitivo. Vale la pena di ricordare che, dopo la pronuncia in ultimo grado del Bundesfinanzhof, era intervenuta la sentenza del 14 dicembre 2000, Emsland-Stärke (C-110/99, ECR 2000 p. I-11569) ECLI:EU:C:2000:695), in cui dava un’interpretazione della normativa comunitaria favorevole alle posizioni sostenute dalla Kempter nel suo ricorso.
[105] Il caso Kapferer riguardava la non corretta applicazione del reg. Ce n. 44/2001 ad opera di un giudice nazionale che si era ritenuto (erroneamente) competente. Il giudice del rinvio chiedeva alla Corte di giustizia se fosse comunque tenuto, in forza dell’art. 10 TCE (sostituito dall’art. 4 TFUE) a riesaminare ed annullare la decisione sulla competenza che era ormai passata in giudicato, in quanto contraria al diritto comunitario.
[106] Sentenza del 16 marzo 2006, Kapferer (C-234/04, ECR 2006 p. I-2585) ECLI:EU:C:2006:178, par. 23: «Si deve aggiungere che la citata sentenza Kühne & Heitz, cui si riferisce il giudice a quo nella sua prima questione, sub a), non è tale da rimettere in discussione l’analisi sopra svolta. Infatti, anche ammettendo che i principi elaborati in tale sentenza siano trasferibili in un contesto che, come quello della causa principale, si riferisce ad una decisione giurisdizionale passata in giudicato, occorre ricordare che tale medesima sentenza subordina l’obbligo per l’organo interessato, ai sensi dell’art. 10 Ce, di riesaminare una decisione definitiva che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario, alla condizione, in particolare, che il detto organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione (v. punti 26 e 28 della detta sentenza). Orbene, nel caso di specie, è sufficiente rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che la suindicata condizione non ricorre».
[107] V. ad es. J. Komárek, Federal Elements in the Community Judicial System - Building Coherence in the Community Legal Order, op. cit..
[108] Sentenza del 18 luglio 2007, Lucchini (C-119/05, ECR 2007 p. I-6199) ECLI:EU:C:2007:434: il caso riguardava degli aiuti concessi dalle autorità italiane nel 1988, tali aiuti in seguito erano stati dichiarati incompatibili con il diritto comunitario. In seguito a tale decisione la Lucchini S.p.a. citava le autorità italiane in giudizio e il giudice riconosceva il diritto al pagamento di Lucchini dell’intero aiuto richiesto. La sentenza non veniva impugnata e acquisiva autorità di giudicato, in seguito Lucchini otteneva anche un’ingiunzione di pagamento contro il Ministero dell’industria e il pignoramento di autovetture di servizio, infine, con un decreto ministeriale venivano accordati a Lucchini gli aiuti più il pagamento degli interessi. A seguito del parere della Commissione, veniva richiesto alle autorità nazionali di recuperare gli aiuti che erano stati pagati in violazione del diritto comunitario. Il Ministero dell’industria revocava il decreto di concessione degli aiuti e chiedeva alla Lucchini di rimborsare l’importo versato. La vicenda finiva dinanzi al giudice amministrativo e, nel 1999, il Tar Lazio dichiarava l’irrevocabilità dell’atto della pubblica amministrazione essendo stato il diritto all’erogazione dell’aiuto accertato con sentenza passata in giudicato (art. 2909 del codice civile). In seguito, il Consiglio di Stato, adìto dal Ministero, constatando la sussistenza di un conflitto tra la sentenza del 1994 e la decisione della Commissione del 1990, chiedeva alla Corte di giustizia delle Comunità europee «se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente applicabile [...] sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero dell’aiuto da parte dell’amministrazione interna nei confronti di un privato beneficiario, nonostante la formazione di un giudicato civile affermativo dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo».
[109] Ivi, par. 48. Sul caso Lucchini si veda X. Groussot e T. Minseen, Res Judicata in the Court of Justice Case-Law: Balancing Legal Certainty with Legality?, in European Constitutional Law Review 2007, 385.
[110] Cfr. Sentenza dell’11 luglio 1996, SFEI and others (C-39/94, ECR 1996 p. I-3547) ECLI:EU:C:1996:285, par. 42: «Allorché traggono le conseguenze di una violazione dell' art. 93, n. 3, ultima frase, i giudici nazionali non possono pronunciarsi sulla compatibilità delle misure di aiuto con il mercato comune, essendo tale valutazione di esclusiva competenza della Commissione, sotto il controllo della Corte di giustizia».
[111]Sentenza del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub (C-2/08, ECR 2009 p. I-7501) ECLI:EU:C:2009:506.
[112] Ivi, par. 12: «Risulta dalla decisione di rinvio che, in materia fiscale, i giudici italiani, interpretando l’art. 2909 del codice civile, sono restati a lungo ancorati al cosiddetto principio della frammentazione dei giudicati, in base al quale ogni annualità fiscale conserva la propria autonomia rispetto alle altre ed è oggetto, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi alle annualità precedenti e successive, per cui, qualora le controversie vertenti su annualità diverse di una medesima imposta (pur riguardando questioni analoghe) siano decise con sentenze separate, ciascuna controversia conserva la propria autonomia e la decisione che vi pone fine non ha alcuna autorità di giudicato nei confronti delle controversie afferenti ad altre annualità fiscali. Tuttavia, tale impostazione sarebbe stata recentemente modificata, in particolare per l’abbandono del principio della frammentazione dei giudicati. Ormai la soluzione derivante da una sentenza pronunciata in una controversia, quando gli accertamenti che vi si riferiscono riguardano questioni analoghe, può essere utilmente invocata in un’altra controversia, benché detta sentenza sia relativa ad un periodo d’imposta diverso da quello che costituisce l’oggetto del procedimento in cui è stata invocata».
[113] Ivi, par. 32.
[114] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889.
[115] Ivi, par. 29: «L’istituzione di rimedi europei esperibili dinanzi ai giudici nazionali, come è accaduto nel caso della responsabilità patrimoniale degli Stati o in relazione ai principi di effettività e di equivalenza, è un’opzione che rafforza e incoraggia il lavoro collettivo tra la Corte di giustizia e i suoi omologhi nazionali. D’altra parte, l’aumento del numero degli Stati membri, unitamente al contatto sempre più frequente e diretto del cittadino con l’ordinamento europeo, rendono ogni volta meno realistica la pretesa che la Corte di giustizia affronti da sola il compito di interpretare in maniera autorizzata il diritto dell’Unione. In tal senso, la sentenza Rheinmühlen I, che è frutto del suo tempo e del relativo contesto, potrebbe, paradossalmente, avere l’effetto di ostacolare, piuttosto che di salvaguardare, l’effettività dell’ordinamento dell’Unione. Tanto più che, nelle circostanze del caso di specie, il sig. Elchinov potrà esperire altri mezzi di ricorso dinanzi ai propri giudici, mezzi che, peraltro, gli vengono offerti dal diritto dell’Unione».
[116] Ivi, par. 22: «Si dà il caso che la sentenza Rheinmühlen I sia una decisione particolarmente legata alle circostanze processuali e storiche in cui si inserisce, che sono assai diverse rispetto a quelle che fanno da sfondo al caso in esame. Una lettura, per così dire, a senso unico, e incentrata unicamente sulla prevalenza del diritto comunitario, rischia di ignorare tale trasformazione dello scenario di fondo».
[117] Sentenza del 16 dicembre2008, Cartesio (C-210/06, ECR 2008 p. I-9641) ECLI:EU:C:2008:723.
[118] Ivi, par. 95.
[119] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 36: «Il contesto di riferimento cambia sostanzialmente in ciascuno dei due casi, poiché la sentenza Cartesio si riferiva a quella che potremmo chiamare la fase ascendente di una lite, ossia, la fase di gestazione naturale, che si estende dal momento in cui la causa viene avviata dinanzi all’organo di primo grado fino a quando diventa definitiva con l’emanazione di una sentenza avverso la quale non è proponibile ricorso. Al contrario, il caso che ci occupa verte su ciò che potremmo chiamare la – eventuale – fase discendente di una controversia, cioè il momento finale della causa, dopo che sia stata pronunciata una sentenza definitiva che ha rinviato la causa al giudice di grado inferiore, al solo scopo che quest’ultimo dia esecuzione ad una decisione di diritto i cui termini non possono essere messi in questione».
[120] Par. 27 delle Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336): anche qui, esplicitando ragioni che paiono ispirare anche l’avvocato generale Bobek nelle conclusioni Consorzio Italian Management.
[121] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 29.
[122] Sentenza del 5 ottobre 2010, Elchinov (C-173/09, ECR 2010 p. I-8889) ECLI:EU:C:2010:581.
[123] Mutuando la prospettiva teorica di R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia insieme, 4 marzo 2021.
[124] Cfr., tra i vari, la dettagliata e aggiornata ricostruzione di L. Pech, D. Kochenov, Respect for the Rule of Law in the Case Law of the European Court of Justice: A Casebook Overview of Key Judgments since the Portuguese Judges Case, in corso di pubblicazione quale Swedish Institute for European Policy Studies Report 2021, disponibile al sito https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3850308.
[125] Cfr. paradigmaticamente sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika (C-896/19) ECLI:EU:C:2021:311, specie par. 51.
[126] G.F. Mancini, D.T. Keeling, From CILFIT to ERT: The Constitutional Challenge Facing the European Court, op. cit., 1.
[127] Si noti ad es. dalla ricostruzione di L. Pech, D. Kochenov, Respect for the Rule of Law in the Case Law of the European Court of Justice: A Casebook Overview of Key Judgments since the Portuguese Judges Case, op. cit., come il meccanismo del rinvio pregiudiziale sia stato funzionale all’intervento ripetuto della Corte di giustizia per sanzionare le ripetute recenti violazioni della rule of law in Polonia.
La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo*
di Elena D’Alessandro
*Si rinvia all’editoriale del 27 maggio 2021 ed agli altri contributi sul tema di Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola, Bruno Capponi e Giuseppe Rana pubblicati su questa Rivista.
Sommario: 1. Perché a livello europeo si auspica, per l’Italia, un sistema giurisdizionale civile più efficiente - 2. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e la riforma della giustizia civile - 3. Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII - 4. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo”
1. Perché a livello europeo si auspica, per l’Italia, un sistema giurisdizionale civile più efficiente
Dal 2013, ossia da quando la Commissione europea ha pubblicato il “Quadro di valutazione UE della giustizia (EU Justice Scoreboard), che mette a confronto l’efficienza, la qualità e l’indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, costantemente (ma, fino ad oggi, senza grande successo) si raccomanda all’Italia di porre in essere riforme volte a rendere più efficiente – ossia, in primis: più celere – il proprio sistema di tutela giurisdizionale civile.
Benché il diritto processuale sia materia di competenza nazionale, l’interesse dell’Unione europea per l’efficienza del sistema giurisdizionale civile italiano deriva da tre fattori.
Il primo: i giudici nazionali non applicano solo il diritto nazionale ma anche ed in primis il diritto dell’UE e, nel farlo, assicurano che i diritti e gli obblighi sanciti dal diritto dell'UE siano attuati correttamente (articolo 19 TUE). L’esistenza di sistemi giudiziari nazionali efficienti è fondamentale per attuare propriamente il diritto dell'UE e rendere effettivi i valori su cui si fonda l’UE[1].
Il secondo: lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, su cui la cooperazione giudiziaria civile europea si basa, si fonda sul principio della fiducia reciproca ed equivalenza tra le giurisdizioni dei diversi Stati membri. Tali giurisdizioni, pertanto, debbono tendere al conseguimento del medesimo livello di efficacia e celerità.
Il terzo: studi scientifici[2] hanno dimostrato che l’efficienza (e la celerità) dei sistemi giudiziari civili ha un impatto benefico sull’economia. Sulla base di tali studi la Commissione europea ha fatto notare che “quando i sistemi giudiziari garantiscono il rispetto dei diritti (in tempi contenuti, n.d.a.), i creditori sono più inclini a concedere prestiti, le imprese sono dissuase dall’assumere comportamenti opportunistici, i costi delle operazioni si riducono e vi sono maggiori probabilità che le imprese innovative investano”[3]. In particolare, da uno studio condotto – ironia della sorte – da due italiani[4] “è emerso che una riduzione della durata dei procedimenti giudiziari dell'1 % (misurata in termini di tempi di trattazione) può aumentare la crescita delle imprese”.
Evidente, pertanto, la ragione per cui, nell’ambito del programma di finanziamento europeo “Next generation EU”, la riforma della giustizia civile assuma un ruolo chiave, tanto più che la Commissione europea aveva chiesto agli Stati membri di redigere il piano di ripresa e resilienza alla luce delle raccomandazioni rivolte negli anni 2019 e 2020 a ciascun Stato membro e rimaste inattuate (country specific recommendations).
2. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e la riforma della giustizia civile
Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (di seguito: il PNRR)[5], l’Italia si è impegnata – in maniera tanto ambiziosa quanto necessaria per la ripresa economica del paese – a ridurre la durata del “processo civile” (recte: del processo civile di cognizione[6]) di circa il cinquanta per cento[7]. Ovviamente, per non minare l’effettività del sistema, la riduzione della durata dei tempi del giudizio civile deve avvenire a garanzie del giusto processo invariate, conformemente all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE nonché all’art. 6 CEDU. Si conta di raggiungere l’obiettivo percorrendo due strade: per un verso agendo sull’organizzazione della “macchina giudiziaria” e, per altro verso, mediante interventi riformatori sul rito civile di cognizione. Gli interventi contemplano anche l’incentivo all’utilizzo degli strumenti alternativi al processo (“ADR”, recte: negoziazione assistita, mediazione, arbitrato) per la soluzione di controversie concernenti diritti disponibili[8], nella consapevolezza che “solo a fronte di un processo (recte: di un processo di cognizione) efficace davanti all’autorità giudiziaria le misure alternative (recte: gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie) possono essere in grado di funzionare proficuamente”[9].
Per rendere più celere la soddisfazione dei crediti e favorire così la competitività del sistema paese, sono altresì annunciati interventi sul processo esecutivo.
Ciascuno di questi tre settori del processo che si intendono riformare per perseguire l’obiettivo della riduzione dei tempi della giustizia civile e rendere così il nostro sistema giurisdizionale “efficiente” (1.”ADR”; 2.“processo civile” da intendersi come sinonimo di “processo civile di cognizione”; 3. “processo esecutivo”), è accompagnato da una descrizione delle linee di intervento da intraprendere per il raggiungimento della finalità che ci si prefigge.
In realtà, unitamente al processo esecutivo, il PNRR menziona un ulteriore settore di intervento, ossia quello dei procedimenti speciali, senza però indicare la ragione per cui tale intervento è considerato funzionale al raggiungimento dell’obiettivo primario del PNRR, che è quello dell’efficienza tramite la riduzione dei tempi del processo civile di cognizione (“il fattore tempo al centro” recita il PNRR). Peculiarmente, infatti, nel paragrafo del PNRR dedicato agli “Interventi sul processo esecutivo e sui procedimenti speciali” vengono illustrate solo la ratio e le linee di intervento riguardanti il processo esecutivo, salvo poi fare riferimento – non già in quel paragrafo ma, piuttosto, in quello che avrebbe dovuto essere dedicato alla sola esplicazione delle “modalità di attuazione delle azioni” precedentemente illustrate – ad “ulteriori interventi nel settore del contenzioso della famiglia”.
Si afferma che l’intervento nel settore del contenzioso della famiglia “intende sciogliere alcuni problemi legati alla compresenza di organi giudiziari diversi e individuare un rito unitario per i procedimenti di separazione, divorzio e per quelli relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli nati al di fuori del matrimonio”. Si omette, però, di chiarire perché quello relativo al settore del contenzioso della famiglia è di un intervento necessario al raggiungimento dell’obiettivo del PNRR; obiettivo che, giova ribadirlo, non è quello di colmare le lacune normative di un settore della giustizia civile che indubbiamente necessita di interventi a livello legislativo per essere più efficiente quanto, piuttosto, quello della riduzione dei tempi del processo civile (di cognizione) e della rapidità del processo esecutivo.
Il PNRR, insomma, mira a garantire l’efficienza dei giudizi civili attraverso la riduzione della loro durata (“il fattore tempo al centro”).
Altrettanto curiosamente, almeno per chi abbia dimestichezza con la progettazione propedeutica alla richiesta di finanziamenti europei (categoria a cui pare ascrivibile anche il piano Next generation EU), il PNRR si limita ad indicare:
a) l’obiettivo di efficienza da raggiungere, i.e. riduzione di circa il 50 per cento dei tempi del giudizio civile di cognizione; maggiore celerità delle procedure esecutive;
b) le linee di intervento “riformatore” che si intendono adottare per raggiungerlo: c.d. riforma ADR; interventi sul processo civile – recte, sul giudizio civile di cognizione –; interventi sul processo di esecuzione e sui processi speciali;
c) i tempi di attuazione delle riforme.
Per contro, il PNRR non indica quali sono le osservazioni empiriche, i dati statistici e/o di analisi economica del diritto da cui si trae la ragionevole convinzione per cui, assieme alla riorganizzazione degli uffici giudiziari ovvero all’aumento del numero dei magistrati togati in organico[10], è necessario porre in essere ulteriori riforme del rito civile. Altresì il PNRR non indica perché le riforme che è necessario intraprendere per raggiungere l’obiettivo sono proprio quelle ivi indicate. E non spiega perché tali riforme consentiranno di raggiungere l’obiettivo di efficienza in termini di riduzione della durata dei giudizi senza fallire, in toto o in parte, come i precedenti tentativi, tra cui ci limitiamo a ricordare, senza pretesa di completezza:
- la legge 7 agosto 2012, n. 134 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 contenenti misure urgenti (anche sulla giustizia civile, N. d.A.) per la crescita del Paese;
- la legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile;
- la legge 25 ottobre 2016, n. 197, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa;
- il decreto legislativo del 13 luglio 2017, n. 116 di riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché contenente la disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57.
Manca, cioè, il c.d. added value assessment[11].
Un esempio per tutti: tra le linee di intervento concernenti il processo di cognizione si prevede il c.d. rinvio pregiudiziale in Cassazione, ossia la possibilità, per il giudice di merito, “di rivolgersi direttamente alla Corte di Cassazione per sottoporle la risoluzione di una questione nuova (non ancora affrontata dalla Corte), di puro diritto e di particolare importanza, che presenti gravi difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerose controversie”. In questo modo – precisa il PNRR – è favorito il raccordo e il dialogo tra gli organi di merito e la Cassazione e valorizzata la sua funzione nomofilattica[12]. Il PNRR non indica, però, quali sono i dati statistici forniti dalla Suprema Corte da cui si ricava la ragionevole convinzione che questa innovazione avrà effetti significativi in termini di riduzione della durata dei giudizi civili di cognizione, così realizzando l’obiettivo che il PNRR si propone[13]. L’obiettivo dichiarato del PNRR, infatti, non è quello di valorizzare la nomofilachia.
Ancora: il PNRR indica una tempistica per la realizzazione delle riforme sul processo civile, ma non precisa quale è l’orizzonte temporale per cui, grazie alle realizzate riforme, sono attesi gli effetti benefici in termini di riduzione significativa della durata del processo civile di cognizione, nonché di accelerazione del processo esecutivo: si tratta di un orizzonte temporale di 5 anni che finisce nel 2026, in linea con la durata temporale del progetto Next generation EU? Non è dato saperlo.
Neppure si indica un obiettivo a medio termine, quale avrebbe potuto essere il monitoraggio intermedio (dopo due o tre anni dalla loro entrata in vigore), dell’impatto delle riforme – nonché della riorganizzazione degli uffici e della messa a regime dell’ufficio del processo – sulla durata dei giudizi civili di cognizione ed esecutivo. Vi sarebbe stato così il tempo di approntare misure correttive nel caso in cui gli effetti benefici fossero risultati inferiori a quelli attesi.
Non a caso il nostro PNRR, pur avendo la medesima struttura di quelli presentati da altri Stati membri (evidentemente imposta a livello europeo) è tra quelli più sintetici, specie quando lo si compari con la mole dei piani di resilienza belga, francese e tedesco.
3. Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII
Il compito gravante sulla nuova compagine governativa per il raggiungimento dell’obiettivo concernente la giustizia civile indicato nel PNRR è di quelli che fanno tremare i polsi: occorre realizzare le riforme della giustizia civile che l’Europa auspica dal 2013 e bisogna agire in tempi strettissimi, ossia quelli imposti dal cronoprogramma Next generation EU.
Mancando i tempi tecnici necessari per l’elaborazione e il confezionamento una proposta ex novo, si è scelto di percorrere la via, più celere, della presentazione di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (Delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie), anche per non disperdere il lavoro già posto in essere a livello parlamentare. Una via, questa, senza dubbio più celere ma ben più difficile da percorrere, perché si tratta di intervenire chirurgicamente su di un testo pensato ed elaborato da un’altra compagine governativa, di cui non è detto che si condividano tutte le linee e le modalità di intervento.
Questa essendo la situazione, non ci si poteva certamente attendere che in soli due mesi il Governo elaborasse degli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII anche solo equiparabili, dal punto di vista della loro organicità, alla riforma del 1990. Il massimo che si poteva realizzare era, appunto, un intervento chirurgico e d’emergenza che adattasse il testo del d.d.l. n. 1662/S/XVIII agli obiettivi indicati nel PNRR.
Delle circa 25 pagine di testo degli emendamenti governativi che vorrebbero riprendere ed attuare le linee di intervento indicate nel PNRR, ben 7 sono minuziosamente dedicate alla riforma ai procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglia; settore, quest’ultimo, che indubbiamente necessita di un intervento del legislatore, ma che nel PNRR non sembrava essere il settore chiave per il conseguimento dell’obiettivo che l’Italia si pone per la giustizia civile, tant’è che, come precedentemente indicato, non ci si è neppure sforzati di dimostrare il suo “ruolo chiave” ai fini del conseguimento dell’obiettivo primario del PNRR, che poi coincide con quello degli emendamenti governativi, almeno stando alla Relazione esplicativa[14], i.e. quello di ridurre l’eccessiva durata dei giudizi civili, per conseguire la fiducia dei cittadini e degli eventuali investitori stranieri.
Con riferimento agli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII in questa sede ci limiteremo ad esprimere considerazioni di carattere generale sul metodo utilizzato per la loro formulazione, senza esprimerci sul contenuto; contenuto sul quale esiste già un vivace dibattito ospitato da questa Rivista.
4. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo” [15]
Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, come del resto il PNRR, hanno fatto uso del consueto metodo per prova ed errori. Di fronte ad un malato grave, quale è la giustizia civile italiana, si provano varie cure confidando che una, tra quelle testate, sia quella risolutiva per ridurre i tempi del giudizio civile di cognizione e accelerare le procedure esecutive. Tale metodo era già stato impiegato, senza soverchio successo, nel caso:
i) della legge 7 agosto 2012, n. 134 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 contenenti misure urgenti (anche sulla giustizia civile, N. d.A.) per la crescita del Paese;
ii) della legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile;
iii) della legge 25 ottobre 2016, n. 197, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa.
Diverso è invece il metodo che si suole utilizzare a livello europeo, dove ci si basa su added value assessments compiuti ex ante, ossia ci si avvale di studi che, con l’ausilio della matematica, e partendo da dati empirici, cercano di misurare se e quale sarà l’impatto benefico di un intervento normativo in un determinato settore dell’ordinamento nel breve, medio e lungo periodo. Il giurista, cioè, entra in campo solo dopo il matematico per proporre una o più soluzioni giuridiche alternative per ovviare alle difficoltà riscontrate all’esito della lettura del dato statistico. Dopodiché il giurista passa di nuovo il testimone al matematico/economista per l’elaborazione della valutazione di impatto delle varie proposte da lui formulate. Alla luce dei risultati della valutazione di impatto, il politico sceglie quale strumento giuridico introdurre nell’ordinamento, con la ragionevole probabilità che si tratterà di un rimedio efficiente.
Uno studio di tal fatta, finalizzato a misurare l’impatto delle riforme previste dagli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII sugli attuali tempi dei giudizi civili, a meno che non vi sia già una base di lavoro, avrebbe richiesto mesi, forse anni (molto più tempo di quello che aveva a disposizione il Governo per il confezionamento degli emendamenti) ma avrebbe consentito di valutare, prima di averle viste operare nella pratica, il grado di ragionevole probabilità che le suggerite riforme del rito civile riducano la tempistica del nostro sistema giurisdizionale nel rispetto delle garanzie del giusto processo.
In sua mancanza, il giurista-commentatore può solo presagirne l’esito infausto (sperando, per il bene del paese, di essere smentito)[16] e indicare quali, tra gli emendamenti proposti, appaiono a prima vista congeniali alla sua sensibilità (ad esempio, gli interventi proposti in tema di arbitrato ovvero le modifiche all’art. 614-bis c.p.c.) e quali meno (ad esempio, l’ampliamento delle ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità[17], per un asserito periodo transitorio di cinque anni, che in Italia è tendenzialmente destinato a durare assai di più).
Scorrendo gli emendamenti si ha la sensazione che, per compiere alcune (forse più di alcune) delle scelte fatte, si sia come di consueto partiti dal rimedio congeniale a chi lo ha proposto (“il farmaco”)[18] anziché prendere le mosse da un’analisi del dato empirico e statistico (“le analisi prescritte al malato”)[19], per poi trovare – non già la cura che più piace a chi la prescrive ma, piuttosto – la cura più efficace[20] per risolvere il cronico problema della tempistica della giustizia civile italiana.
Il metodo per prova ed errori ha un costo, che rischia di frustrare l’obiettivo che il PNRR si propone.
Per parte sua, il PNRR ambisce a potenziare l’efficienza del sistema “giustizia civile” per accrescere la fiducia che in tale sistema hanno i suoi fruitori, perché, come ricorda la relazione illustrativa degli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII[21], “l’eccessiva durata dei giudizi incide negativamente …..sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie italiane, offuscandone il valore”. Tuttavia, quanto più si riforma il codice di procedura civile imponendo cambiamenti all’operatore pratico (tra gli altri: l’ampliamento, che si descrive come temporaneo, delle ipotesi di mediazione obbligatoria e la revisione della fase introduttiva del giudizio di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica), senza che a tale sforzo faccia seguito una significativa riduzione dei tempi del processo ovvero un significativo aumento dell’efficienza e della qualità della nostra giustizia civile, quanto più si fa decrescere la fiducia nei confronti del sistema giurisdizionale e verso le capacità di miglioramento del sistema.
Ci si gioca molto, in questo senso, con il d.d.l n. 1662/S/XVIII, a proposito della credibilità del sistema italiano di tutela giurisdizionale dei diritti all’interno dei confini nazionali nonché all’estero, dove la giustizia italiana è spesso associata alle sole torpedo actions. E potrebbe non esserci una seconda occasione.
Davvero la cura miracolosa per la riduzione della lunghezza dei giudizi civili consiste (anche) nell’ennesima riforma del rito civile elaborata con il metodo per prova ed errori?
Proprio gli insuccessi delle passate riforme del rito civile elaborate in base al metodo” per prova ed errori” ci dimostrano il contrario. O almeno così sembra a chi scrive.
Davvero la Commissione europea si accontenterà che siano approvate le ennesime riforme riguardanti il processo civile o non vorrà, piuttosto, per il bene dell’Italia, che tali riforme conseguano, nel breve periodo, l’obiettivo di ridurre effettivamente la durata dei nostri giudizi di cognizione ed esecutivi? Crediamo che si dovrà dare conto dell’efficacia delle misure intraprese, perché se solo bastasse dare prova di buona volontà nel legiferare sul processo civile, l’Europa non ci chiederebbe interventi dal lontano 2013, né il nostro legislatore avrebbe dato vita a quell’intensa quanto infelice attività normativa sopra richiamata.
Davvero non si poteva, per una volta, sperimentare (e negoziare con l’Europa) un cambio di metodologia elaborando un added value assessment?
Forse stavolta si poteva osare.
E già che ci siamo, perché non proviamo a rendere conoscibile all’estero la nostra normativa in tema di giustizia civile – anche su questo si costruisce la fiducia dell’investitore straniero – valorizzando le potenzialità del sito di “normattiva” e rendendo disponibile anche la versione ufficiale in lingua inglese del codice civile e di procedura civile italiana, come fa, ad esempio, il ministero della giustizia tedesco[22]?
Si tratta di un intervento di buon senso che non necessita di riforme legislative e che avrebbe potuto essere intrapreso da anni.
[1] COM (2020) 580 final, pag. 8; COM(2020) 306 final, quadro di valutazione UE della giustizia 2020, pag. 2.
[2] Vedili citati in COM (2020) 580 final, pag.5.
[3] Ivi, loc. ult.cit.
[4] V. Bove, L. Elia; "The judicial system and economic development across EU Member States",
Relazione tecnica del JRC, EUR 28440 EN, Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea, Lussemburgo,
2017, consultabile al link http://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC104594/jrc104594__2017_the_judicial_system_a
nd_economic_development_across_eu_member_states.pdf.
[5] I piani nazionali di ripresa e resilienza presentati dagli Stati membri, incluso quello inviato dall’Italia, sono consultabili al seguente link: https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_it
[6] L’espressione sembra riferibile al processo di cognizione, sebbene il PNRR non lo specifichi, in considerazione del riferimento agli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie che, come noto, costituiscono una alternativa alla sola tutela dichiarativa.
[7] PNRR, pag. 51: “Si stima che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 per cento possa accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 per cento”.
[8] In proposito, con particolare riferimento alla mediazione, il PNRR afferma che la riforma mira ad ampliare “l’ambito di applicazione della mediazione”, e a verificare “in particolare, se sia possibile estenderne la portata in ulteriori settori non precedentemente ricompresi nell’ambito di operatività”. Posto che la mediazione, quale alternativa alla tutela giurisdizionale può aversi unicamente per le controversie vertenti su diritti disponibili e che al momento nulla impedisce il suo utilizzo al di là dei casi in cui la mediazione è obbligatoria, l’affermazione pare riferibile alla volontà di estendere le fattispecie di mediazione obbligatoria, come infatti prevedono gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII.
[9] PNRR, pagg. 52, 56.
[10] Strada, questa, la cui fruttuosa percorribilità, sulla base di dati statistici, è stata dimostrata da M. Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Roma, 2019.
[11] Redatto sul modello degli European impact and added value assessments che il Parlamento europeo regolarmente commissiona prima di avanzare una proposta normativa.
[12] Piano nazionale di ripresa e resilienza, pag. 57.
[13] Effetti in astratto ravvisabili, in quanto suo tramite è possibile l’ottenimento di una decisione di legittimità su una questione interpretativa controversa senza necessità di previo esperimento dei tre gradi di giudizio, non trattandosi di mezzo di impugnazione.
[14] Leggibile in calce al saggio di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, pubblicato su questa Rivista, consultabile al seguente link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1736-prime-note-sul-maxi-emendamento-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-di-bruno-capponi.
[15] “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: E. Montale, Non chiederci la parola, in Ossi di seppia, Torino, 1925.
[16] Perché stavolta l’esito dovrebbe essere diverso, visto che la metodologia impiegata è la medesima?
[17] In questo caso, come riportato nella relazione della apposita Commissione costituita dalla Ministra (leggibile al link.: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1754-le-proposte-di-interventi-in-materia-di-processo-civile-e-di-strumento-alternativi) pag. 21: “le statistiche provano che a otto anni dalla riforma del 2013, la stragrande maggioranza delle mediazioni viene avviata ancora solo nelle materie dove è previsto il primo incontro di mediazione come condizione di procedibilità”. Ciò significa che l’istituto, per una serie di ragioni che pare qui superfluo richiamare, non gode ancora di fiducia tra gli operatori pratici.
[18] Tant’è che G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile, ritiene che questa non sia una riforma funzionale alla riduzione dei tempi del processo.
[19] Magari condotto in prospettiva comparatistica, guardando a come gli altri Stati membri che hanno avuto il medesimo problema lo hanno risolto efficacemente. La comparazione tra ordinamenti, in altri termini, può servire non solo a prendere a prestito singoli istituti giuridici (ad es. le astreintes) ma anche a prendere ispirazione dal modo in cui è stato complessivamente risolto il problema dell’efficienza della giustizia civile.
[20] Che può coincidere, come no, con il farmaco che più piace a chi lo deve prescrivere.
[21] V. nota 14.
[22] https://www.gesetze-im-internet.de/zpo/index.html.
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