La tutela risarcitoria negata: quando la colpa lievissima supera l’errata motivazione (nota a Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia Sezione Giurisdizionale, 7 aprile 2021, n. 295)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda alla base dell’istanza risarcitoria – 2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale. – 3. La decisione del C.G.A. – 4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo. – 5. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda
Con la pronuncia in esame il C.G.A. si è espresso sulla istanza risarcitoria avanzata da una società per i danni subiti come conseguenza di altro giudizio, a seguito del quale era stato annullato il provvedimento con cui la Commissione straordinaria del Comune di Bagheria aveva revocato alcuni Piani di lottizzazione precedentemente adottati.
La vicenda, sfociata nel giudizio di annullamento, principiava dalla approvazione da parte del Comune di Bagheria di alcuni Piani di lottizzazione - e delle relative convenzioni - conformi alle previsioni del PRG all’epoca vigente, ma che sarebbero poi risultate in contrasto con il nuovo piano regolatore adottato dallo stesso Comune due mesi dopo. Tale strumento urbanistico, infatti, prevedeva la inedificabilità dell’area oggetto della lottizzazione convenzionata in quanto destinata ad attrezzatura pubblica “F/2”, Aree sottostanti “parcheggi”.
A poca distanza temporale dalla adozione del nuovo piano regolatore, il Comune di Bagheria veniva sciolto per infiltrazioni mafiose e la Commissione straordinaria insediatasi disponeva la revoca in autotutela della deliberazione del Consiglio Comunale che aveva approvato contestualmente dieci piani di lottizzazione – unitamente ai relativi atti di convenzionamento – tra cui quello della società ricorrente. Il provvedimento di revoca teneva conto delle osservazioni contenute nella relazione del Ministero dell’Interno, pubblicata in G.U. in occasione dello scioglimento del Comune, ove si evidenziava la stretta “convergenza tra gli interessi delle organizzazioni criminali e l’amministrazione comunale di Bagheria”, evincibile peraltro nella circostanza che nonostante il nuovo piano fosse già in itinere fossero state rilasciate molte concessioni edilizie a soggetti risultanti direttamente o indirettamente legati alla malavita organizzata.
Avverso la delibera n. 268/1999, con la quale la Commissione straordinaria disponeva la revoca in autotutela dei piani di lottizzazione approvati, i destinatari di uno dei dieci piani di lottizzazione approvati proponevano ricorso con il quale lamentavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, nonché il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione ex art. 3 L. n. 241/1990.
Entrambe le censure venivano respinte dal Tar Palermo, Sez. III, che - con la sentenza n. 3022 del 15 maggio 2006 - precisava, in primo luogo, la non applicabilità agli atti pianificatori dell’art. 7 della L. n. 241/1990, in virtù di quanto disposto dall’art. 13 della medesima legge; e in secondo luogo, l’infondatezza dell’eccezione relativa al difetto di motivazione, sulla base del convincimento che “la repentina adozione di un rilevante numero di lottizzazioni proprio a ridosso del nuovo PRG fosse indice di comportamenti contrari a legge (in termini di eccesso di potere) posti in essere dell’amministrazione comunale”.
Avverso la sentenza del Tar Palermo, gli aventi causa a titolo particolare dai ricorrenti originari (in forza di contratto preliminare di vendita e acquirenti dell’immobile), proponevano appello dinanzi al C.G.A., il quale con pronuncia del 28 settembre 2007, n. 890, accoglieva l’appello e, per effetto ed in riforma della sentenza impugnata, annullava i provvedimenti di revoca delle lottizzazioni.
Alla base della decisione il convincimento (condiviso dagli stessi giudici anche in altra pronuncia avente ad oggetto una fattispecie analoga a quella esaminata) secondo cui il piano di lottizzazione era da considerarsi legittimo al momento della sua approvazione in quanto conforme al P.R.G. vigente all’epoca; infatti, il nuovo piano non era stato ancora nemmeno adottato. In particolare, il Consiglio di Giustizia Amministrativa precisava che fino alla approvazione del nuovo piano regolatore, il Comune non avrebbe potuto agire in autotutela su un PDL già approvato ed originariamente legittimo. Sul punto rilevava che gli “effetti anticipati” del PRG, ossia le misure di salvaguardia, potessero produrre effetti (quali ad esempio il diniego di concessioni difformi) solo dopo l’adozione del nuovo piano regolatore: prima di tale momento nessun effetto prodromico sarebbe stato ammissibile. Sicché solo dopo l’adozione del nuovo PRG il Comune avrebbe potuto applicare le misure di salvaguardia e non rilasciare ulteriori concessioni, sebbene conformi all’originaria pianificazione (al momento ancora vigente). Peraltro, secondo i giudici il decreto comunale di adozione del nuovo PRG risultava illegittimo in quanto sprovvisto di qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni del cambio di destinazione dell’area, in spregio al principio di certezza del diritto e all’affidamento medio tempore ingenerato. Di qui, la piena soddisfazione degli interessi della ricorrente.
A distanza di quattro anni dalla suddetta pronuncia, la società ricorrente agiva in giudizio per chiedere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni provocati dalla illegittima revoca del piano di lottizzazione. Il Tar Palermo, Sez. III, con sentenza 3 giugno 2017, n. 1474, respingeva il ricorso sulla base di due profili: la carenza della prova del danno subito dalla ricorrente dall’adozione del suddetto provvedimento poi ritenuto illegittimo e annullato in sede giurisdizionale; l’assenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo all’Amministrazione Straordinaria del Comune di Bagheria al momento dell’adozione del provvedimento di revoca della concessione.
In particolare, quanto alla omessa prova del danno, il Tar precisava che la società ricorrente, acquistando una res controversa – con riguardo alla destinazione ed utilizzabilità ai fini edificatori del terreno acquistato – fosse ben consapevole dell’aleatorietà dell’investimento. Quanto poi alla prova dell’elemento soggettivo, gli stessi giudici ritenevano che, benché l’adozione di un atto illegittimo costituisca fattispecie astrattamente idonea ad integrare l’elemento oggettivo di un illecito aquiliano, ai fini dell’integrazione degli estremi del risarcimento dei danni, fosse necessario individuare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, “che è evidentemente cosa diversa, ed ulteriore, rispetto all’illegittimità dell’atto, giudizialmente accertata”.
Avverso tale sentenza di rigetto, la società soccombente, proponeva appello dinanzi al C.G.A. al fine di chiedere la riforma della sentenza di primo grado adducendo la violazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., nonché dell’art. 2-bis L. n. 241/1990, ritenendo che il giudice di prime cure avesse errato nel ritenere non provato il danno subito dall’adozione di un provvedimento illegittimo e non configurabile la colpa in capo alla Commissione straordinaria.
Il C.G.A.R.S. con la sentenza in commento rigettava le istanze della ricorrente ritenendo il ricorso infondato e non meritevole di accoglimento, per carenza degli elementi costitutivi della responsabilità da fatto illecito della P.A. In particolare, concordando con il giudice di primo grado, riteneva non provato il danno lamentato dalla società ricorrente e non configurabile la colpa dell’Amministrazione commissariale nella adozione degli atti di revoca delle convenzioni di lottizzazione, se non sotto il mero profilo della colpa lievissima - rintracciabile nella erronea motivazione del non giuridicamente rilevante.
2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale
Come noto, l’acquisizione della risarcibilità degli interessi legittimi si deve alla sentenza delle SS.UU. della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500 [1], ma già in precedenza la tutela risarcitoria veniva ammessa nei confronti del potere pubblico: in un primo momento solo in relazione a normative di carattere settoriale [2], successivamente con disposizioni a carattere generale, contenute nel decreto legislativo n. 80 del 1998 e nella legge n. 205 del 2000 [3].
Con l’avvento del codice del processo amministrativo, è stata definitivamente riconosciuta la possibilità di esperire una pluralità di azioni dinanzi al giudice amministrativo (che si emancipa dall’essere “figlio di un dio minore”) potendo affiancare alla classica azione caducatoria di annullamento, anche l’azione risarcitoria da illegittimo esercizio della azione, così accogliendo quanto già affermato della Corte costituzionale: in una logica eminentemente “rimediale”, l’azione di risarcimento del danno viene a costituire “strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”, in quanto tale attribuito al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica”.[4]
La lettura del combinato disposto degli artt. 7 e 30 c.p.a. consente di ritenere attuata quella tutela piena ed effettiva che l’art. 1 del medesimo codice proclama, grazie alla concentrazione presso il giudice amministrativo di “ogni forma di tutela degli interessi legittimi” (art. 7, comma 7), e la devoluzione ad esso delle controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma” (art. 7, comma 4).
Viene quindi riconosciuta la possibilità di domandare “la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria” (art. 30, comma 2, c.p.a.), ammettendo tanto il “risarcimento per lesione di interessi legittimi” o “risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi” (art. 30, commi 3 e 6, c.p.a.), quanto il “risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 30,comma 4, c.p.a.).
Pertanto, dalla formulazione letterale dell’art. 30 c.p.a. emerge in maniera chiara la volontà del legislatore di ammettere l’azione di condanna al risarcimento sia del danno da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa, sia del cd. danno da ritardo, subordinandola tuttavia alla prova degli elementi costitutivi del danno ingiusto.
Benché la norma sia chiara nel configurare l’onere probatorio in capo al soggetto che si dichiara danneggiato, in passato si è ritenuto che la determinazione dell’ampiezza di tale onere dovesse dipendere direttamente dalla esatta qualificazione della responsabilità della p.a. nell’esercizio della funzione, ossia dalla tipologia di responsabilità da assumere come modello paradigmatico.
Per molto tempo, la questione ha visto contrapporsi diversi orientamenti: quello della responsabilità contrattuale, da contatto sociale qualificato, nonché quello della responsabilità extra contrattuale. In base ai prime due, ai fini probatori sarebbe stata sufficiente la dimostrazione dell’inadempimento (contrattuale o alle regole procedurali di correttezza e buona fede) e la prova della esistenza della situazione giuridica soggettiva (credito o interesse legittimo); quanto all’elemento soggettivo, essa avrebbe richiesto la semplice allegazione della illegittimità del provvedimento amministrativo, idoneo ad integrare una presunzione semplice in ordine alla colpa dell’amministrazione ex artt. 2727 e 2729 c.c., o del comportamento procedimentale tenuto dalla P.A., rilevante ai sensi dell’art. 1173 c.c. e degli artt. 1337 e 1338 c.c. [5]
Diversamente, l’orientamento volto ad accedere alla ricostruzione della responsabilità extra contrattuale richiedeva che fossero provati dal danneggiato tutti gli elementi costitutivi dell’art. 2043 c.c., soprattutto il danno e il nesso psicologico quanto meno della colpa. [6]
La tematica è stata recentemente approfondita dalla sentenza del C.G.A., Sez. giur., 15/12/2020, n. 1136, che ha rimesso al vaglio della Adunanza Plenaria proprio la questione della natura giuridica e del regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione. In particolare, il C.G.A., nel qualificare la responsabilità della p.a. come responsabilità contrattuale ha ritenuto che la violazione di una norma procedimentale (regola di condotta) sia di per sé lesiva dell’interesse legittimo e sufficiente a determinare la responsabilità dell’amministrazione (così discostandosi dall’orientamento fornito dalle SS.UU. Cassazione con la sentenza n. 500/1999). Con la conseguenza che, secondo i giudici remittenti, gli effetti dell’inquadramento della responsabilità della p.a. nel paradigma contrattuale debbano apprezzarsi “in relazione al rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita della obbligazione risarcitoria”. [7]
Il contrasto giurisprudenziale può dirsi ormai superato con la sentenza della Adunanza Plenaria 23/4/2021, n. 7, la quale – aderendo all’orientamento maggioritario – ha considerato maturi i tempi per qualificare la responsabilità della p.a. per l’esercizio delle sue funzioni come responsabilità da illecito extracontrattuale secondo il modello dell’art. 2043 c.c.,“sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi”.
Come evidenziato in quella sede, la responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., fondandosi sull’inadempimento della prestazione derivante da contratto, mal si attaglia alla P.A. che nell’esercizio delle sue funzioni persegue l’interesse pubblico individuato dalla norma. Norma che costituisce fonte di attribuzione di quel potere, rispetto al quale il contrapposto interesse legittimo del privato non è idoneo a configurare in capo all’amministrazione un obbligo giuridico rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche di diritto privato, trattandosi piuttosto di “un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza”.
Parimenti, alla luce del rapporto non esattamente paritario tra p.a. e privato, è da escludersi l’ammissibilità dell’indirizzo volto a configurare la responsabilità della amministrazione come da “contatto sociale” qualificato, in quanto il rapporto amministrativo sarebbe in ogni caso da configurarsi in termini di “supremazia”, caratterizzato “da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria”.
Conseguentemente, l’Adunanza Plenaria ha qualificato la responsabilità nascente dall’esercizio illegittimo della funzione come da fatto illecito ex art. 2043 c.c., che si compone di: elemento oggettivo (il fatto illecito e danno ingiusto); elemento soggettivo (il dolo o la colpa); nesso eziologico. Requisiti che, a seguito del superamento della concezione della responsabilità della p.a. come culpa in re ipsa [8], abbisognano di essere adeguatamente provati dal soggetto danneggiato, venendo in rilievo non il mero danno-evento, bensì il danno-conseguenza idoneo ad incidere negativamente sulla sfera giuridica del titolare di un interesse legittimo. Prova che necessita di essere fornita ai fini della stessa determinazione dell’ammontare del risarcimento - nelle due voci di danno di cui si compone l’art. 1223 c.c., ossia il danno emergente ed il lucro cessante – ad opera del giudice, anche attraverso una pronuncia in via equitativa.[9]
Pertanto, elemento centrale nella fattispecie di responsabilità ex art. 2043 c.c. è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio. [10] Applicando tale principio al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, di cui al sopra citato art. 7, comma 4, c.p.a, il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto nelle ipotesi in cui l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita che il privato avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. “Infatti, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione”. [11]
Ciò opera non solo in relazione al danno per illegittimo esercizio della funzione, ma anche in relazione al danno da ritardo, rispetto al quale l’ingiustizia del danno esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza. [12]
Peraltro, qualificare la responsabilità della p.a. come da illecito extra-contrattuale implica anche la possibilità di valutare, nell’esame della domanda di risarcimento dei danni da illegittimo o mancato esercizio della funzione pubblica, la condotta del privato ai sensi dell’art. 2056 c.c., espressione di un onere di cooperazione riconducibile all’art. 1227 c.c. In particolare, secondo lo schema della causalità giuridica ex art. 1227, co. 2 c.c., il risarcimento “non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. [13]
Tale possibilità può essere letta alla luce della evoluzione che nel tempo hanno assunto i rapporti tra amministrazione e privato, “in termini di partecipazione per quest’ultimo e di attenuazione della posizione di supremazia dell’amministrazione nell’esercizio della funzione”. [14]
3. La decisione del C.G.A.
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento aderisce all’orientamento giurisprudenziale che ricostruisce il risarcimento del danno invocato nei confronti della P.A. sulla base del modello della responsabilità aquiliana, la quale richiede - oltre alla prova della colpevolezza del soggetto che si ritiene abbia prodotto il danno ingiusto - anche la prova del danno e della buona fede e dell’uso dell’ordinaria diligenza da parte del soggetto che ritiene di aver subito un torto.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, i Giudici amministrativi hanno escluso che la società ricorrente avesse agito in buona fede e con l’uso dell’ordinaria diligenza in virtù della consapevolezza della aleatorietà della operazione edificatoria derivante dall’acquisto di una res litigiosa dalle incerte proprietà edificatorie. Invero, il C.G.A. ha evidenziato come la società ricorrente fosse subentrata nei diritti e nelle facoltà concernenti il diritto di proprietà sul fondo destinato a realizzare il progetto edificatorio, in virtù di un contratto preliminare di acquisto stipulato in epoca successiva all’atto di revoca del piano di lottizzazione e della relativa convenzione (e probabilmente tali circostanze - per i Giudici - hanno inciso anche sulla definizione del prezzo pattuito per la compravendita). Sicché, essendo la società ben a conoscenza della assenza di un titolo edificatorio valido e della presenza di una controversia pendente concernente proprio le potenzialità edificatorie del fondo, non poteva seriamente ritenersi che l’acquirente vantasse un incolpevole affidamento in ordine alla possibilità di realizzare il progetto, nonché in relazione ai tempi di realizzazione dello stesso.
In particolare, sotto questo ultimo profilo, il Collegio ha ritenuto infondata l’imputazione del ritardo nell’esercizio delle facoltà edificatorie in capo alla P.A., laddove la sequenza procedimentale – post sentenza del C.G.A.R.S. n. 890/2007, che dichiarava illegittimi i provvedimenti di revoca dei piani e relative convenzioni di lottizzazione – evidenziava la tempestività con la quale il Comune di Bagheria: a) adottava e approvava la variante urbanistica richiesta dalla società ricorrente per consentire il ripristino del diritto edificatorio dell’area secondo il progetto di lottizzazione (con definitiva conversione dell’area da zona F2 a zona B4); b) autorizzava la ditta, in virtù della convenzione di lottizzazione stipulata, ad eseguire le opere di urbanizzazione primaria, alle quali faceva seguito, senza alcun ritardo o inerzia, la stipula dell’atto di cessione al Comune di Bagheria, con conseguente rilascio delle concessione.
Conseguentemente i Giudici hanno rilevato che, superate le individuate criticità, il Comune non fosse stato inerte né avesse accumulato ingiustificabili ritardi, con la relativa inconfigurabilità del danno, la cui prova peraltro avrebbe richiesto di essere puntuale e rigorosa. Infatti, come precisato dallo stesso C.G.A.R.S., Sez. Giur., con sentenza 15/10/2020, n. 914, l’esistenza del danno ingiusto lamentato in giudizio “forma oggetto di un puntuale onere probatorio in capo al soggetto che ne richieda il risarcimento, non costituendo quest’ultimo una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo illegittimo. In proposito non soccorre, infatti, il metodo acquisitivo; né l’esistenza del danno stesso potrebbe essere presunta quale conseguenza dell’illegittimità provvedimentale in cui l’Amministrazione è incorsa”.
Nel caso in esame, il suddetto onere probatorio non sarebbe stato soddisfatto. Infatti, il C.G.A. ha evidenziato come le due perizie giurate depositate dalla ricorrente (l’una volta a calcolare il danno asseritamente subito per effetto della illegittima revoca del piano di lottizzazione e l’altra volta a calcolare il mancato guadagno da reinvestimento della somma) fossero in realtà prive di una base documentale idonea a supportare le istanze risarcitorie della ricorrente. La prima, mancando finanche dell’indicazione del prezzo di acquisto del terreno, non avrebbe consentito di stabilire se il danno fosse derivato dal maggior costo sostenuto dalla società per la realizzazione del progetto, oppure fosse conseguenza del calo dei prezzi di vendita dovuto alla crisi del mercato immobiliare. La seconda, in quanto strettamente connessa alla prima – essendo destinata a calcolare l’ulteriore perdita commisurata alla mancata percezione degli interessi sulle somme precedentemente indicate – veniva ritenuta inutilizzabile.
Per tali ragioni, il Collegio giudicante ha escluso anche di poter valutare il lamentato danno in via equitativa, mancando dati certi sui quali fondare la valutazione.
Individuati i motivi di fatto e di diritto alla base della pronuncia di rigetto delle istanze risarcitorie avanzate dalla ricorrente – attinenti alla mancata prova del danno e della buona fede e diligenza del “danneggiato” – il Consiglio di Giustizia si è soffermato sull’ulteriore elemento costitutivo della responsabilità, l’elemento soggettivo della colpa.
In particolare, il C.G.A.R.S. ha ritenuto di doversi pronunciare sulla questione della colpa eventualmente attribuibile al Comune per l’illegittima revoca del piano di lottizzazione, sulla base di una considerazione: consapevole della circostanza che la sentenza del C.G.A. n. 890 del 28/9/2007 avesse affermato in via definitiva la illegittimità del provvedimento di revoca richiamato e del fatto che lo stesso Collegio giudicante, in esito ad altre identiche controversie scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, avesse riconosciuto il risarcimento dei danni in favore delle parti che lamentavano la illegittima revoca del piano di lottizzazione (cfr. C.G.A. 17 luglio 2015, nn. 557, 558, 559, 560, 561) [15], affermava che né la prima sentenza, né le seconde potessero precludere “una differente pronunzia di merito in ordine alla colpevolezza della Amministrazione”.
In altri termini, quelle pronunce, pur affermando (implicitamente o presuntivamente) la colpa della P.A. per avere questa illegittimamente revocato i piani di lottizzazione, non avrebbero precluso al giudice di analizzare la “questione dell’elemento soggettivo” ed emettere un diverso pronunciamento in quanto, da un lato, le sentenze che avevano definito precedenti analoghi riguardavano parti diverse dalla appellante; dall’altro lato, la sentenza n. 890/2007 non aveva specificamente affrontato la questione delle colpa della Amministrazione trattandosi di un giudizio di annullamento “per violazione di legge” afferente l’illegittimità della delibera commissariale di revoca, in quanto tale non implicante alcun esame della colpa della P.A. (in altri termini, in quel giudizio, i giudici si erano limitati ad accertare un uso errato delle norme regionali e nazionali in tema di “misure di salvaguardia”, laddove l’amministrazione avrebbe preteso di applicarle anche prima della formale adozione dello strumento urbanistico).
Si trattava pertanto di una questione non assorbita nel giudicato, non operando in sede di giurisdizione generale di legittimità la regola secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Ma spingendosi anche oltre, i Giudici hanno affermato che dalla richiamata sentenza n. 890/2017 non sarebbe neanche stato possibile desumere elementi relativi alla legittimità/illegittimità dei piani di lottizzazione oggetto di contestazione, nella misura in cui affermare la illegittimità di un provvedimento di revoca di un atto amministrativo non implicherebbe affatto affermare automaticamente (o implicitamente) la legittimità dell’atto revocato (ossia della delibera di approvazione del piano di lottizzazione), né tantomeno equivarrebbe ad affermare la colpevolezza del Commissario straordinario che abbia proceduto a revocare la suddetta delibera.
Fatte tali precisazioni, il C.G.A. – nel ripercorrere i fatti di causa – ha ritenuto di non poter configurare elementi di colpevolezza in capo al Commissario, il quale – durante le attività di verifica dell’azione amministrativa compiuta dal Comune ante scioglimento – aveva appreso che l’ordine di discussione dell’adozione del nuovo PRG e dell’approvazione dei piani di lottizzazione era stato appositamente invertito al fine di far precedere l’approvazione di questi ultimi. Pertanto, essendo la condotta del Commissario straordinario volta esclusivamente a ripristinare una situazione di legalità violata, i Giudici hanno ritenuto di poter parlare di una colpa per così dire lievissima, in quanto tale giuridicamente irrilevante, consistente nell’avere l’amministrazione erroneamente motivato il provvedimento di revoca: invero, non avrebbe dovuto “giustificare” quel provvedimento sulla base della applicazione delle misure di salvaguardia, quanto piuttosto sulla base del vizio di eccesso di potere, evidente nell’uso deviato del potere pubblico finalizzato alla tutela di interessi persino illeciti.
Pertanto, secondo i Giudici, pur essendo legittima la decisione giurisdizionale del C.G.A. di annullare il provvedimento di revoca perché viziato, il difetto di motivazione non sarebbe stato tale da incidere sulla “correttezza” dell’operato della Commissione straordinaria, mossa dalla necessità di ripristinare una situazione di legalità violata. Ripristino di una situazione di legalità idonea, quindi, a depotenziare il vizio di motivazione e, conseguentemente, a svilire il diritto della ricorrente al risarcimento del danno.
4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo
Alla luce delle conclusioni appena richiamate, appare utile soffermarsi brevemente sul ruolo assunto dalla motivazione del provvedimento, dato che è dato talvolta assistere ad un processo di svuotamento dell’obbligo generalizzato di motivazione, facendosi strada l’idea che “ciò che conta è la decisione, mentre tutto il resto è sacrificabile sull’altare delle istanze efficientiste”. Si parla in tal caso di un processo di “depotenziamento” della motivazione, che si contrappone alla teoria della “dequotazione” dei vizi formali del provvedimento. [16]
Invero, la teoria della dequotazione della motivazione del provvedimento nasceva in epoca storica anteriore alla l. n. 241/1990, quando, in totale assenza di direttive legislative, dottrina e giurisprudenza, mosse da ragioni garantiste, ponevano la propria attenzione sul provvedimento finale piuttosto che sull’intero iter procedimentale nel corso del quale era stata esercitata la funzione pubblica. Il depotenziamento della motivazione, invece, esprime un fenomeno di svuotamento del dettato normativo dell’art. 3 della l. n. 241/1990, con importanti ripercussioni sul piano delle garanzie e con il rischio di un ritorno ad un passato di scarsa trasparenza decisionale. [17]
Come noto, l’art. 3, l. n. 241/90, oltre a stabilire l’obbligo generalizzato di motivazione dei provvedimenti amministrativi, ne precisa anche il contenuto prevedendo che la motivazione debba contenere i “presupposti di fatto” e le “ragioni giuridiche” [18] fondanti la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria procedimentale (comma 2). La norma, pertanto, richiede che vengano indicate le “ragioni sostanziali” che, nella prospettiva del rapporto tra fatto e diritto, sorreggono la scelta dell'amministrazione. Con la conseguenza che, in caso di omissione di tale elemento, è ipotizzabile una violazione dell'art. 3, l. n. 241/1990 per vizio di eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione o dei presupposti.
Ne consegue che la motivazione non costituisce un adempimento di validità solo formale, dato che attraverso di essa emergono “le diverse facce della giustiziabilità, della trasparenza, della democraticità, della efficienza, della economicità etc. nell'esercizio del potere”. [19] Infatti la motivazione del provvedimento assolve molteplici funzioni: quella di rendere più “trasparente” l'attività amministrativa; quella di facilitare l'interpretazione del provvedimento ed il controllo del medesimo sia in sede amministrativa che giurisdizionale; quella di rendere più efficace la tutela del privato avente titolo ad ottenere un corretto esercizio del potere amministrativo.
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/1990 [20], l’elaborazione dottrinale nel corso del tempo aveva cercato di sopperire alla lacuna normativa principiando da una concezione formale fino ad approdare ad una sostanziale, con conseguenze del tutto diverse in ordine al requisito di sufficienza della medesima. Mentre per la prima teoria poteva ritenersi sufficiente la motivazione espressa attraverso un’articolata enunciazione idonea ad illustrare compiutamente l'intero iter logico seguito dall'amministrazione, con conseguente inammissibilità di un’integrazione postuma, per la seconda, la sufficienza della motivazione era data dalla presenza di tutto il materiale giustificativo sul quale poggiava la soluzione accolta, con la possibilità anche di integrazione postuma. [21]
Tuttavia, già nella fase originaria di maggiore formalismo [22], dottrina e giurisprudenza avevano ritenuto che la motivazione costituisse un limite alla conoscenza dell'atto da parte del giudice, sostenendosi che “ciò che non fosse in motivazione non fosse nel provvedimento”. Ne derivava che, annullato l'atto per motivazione insufficiente o viziata in una sua parte, l'amministrazione potesse riadottare l'atto con motivazione formalmente sufficiente o corretta, con ciò determinando spesso un sostanziale diniego di giustizia. [23]
Sulla base di queste criticità, prese piede una corrente tesa a ricondurre la tematica della motivazione a caratteri più propriamente sostanziali. Conseguentemente non si richiedeva più che la enunciazione dei motivi corrispondesse alle intenzioni dell'agente, quanto piuttosto che sussistessero effettivamente ragioni sufficienti a legittimare il provvedimento, pervenendosi così ad una dequotazione della motivazione formale. Tuttavia, anche la teoria favorevole alla dequotazione della motivazione formale o enunciativa non mancava di evidenziare le conseguenze negative di tale tendenza nei confronti del privato che, posto in condizione di inferiorità nel rapporto con l'amministrazione, si sarebbe trovato nella difficoltà di accedere ai reali motivi fondanti la decisione. [24]
Del resto, recentemente è stata segnalata un'opera sistematica di “ridimensionamento della motivazione” da parte del giudice amministrativo [25] e tale tendenza sarebbe riscontrabile anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale che se, da un lato, ha affermato che la motivazione del provvedimento amministrativo costituisce “il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (…) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile” [26], dall’altro, ha ritenuto necessario coordinare l'art. 3 l. n. 241/1990 con i criteri d'economicità e d'efficacia, sembrando in tal modo ridurre il contenuto dispositivo della norma citata, nella misura in cui ne ammette il bilanciamento. [27]
5. Considerazioni conclusive
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento si caratterizza per l’originalità delle conclusioni cui giunge in ordine alla configurabilità della colpa della P.A. in presenza di un provvedimento giuridicamente illegittimo, ma necessario per ripristinare lo stato di legalità violata.
Nel qualificare la responsabilità amministrativa come da fatto illecito, i Giudici si soffermano, in particolare, sull’analisi degli elementi costitutivi la responsabilità extracontrattuale.
Quanto all’elemento del danno, essi evidenziano la sostanziale mancanza di prova fornita a supporto dal danneggiato, stante la inidoneità della documentazione tecnica a provare sia il danno emergente che il lucro cessante, nonché a consentire al giudice di giungere ad una valutazione equitativa. Ed inoltre essi sottolineano la presenza di rilevanti profili di assenza di diligenza nella condotta del danneggiato, resosi consapevolmente protagonista di una vicenda dalle palesi criticità.
Quanto all’elemento della colpevolezza, il ragionamento del Collegio è piuttosto peculiare, nella misura in cui vengono fatti salvi gli effetti del provvedimento e viene ritenuto giuridicamente irrilevante l’accertato “errore” del Commissario straordinario nel motivare l’atto di revoca, considerando i due aspetti del tutto autonomi ed indipendenti tra loro. In altri termini, il C.G.A. sminuisce il vizio dell’erronea motivazione ai fini della configurabilità della responsabilità in capo alla amministrazione, così depotenziando la rilevanza della motivazione.
In particolare, i Giudici individuano la ragione – in punto di diritto – che ha portato la commissione straordinaria ad annullare i piani di lottizzazione già approvati (da parte di un organo che sarebbe stato a breve ritenuto permeato da infiltrazioni mafiose) non nella dichiarata inapplicabilità delle misure di salvaguardia (applicabili solo a seguito dell’adozione di un p.r.g. che al momento dell’approvazione delle lottizzazioni il p.r.g. non era ancora stato adottato), ma nel rilievo della contraddittorietà complessiva del comportamento del consiglio comunale che, poche settimane prima di adottare il nuovo p.r.g., (di cui allora esisteva già uno schema ben definito), aveva approvato una serie di strumenti urbanistici attuativi del precedente p.r.g., che di fatto vanificavano le nuove adottande prescrizioni urbanistiche, dato che la zona di territorio interessata sarebbe diventata inedificabile. Comportamento che, pur astrattamente idoneo ad essere valutato in termini di eccesso di potere, non ha impedito ai Giudici di rinvenire nelle determinazioni adottate un fondamento, “quanto meno logico”, rispetto al contesto ordinamentale nel quale si inserivano, tale da escludere che le stesse siano state adottate con imperizia o superficialità, e quindi che, in ultima analisi, il comportamento di chi le ha adottate integri gli estremi della colpa.
Una colpa giuridicamente rilevante, pertanto, viene esclusa in quanto - pur ritenendo legittimo l’annullamento dell’atto di revoca per i motivi evidenziati - si considera “giustificabile” l’operato della Commissione Straordinaria in quanto volta a ripristinare lo stato di legalità violata.
In tal modo, il difetto di una congrua motivazione perde quota e la razionalità del diritto cede il passo a superiori esigenze di legalità, sembrando accedere quasi ad una “motivazione” basata sui soli presupposti di fatto, ossia sulla realtà fattuale caratterizzata dalla sovversione delle regole giuridiche.
É come se le ragioni pratiche di un particolare modo di intendere il principio di buon andamento e il principio di efficienza (anche della giustizia) avessero la meglio sulle molteplici istanze alla base dell'obbligo di motivazione, prima tra tutte la funzione di garanzia e di trasparenza. [28]
La sentenza in commento impone pertanto, una riflessione, venendosi a delineare la figura di un giudice che si sostituisce alla pubblica amministrazione, che fornisce egli stesso la motivazione del provvedimento, in tal modo sovvertendo il principio di legalità in vista di ragioni di “giustizia sociale”.
Il depotenziamento della motivazione finisce così con il tradursi in un ampliamento dei poteri del giudice di sindacare l'azione amministrativa; un giudice che afferma sempre più la propria intenzione di non dare spazio a censure “che appaiano ininfluenti sia rispetto al risultato sostanziale che si intende raggiungere, sia rispetto alla messa in discussione del risultato che si vuole eliminare”. [28]
Note
[1] La letteratura a commento della sentenza n. 500/1999 è vastissima. Tra i tanti si ricordano gli scritti di: F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. Pubbl., 2000, fasc. 1; F. G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss. secondo il quale la sentenza n. 500 del 1999 finisce in realtà per negare ciò che afferma, ovvero la risarcibilità dell’interesse legittimo, in quanto ammettere il risarcimento del danno solo quando la violazione della regola di condotta comporta il pregiudizio al c.d. bene della vita, significa considerare risarcibile non l’interesse legittimo in sé, bensì il diritto estinto dal provvedimento negativo, ed eventualmente riemerso dopo l’annullamento o la aspettativa del cittadino preesistente al provvedimento di diniego; F. G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 301; G. Soricelli, Appunti su una svolta epocale in merito ad un’interpretazione costituzionalmente orientata sulla pari dignità tra diritto soggettivo ed interesse legittimo: una decisione a futura memoria, in Il Foro Amm., 2000, fasc. 2, I; E. Vincenti, La sentenza n.500/99 fra vecchie e nuove categorie nella materia risarcitoria, pubblicato il 23 dicembre del 2019, rispetto alla relazione svolta al Convegno organizzato dall’Ufficio studi e massimario della Giustizia amministrativa “A 20 anni dalla sentenza n. 500/1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”, tenutosi a Roma, 16 dicembre 2019. Da ultimo, sul punto cfr. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa rivista.
[2] In particolare, nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142) e in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato).
[3] Cfr. Corte costituzionale, ordinanza n.165 del 1998, e più in generale, l’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, con il quale è stata introdotta la regola per cui, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici -in cui ha giurisdizione esclusiva- il giudice amministrativo “dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. L’articolo 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 ha poi previsto la risarcibilità del danno in ogni caso di lesione arrecata all’interesse legittimo.
[4] Corte costituzionale, 26 luglio 2004, n. 204; Corte costituzionale, 11 maggio 2006, n. 191.
[5] Cfr. Corte di Cassazione, 12 luglio 2016, n. 14188, secondo la quale la responsabilità precontrattuale della P.A, non avrebbe natura extracontrattuale ma dovrebbe correttamente inquadrarsi nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell'art. 1173 c.c.; Cons. St., Sez. VI, 633/2013, secondo il quale la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
[6] Già Cassazione, SS.UU. 22 luglio 1999, n. 500.
[7] Sul punto, cfr. M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), in questa rivista.
[8] Già Cass., Sez. Un., 22 maggio 1984, n. 5361: “la colpa della P.A. sussiste in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dell’atto amministrativo, essendo già di per sé ravvisabile con l’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che invalida il provvedimento”.
[9] Il danno emergente consiste in un decremento patrimoniale avvenuto; il lucro cessante invece esprime un possibile (rectius: probabile) incremento patrimoniale, assumendo pertanto natura ipotetica richiedente un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità): occorre stabilire se, in assenza del fatto ingiusto altrui, il guadagno futuro e solo ipoteticamente prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità.
[10] Diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui, la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
[11] Cfr. Ad Plenaria n. 7/2021.
[12] Secondo la recente giurisprudenza in tema di danno da ritardo, il bene “tempo” è risarcibile solo se e nella misura in cui tale lesione abbia determinato un “danno ingiusto”. Cfr. Cons. Stato, II, 21 dicembre 2020, n. 8199, 25 maggio 2020, n. 3318; III, 2novembre 2020, n. 6755; IV, 8 marzo 2021, nn. 1921 e 1923, 1 dicembre2020, n. 7622, 20 ottobre 2020, n. 6351, 22 luglio 2020, n. 4669; V, 2 aprile2020, n. 2210; VI, 15 febbraio 2021, n. 1354, 26 marzo 2020, n. 2121.
[13] L’art. 1227, comma 2, cod. civ. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l’art. 1223 c.c. che costituisce uno dei criteri in base al quale “selezionare” le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta (l’Ad. Pl. n. 7/2021 evidenzia la differenza con la responsabilità contrattuale, nella quale il requisito dell’ingiustizia risulta conseguenza in re ipsa dell’inadempimento, mentre costituisce co-elemento di struttura dell’illecito nella responsabilità aquiliana).
[14] In termini Ad. Pl. n. 7/2021. Peraltro in linea con le recenti acquisizioni legislative e giurisprudenziali in tema di accesso generalizzato ai documenti e alle informazioni detenute dalla p.a. Il riferimento, in particolare, è alla Ad. Pl. n. 10/2020 che, proprio in virtù dell’evoluzione del pensiero sui rapporti tra p.a. e privato e sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 5-bis, d. lgs. 50/2016, ammette l’operatività dell’accesso civico generalizzato anche nella materia degli appalti.
[15] Anche se nelle altre controversie costituenti precedenti analoghi in quanto scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, le decisioni del Consiglio di Giustizia Amministrativa si fondavano sulla base della consulenza tecnica di ufficio che convertiva il risarcimento del danno in danno da ritardo.
[16] Sull'importanza della motivazione del provvedimento amministrativo e per una lettura critica delle recenti tendenze nel senso della dequotazione dell'istituto, cfr M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, 2017, 894 ss.
[17] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, cit. secondo il quale l’obbligo di motivazione “Importerebbe difficoltà, impacci, lentezze insormontabili, le quali sarebbero ben più disastrose per il pubblico, per l'inconveniente di qualche provvedimento non motivato”.
[18] G. Corso, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., Agg., Milano, Giuffrè, 2001, 774 ss. ritiene le ragioni giuridiche sono quelle che “il diritto richiede di, o autorizza a, porre a fondamento della decisione amministrativa”; G. Bergonzini, Difetto di motivazione del provvedimento amministrativo ed eccesso di potere (a dieci anni dalla legge n. 241 del 1990), in Dir. amm., 2000, 187; T. Tessaro, Profili evolutivi (o involutivi?) nella tematica della motivazione degli atti amministrativi, in Riv. amm., 1996, 357, ritiene che esse consistano nella “sintetica enunciazione delle norme che contemplano il potere stesso”; A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime osservazioni, in Scritti in onore di Pietro Virga, II, Milano, 1994, 1600, afferma, invece, che le ragioni giuridiche consistono “nell’indicazione delle norme che la p.a. procedente ritiene applicabili al caso e comprendono anche l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale delle norme applicate di specie, e quindi nella qualificazione giuridica che, per il loro tramite, si dà al fatto, c.d. ragioni giuridiche in senso stretto”.
[19] A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in Dir. proc. amm., 1/1993, 19.
[20] Il principio dell'obbligo di motivazione non è mai stato costituzionalizzato con riguardo ai provvedimenti amministrativi (a differenza di quanto sancito dall’ all’art. 111, co. 1 della Costituzione per le sentenze), né - prima della legge n. 241/1990 - è mai esistita nel nostro ordinamento, una prescrizione legislativa di carattere generale che imponesse per questi tale obbligo.
[21] Cfr. M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 267; L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, inDir. amm., fasc.3, 1995, 441, la quale evidenzia che: “Mentre dunque la tendenza formalistica aveva identificato la motivazione in un discorso, ossia in un complesso organico di segni linguistici dotato di un significato proprio, le dottrine di ispirazione sostanzialista dimostravano l'intento di svalutare l'elemento discorsivo per porre l'accento sul valore di un materiale motivante di carattere eterogeneo, potendo essere costituito da discorsi, fatti, norme e quant'altro potesse dar ragione della decisione assunta, in sede di sindacato giurisdizionale”.
[22] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur. it., 1908, III, 253 ss. dove i motivi dell'atto vengono considerati risultato dell'intuito dei buoni funzionari. La concezione formale concepiva la motivazione come tratto discorsivo volto ad enunciare i motivi che determinano l'agente, intesi come le immediate fonti psicologico-subiettive della volontà provvedimentale. In base a tale concezione dell'attività amministrativa, si distingueva – nell’ambito dei fattori determinanti la volontà dell'autorità agente – tra i presupposti e i motivi: gli uni, elementi immanenti alla natura dell'atto e da esso inseparabili «tanto che il tipo giuridico a cui l'atto corrisponde non si potrebbe concepire senza la presupposizione loro»; i secondi, moventi soggettivi del provvedimento.
[23] L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, cit.
[24] M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 265.
[25] M. Del Donno, Riflessioni sulla «motivazione in diritto» del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., fasc.3, 2013, 629.
[26] Corte cost., 26 maggio 2015, n. 92. L'espressione era già stata impiegata da Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2004, n. 2247.
[27] Corte cost., 8 giugno 2011, n. 175. Cfr. M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[28] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[29] L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, 299 ss.