ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’Istituto penitenziario minorile di Nisida
Intervista di Valentina Busiello al Direttore Gianluca Guida
Nisida è una piccola Isola di origine vulcanica, appartenente all'Arcipelago delle Isole Flegree. Ospita l'Istituto Penitenziario Minorile che è uno dei migliori Istituti al mondo nel recupero e nella sicurezza dei minori. Una vista spettacolare a picco sul mare, dove si respira un’aria pura e di rinnovo sociale. A primo impatto salendo i due chilometri di altura si affaccia un panorama mozzafiato, dove si ha l’impressione di trovarsi “in un castello o una fortezza” immerso nella natura, una sensazione di luoghi che parlano.
Abbiamo incontrato il Direttore Gianluca Guida dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida.
Direttore Guida, l’Istituto penitenziario si affaccia in un posto strategico dal panorama mozzafiato, dove basta aprire una finestra per poterlo ammirare. Siamo sull’Isola, Nisida nel cuore di chi la vive, soprattutto di chi ogni giorno vi si reca per il lavoro. Ce lo conferma?
Una suggestione gratificante. Per noi è importante chi incontra questa realtà possa capire il lavoro che svolgono i tanti operatori, in particolare operatori di Polizia Penitenziaria. Sottolineo questo ruolo poiché molto spesso viene stigmatizzato in termini negativi, mentre invece la funzione della Polizia Penitenziaria è di fondamentale importanza; chi come loro lavora con i minori, da generazioni sviluppa una grande professionalità, ed un’altissima capacità di entrare in relazione con l’utente, accompagnando la custodia con capacità di accudimento e stimolo.
È bene raccontare soprattutto questo, così come si possono raccontare gli errori o le situazioni meno gratificanti che accadono purtroppo nel nostro ambito di lavoro. Spesso la Polizia Penitenziaria sono dei giovani, e quindi anche loro si confrontano con altri giovani, che hanno avuto storie diverse ovviamente e con esperienze diverse. La bellezza del posto poi è uno strumento attraverso il quale aiutare i ragazzi a riconoscere il valore del bello. Non del bello effimero, ma il bello del profondo, che permette alla persona di star bene con se stesso e con gli altri; un’armonia che si raggiunge anche attraverso la valorizzazione del contesto ambientale.
Nisida è bella perché è stata protetta dalla presenza di un Istituto Penitenziario, altrimenti probabilmente sarebbe stata deturpata e devastata come tante altre aree. Sapere che il bello va protetto e curato sempre. Sono più di 10 anni che portiamo avanti un progetto con i nostri giovani ospiti, che ha permesso di riprendere la cura dell’Isola, da un punto di vista naturalistico abbiamo recuperato percorsi, la memoria dell’Isola, la tradizione storica e la tradizione letteraria.
Direttore, a parte l’istituzione che rappresenta, lei è soprattutto una personalità molta vicina ai giovani. Ci illustra un po’ la funzione dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida, soprattutto parlandoci dei bellissimi ed importanti progetti che vengono realizzati insieme ai vostri giovani ospiti?
Partiamo dalla considerazione della particolare posizione di Nisida. L’istituto Penitenziario Minorile di Nisida è sicuramente un Istituto di Pena speciale rispetto a tanti altri, poiché occupa una posizione abbastanza privilegiata, che non è stata nel passato. Nel senso che, per i molti anni l’area antistante. Nisida era una zona ad alta industrializzazione, non ambita e particolarmente inquinata. Per cui la presenza a Nisida di un Istituto di Pena non creava fastidio.
Ad oggi è un’area ad alta prospettiva di sviluppo economico, turistico, e sociale, si sono naturalmente accavallate molte attenzioni sicuramente legittime. Queste attenzioni ci hanno spinto a lanciare una sorta di sfida nel poter dimostrare che un luogo sano, bello, è un’occasione, un’opportunità per favorire il recupero di persone che sicuramente hanno fatto degli errori nei confronti della società, ma che è nostro interesse recuperare al bene comune e collettivo.
Cerchiamo di rimandare un messaggio di utilità generale, una persona detenuta che si abbruttisce o che si incancrenisce nella sua devianza è un cattivo servizio per la collettività, mentre invece una persona che recupera la positività delle dinamiche sociali, la relazione con il bene, e secondo la logica della cultura greca “con il bene e con il bello” inteso naturalmente come bello interiore, il bello che gratifica, è sicuramente una restituzione positiva per la collettività.
Nisida in questa prospettiva da anni cerca di lavorare utilizzando una strategia di intervento che parte dalla considerazione dei bisogni di cui i ragazzi devianti sono portatori, e che sono naturalmente bisogni che cambiano di generazione in generazione tenendo conto che le generazioni ora si susseguono con notevole frequenza.
Notiamo che ogni 3-4 anni la tipologia di utenza presenta caratteristiche diverse, più nuove rispetto al passato. Caratteristiche che naturalmente richiedono delle risposte adeguate, poiché non tutte le forme di devianza si affrontano nello stesso modo. Un esempio, un ragazzo che devia perché ha problemi di dipendenza, naturalmente prima ancora che qualunque intervento contenitivo ha bisogno di risolvere le condizioni del disagio che hanno determinato la dipendenza, così come un ragazzo che cresce in un habitat e in un contesto intriso della cultura dell’appartenenza criminale, prima di qualunque altro intervento ha bisogno di decontestualizzarsi culturalmente, mentalmente, dal modello di riferimento. E questo richiede un altro tipo di intervento e un altro tipo di azione. È sicuramente complesso, richiede tempo, fatiche, competenze, però è un’attività gratificante poiché permette in qualche maniera di dare risposte alle attese della collettività.
Naturalmente noi non usiamo “bacchetta magica” non è che risolviamo qualunque problema, ma proviamo a dare delle risposte che col tempo si rivelano degli strumenti utili per la persona che ha commesso degli errori e per la comunità familiare, ma soprattutto per la comunità sociale che dovrà ritornare ad interagire con il ragazzo stesso. Una competenza importante e fondamentale è la pazienza.
Direttore Guida, questi giovani ospiti quando avranno terminato il loro percorso nell’Istituto Penitenziario Minorile, ritorneranno ovviamente nel loro nucleo familiare?
Naturalmente dobbiamo immaginare che i ragazzi dopo aver terminato il percorso nell’Istituto Penitenziario Minorile rientreranno nelle loro famiglie perché tendenzialmente i ragazzi hanno una estrema povertà relazionale, e l’unica reale ricchezza è rappresentata da quelle poche relazioni affettive che li hanno nutriti, per quanto quelle relazioni potessero essere disfunzionali o in alcuni casi addirittura malate. Però sono le uniche che loro hanno avuto nella loro vita, e sradicare il ragazzo da questo tipo di relazioni sarebbe insano, poiché lascerebbe una ferita ed un vuoto. Aiutare il ragazzo ad affrontare con maturità e con senso critico la qualità di queste relazioni è il nostro obiettivo. Quindi non tanto una decontestualizzazione territoriale la dove il ragazzo non è pronto, ma stimolare la crescita di una capacità di leggere in senso critico riuscendo a mettere in rapporto quella tipologia di relazioni, insieme con altre relazioni dove aiutiamo a costruire attraverso il percorso della detenzione.
Ci illustra i bellissimi progetti realizzati dai giovani ospiti, ma soprattutto i progetti sul recupero a cui dedicate cura ed attenzione?
Tradizionalmente lavoriamo su tre linee di azione. La prima è quella dell’alfabetizzazione culturale, naturalmente nella stragrande maggior parte dei casi, i ragazzi che arrivano a Nisida e che entrano nella devianza sono ragazzi che hanno una notevole povertà culturale e che con fatica hanno preso la licenza media, portandosi dietro dei gravi gap culturali, alle volte anche sin dalle scuole primarie. Questo, da un lato è indicativo di un forte disagio che parte dall’età in cui erano bambini, prima ancora che adolescenti, ma è anche indicativo della difficoltà di questi ragazzi di riuscire a relazionarsi alla pari in una società in cui il livello culturale mediamente è comunque alto. Per cui rimarranno sempre marginali se non riescono a recuperare delle competenze di relazione culturale. Quindi l’alfabetizzazione culturale per noi è una priorità. La seconda linea di azione, è l’acquisizione di competenze nel saper fare.
Molte volte i ragazzi che deviano è come se non avessero mai sperimentato delle capacità, e questo naturalmente fa si che loro guardino alla devianza come l’unico strumento per potersi affermare nel contesto sociale.
Mentre invece non è cosi, molti dei ragazzi hanno veri e propri talenti, qualità che non sono state valorizzate, e non sono mai state nemmeno conosciute. Per cui il nostro compito è quello di dare ed offrire questa occasione, scoprendo soprattutto il valore della competenza professionale, cioè di imparare che un qualunque lavoro c’è una grande richiesta di impegno, costanza, capacità di collaborare in gruppo, fare squadra.
Tutte cose che generalmente non hanno avuto occasione di sperimentare, e che all’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida molte volte sperimentano per la prima volta. La terza linea di azione, che a noi preme di più, è quella più delicata che lavora sul se dei ragazzi, va da un accompagnamento sui bisogni personali, magari in natura educativa piuttosto che non psicologica, sino a lavori di gruppo che vanno a toccare temi della loro esperienza un po’ delicati.
Tra questi ad esempio alcuni gruppi lavorano sul fenomeno delle dipendenze che possono essere dipendenze da sostanze stupefacenti, alcol, o ludopatie, che sono fenomeni sempre più frequenti. Altri gruppi lavorano sulle esperienze che hanno a che fare con il tema delle azioni violente. Per cui i reati che più spesso vengono commessi oggi dagli adolescenti che delinquono sono caratterizzati da questa violenza che molte volte non ha una ragione, e che ha bisogno di essere indagata, poiché se loro non riescono a capire perché c’è questa rabbia che diventa violenza, questa frustrazione che diventa agito, difficilmente riusciranno a superare la condizione di devianza e di criminalità.
Per noi questo percorso è estremamente importante. Un ulteriore attività di gruppo che portiamo avanti è quella che rappresenta un po’ il futuro della Giustizia poiché è un’azione di empatizzazione con il mondo delle vittime, propedeutica ad una possibile mediazione. Naturalmente non abbiamo gli strumenti e non siamo il contesto giusto per avviare un discorso tecnico di mediazione penale, però il nostro compito anche su input del nostro Dipartimento va nel senso di educare i ragazzi alla logica dell’incontro con l’altro, in maniera particolare dell’empatia con chi è stato vittima del reato. In modo tale che si possono creare delle precondizioni per ridefinire un collegamento, un ponte, almeno emozionale tra autore e vittima, con la speranza che poi un domani possa anche diventare un’occasione di ricomposizione. Ma naturalmente sono passi che richiederanno gradualità.
Tra le altre attività abbiamo elaborato un progetto chiamato “Percorsi Letterari di Nisida”, a scuola i ragazzi hanno fatto un lavoro di ricerca che gli ha permesso insieme ad insegnanti ingamba, di trovare decine di opere letterarie ispirate a Nisida. Il lavoro ha permesso ai ragazzi di capire il contesto nel quale si trovano, che non è solo un contesto di sofferenza, ma un ambiente di stimolo, poiché lo era per poeti, scrittori, e lo diventa anche per loro.
Tanti ragazzi ,ad esempio, si sono lasciati coinvolgere dalla poesia. Abbiamo nell’ambito del percorso letterario voluto dedicare uno spazio al cosiddetto “Giardino dei Poeti” in cui abbiamo messo insieme poesie scritte da poeti di grande rilievo, a poesie elaborate da ragazzi che sono stati nostri ospiti, perché chiunque in un particolare contesto può lasciarsi suggestionare dalle emozioni che sono indicatori di vita.
Questo lavoro realizzato dai ragazzi, di recupero dell’ambiente, recupero della memoria, recupero delle emozioni, lo mettiamo a disposizione della città attraverso dei percorsi guidati, delle visite aperte al pubblico in occasione delle Giornate Fai, giornate promosse da Associazioni. Naturalmente, con le cautele del caso poiché Nisida è un microcosmo, queste occasioni possono permettere ai napoletani e ai non napoletani di conoscere la bellezza dell’Isola a 360 gradi, la bellezza culturale, quella ambientale e sociale del lavoro realizzato dai nostri giovani ospiti.
Sono stati scritti molti libri con i ragazzi, poiché c’è una linea di azione portata avanti in maniera particolare da alcuni docenti, e cito in particolare la Professoressa Maria Franco che ha lavorato per anni su questo progetto, che ha permesso di portare a Nisida scrittori contemporanei, che gratuitamente hanno scritto con i ragazzi, ogni anno scegliendo un tema diverso. Una sorta di testimonianza e una restituzione del loro vissuto, non in maniera cronachistica per sapere cosa hanno fatto, ma per sapere chi sono questi ragazzi che arrivano a Nisida. Alcuni libri sono stati pubblicati da Guida Editore che è stato molto vicino a noi. Da 10 anni a questa parte e quasi ogni anno esce una pubblicazione nostra.
PSICHE, COLPA E GIUSTIZIA IN SCENA: recensione al film “TRE PIANI” di Nanni Moretti
di Lara Vernaglia Lombardi
Trarre un film da un libro è impresa ardua quanto alla resa visiva di immagini che la lettura rende sicuramente più intellegibili in tutte le sfaccettature e le interpretazioni rese possibili dalla capacità del lettore e dello scrittore.
Quando il libro (“Tre piani” edito in Italia da Neri Pozzi) è scritto da Eshkol Nevo, laureato in psicologia e nato a Gerusalemme, la difficoltà è accresciuta dalla impossibilità di riprodurre, in ambientazione italiana, la storia di Israele facendola coincidere con tante piccole storie familiari e interne come fa lo scrittore senza mai cadere in un’evocazione politica.
Ciò è paradossale se riferito a un regista, quale Nanni Moretti, che ha fatto dell’ideologia politica, con sapiente ironia, l’icona del suo stile e la traccia distintiva della sua filmografia; ironia che, tuttavia, si arresta in occasione del primo Moretti che si cimenta in un soggetto non originale che diventa privo di sarcasmo, denudandosi sino alla narrazione visiva asciutta e distaccata.
La storia è quella di tre famiglie, accomunate da una infelicità latente e pronta a divampare, che abitano tre piani di un condominio borghese romano.
Il primo piano è abitato da un padre, Lucio, una madre, Sara, e una bambina che sovente viene affidata ad una coppia di anziani vicini di casa, al secondo piano vive Monica che si trova a gestire una gravidanza, il parto e la crescita di sua figlia da sola tra videochiamate al marito che lavora in altri luoghi e visite alla propria madre ricoverata per problemi mentali.
Al terzo piano dimora una coppia di magistrati, Dora e Vittorio, e il loro figlio.
La prima scena, muovendo dall’immobilismo e dall’ordine della palazzina, è rappresentata da una deflagrazione, che forse ci preannuncia quella interiore che sconvolgerà i protagonisti del film, causata dall’impatto dell’automobile di Andrea, il giovane figlio dei magistrati, contro la parete dello studio dove svolge la sua attività Lucio, condomino interpretato da Riccardo Scamarcio.
Questo evento dirompente e traumatico, la rottura della parete che “copre” un interno, investe i personaggi e lo stesso fabbricato che li contiene lasciando che i tre piani si disvelino come i tre piani freudiani della personalità.
Così Riccardo Scamarcio, Lucio nella finzione, rappresenta l’ES, il piano istintivo, animalesco e rabbioso, ossessionato da una realtà che il proprio senso di colpa gli crea presentandosi come esclusiva.
L’occasione per dare sfogo a questo aspetto della personalità si invera quando la figlia, affidata per l’ennesima volta agli anziani vicini di casa, Giovanna e Renato, si perderà dopo essere andata a fare una passeggiata con l’anziano e sarà ritrovata dal padre in un parco insieme al vecchio, disarmato, decaduto e debole di fronte al quale Scamarcio creerà un suo mostro personale accusandolo di aver molestato la bambina e scagliandosi a più riprese contro di lui.
L’ossessione e la ricerca di una verità che non esiste se non nella sua mente lo indurranno a commettere nei confronti della giovane nipote dell’anziano lo stesso reato di cui lo accusa e da cui una giustizia (più aderente alla realtà di quanto non sia quella esercitata in privato) lo assolverà per essere risultata la ragazza consenziente al rapporto sessuale.
Monica, invece, rappresenta l’IO, il ponte tra le due altre istanze freudiane, sospesa tra realtà e apparenza, tra la minaccia della malattia mentale e il dovere materno che svolge con esattezza pur tra mille difficoltà.
Confiderà al medico della madre di avere delle visioni, ma verrà rassicurata sulla impossibilità di trasmissione ereditaria della malattia da una scienza che si rivelerà forse fallace, di fronte alla imprescrutabilità della mente umana e al cospetto del corvo nero che spalanca il becco a minaccia del ruolo di madre e dello svolgimento instintivo (ES) e doveroso (SUPER IO) del compito di crescita di un figlio.
Monica, e noi spettatori insieme a lei, verrà avvolta da una dimensione onirica in cui dare sfogo a impulsi trattenuti e repressi anche a causa di una assenza prolungata del marito e sarà alla fine rapita e strappata via dalla malattia o forse dal suo bisogno di vivere appieno solo attraverso la malattia-follia intesa come liberazione e libertà di pirandelliana e shakespeariana memoria.
Infine, Dora e Vittorio, il SUPER IO, il controllo, il divieto, l’inflessibilità, il revisore interno accentuato a tal punto da farne un mestiere che, fin quando viene esercitato nelle aule di giustizia, dove pure è richiesta una buona dose di equilibrio, è gestibile attraverso l’applicazione delle norme e controllabile attraverso la gerarchia delle giurisdizioni.
Quando però si esplica all’interno delle mura domestiche, nei confronti di un figlio che deve affrancarsi dalla strada impostagli per intraprendere la sua strada, rischia di deragliare dai binari dell’equilibrio e della sana educazione per essere travolto da regole etiche soggettive e influenzate da fattori personali.
Così, la giustizia amministrata dal padre Vittorio mette nel mirino un bambino di otto anni che subisce una sorta di processo, per chissà quale marachella, e fatalmente non può non produrre effetti devastanti.
Genera un figlio rabbioso, violento verso il suo stesso padre, richiedente l’intervento del padre-magistrato per eludere una pena sicura contro ogni dettame razionale, legale e morale e che non trova altra via di uscita che la carcerazione e il successivo allontanamento volontario dai genitori.
Il personaggio di Vittorio lascia intravedere un magistrato irreprensibile, fermo e rigido applicatore delle leggi.
Emblematica è la figura di Nanni Moretti in toga sovrastata dalla scritta: la legge è uguale per tutti.
Non si dubita, conoscendolo nel corso delle riprese, che egli incarni, nell'amministrare giustizia, quei caratteri di obiettività e imparzialità che com'è noto sono alla base della professione giurisdizionale.
La questione, che può rivelarsi interessante per chiunque abbia scelto di intraprendere la strada della magistratura, si incentra sul come modulare nella vita e nelle relazioni sociali e familiari quella propensione al giudizio inflessibile che talvolta è connaturato alla persona per svariate ragioni caratteriali, educative, familiari.
Vittorio è giudice implacabile prima di tutto di se stesso e di riflesso del figlio e annienta il senso e il concetto di colpa non solo infliggendo adeguate condanne nelle aule di giustizia, ma anche privando se stesso di qualsivoglia macchia quale può essere un figlio disobbediente.
Non conosce elasticità, flessibilità, comprensione e capacità di mitigare il giudizio e la condanna quando si trova nel perimetro delle mura domestiche e deve seguire un suo codice personale.
Eppure nelle aule del processo penale ci si muove tra scriminanti, attenuanti o aggravanti, strumenti per dosare la pena a seconda del grado di colpa cosi come nelle aule del processo civile la condanna pecuniaria risente di minimi, medi e massimi valori e altre opportunità di azione e variazione nell'irrogazione della sanzione.
Vittorio ne è forse capace quale giudice (non ci è dato osservarlo all'opera, ma solo dedurre le sue modalità professionali), certamente non ne è capace come padre e come giudicante di se stesso.
E ancora, nella giustizia esistono tre gradi di giurisdizione, nella nostra individualità quanti piani abbiamo per controllare gli errori, emendarli e raggiungere la verità?
Ebbene, il mancato appello da parte della ragazza, presunta vittima del reato, alla sentenza di assoluzione di Lucio-Scamarcio ce ne mostra una realizzazione suggellando la verità questa volta non con un provvedimento, ma con una scelta individuale e cosciente che segue regole non codificate in un intreccio tra giustizia formale e sostanziale che si inseguono e si avvicendano nella coscienza umana e, talvolta, anche nelle aule giudiziarie turbando l’apparente inscalfibile serenità nella pur doverosa applicazione della legge.
Sullo sfondo, ma non troppo sullo sfondo, si staglia una magistrale Margherita Buy, Dora, una donna divisa tra il marito e il figlio, tra l’amore materno e quello coniugale, tra l’espressione della propria personalità e quella impostagli dal rigore di suo marito che, pure, lei ama a tal punto da mantenere con lui un collegamento oltre la morte attraverso telefonate indirizzate alla segreteria telefonica di casa in cui la voce di Vittorio riecheggia rendendolo sopravvissuto, ma in maniera diversa, incapace di replicare, fermo e cristallizzato nell’atto della presentazione della famiglia e della casa in cui squilla il telefono e risponde la segreteria.
Così assistiamo, dopo la morte di Vittorio, alla emancipazione dal SUPER IO della parte femminile dello stesso SUPER IO, osserviamo Dora ricongiungersi al figlio, indossare un vestito dalla promettente e germogliante fantasia floreale in luogo delle tuniche di colore scuro e a tinta unita da lei sempre indossate in precedenza in linea con uno stile rigoroso e opaco che caratterizzava la famiglia del terzo piano perché il controllo, il divieto, l’eccesso razionale possono rendere tutto meno trasparente e visibile.
Anche Dora è un magistrato, ma la consapevolezza del suo ruolo professionale è sfocato così come sottordinato rispetto al marito è l’intero personaggio interpretato dalla Buy che acquista un’autonomia solo alla scomparsa del coniuge.
La scena finale è un’altra deflagrazione che tuttavia si ricompone, si colora di allegra anarchia ordinata, di illegalità non punibile perché non dannosa: l’illegal tango che travolge i condomini non più collocati nei piani interni, ma en plein air, mischiati, indifferenziati, livellati dal sorriso che strappa loro un’immagine di ballo a coppie, dunque soggetto a regole di movimento e di linee, ma nello stesso tempo non controllabile, lasciato libero a significare un passaggio dall’interno all’esterno con maggiore consapevolezza delle proprie storie individuali, delle proprie paure, debolezze, dei propri desideri, delle proprie scelte e strade da percorrere, dei propri errori….eppure, mentre si svolge lo spettacolo del ballo, a Beatrice, la bambina neonata che ritroviamo a questo punto cresciuta dal padre dopo l’allontanamento di Monica, appare proprio Monica sorridente, impermeabile alla realtà, libera, se stessa e noi ci chiediamo se non sia l’immaginazione poetica e istintiva della bambina che materializza la figura materna in un momento di gioia o la malattia mentale foriera di visioni che segnerà anche il futuro della piccola……
Così, dopo la speranza liberatoria del ballo, rispettoso delle figure del tango e nello stesso tempo incontrollato nonostante sia “illegal”, ci sovviene la constatazione che forse anche il ballo è una visione alla quale Moretti ci avvicina per alleviare la possibilità di un finale più realistico, duro e ineluttabile….
Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione
di Guido Raimondi
Sommario: 1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo - 2. Le fattispecie litigiose - 3. L’analisi della Corte europea - 4. Qualche riflessione.
1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo
La pubblicazione, il 28 ottobre 2021, della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Succi et al. c. Italia (n. 55064/11, 37781/13 e 26049/14) ha suscitato, comprensibilmente, grande attenzione dentro e fuori la Corte di cassazione.
La Corte di Strasburgo si è occupata con questa sentenza di tre vicende giurisdizionali conclusesi con decisioni prese in ultima istanza dalla nostra Corte di legittimità, che in tutti e tre i casi aveva ritenuto inammissibili i ricorsi degli interessati, i quali poi si erano rivolti alla Corte europea.
I ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto di accesso al giudice, garantito dall’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito: la Convenzione), sostenendo che le decisioni di inammissibilità prese dalla Corte di cassazione fossero affette da eccessivo formalismo.
Come è noto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha assegnato al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975), una posizione sempre più centrale nell’architettura complessiva della Convenzione via via che si è acquisita la consapevolezza che una delle premesse fondamentali del sistema europeo di tutela dei diritti umani, cioè lo Stato di diritto, non può reggersi senza un apparato giurisdizionale credibile, indipendente, imparziale ed accessibile a tutti. Nell’attuale momento storico, nel quale i principi dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura sono sottoposti a tensione in alcuni Stati contraenti della Convenzione, anche membri dell’Unione europea, non c’è da stupirsi che la giurisprudenza europea sia particolarmente rigorosa nella tutela di questo aspetto fondamentale. Questo vale sia per la Corte europea dei diritti dell’uomo sia per la Corte di giustizia dell’Unione europea, che davvero, su questo terreno, procedono “mano nella mano”[1].
La Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata in varie occasioni del diritto di accesso al giudice, in particolare relativamente alle Corti supreme, o di ultima istanza. Un riepilogo dei principi elaborati dalla giurisprudenza a questo proposito si trova nella recente sentenza della Grande Camera Zubac c. Croazia (n. 40160/12, GC, 5 aprile 2018, §§ 76-82), alla quale si rinvia.
L’art. 6 della Convenzione non obbliga gli Stati contraenti a dotarsi di Corti di appello o di cassazione, ma se tali giurisdizioni esistono, le garanzie poste da questa disposizione si applicano anche in tali sedi, in particolare relativamente al diritto di accesso al giudice, per le decisioni inerenti ai “diritti ed obbligazioni di carattere civile” presi in considerazione dal § 1 del detto art. 6.
Detto questo, la Corte di Strasburgo considera fisiologiche possibili restrizioni all’accesso presso le Corti supreme, ammettendole se giustificate da un fine legittimo e proporzionate.
La Corte procede in primo luogo a considerare se la restrizione al suo esame persegue un fine legittimo, e poi passa a valutare la proporzionalità della stessa restrizione. Nella valutazione della proporzionalità della restrizione, la Corte procede ad un esame in concreto, prendendo in considerazione normalmente tre fattori: a) la prevedibilità della restrizione; b) la responsabilità – in capo al ricorrente o alle autorità – degli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; e c) se la restrizione applicata riveli un “formalismo eccessivo” (v. Zubac, cit., § 85).
2. Le fattispecie litigiose
Come si è detto, i tre casi considerati dalla sentenza Succi riguardavano, per l’appunto, accuse di “formalismo eccessivo” rivolte alle decisioni di inammissibilità adottate dalla Corte di cassazione.
Nel primo caso (n. 55064/11, Succi), si trattava di una procedura di sfratto. Contro la sentenza a lui sfavorevole della Corte di appello di Catania, il ricorrente si era rivolto alla Corte di cassazione sollevando cinque motivi di impugnazione. La Sesta sezione civile della Corte di cassazione, con ordinanza n. 4977/11, riteneva inammissibile il ricorso perché, in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e 6, esso non conteneva la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per le quali essi motivi erano stati proposti, né la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso.
Nel secondo caso (n. 37781/13, Pezzullo), veniva in rilievo una controversia nella quale il ricorrente chiedeva al Comune di Frattamaggiore un risarcimento per un danno d’acqua subito da un immobile di sua proprietà. Contro la sentenza sfavorevole della Corte di appello di Napoli veniva proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. All’epoca si applicava l’art. 366 bis del codice di procedura civile, introdotto dall’art. 6 del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, poi abrogato dall’art. 47, comma 1, lett. d) della l. 18 giugno 2009, n. 69, sui “quesiti di diritto”. Con sentenza n. 3652 del 2013, la Terza sezione civile della Corte di cassazione dichiarava l’inammissibilità del ricorso per diverse ragioni: a) l’inidoneità dei “quesiti di diritto”, allora necessari, redatti in modo “astratto e generico”; b) per difetto di “autosufficienza” del ricorso, alla stregua dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod.proc.civ., perché i documenti dei quali si lamentava in ricorso l’erronea valutazione o l’assenza di valutazione erano stati menzionati senza la riproduzione delle parti pertinenti e, laddove queste parti erano state riprodotte, omettendo di citare i riferimenti che avrebbero permesso di reperire gli stessi documenti; c) per il carattere apodittico delle critiche rivolte alla sentenza impugnata; d) relativamente al vizio di motivazione che era stato denunciato, il ricorso non conteneva, in violazione dell’art. 366 bis, secondo comma, cod.proc.civ., applicabile all’epoca, una chiara indicazione delle ragioni di critica.
Nel terzo caso (n. 26049/14, Di Romano et al.) si trattava del risarcimento dei danni richiesto dai familiari della vittima di un incidente stradale mortale. La Corte d’appello dell’Aquila riduceva l’ammontare del risarcimento accordato in primo grado e gli attori proponevano un ricorso per cassazione con quattro motivi. Con ordinanza n. 21232/13, la Sesta sezione civile della Corte di cassazione dichiarava inammissibile il ricorso ritenendo non assolta l’esigenza, posta dall’art. 366, comma primo, n. 3 cod.proc.civ., di una sintetica esposizione dei fatti nel ricorso per cassazione, con riguardo sia alla situazione litigiosa sia allo svolgimento della procedura. La Corte di cassazione osservava che nel ricorso al suo esame la “sintetica esposizione dei fatti” si prolungava per 51 pagine (sulle 80 complessive del ricorso) e riproduceva integralmente una serie di atti di procedura raggruppandoli con la cosiddetta tecnica dell’assemblaggio, senza il minimo sforzo di sintesi che permettesse di ricostruire la cronologia e lo sviluppo della procedura nei suoi snodi essenziali.
3. L’analisi della Corte europea
Dopo aver esposto sinteticamente la giurisprudenza della Corte di cassazione sul principio di autosufficienza del ricorso in cassazione e sull’art. 366 bis cod.proc.civ., la Corte europea ha esaminato i tre casi, giungendo a conclusioni diverse: di violazione nel primo e di non violazione nel secondo e nel terzo.
A parte la questione dei “quesiti di diritto”, che oggi presenta un interesse essenzialmente storico e a proposito della quale la Corte europea ha confermato la propria giurisprudenza (Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, 15 settembre 2016), secondo la quale quel meccanismo processuale era compatibile con la Convenzione, sono interessanti le considerazioni della Corte di Strasburgo svolte a proposito del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, principio con il quale la Corte europea ha ritenuto compatibile – affermando in qualche modo la sua riconducibilità ad esso – l’esigenza di sintesi nell’esposizione del fatto, che conduce all’inammissibilità dei ricorsi che fanno uso della cosiddetta tecnica dell’assemblaggio (Succi, cit., § 110).
Svolgendo considerazioni comuni ai tre ricorsi riuniti, la Corte di Strasburgo ha sottoposto ad esame il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione per come esso è stato elaborato dalla giurisprudenza, ed è giunta alla conclusione che questo principio, inteso come restrizione al diritto di ricorrere in Cassazione, persegue un fine legittimo, non accogliendo quindi la tesi dei ricorrenti, che tutti lo avevano contestato, denunciandone l’incompatibilità con la Convenzione (Succi, cit., § 74).
La Corte europea ha preso in esame le ragioni del principio quali emergono dalla giurisprudenza, e cioè la sua necessità per facilitare la comprensione dell’affare e delle questioni sollevate nel ricorso e per permettere alla Corte di cassazione di decidere senza dover consultare altri documenti, affinché essa possa preservare il suo ruolo e la sua funzione, che si risolvono nella garanzia, in ultima istanza, dell’applicazione uniforme e della corretta interpretazione del diritto nazionale (nomofilachia). Considerati questi elementi, la Corte europea è giunta alla conclusione, come si è anticipato, che il principio di autosufficienza persegue un fine legittimo, giacché esso tende a semplificare l’attività della Corte di cassazione e, allo stesso tempo, ad assicurare la certezza del diritto (sécurité juridique) e la buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 74 e 75).
Ci sembra quindi che la sentenza Succi – sebbene si sia espressa in un caso, il primo dei tre ai quali si fatto cenno, caso sul quale subito torneremo, nel senso della violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione – rappresenti un autorevole avallo della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di autosufficienza del ricorso ad essa, con il riconoscimento della meritevolezza dell’esigenza che la giurisdizione di vertice dell’ordinamento italiano sia posta in condizione di assolvere il suo primario compito nomofilattico.
Nei due casi nei quali la Corte europea è giunta ad una conclusione di non violazione dell’art. 6 § 1 essa ha constatato, nell’esame della proporzionalità della restrizione, che ha fatto seguito all’accertamento della legittimità del fine perseguito, accertamento, lo si ripete, che è stato positivo per tutti e tre i casi, che il principio di autosufficienza era stato correttamente applicato.
Se nel primo caso (n. 55064/11) essa è pervenuta ad una soluzione diversa, questo si deve ad un esame in concreto dell’applicazione del principio di autosufficienza, che in questa vicenda è stato impiegato secondo la Corte europea, per l’appunto, “con eccessivo formalismo”.
Perché? Come si ricorderà, nel caso in questione la Corte di cassazione aveva ritenuto inammissibile il ricorso all’esame essenzialmente per due ragioni. Da una parte, perché mancava la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui essi erano stati proposti e, d’altra parte, perché difettava la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso. Procedendo all’esame in concreto degli atti, la Corte di Strasburgo ha invece constatato da un canto che le doglianze relative agli errores in procedendo e in judicando denunciati erano state esposte con sufficiente chiarezza e, d’altro canto, che la lettura del ricorso dimostrava che i passaggi pertinenti della sentenza impugnata erano stati riprodotti e che, nel citare i documenti della procedura di merito utili per sviluppare il suo ragionamento, il ricorrente aveva trascritto i brani pertinenti e indicato i riferimenti ai documenti originali, così permettendone l’identificazione tra quelli depositati con il ricorso.
4. Qualche riflessione
Quindi, compatibilità convenzionale del principio di autosufficienza e violazione dell’art. 6 § 1, in concreto, per la sua applicazione con “eccessivo formalismo”, non giustificabile proprio alla luce della finalità del principio di autosufficienza e dunque del fine perseguito, cioè quello della garanzia della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 92).
Tutto bene dunque? Fino ad un certo punto, perché se si può ritenere che la violazione constatata a Strasburgo non metta in discussione la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione sull’autosufficienza del ricorso davanti ad essa, questa sentenza è comunque un campanello di allarme, specialmente se si considera il monito contenuto nel § 82 della sentenza. Pur senza trarne conseguenze ai fini della decisione, la Corte osserva che “almeno fino alle sentenze n. 5698 e 8077 del 2012,” l’applicazione del principio di autosufficienza del ricorso “rivela una tendenza dell’Alta giurisdizione a porre l’accento su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo identificato”, “in particolare per quanto attiene all’obbligo di trascrizione integrale dei documenti considerati nei motivi, e all’esigenza di prevedibilità [corsivo aggiunto] della restrizione.”
In un commento “a caldo” della sentenza Succi Bruno Capponi nota come – probabilmente perché il punto non era stato sollevato nei ricorsi – la pronunzia europea lasci nell’ombra un altro aspetto sovente coltivato nelle decisioni di inammissibilità della Corte di cassazione, quello della esigenza di specificità dei motivi, pure questo strumento di creazione giurisprudenziale e, secondo l’Autore, di applicazione non sempre prevedibile, e che Capponi pure colloca, insieme all’autosufficienza, in una dimensione sanzionatoria e di deterrenza alla quale a suo giudizio la giurisprudenza della Corte di cassazione indulgerebbe eccessivamente e che sarebbe cosa diversa dal formalismo giuridico[2].
Sia come sia, crediamo che questa sentenza europea, che pure, come dicevamo, non mette in discussione, a nostro sommesso avviso, la giurisprudenza della Corte di cassazione, induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità.
Come si potrebbe non essere d’accordo con Bruno Capponi quando egli lamenta l’oramai ineludibile e stucchevole messe di eccezioni di inammissibilità che accompagna ogni gravame e le conseguenti, altrettanto stucchevoli, parti delle decisioni che vi rispondono prima di poter passare al merito della causa[3]? E come non sostenere il suo appello al legislatore perché sia lui, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso alla Corte di cassazione, magari con una valutazione scientifica e non approssimativa risorse necessarie[4]?
Nel frattempo, vorremmo dire dunque adelante, ma, beninteso, con juicio, senza mai dimenticare che il processo è uno strumento che deve permettere l’affermazione del diritto, e non una potenziale trappola per i suoi utenti.
[1] F.KRENC, L’État de droit: une exigence à clarifier, un édifice à préserver, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2021, p. 787 ; R.SPANO, Rule of Law: la Lodestar della Convenzione europea dei diritti dlel’uomo. La Corte di Strasburgo e l’indipendenza della magistratura, in questa Rivista, 4 marzo 2021; K.LENAERTS, The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order, in Fair Trial: Regional and Internaztional Perspectives. Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos, Anthemis, Limal, 2020, p. 333-348 ; F.BILTGEN, L’indépendance du juge national vue depuis Luxembourg, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2020, p. 551-566.
[2] B.CAPPONI, Il formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 31 ottobre 2021.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
Appunti critici sulla legittimazione della carcerazione perpetua, a margine di un recente libro contro gli ergastoli
Recensione a Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto (a cura di), Contro gli ergastoli, Futura, Roma 2021, pp. 250
di Veronica Manca
Sommario: 1. Premessa. – 2. Giustizia, Pena e Carcere agli albori dei tempi della storia. – 3. Da Beccaria, alla teoria generale degli scopi della pena. – 4. Dal 1992 ad oggi: i modelli di ergastolo. – 4.1. Il volto costituzionale della pena: dai primi timidi spiragli di luce, all’ord. 97 del 2021 della Corte costituzionale, alle Corti sovranazionali. – 5. La sfida del Parlamento: breve analisi dei propositi di riforma. – 5.1. Quale via maestra seguire se non quella della Costituzione? Quella della nostra storia, tra riparazione e conciliazione sociale.
«Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritirarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
«non guarda in faccia nessuno».
Poi un giovane col berretto rosso
Balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ed ecco, le ciglia erano tutte corrose
Sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un’anima morente
le era scritta sul volto.
Ma la folla vide perché portava la benda»[1].
1. Premessa
Nel 2009, gli autori licenziavano la prima edizione di “Contro l’ergastolo”, volume pioneristico che inaugurava la collana delle pubblicazioni de La Società della Ragione[2].
A distanza di oltre un decennio, il tema più che mai attuale, caldo e divisivo torna ad occupare le pagine di un preziosissimo testo, intitolato, non a caso al plurale, “Contro gli ergastoli”: un titolo molto semplice, secco, quasi lapidario, che fa capire immediatamente ai lettori l’impostazione culturale e giuridica da cui muovono i curatori[3].
Un approccio che si rivela assolutamente condivisibile, ma la cui raffinatezza implica, ad ogni modo, una condivisione preliminare di concetti e luoghi comuni alla sensibilità storica e di politica criminale.
Quando, dunque, si parla di ergastolo (rectius: ergastoli) si richiama inevitabilmente il concetto di pena e di carcere, e, più a monte, di giustizia.
Se l’insieme dei concetti è comune, allora le conclusioni non potranno che essere quelle raggiunte dagli autori: l’ergastolo, in quanto pena detentiva perpetua, è incostituzionale, nel senso che si colloca letteralmente al di fuori della Costituzione, e, più in particolare dell’art. 25, co. 2 Cost. (baluardo garantista del principio di legalità del precetto penale e della sanzione), e dell’art. 27, co. 3 Cost. (canone della responsabilità penale personale, dell’umanità della pena e del finalismo rieducativo), dove si parla di pene al plurale, mai di carcere, tanto meno di ergastolo[4].
Come ben esemplifica l’autore Pugiotto, nel saggio di apertura, “La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale”[5], l’ergastolo non è più incostituzionale quando cessa di essere tale: l’excursus degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, che l’autore offre, consentono, quindi, di ripercorrere i passaggi, che hanno portato all’affermazione dell’illegittimità dell’ergastolo c.d. “ostativo”, con l’ordinanza n. 97 del 2021[6] della Corte costituzionale; lungo la via delle tappe battute dalla Consulta, l’autore guida inoltre il lettore alla costruzione di tasselli logici e giuridici che contribuiscono a raggiungere conclusioni obbligate, sulla abolizione della perpetuità della pena, in tutte le sue forme[7].
2. Giustizia, Pena e Carcere agli albori dei tempi della storia
Prima di passare al vaglio dei percorsi argomentativi seguiti dalla Corte costituzionale per descrivere quello che oggi può essere definito come diritto vivente, è fondamentale ricercare il senso che l’istituto del carcere e della giustizia hanno assunto nel corso della storia, dagli albori a quella contemporanea[8].
Come ricorda una storica del diritto[9], la storia del processo e della pena si dovrebbe misurare lungo la linea del tempo, intersecata da società, idee, persone e uomini, di volta in volta diversi: il sistema sanzionatorio, così come il carcere, ha rappresentato da sempre, in ogni epoca, il metro di giudizio circa il grado di civilizzazione della società, così come del relativo modello di giustizia adottato[10].
Secondo il pensiero degli storici del diritto, il passaggio da un sistema di giustizia c.d. negoziata, basata sul consenso e amministrata prevalentemente dai privati, con sanzioni di carattere civile, compensative-risarcitorie[11], a quella di tipo egemonico, a tutela di interessi marcatamente pubblicistici, calata dall’alto rispetto a strutture corporative e statualistiche[12], ha segnato definitivamente i connotati della pena pubblica, applicata, per moltissimi secoli, dal giudice “pro delicti satisfactione”[13], secondo una vera e istituzionalizzata “cultura della vendetta”[14].
Dal Medioevo, all’Età Moderna, fino ai supplizi del Seicento, si ha il consolidamento della cultura dello ius punendi, in cui il modello inquisitorio per il processo rispecchia la ricerca spasmodica finalizzata alla punizione fisica del soggetto colpevole (con il marchio a fuoco, con le mutilazioni, con le fustigazioni, secondo quella logica dantesca del contrappasso, per cui occhio per occhio, amputazione delle dita o delle mani, per il ladro, e della lingua, per il bestemmiatore, o con l’incisione a fuoco della lettera scarlatta, per la donna adultera)[15].
File rouge, in questo quadro storico, è la valenza religiosa e teleologica che impregna lo svolgimento del processo e l’esercizio della punizione: la pena è sofferenza fisica, che deve lasciare segni visibili sul corpo del colpevole, producendo dolore indicibile, anche sottoforma di menomazione permanente, per il singolo, e disapprovazione morale, per il consesso sociale: stigma ed emarginazione sociale, che non consentono un riscatto del colpevole, che sarà pertanto riconoscibile come tale a vita.
Il carcere, per i classici e le fasi storiche fedeli alla tradizione dello ius civile, non rappresenta una pena principale, consistendo esclusivamente in una modalità – non necessaria – di arresto temporaneo e preventivo, in vista del processo e della punizione, vera e propria; oppure, costituisce una forma di sanzione residuale, in caso di mancato pagamento di debiti o misure patrimoniali. Il carcere, infatti, acquisisce lo status di pena principale solo con l’espandersi e l’innestarsi del diritto canonico, nelle regole di amministrazione della vita privata dei fedeli/sudditi, a partire, ad es., con il Liber Sextus di Bonifacio VIII[16].
Questa accezione intrisa di significati extragiuridici, con reminiscenze teleologiche rappresenta il modello di punizione tramandato fino ai giorni nostri, dal Seicento, all’Ottocento, con le prime esperienze codicistiche. Il carcere è lo strumento ideale per realizzare sofferenza, tramite l’isolamento e la segregazione dell’individuo rispetto alle relazioni con se stesso e con gli altri, imponendo così per tale via la costrizione fisica e morale, superabile solo con il pentimento e l’emenda morale, e le più brutali punizioni fisiche[17].
In tale direzione, la carcerazione perpetua trova spazio per fiorire e legittimarsi, specialmente dove si propone quale alternativa alla pena di morte[18].
Tale è anche la spiegazione che offre Stefano Anastasia, nel suo saggio, intitolato “L’agonia dell’ergastolo”: l’autore restituisce al lettore un’interpretazione interessante ed originale della correlazione tra il termine agonia e quella dell’ergastolo: una riflessione che acquisisce un ulteriore valore aggiunto, se associata ad una più ampia digressione storica del concetto di pena e di processo. Se, infatti, come sopra si è tentato di esporre brevemente, si ritiene che il contenuto afflittivo della pena sia dovuto ad un processo storico e culturale, di innesto anche di suggestioni e principi extragiuridici, come quelli teleologici, l’accostamento del termine agonia al carcere, meglio descrive il mutamento sociale e culturale che ha subito nel corso della storia il diritto punitivo[19].
Anche il termine agonia, da termine attivo e di relazione, inteso come competizione e tensione ad un fine di elevazione (fisica o morale, come il premio), assume una accezione squisitamente passiva e negativa, sinonimo di sofferenza, e, nello specifico, di quello stato di prostrazione fisico e spirituale, che precede immediatamente la morte, e, quindi, l’esito più infausto per eccellenza[20]. Secondo l’autore, infatti: “Lo stillicidio del tempo che vediamo all’opera nell’esperienza dell’agonia è in effetti l’essenza stessa della pena detentiva: sofferenza legale finalizzata alla dissipazione del tempo vitale del condannato. più grave il reato commesso, più tempo bruciato”[21].
Se queste sono le basi, tanto più allora si giustifica l’inserimento, nella sezione Appendice, del discorso di Papa Francesco, considerato che la posizione della Chiesa nella materia del penale ha avuto un’incidenza fondamentale, sia nelle origini, sia nell’evoluzione storica e politica più recente[22].
3. Da Beccaria, alla teoria generale degli scopi della pena
Le riflessioni di Anastasia ben si prestano a rivedere, con sguardo più critico, anche l’epoca moderna e quella contemporanea, che, nonostante abbiano conosciuto un importante passaggio di civiltà giuridica con il pensiero di Cesare Beccaria, hanno tuttavia inteso mantenere fede all’impostazione precedente, preservando il carcere come pena principale, quale manifestazione di sofferenza fisica e morale[23].
La carcerazione perpetua diventa infatti il perfetto e logico surrogato della pena di morte, nelle prime esperienze codicistiche: la pena perpetua, annunciata come soluzione di un diritto penale mite e di civiltà, viene associata all’abbandono non solo della pena capitale, ma anche dei lavori forzati a vita[24]. Quella terribile prassi, per cui i detenuti vengono costretti ad indicibili sofferenze, legati ad una catena, con una sfera di acciaio ai piedi: così la dottrina descrive il modello punitivo del tempo, per cui “i condannati ai lavori forzati saranno impiegati nei lavori più faticosi; porteranno ai piedi una sfera, o saranno attaccati due a due con una catena, se lo consentirà la natura del lavoro al quale saranno addetti”[25]; “chiunque sarà stato condannato alla pena dei lavori forzati a vita sarà marchiato, sulla pubblica piazza, con un ferro rovente alla spalla destra”[26].
La “pena esemplare” è lo slogan politico criminale che fa da sfondo all’introduzione dell’ergastolo nel codice Zanardelli, del 1889, e che sarà destinato a passare nel successivo e attuale Codice Rocco, nel 1930: isolamento, obbligo del lavoro, silenzio e segregazione sono i connotati della pena detentiva, anche a tempo indeterminato (artt. 11, 12 del Codice Zanardelli; art. 17, 22 del codice penale Rocco, con elenco delle pene principali, oltre alla pena di morte, abolita, solo nel 1944)[27].
A distanza di moltissimi anni, la ricerca di un surrogato alla pena di morte rimane la principale preoccupazione che emerge anche nel dibattito politico successivo alla caduta del regime totalitario fascista: l’autore Franco Corleone riprende, nel suo contributo, “La pena dell’ergastolo in Parlamento”, il dibattito politico di quel tempo, tratteggiando un quadro complessivo delle varie posizioni; delle idee e degli ideali politici sottesi alle varie proposte di riforma, sia in direzione di abolizione della perpetuità della pena, sia in direzione di reinserimento della pena di morte[28].
L’autore risveglia così prepotentemente la coscienza storica del lettore, mostrandogli come, anche nel corso della più recente storia parlamentare del Paese, si siano avuti propositi di abolizione della perpetuità della pena, come, ad es. nel triennio dal 1971-1973[29], o, come sia accaduto negli anni ’80, con la proposizione del referendum popolare sull’abolizione dell’ergastolo[30].
Nonostante, infatti, dal punto di vista storico, gli anni ’70 abbiano rappresentato per tutti, anni terribili, di stragismo di Stato, con il terrorismo politico, fermenti di ideali e di attivismo politico hanno spinto, al contrario, per sottoporre all’attenzione del Parlamento, diversi disegni di legge, anche in ottica abolizionistica[31]: con gli anni ’90, delle stragi di sangue di mafia, tuttavia, lo scenario è mutato e il tutto si è “congelato”; l’avvento poi della seconda repubblica, con l’entrata in scena di nuovi partiti e personaggi politici di spicco, hanno fatto il resto[32].
Nel corso degli ultimi decenni, non sono mancati dei progetti di riforma del sistema sanzionatorio, con oggetto anche la pena perpetua, ma pur sempre nell’ottica della sua preservazione o di sostituzione in una forma di reclusione c.d. “speciale”, con un limite edittale massimo già prefissato dalla legge. In questa direzione, si registrano dunque i lavori della Commissione Riz (1995), Grosso (2001), Pisapia (2007), e, più di recente, della Commissione Palazzo (2014), senza tralasciare, le seppur minimali proposte di modifica espresse dalla Commissione Giostra (2017), con le suggestioni culturali e giuridiche espresse dai Tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione della Pena (2015)[33].
Alla luce dell’excursus storico-politico, espresso mirabilmente dall’autore, che cosa rimane al lettore? “Che la permanenza di quello che pareva un simulacro, si è trasformato in uno strumento di repressione formidabile”[34], auspicando che il dibattito parlamentare torni sulla via della Costituzione: “Non è facile ripartire dalla Costituzione, eppure da una ricostruzione delle ragioni dello stare insieme come collettività si dovrà passare. L’abolizione dell’ergastolo deve diventare un obiettivo di civiltà e di umanità, perché lo Stato democratico si dimostri radicalmente alternativo rispetto alla logica della violenza e ai comportamenti criminali. Insomma una comunità che rifiuta odio e vendetta e lancia la sfida che nessuno è perduto per sempre. Si vincerà il confronto con gli imprenditori della paura solo attraverso la strada del ritorno alla politica. E della cultura. Il tempo è oggi”[35].
4. Dalla legislazione del terrorismo politico, al 1992, ad oggi: i modelli di ergastolo
E qui veniamo ai giorni nostri. Come ha saggiamente ricordato l’autrice Susanna Marietti, la pena dell’ergastolo esiste, eccome se esiste. Il contributo proposto dall’autrice risulta di cruciale importanza, nella disamina del tema, dato che fornisce una serie di numeri e di informazioni, che consentono un’analisi non solo statistica, ma anche qualitativa[36].
I dati sono significativi e parlano da sé.
Al 31 dicembre 2020, i detenuti con una condanna a titolo di ergastolo, sono n. 1784, pari al 4% sul totale complessivo delle presenze in carcere; il campione è aumentato esponenzialmente nel corso degli ultimi venti anni, dal 1992 (con n. 408 ergastolani) al 2009 (n. 1.461), fino al numero definitivo del 2020[37].
Ancora. Dal punto di vista dell’esame dell’età dei detenuti, emerge che nel 2013 nessun detenuto aveva compiuto 25 anni, mentre nel 2020 sono ben n. 5 i giovani adulti condannati alla pena dell’ergastolo[38]. Viceversa, la tendenza generale vede i detenuti morire in carcere per numerose patologie e per l’età, che raggiunge oltre i settanta anni: così per n. 11, solo nel corso del 2020.
Andando poi ad analizzare il campione dei condannati alla pena dell’ergastolo, si scorge come le condanne alla pena perpetua afferiscono per 70,6% ad ergastoli c.d. “ostativi”, a cui si aggiunge, a vario titolo, il regime di sospensione delle regole di trattamento del 41-bis ord. penit.[39].
Dalla fotografia dell’autrice, emerge con chiarezza che, ad oggi, non si possa più parlare di ergastolo (al singolare) ma come, al contrario, lo stesso sia stato plasmato secondo gradi di intensità afflittiva diversi, in base ad interessi utilitaristici di volta in volta considerati come oggetto di tutela preminente, e in aderenza a scopi di politica criminale, chiaramente nella direzione della repressione, della deterrenza, e della esemplarità della perpetuità[40].
Come ricorda attentamente la dottrina, infatti, oggi si rinvengono nel nostro ordinamento, extracodice, diversi tipi di ergastolo:
(i) ergastolo c.d. semplice, contenuto nel codice penale, come pena principale, ai sensi degli artt. 17 e 22 c.p., al cui condannato, grazie alla giurisprudenza costituzionale[41], è consentito l’accesso al reinserimento sociale, con il riconoscimento della liberazione anticipata per buona condotta; con l’accesso ai benefici, dal permesso premio, dopo dieci anni di pena espiata, alla semilibertà, dopo venti, e infine, dopo ventisei anni, alla liberazione condizionale[42];
(ii) ergastolo c.d. “ostativo”, contenuto nell’ordinamento penitenziario, alla norma dell’art. 4-bis ord. penit., introdotto con l’ultima versione del d.l. n. 306 del 1992, unitamente al regime del 41-bis ord. penit., per il quale per i condannati dei delitti di cui al co. 1 (ovverosia, delitti c.d. “assolutamente ostativi”), non è prevista l’apertura ai benefici, né alle misure alternative, se non negli stretti margini dell’intervenuta collaborazione utile con la giustizia (o per il tramite equivalente di un accertamento di impossibilità e/o inesigibilità della mancata collaborazione); è evidente, poi, che il positivo riconoscimento della liberazione anticipata non produce alcun effetto sul fine pena, che è e rimane sempre e comunque 31.12.9999[43];
(iii) ergastolo c.d. “ostativo” del terzo tipo, di applicazione extracodice, per l’art. 58-quater ord. penit., previsto dal legislatore per i condannati di delitti di sequestro di persona a scopo estorsivo o per eversione dell’ordine democratico, con la morte della persona oggetto di sequestro (artt. 630, co. 3 e 289-bis, co. 3 c.p.); per tali tipi di autore, non è consentito l’accesso ad alcun beneficio, anche alla luce di una condotta collaborativa, fino all’espiazione di ventisei anni di pena: modello punitivo, demolito da due pronunce pietre miliari della Corte costituzionale, con sent. nn. 149 del 2018, per l’ergastolano, e 229 del 2019, per i condannati a pena detentiva temporanea[44];
(iii) ergastolo c.d. “ostativo”, di pura applicazione giurisprudenziale: contenuto, a vario titolo, sia nel codice penale, in tema di concorso di più condanne con la pena dell’ergastolo, che produce l’applicazione anche dell’isolamento diurno, sia all’art. 4-bis, co. 1 ord. penit. e nel d.l. n. 152 del 1991, con il riconoscimento, anche ad opera del giudice dell’esecuzione, della circostanza del metodo mafioso[45];
(iv) ergastolo c.d. “ostativo” c.d. bianco: contenuto nell’ordinamento penitenziario, per effetto del combinato disposto degli artt. 41-bis, 4-bis ord. penit. con le norme codicistiche in materia di misura di sicurezza, dove si finisce per applicare il 41-bis al soggetto, che, nonostante abbia terminato di espiare la pena, venga riconosciuto pericoloso, anche sine die[46];
Ad oggi, quindi, la disciplina della pena dell’ergastolo, nelle sue varie forme, non è più codicistica, ma è variamente contenuta in leggi speciali successive, come quella dell’ordinamento penitenziario: proprio la collocazione topografica delle norme è stata per molto tempo argomentazione vincente (e strumentale) per una parte della dottrina e per la giurisprudenza per sostenere l’estraneità del diritto dell’esecuzione della pena al diritto punitivo, in senso stretto[47].
Eppure già da una superficiale un’analisi del crescendo di afflittività contenuta nei vari tipi di ergastolo emerge, in tutta la sua evidenza, che la pena nel suo divenire può assumere gravità tale da superare di gran lunga l’effetto deterrente della pena come minaccia, in astratto[48]. Solo, tuttavia, con la sentenza n. 32 del 2020, la Corte costituzionale ha decretato la fine di tale interpretazione, sancendo definitivamente la natura di norma di diritto sostanziale anche a tutte quelle disposizioni che incidono sulla qualità e sull’essenza della libertà personale dell’individuo[49].
4.1. Il volto costituzionale della pena: dai primi timidi spiragli di luce, all’ord. 97 del 2021 della Corte costituzionale, alle Corti sovranazionali
Con la sentenza n. 32 del 2020, si è giunti al tempo dell’oggi; ad una rivoluzione epocale per l’esecuzione della pena, da disciplina procedurale, se non amministrativa, a banco di prova del sistema della giustizia penale. Il viaggio della Corte, come ricorda l’autore Pugiotto, ha conosciuto delle tappe fondamentali[50]. In un primo momento, infatti, la Corte costituzionale si è concentrata nella limitazione degli effetti retroattivi delle modifiche apportate con il d.l. n. 306 del 1992, all’art. 4-bis ord. penit., con una serie importante di principi: dalla progressione trattamentale, al divieto di applicazione retroattiva, alla tensione rieducativa[51]. In un secondo momento, la Consulta si è concentrata sulla teoria degli scopi della pena, valorizzando, nella concezione polifunzionale, la preminenza della rieducazione come fine ultimo, non solo in fase esecutiva, ma anche in sede di commisurazione della pena, secondo il principio supremo di colpevolezza rispetto al fatto e alla personalità della responsabilità penale[52].
Tuttavia, il salto più importante di civiltà giuridica si è avuto con la sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia, dell’8 gennaio 2013, dove l’Italia ha preso coscienza delle condizioni di vita dei detenuti, del sovraffollamento, della disumanità della pena, in uno scenario internazionale[53]. La pessima immagine delle carceri, restituita a livello di Consiglio d’Europa, ha obbligato il Governo e il Ministero della Giustizia, allora On. Andrea Orlando, a mettere in atto riforme in grado di rendere seriamente effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti delle persone recluse e ha innestato un fervido dibattito sulla pena: fino a quel momento, infatti, la discussione, ormai assopitasi, si concentrava esclusivamente sul finalismo rieducativo, tralasciando, o dando per scontata la dimensione, preliminare, dell’umanità della pena[54].
I contributi di Barbara Randazzo, in “La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU”[55], e, quello di Davide Galliani, “Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo”[56] arricchiscono di ulteriori tasselli il confronto giuridico, che si è formato intorno al tema della perpetuità della pena, fornendo indicazioni sia sul piano sovranazionale, sia su quello internazionale, con una attenta e innata sensibilità verso il diritto di altri Stati[57].
In particolare, di grandissimo pregio, il contributo dell’autrice Randazzo, che guida il lettore, a piccoli passi, alla comprensione dell’insieme di principi, valori, e metodi utilizzati dalla giurisprudenza convenzionale, in generale, e, più nello specifico in relazione al tema del carcere[58]. Come ricorda Randazzo, la giurisprudenza della Corte EDU, in materia di carcerazione perpetua, ha conosciuto uno spartiacque con il caso Vinter c. Regno Unito, pur non mancando precedenti significativi, come quello del leading case Kafkaris c. Cipro: il punto centrale di diritto, per la Corte, rimane la compatibilità della previsione nazionale con l’art. 3 CEDU, sui trattamenti e/o pene inumane e degradanti, nella misura in cui non sia prevista per il detenuto, in via assoluta, una prospettiva di rilascio[59].
Se in un primo momento, la Corte ha deciso di salvaguardare le scelte nazionali, non ravvisando una perpetuità dell’ergastolo de jure et de facto, con il caso Vinter c. Regno Unito, invece, si è ridisegnato il “volto convenzionale” della pena perpetua, per cui, si dice, che:
(i) i condannati, anche alla pena dell’ergastolo hanno il diritto di conoscere le vie di accesso al rilascio, e di sapere quali siano gli strumenti per richiederlo;
(ii) hanno il diritto di sapere quale sia la soglia di pena minima, prevista dal legislatore, per l’accesso al meccanismo di revisione della propria posizione[60].
Con riguardo, poi, al procedimento di riesame, si ritiene che:
(iii) il meccanismo di revisione, non necessariamente di competenza di un organo giurisdizionale, deve rispettare i canoni fondamentali del fair trail; quanto meno deve trattarsi di una decisione motivata ed impugnabile, e, se positiva, eseguibile per il condannato con l’accesso effettivo alla libertà[61].
Dalla sentenza Vinter c. Regno Unito, ad oggi, nonostante delle apparenti battute di arresto, la Corte ha viaggiato spedita, nel suo cammino di piena valorizzazione della dignità umana, che passa inevitabilmente per una pena umana e per le chances di reinserimento sociale: il right to hope, è stato ripreso, come spiega Randazzo, in più occasioni, nei casi di Öcalan (n. 2) c. Turchia (2014), László Magyar c. Ungheria (2014), Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria (2014), Čačko c. Slovacchia (2014), Bodein c. Francia (2014), Murray c. Olanda (2016), Matiošaitis e altri c. Lituania (2017), Petukhov (n. 2) c. Ucraina (2019), N. T. c. Russia (2019)[62].
Il cammino della Corte ha incontrato l’Italia, nel 2019, con il caso Viola (n. 2) c. Italia, che, pur non rappresentando formalmente una sentenza pilota, contiene in sé dei messaggi inequivocabili, ribaditi anche dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in fase di esecuzione[63].
Grazie alla costruzione di un sentire comune[64], la Corte costituzionale, in primis, con le sentenze nn. 149 del 2018, 186 del 2018, nn. 253, 263 del 2019, e n. 32 del 2020 e l’ordinanza n. 97 del 2021 e, a seguire, il Parlamento, sono stati indotti a prendere in serio esame la possibilità di modificare i meccanismi di accesso alla misura della liberazione condizionale, anche per l’ergastolano non collaborante[65].
È, n questo contesto, di diritto vivente[66], quindi, che si colloca la tanto attesa ordinanza n. 97 del 2021. Con tale decisione la Corte ha, in sostanza, anticipato il proprio giudizio finale, rimandando in “differita” sola la formale declaratoria di illegittimità costituzionale, al maggio del 2022, dando modo al Parlamento di esprimersi, in tempi stretti, con una riforma[67]. Trattasi, infatti, di un’ordinanza che vale, come vera e propria sentenza a tutti gli effetti, “congelando” la disciplina incostituzionale, che rimane in vigore, solo formalmente: una tecnica, che lascia perplessi sia i penalisti che i costituzionalisti, dato che crea un limbo di incertezza circa le conseguenze giuridiche della disciplina in medio tempore[68]. Le perplessità aumentano, nella misura in cui lo stallo temporale ricade sulla libertà personale delle persone ristrette, che, pur essendosi viste dichiarare l’illegittimità della propria posizione immutabile, non godono degli strumenti giuridici idonei per ottenere un risultato, se non con la sospensione delle relative istanze, la cui decisione, quanto meno solo sul merito, verrà rimandata all’esito del maggio 2022[69].
Quali potrebbero essere gli scenari?
Chi, in altri termini, potrebbe pronunciarsi, prima del maggio 2022, tra la Corte costituzionale ed il Parlamento?
Nel primo caso, si avrà necessariamente una sentenza additiva, sulla linea della sentenza n. 253 del 2019, dando il via così ad un fiume di ulteriori – in parte anche già pendenti[70] – questioni di legittimità costituzionale rispetto a tutte le altre ipotesi eterogenee di autori di reato, variamente classificati, all’interno del co. 1 dell’art. 4-bis ord. penit.; nel secondo caso, si avrà la necessità di una riforma inattaccabile sotto il profilo costituzionale, per non rischiare di dare il via a uno stato di incostituzionalità “derivata”, con tutta l’incertezza inquietante sul piano applicativo, con irragionevoli disparità di trattamento, per tutti coloro che ad oggi sperano concretamente in una seconda possibilità di riscatto sociale.
5. La sfida del Parlamento: breve analisi dei propositi di riforma
Sembra proprio che l’auspicio dell’autore Corleone si sia realizzato: la questione è oggi nelle mani della politica, in Parlamento[71].
Ad una analisi, a caldo, delle principali proposte avanzate dai parlamentari, emerge una generale prudenza nell’approcciarsi a modifiche dell’art. 4-bis, co. 1 ord. penit., in un quadro assolutamente conservativo della norma simbolo. Tutte le proposte, infatti, si muovono nella direzione di aggiungere commi o incisi, rendendo, tuttavia, di fatto, la norma ancora più illeggibile e contraddittoria nel suo insieme[72].
Tra le numerose proposte presentate, lo schema di articolato, a firma della deputata, On. Bruno Bossio, è quello che rappresenta in modo più significativo l’adesione ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, e, in particolare, dalla sentenza n. 253 del 2019[73]: in sostanza, si tratterebbe di aggiungere, quale ipotesi residuale, oltre alla collaborazione con la giustizia, o alla equivalente collaborazione impossibile o inesigibile di accertamento giudiziale, la possibilità che il giudice della sorveglianza valuti tutti gli altri requisiti nel merito, superando così nel caso concreto la presunzione assoluta di pericolosità sociale[74].
Al contrario, la proposta di riforma dell’On. Ferraresi ha sollevato forti perplessità, in relazione ad un evidente contrasto con il contenuto dell’ord. n. 97 del 2021 e, con lo spirito, più generale, di una riforma che segua necessariamente i binari costituzionali[75]. Come sintetizzato dall’associazione Antigone, nel documento inviato alle Camere, una delle questioni più controverse riguarda la richiesta di accentrare la competenza a decidere nel Tribunale di sorveglianza di Roma, incrinando così definitivamente il criterio processuale per cui il giudice di sorveglianza costituisce espressione della giurisdizione di prossimità[76].
Altri aspetti critici sono connessi, ad esempio, alla rivisitazione di tutte le soglie di accesso ai benefici e alle misure alternative, per il condannato alla pena dell’ergastolo: ventisei anni, per il permesso premio e per il lavoro all’esterno; trenta, per la liberazione condizionale. L’irragionevolezza di una simile previsione è assolutamente evidente, considerato quanto già espresso dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 149 del 2018, per cui: «L’appiattimento ad un’unica e indifferenziata soglia […] per l’accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4 bis ord. penit. si pone […] in contrasto con il principio – sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena – della “progressività trattamentale e flessibilità della pena” (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena»[77]. Negli stessi termini, si potrebbe argomentare per l’irragionevolezza con cui si suggerisce la previsione del divieto di accedere alla liberazione condizionale per tutti i condannati a pene temporanee[78].
Analoghe criticità sono state evidenziate dalla dottrina, con riguardo alle proposte di riforma presentate dai deputati, gli On. Delmastro Delle Vedove[79] e On. Paolini[80].
In entrambi gli schemi di riforma, emerge una tendenza generale ad attenuare, se non neutralizzare, il contenuto dell’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale[81].
Comuni, infatti, alcuni requisiti strutturali di modifica:
(i) prevedere che i nuovi criteri di valutazione si applichino indistintamente a tutti i benefici penitenziari, e, non solo, quindi, alla misura della liberazione condizionale;
(ii) invertire l’onere della prova a carico del condannato;
(iii) inserire una articolata previsione di indici di valutazione, che, in sostanza, finiscono, da una parte, per valorizzare tutte le informative sull’indagine della pericolosità sociale, espandendosi altresì al di fuori dei confini del processo e del titolo esecutivo (anche rispetto a procedimenti pendenti a carico di terzi), e, dall’altra, per relegare l’aspetto rieducativo a tema residuale, e basato sul solo esame del percorso intramurario;
(iv) prescrivere l’acquisizione delle informative dei procuratori distrettuali (del capoluogo dove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza di condanna), e del procuratore nazionale antimafia, per il 41-bis ord. penit., nonché, quanto meno nella versione dell’On. Delmastro Delle Vedove, del comitato provinciale e dell’ordine e della sicurezza del luogo in cui il detenuto intende stabilire la residenza, con la partecipazione del direttore[82];
(v) aggiungere delle prescrizioni, a discrezionalità del giudice di sorveglianza, di limitazione di libertà di movimento e/o di contatti con le persone offese o i familiari, in fase di concessione di tutti i benefici, quindi, non solo della libertà vigilata, per la liberazione condizionale[83].
Uno spazio particolare merita, infine, la proposta di riforma presentata dalla Fondazione Falcone, a firma del consigliere e presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo e dal Magistrato di sorveglianza di Venezia, Fabio Fiorentin[84].
Riprendendo gli schemi delle due proposte sopra citate, la Fondazione Falcone pone l’accento sulla giustizia riparativa e sulla condotta attiva del condannato, durante il percorso trattamentale, alla riparazione del danno, nei confronti della vittima e dei familiari[85].
Pur apprezzando la valorizzazione degli aspetti riparatori della pena, la dottrina si è mostrata critica anche nei confronti di quest’ultima proposta[86]. In particolare ciò che ha destato maggiori perplessità ha riguardato sia l’estensione dei nuovi criteri di valutazione indistintamente a tutti i benefici[87], sia la previsione di richiedere al condannato un contributo effettivo “alla realizzazione del diritto alla verità”, richiamando surrettiziamente, secondo la dottrina, l’ambito di applicazione della collaborazione con la giustizia[88].
Senza dubbio, il dibattito politico e il proficuo scambio di opinioni tra magistratura ed accademia stanno contribuendo a costruire il terreno per una possibile riforma, che, con tutta evidenza, rappresenterà un compromesso tra istanze securitarie, da un lato, anche per placare gli animi più giustizialisti dell’opinione pubblica, e rispetto dei principi costituzionali, dall’altro[89].
Se la modifica della norma simbolo dell’art. 4-bis ord. penit. rappresenta dunque un passaggio obbligato, imposto dalla stessa Corte costituzionale, con ord. n. 97 del 2021 e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Viola (n. 2) c. Italia, il passo più logico e naturale successivo potrebbe essere quello di ripensare seriamente alla pena dell’ergastolo, all’interno di una riforma organica del sistema sanzionatorio[90]. Così, infatti, l’autore Giovanni Fiandaca, nel suo contributo, più che mai attuale, “Al posto degli ergastoli” propone delle riflessioni de iure condendo: alla luce, infatti, del venir meno progressivamente dell’ergastolo ostativo, torna attuale la questione dell’abolizione della pena dell’ergastolo c.d. semplice[91].
Una prima ragionevole soluzione, prospettata da Fiandaca, consiste nell’ipotizzare la sostituzione della pena dell’ergastolo con una pena della reclusione speciale, fino alla durata massima tra i venti ed i venticinque anni[92]: secondo l’autore ciò che rileva, non è tanto il limite massimo, scelta di pura valutazione discrezionale del legislatore, quanto il contenuto che una pena di lunga durata dovrebbe avere, con preminenza una finalità rieducativa. Se l’obiettivo è rendere effettiva la rieducazione, è evidente che serve una implementazione di risorse, strumenti, percorsi di formazione, attività che consentano di offrire un programma, in cui il condannato risulti protagonista del proprio cambiamento[93].
La partecipazione ad un programma di trattamento – anche tramite azioni riparatorie, purchè concrete e non meramente simboliche[94] – potrebbe costituire uno degli elementi positivi per giustificare la revisione anticipata della posizione del detenuto in prospettiva del suo rilascio: l’autore ipotizza l’inserimento di una verifica, a cadenza biennale, dell’andamento del percorso, e una valutazione approfondita, in vista della liberazione anticipata, dopo l’espiazione di almeno dieci o quindici anni[95].
Lo studio del diritto comparato, offerto dagli autori Fiandaca e Galliani, con il confronto costante con l’analisi della giurisprudenza sovranazionale, di cui dà conto Randazzo, sono le chiavi di volta che consentirebbero di approdare ad un dibattito più equilibrato, in materia di ergastolo, in prospettiva di una più ampia riforma del sistema sanzionatorio.
5.1. Quale via maestra seguire se non quella della Costituzione? Quella della nostra storia, tra riparazione e conciliazione sociale
Seppur il Parlamento paia in fermento per la riforma dell’art. 4-bis ord. penit., è evidente che ad oggi manca la volontà politica di ricorrere a soluzioni abolizioniste: l’art. 4-bis ord. penit. non è in discussione, così come non è in gioco la legittimità del doppio binario penitenziario. Le modifiche proposte, infatti, si muovono tutte per la preservazione di una norma baluardo della prevenzione generale e della difesa sociale, come a dire che qualsiasi interpolazione anche minimale potrebbe rischiare di allarmare gli animi sociali.
Il testo “Contro gli ergastoli” riesce a mettere in luce proprio tutte le contraddizioni, che connotano anche l’attuale stallo politico: la maturità delle riflessioni giuridiche, indice di una comunità di pensiero e di cultura del diritto, condivisa anche dalle alte Corti, confligge con la volontà politica e con il pensiero comune in materia. Tuttavia, è proprio attraverso la lettura di un testo come questo che è possibile formarsi una opinione, consapevole e informata, sulla perpetuità della pena. Attraverso la lettura di tutti i saggi, dal taglio interdisciplinare, storico, filosofico, culturale e giuridico, il lettore riesce a ricostruire la storia del diritto penale, formando via via gradualmente un giudizio proprio, che non può che essere quello annunciato in principio dall’autore Pugiotto.
Il testo “Contro gli ergastoli” rappresenta un raffinato volume di aggiornamento per gli esperti, che possono così avere nella propria biblioteca un’antologia di saggi in materia, sempre puntuali e precisi; un volume di formazione per tutti coloro, specie per le nuove generazione di giuristi, che vogliono approcciarsi con coscienza e criticità al tema dell’ergastolo e della pena detentiva, più in generale. Un testo, che dovrebbe essere adottato come approfondimento in tutti i corsi di storia del diritto e di diritto penale: la conoscenza delle radici storiche può contribuire a costruire le menti del presente e del prossimo futuro; le nuove generazioni di giuristi, che alimenteranno il prossimo dibattito politico, che occuperanno le principali cariche istituzionali, che guideranno il Paese; che si cimenteranno nella professione dell’avvocatura o che verranno chiamati a svolgere la funzione giudicante. Solo una consapevole formazione sul passato, e sulla terribilità dell’azione punitiva dello Stato, può aiutare a costruire idee, società, uomini e persone in grado di essere e rappresentare l’essenza dello Stato e della Giustizia, quella Dea Bendata, ragionevole e equilibrata di cui parla Edgar Lee Master, nella Antologia di Spoon River[96].
[1] Cfr. E. Lee Master, Antologia di Spoon River, Einaudi, 1947, 255. Per un commento alla poesia, cfr., anche A. Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, 2008, XV-XXI.
[2] Cfr. S. Anastasia, F. Corleone, (a cura di), Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Ediesse, Roma, 2009.
[3] Nella Prefazione, Valerio Onida ricorda che il dibattito giuridico intorno alla perpetuità della pena detentiva si snoda intorno a due passaggi fondamentali: (i) la riconduzione della pena dell’ergastolo all’alveo di tutela degli artt. 25, co. 2 e 27, co. 3 Cost., e il riconoscimento della preminenza della finalità rieducativa, sia in fase esecutiva, sia in fase processuale (e, soprattutto, in sede di commisurazione della pena); e, (ii) l’illegittimità dell’ostatività all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per l’ergastolano non collaborante: in sostanza, l’erosione sostanziale della preclusione assoluta di pericolosità sociale di cui all’art. 4-bis ord. penit., con l’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale. Cfr. V. Onida, Prefazione, in Contro gli ergastoli, (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Futura, Roma, 2021, VII-XII.
[4] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, in Contro gli ergastoli, cit., 37, il quale pone subito il quesito, per cui: “Il nostro tema, allora, torna a interrogare la giurisprudenza costituzionale: l’ergastolo (nelle sue varie tipologie) è una pena che sta dentro l’orizzonte tracciato in Costituzione? Il fatto che la Carta fondamentale non escluda espressamente il carcere a vita non significa, infatti, che non esistano ragioni sistematiche che obblighino a una sua radicale riconformazione, se non addirittura a ritenerlo implicitamente escluso”.
[5] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 29-64.
[6] Sul punto, tra i molti, cfr. E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema penale, 25.05.2021; nonché, in termini più approfonditi, L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2, 2021, 653 ss.
[7] Sulla perpetuità della pena, nella cospicua bibliografia, cfr. A. Pugiotto, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è incostituzionale, in (a cura di) F. Corleone, A. Pugiotto, Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Roma, 2012, 113; Id., Una quaestio sul tema dell’ergastolo, sull’incostituzionalità del carcere a vita, in F. Corleone, A. Pugiotto (a cura di) Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, 299; nonché, E. Dolcini, L’ergastolo ostativo non tende alla rieducazione del condannato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 1500 ss.; L. Eusebi, Ostativo del fine pena, ostativo della prevenzione. Aporie dell’ergastolo senza speranza per il non collaborante, in questa Rivista, 2017, 1515 ss.; G. Forti, Dignità umana e persone soggette all’esecuzione penale, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. VII, 2013, 237 ss.; D. Galliani, Ponti, non muri. Qualche ulteriore riflessione sull’ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1158 ss.; G. L. Gatta, Superare l’ergastolo ostativo: tra nobili ragioni e sano realismo, ivi, 2017, 1495 ss.; F. Palazzo, Presente, futuro e futuribile della pena carceraria, in La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, (a cura di) F. Basile, G. L. Gatta, C. E. Paliero, F. Viganò, I, Milano, 2018, 512 ss.
[8] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., 4/2017, 2017, 12-27.
[9] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, cit., 12.
[10] Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), I, Milano, 2009, 7-9. Sulla nozione di giustizia negoziata, in diritto penale: cfr. M. Caputo, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, 15 ss.; L. Marafioti, La giustizia penale negoziata, Milano, 1992; S. Marcolini, Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata: l’accertamento della responsabilità nell’applicazione della pena su richiesta delle parti tra ricerca di efficienza ed esigenze di garanzia, Milano, 2005.
[11] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 12-14.
[12] Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 14-15.
[13] Cfr. Azzone, Summa super Codice et instituta extraordinaria, (a cura di) D. Converso, in Corpus Glossatorum Juris Civilis, Torino, 1966, vol. II, 343.
[14] Per tutti, D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018, 11-12, per cui: “Cos’è dunque che caratterizza il momento punitivo? Mi sembra che esso corrisponda a questa specifica congiuntura in cui la soluzione diventa il problema […]. Il crimine è il problema, e il castigo la sua soluzione. Con il momento punitivo, è il castigo a diventare il problema […]. Ritenuto ciò che dovrebbe proteggere la società dal crimine, il castigo appare sempre di più ciò che invece la minaccia. Il momento punitivo incarna questo paradosso”.
[15] Cfr. M. Cavina, La redenzione sul patibolo. Funzioni della pena bassomedievale, in La funzione della pena in prospettiva storica e attuale, (a cura di) A. Calore, A. Sciumè, Milano, 2013, 107.
[16] Come riporta puntualmente Loredana Garlati: “In una glossa di Giovanni d’Andrea si precisava che, sebbene il carcere fosse ordinariamente destinato alla custodia, era tuttavia possibile servirsene come pena perpetua in sostituzione della pena di morte nei confronti di chierici colpevoli di reati meritevoli dell’ultimo supplizio. Dal momento che i giudici ecclesiastici non potevano ricorrere a simile poena sanguinis, era loro consentito avvalersi del carcere con riguardo a rei confessi o convinti: costoro erano condannati o alla detenzione temporanea o a quella senza fine, quamvis inventio carceris fuerit ad custodiam (VI. 5.9.4). Il principio si trova ribadito ad esempio nei Consilia criminalia di Bartolomeo Cipolla, per il quale «de iure canonico non potest quis comdemnari ad mortem etiam pro homicidio nec ad aliquam poenam sanguinis»; per questo l’autore equiparava la pena di morte al carcere (B. Cipolla, Consilia criminalia, Venetiis, 1525, cons. LXXIII, vers. Tertio praemitto, 150)”. Cfr. L. Garlati, Sepolti vivi., cit., 23, nota n. 75.
[17] In tal senso, in chiave critica, cfr., per tutti, L. Garlati, Utilità, esemplarità, certezza della pena. Il pensiero di Beccaria tra mito e realtà, in Archivio Storico Lombardo, 19 (2014), 47-74.
[18] Cfr., per tutti, P. Rossi, Trattato di diritto penale. Nuova traduzione con note e addizioni dell’avvocato Enrico Pessina, Napoli, 1853, 271.
[19] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 85-91.
[20] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, cit., 89.
[21] Cfr. S. Anastasia, L’agonia dell’ergastolo, cit., 91, dove l’autore cristallizza delle conclusioni cruciali nella legittimazione dell’ergastolo come pena di morte nascosta, una sorta di suicidio civile: “In tal caso, però, bisognerebbe avere il coraggio di rivendicare la propria scelta per una pena capitale, sia essa argomentata dal principio retributivo dell’equivalenza o da quello utilitaristico della deterrenza, della prevenzione o della sicurezza”.
[22] Tanto più simbolico, perché il discorso è stato tenuto dinanzi alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto penale (presso la Sala dei Papi, il 23 ottobre 2014), in Appendice, “L’ergastolo non è la soluzione del problema, ma è il problema da risolvere”, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 205-228.
[23] Cfr. L. Garlati, Nemo propheta in patria. La proposta abolizionista di Beccaria nel diritto italiano di fine Settecento tra tiepidi entusiasmi e tenaci opposizioni, in Un uomo, un libro. Pena di morte e processo penale nel Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, (a cura di) L. Garlati, G. Chiodi, Milano, 2014, IX-XXXI; ID. Beccaria: filosofo acclamato del passato e giurista misconosciuto del futuro, in Dialogando con Beccaria. Le stagioni del processo penale italiano, (a cura di) G. Chiodi, L. Garlati, Torino, 2015, 1-30.
[24] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti delle pene, in (ed. critica a cura di) G. Armani, Milano, 2003, 59 ss.; nonché M. Marinucci, La pena di morte, in Riv. it. dir. pen. proc., 2009, 3 ss.; L. GOISIS, La revisione dell’articolo 27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, ivi, 2008, 1655 ss.; A. Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quad. Cost., 2011, 573 ss.
[25] Cfr. G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, vol. II, Roma, 1890, 24 ss.
[26] Cfr. G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., 24.
[27] Cfr., sul punto, E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Dir. pen. cont., 17.12.2018, 3-4.
[28] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 1-27.
[29] Per un approfondimento, cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 1-3.
[30] Così, cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 20.
[31] Cfr., sul punto, F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 3.
[32] Cfr., sul punto, F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 4.
[33] Sulle proposte di riforma, si consenta il rinvio a V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, Milano, 2020, 56-58.
[34] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 26.
[35] Cfr. F. Corleone, La pena dell’ergastolo in Parlamento, cit., 27.
[36] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 98-108.
[37] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 101-108.
[38] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 103.
[39] Cfr. S. Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste. I numeri di un pregiudizio”, cit., 102. Ad un’analisi, ancor più approfondita, del campione qualitativo del regime del 41-bis, emergono ulteriori contraddizioni. Secondo i dati forniti dal Ministro della Giustizia, sono n. 759 i detenuti al regime del 41-bis, di cui n. 152 ristretti a L’Aquila, n. 100 a Milano-Opera, n. 91 a Bancali-Sassari, n. 81 a Spoleto. Di questi, solo n. 204 sono condannati definitivi (ciò vuol dire, all’incontrario, che per il 73%, i detenuti sono indagati o imputati o in posizione mista). Solo n. 304 sono stati condannati alla pena dell’ergastolo, residuando quindi un 40% di detenuti condannati a pene temporanee, per aver rivestito il ruolo di mero partecipe nell’associazione. Il Ministero della Giustizia fornisce anche indicazioni rispetto all’appartenenza ai clan mafiosi, con n. 266 affiliati alla Camorra, n. 210 per la ‘Ndrangheta, e n. 203 di Cosa Nostra. Non solo. Al 41-bis, n. 43 detenuti appartengono alla criminalità organizzata pugliese, di cui n. 19 alla Sacra Corona Unita; n. 28 sono affiliati ad altre forme di criminalità siciliane; e n. 3 lucane. Si registrano n. 3 detenuti per delitti di terrorismo e n. 3 persone ristrette, per altre forme minori di criminalità organizzata. Nel complesso, quindi, ci sono circa n. 80 soggetti, che non appartengono agli schemi della mafia “tradizionale” (oltre il 10% del totale). Emergono dati significativi anche in relazione alla durata del regime, tra i dieci ed i vent’anni, per il 26% dei ristretti, con una buona percentuale che supera anche i vent’anni; e con un 0,5% di applicazione anche al termine della pena detentiva, come misura di sicurezza. Per un approfondimento, si consenta il rinvio a V. Manca, Il carcere duro. Un “doppio binario” ostativo alla rieducazione, in XVII Rapporto di Antigone, in www.antigone.it.
[40] Cfr. E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, cit., 8.
[41] Così sent. n. 264/1974; per un approfondimento, cfr. R. De Vito, La liberazione condizionale nel diritto vivente giurisprudenziale, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 143-162.
[42] Cfr., tra i tanti, E. Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo: un contributo all’individuazione della “pena costituzionale”, in (a cura di) E. Dolcini, E. Fassone, D. Galliani. P. De Alburquerque, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Torino, 2019, 49 ss.
[43] Per un recente approfondimento monografico, sia consentito il rinvio a V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, cit., 11-44.
[44] Per tutti, cfr. E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di
rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 19.07.2018; A. Pugiotto, Il “blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva (nota all’inequivocabile sentenza n. 149/2018), in Osservatorio costituzionale AIC.
[45] Per un approfondimento degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tal senso, cfr. V. Manca, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, cit., 187-188.
[46] Sul punto, di recente, sent. n. 197 del 2021, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit. rispetto alla misura di sicurezza della casa lavoro; per un commento all’ordinanza n. 30408, sollevata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, cfr., per tutti, F. Gianfilippi, Al vaglio della Consulta la legittimità costituzionale dell’imposizione del regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis nei confronti del sottoposto alla misura di sicurezza detentiva, in Sistema penale, 24.11.2020.
[47] Sul punto, per tutti, cfr. M. Nobili, art. 25, co. 1, in (a cura di) G. Branca, Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 24-26, Bologna-Roma, 1981, 186; nonché F. Bricola, L’intervento del giudice nell’esecuzione delle pene detentive: profili giurisdizionali e profili amministrativi, in Ind. pen., 1969, 279.
[48] A ciò si aggiunga, che tutti gli autori dei vari tipi di ergastolo citati sono destinatari di regole di trattamento particolarmente afflittive: come, ad es., per la stessa ubicazione fisica, in regimi, o circuiti, di isolamento e segregazione, da se stessi e dalla socialità, in istituti ad hoc, in sezioni apposite; per lo svolgimento dei colloqui telefonici con l’esterno, dai familiari ai difensori; per l’accesso ai colloqui visivi, di familiari, difensori e terze persone; per l’ammissione a percorsi di studio e attività lavorative o ricreative; per la corrispondenza; ecc.; tutto è reso ulteriormente più afflittivo, fino all’apice della repressione, con il regime del 41-bis ord. penit., e la sospensione delle principali regole di trattamento.
[49] Così sent. n. 32 del 2020; per un commento, per tutti: F. Gianfilippi, Il divieto di interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in materia di concedibilità delle misure alternative: la svolta della Corte Costituzionale nella sent. 32/2020 e l'argine ad un uso simbolico dell'art. 4-bis, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3, 2020, 1458 ss.
[50] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 29.
[51] Cfr., tra le molte, sentenze nn. 306/1993; 504/1995; 357/1994; 68/1995; 137/1999. Per un approfondimento, cfr. ID., La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 30-32.
[52] Con altrettanti principi di rilievo, contenuti nelle sentenze, cfr., tra le molte, nn. 204/1974; 264/1974; 282/1989; 313/1990; 306/1993: cfr., così, in via riassuntiva, A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 34; nonché, C. E. Paliero, L’esecuzione della pena nello specchio della Corte costituzionale: conferme e aspettative, in (a cura di) G. Vassalli, Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 147 ss.
[53] Cfr., per tutti, P. De Alburquerque, L’ergastolo e il diritto europeo alla speranza, in (a cura di) E. Dolcini, E. Fassone, D. Galliani, P. De Alburquerque, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, cit., 221 ss.
[54] Cfr., tra i molti, C. Fiorio, I diritti fondamentali delle persone detenute, in (a cura di) F. Fiorentin, La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, Torino, 2019, 3-36.
[55] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 65-84.
[56] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 109-142.
[57] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, cit., 109-118.
[58] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 72.
[59] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 75-78.
[60] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 72-74.
[61] Cfr. D. Galliani, Gli ergastoli altrove. Ovvero la pena perpetua nel mondo, cit., 118-119.
[62] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 75-79.
[63] Cfr. B. Randazzo, La versione di Strasburgo. Gli ergastoli nella giurisprudenza della Corte EDU, cit., 82.
[64] In materia, per tutti, in chiave monografica, cfr. F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017; L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018.
[65] Cfr. A. Pugiotto, La versione della Consulta. Gli ergastoli nella giurisprudenza costituzionale, cit., 47-64.
[66] Per tutti, cfr. A. Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004, 54 ss.; M. Delmas Marty, Le flou du droit, trad. it., di A. Bernardi, e (a cura di) F. Palazzo, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, Milano, 1992, 7 ss.; O. Di Giovene, Il principio di legalità penale tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in Studi in onore di Mario Romano, IV, Napoli, 2011, 2249 ss.; V. Manes, Il giudice nel labirinto. profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012; C. Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007.
[67] Cfr., per tutti, L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 665, l’autrice ricorda come la tecnica della declaratoria “in differita” sia stata utilizzata di recente dalla Corte costituzionale, in altri due casi: con ord. n. 2017 del 2018, nel caso Cappato-Antoniani, e, quello in relazione al trattamento sanzionatorio a mezzo stampa, con ord. n. 132 del 2020.
[68] Cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell’ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 665-667.
[69] Cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell’ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 667.
[70] Cfr., per una soluzione innovativa, di applicazione diretta del portato della sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale, a tutti i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992, e, quindi, della versione “assolutamente ostativa” dell’art. 4-bis, co. 1 ord. penit.: Trib. sorv. Firenze, ord. 29.10.2020, pres. Bortolato, est. Caretto, con nota di M. Passione, La fine è nota (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze), in (a cura di) G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in Forma QC – Rassegna, n. 4/2020, 206 ss. Per le questioni pendenti, cfr., di recente, Trib. sorv. Perugia, ord. 23.09.2021, pres. Restivo, est. Gianfilippi, con commento di F. Siracusano, Affidamento in prova al servizio sociale del condannato, per reati diversi da quelli di “ambito mafioso”, non collaborante con la giustizia: un’altra questione, circa la tenuta del modello preclusivo imposto dall’art. 4-bis comma 1 ord. penit., approda al sindacato della Corte costituzionale, in Sistema penale, 26.10.2021.
[71] Cfr. R. De Vito, La liberazione condizionale nel diritto vivente giurisprudenziale, cit., 143-162. Per un approfondimento, sulle possibili riforme da intraprendere e da riprendere rispetto ai passati progetti di riforma del Codice Rocco, cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, in (a cura di) S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, cit., 163-186.
[72] Per la visione delle ragioni e dell’articolato, cfr. Dossier Servizio Studi alla Camera: “Accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati c.d. ostativi AA.C. 1951, 3106 e 3184”, pubblicato il 04.07.2021, in www.camera.it.
[73] Cfr. Proposta di legge d’iniziativa della deputata On. Bruno Bossio, Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, presentata 12.07.2019, AC n. 1951, www.camera.it. Un altro elemento inserito dalla proposta Bossio riguarda la specificazione circa la forma e il contenuto che dovrebbero acquisire le informative di polizia: non informazioni generiche e apodittiche sulla pericolosità sociale, spesso desunta dalla stessa posizione giuridica del condannato, o dall’excursus processuale, ma “dettagliate” informazioni sull’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
[74] In tal senso, cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, in Sistema penale, 02.11.2021.
[75] Cfr. Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Ferraresi, Bonafede e altri: “Modifiche all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di concessione dei benefìci penitenziari e di accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni gravi delitti, nonché delega al Governo in materia di accentramento della competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza per i giudizi riguardanti i detenuti o internati sottoposti al regime previsto dall'articolo 41-bis, comma 2, della medesima legge”, 11.05.2021, AC 3106, www.camera.it.
[76] Sulle riflessioni di Antigone, cfr.: “Ergastolo ostativo e pena costituzionale: una nota dell’associazione Antigone”, con il documento pubblicato il 21.10.2021 in www.antigone.it e inviato alle Camere.
[77] Cfr. Corte cost. n. 149 del 2018, con nota di E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), cit. Allo stesso modo, risulta ancor più irragionevole la preclusione assoluta di accesso alla liberazione condizionale, per i condannati a pene temporanee. Per la lettura e per una prima spiegazione dell’articolato, cfr. Dossier Servizio Studi alla Camera: “Accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati c.d. ostativi AA.C. 1951, 3106 e 3184”, cit.
[78] Numerosi sono gli aspetti critici dello schema di articolato proposto, tra cui: (i) la previsione del divieto di scioglimento virtuale del cumulo di condanne, in caso di reati eterogenei; (ii) l’acquisizione obbligatoria delle informative di polizia; (iii) la possibilità che la trasmissione delle informative e dei pareri sia prorogata oltre il termine di trenta giorni, in caso di complessità di analisi del caso; (iv) l’onere di motivazione rafforzato per il giudice di sorveglianza, in caso di discostamento dai pareri acquisiti; (v) la penalità dell’inefficacia del provvedimento di accoglimento dell’istanza del condannato, in caso di decisione anticipata prima della ricezione dei pareri, oppure, per carenza di motivazione espressa, in caso di discostamento dalle informative. Ancor più complessa, la formulazione del co. 1-bis.1. dell’art. 4-bis ord. penit.: l’accesso a tutti i benefici penitenziari, e, quindi, non solo la liberazione condizionale sono subordinati al superamento della prova, a carico integrale del condannato, dell’adempimento delle obbligazioni civili da risarcimento del danno da reato, oppure, all’assoluta impossibilità di adempiere, e alla dimostrazione, con elementi concreti e positivi, che non si riducano alla mera dissociazione, dell’assenza dell’attualità di collegamenti e dell’impossibilità del pericolo del relativo ripristino. Rispetto agli organi di polizia coinvolti, poi, sollevano qualche perplessità la modifica della competenza e l’aggiunta sia del comitato provinciale peer la sicurezza e l’ordine pubblico del luogo in cui è stata emessa la sentenza di primo grado, sia, se diverso, di quello competente per la residenza del condannato, con la partecipazione anche del direttore del carcere.
[79] Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Delmastro Delle Vedove, Butti e altri: “Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di concessione di benefìci penitenziari e di accertamento della pericolosità sociale nei confronti dei detenuti o internati”, presentata 30.06.2021, AC n. 3184, www.camera.it.
[80] Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Paolini, Turri e altri: “Modifiche all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia”, presentata il 13.10.2021, AC n. 3315, www.camera.it.
[81] Critica la dottrina, in tal senso, cfr. L. Risicato, L’incostituzionalità riluttante dell'ergastolo ostativo: alcune note a margine di Corte cost., ordinanza n. 97/2021, cit., 668; nonché E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, cit.
[82] La proposta dell’On. Paolini, invece, estende le competenze anche ad altri comitati provinciali, prevedendo la partecipazione all’istruttoria sia del comitato del luogo dove ha sede il carcere, sia di quello dove il condannato ha stabilito la residenza prima della carcerazione e nella sede in cui intende svolgere la misura extramuraria.
[83] Prescrizione, quest’ultima, suggerita dalla stessa Corte costituzionale, con ord. n. 97 del 2021, con riguardo, però, alle limitazioni di movimento della libertà vigilata per la liberazione condizionale, e, non, invece, come variamente previsto nei diversi articolati, per tutti i benefici e misure alternative alla detenzione.
[84] Per la lettura dell’articolato, e per un primo commento, in senso critico, cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[85] In tal senso, infatti, il co. 1-sexies dell’art. 4-bis ord. penit., per cui: “[…] il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato, desunto dalla sua valutazione critica della sua precedente condotta, dalle sue iniziative a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, e dal suo contributo alla realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”.
[86] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[87] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[88] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[89] Cfr. E. Dolcini, Reati ostativi e collaborazione con la giustizia: la proposta di riforma della Fondazione Falcone, cit.
[90] Per un commento alla riforma della giustizia penale, promossa dalla Ministra della Giustizia, Prof.ssa Marta Cartabia, cfr., per tutti, G. L. Gatta, Legge 27 settembre 2021, n. 134, «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» (G.U. n. 237 del 4 ottobre 2021), in Sistema penale, 15.10.2021.
[91] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 163-184.
[92] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 170-174.
[93] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 172-173.
[94] In chiave critica, rispetto a potenziali strumentalizzazione della giustizia riparativa applicata a casi di criminalità organizzata di stampo mafioso, cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 179-184.
[95] Cfr. G. Fiandaca, Al posto degli ergastoli, cit., 175-176.
[96] Riprendendo così la suggestione della storica del diritto, citata inizialmente, cfr. L. Garlati, Sepolti vivi. Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, cit., 12.
Il principio della domanda nel giudizio di ottemperanza (nota a C.G.A.R.S., Sez. giur., 14 luglio 2021, n. 707).
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3. Il rito per la liquidazione dei danni di cui all’art. 34, co. 4, c.p.a.: la sentenza di determinazione dei criteri per il risarcimento del danno - 4 Il giudizio di ottemperanza per “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi inseguiti” ai sensi dell’art. 34 c.p.a. - 5. La natura del commissario ad acta: gli orientamenti tradizionali - 6. La natura del commissario ad acta alla luce dell’art. 21 c.p.a. - 7. Considerazioni critiche - 8. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza in commento si pone quale tassello finale di una lunga vicenda giudiziaria che ha visto contrapposti un’associazione temporanea di imprese e la Regione Sicilia: ottenuta l’esclusione delle prime due classificate e l’annullamento del provvedimento di riedizione della gara, un R.T.I. è ricorso al Consiglio di Giustizia amministrativa siciliano, dapprima per il risarcimento dei relativi danni e una seconda volta per l’ottemperanza della sentenza di condanna. Quest’ultimo giudizio, principiato da un’istanza della Regione di nomina di un commissario ad acta, si è concluso con la sentenza in commento, occasione per riflettere, oltre che sulla figura dell’ausiliario e sulle potenzialità di questo istituto[1], sulle domande che la parte privata e quella pubblica possono proporre nel giudizio di ottemperanza.
2. La vicenda
La controversia riguarda la procedura a evidenza pubblica per l’affidamento dei “lavori di bonifica ambientale dell’area e dei manufatti dell’esistente impianto di depurazione dell’Isola di Lampedusa” bandita dalla Regione Sicilia: le ricorrenti, società componenti un’a.t.i. giunta terza in graduatoria, si dolgono dell’ammissione alla competizione della prima e della seconda classificata, le quali non sarebbero state escluse, nonostante abbiano dichiarato di voler ricorrere all’istituto dell’avvalimento per comprovare il possesso dell’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, ricorso espressamente escluso dall’inequivocabile disposto recato dall’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. 163/2006.
La parte ricorrente lamenta poi l’illegittimità della decisione della stazione appaltante di annullare in autotutela l’intera gara, invece di aggiudicarla in suo favore: l’Ente regionale, infatti, accortosi dell’illegittimità della previsione contenuta nella lettera d’invito che ammetteva il ricorso all’avvalimento per iscrizione all’Albo predetto, in aperta violazione dell’art. 49 cit. (che espressamente vieta ciò che la stazione appaltante ha permesso), invece di procedere con l’esclusione delle prime due classificate e con lo scorrimento della graduatoria, ha scelto di annullare l’intera competizione e di indirne una nuova.
Le società ricorrenti hanno allora domandato la sospensione della nuova procedura, istanza che dapprima è stata negata dal T.A.R. palermitano[2], ma poi concessa in sede d’appello dal Consiglio di Giustizia siciliano[3].
Nonostante ciò, il ricorso è stato rigettato. Il Giudice di primo grado, infatti, ha ritenuto che l’annullamento in autotutela della gara non sia stato “posto in essere all’esclusivo fine di porre rimedio all’erronea formulazione” della lettera d’invito, nella parte in cui ammetteva “il ricorso all’istituto dell’avvalimento per l’iscrizione all’Albo” Nazionale Gestori Ambientali, in violazione dell’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. n. 163/2006[4]. Il T.A.R., pur riaffermando quanto già il C.G.A.R.S., in sede cautelare aveva esposto, ossia che, se fosse stata questa “la sola ragione dell’annullamento e dell’indizione di una nuova gara”, l’amministrazione avrebbe dovuto far spiegare all’autotutela i suoi effetti all’interno della procedura, escludendo le prime due classificate e aggiudicando i lavori alla terza graduata, anziché annullare l’intera gara”, individua nel decreto che ha annullato la gara un’ulteriore motivazione rispetto a quella anzidetta che fonda la scelta di indire una nuova procedura: la necessità di dover “estendere l’invito … anche a tutte le ditte aventi sede nel territorio siciliano, in possesso del requisito di iscrizione all’Albo Nazionale del Gestori Ambientali”. Donde la decisione di rigettare il ricorso e di non caducare il provvedimento di annullamento della prima gara e quello indittivo della seconda.
Di diverso avviso si è però mostrato il Consiglio di Giustizia[5], adito per la riforma dell’anzidetta sentenza, il quale non ha messo in discussione che alla base della scelta di indire una nuova competizione vi sia pure la motivazione testé esposta: contesta invece che a ciò l’amministrazione potesse provvedere attraverso il rimedio dell’autotutela, il quale ha come fine quello di “correggere l’attività amministrativa emendandola da vizi che la rendono illegittima, e … prevenire l’insorgere di liti giudiziarie che possano vedere soccombere, con aggravio di spese, l’Amministrazione”.
Siccome l’unica autotutela possibile poteva essere quella volta a neutralizzare l’avvenuta ammissione alla procedura di gara delle due imprese prive dell’iscrizione all’Albo suddetto, a ciò la Regione avrebbe potuto (anzi dovuto) provvedere, in modo semplice e agevole, escludendo le due società erroneamente ammesse: con la conseguenza che la gara si sarebbe conclusa con l’aggiudicazione dell’appellante in quella sede.
Annullare l’intera gara si palesa quindi come un mezzo “sproporzionato” rispetto al “fine correttivo”, che ha determinato il travolgimento di atti che, invece, erano meritevoli di essere conservati: il provvedimento di annullamento risulta quindi, a detta del Giudice di secondo grado, un chiaro esempio di sviamento dalla causa tipica del potere esercitato, surrettiziamente presentato come autotutela, anche se in verità volto a revocare – a seguito di una nuova valutazione di opportunità – una gara giunta alla sua fase conclusiva.
Alla riforma della sentenza e, quindi, all’annullamento del provvedimento di annullamento della gara, per il Collegio segue “l’obbligo dell’Amministrazione di concludere il procedimento di gara con la pronunzia dell’aggiudicazione in favore del soggetto che in graduatoria risulta collocato in posizione utile a conseguirla”[6].
Alla sentenza, resa pubblica il 18 aprile 2018, non è però seguito alcun comportamento di fattiva ottemperanza da parte della stazione appaltante.
Dalla sentenza n. 79/2021, pronunciata dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana in sede di ottemperanza e resa pubblica il 2 febbraio 2021, si apprende infatti che la Regione Sicilia non si è curata delle ordinanze sospensive via via emanate dagli organi giurisdizionali, le quali avrebbero dovuto arrestare la nuova gara bandita[7].
Più precisamente, nel mese e mezzo di tempo che è intercorso tra l’ordinanza cautelare del T.A.R. siciliano che ha rigettato l’inibitoria della ricorrente[8] e l’ordinanza sull’appello cautelare che l’ha riformata[9], l’Assessorato regionale ha concluso la seconda gara, bandita dopo l’annullamento della prima, aggiudicando all’operatore economico risultato primo in graduatoria l’esecuzione dei lavori. Di poi, nonostante la sospensione ordinata dal Consiglio di giustizia siciliano, la Regione ha proseguito i rapporti con l’aggiudicatario, il quale nel corso del successivo anno ha portato a termine i lavori (ultimati il 30 novembre 2016), successivamente collaudati l’11 dicembre 2017. Insomma, già nel momento in cui il T.A.R. palermitano pronunciava la sentenza di primo grado, nessuna tutela in forma specifica risultava più possibile per l’originaria ricorrente.
Apparentemente ignara di questi fatti, quest’ultima, adendo il C.G.A.R.S. per l’ottemperanza della sentenza n. 228/2018, che le attribuiva l’aggiudicazione della gara annullata, domandava il conseguimento dell’appalto o il risarcimento del danno per equivalente monetario.
Essendo possibile solo questa seconda via, e risultando oggettiva la responsabilità dell’amministrazione[10], il Collegio ha pronunciato una condanna generica al risarcimento dei danni per la mancata aggiudicazione, utilizzando, per la concreta liquidazione, lo strumento previsto dall’art. 34 c.p.a., il cui comma 4 prevede che, “in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
Alla pubblicazione della sentenza sono seguiti dei tentativi tra le parti per trovare l’accordo sulla quantificazione della somma di denaro[11], ma, stante la distanza siderale tra le avverse posizioni, l’amministrazione ha deciso di adire nuovamente il C.G.A.R.S., cui ha domandato di nominare un commissario ad acta; nell’ambito di questo quarto procedimento, l’operatore economico danneggiato ha invece chiesto la condanna della Regione al pagamento di una somma poco superiore a duecentomila euro[12].
La sentenza, resa pubblica lo scorso 14 luglio 2021 e che ci si propone di annotare in questa sede, si sostanzia in un rigetto delle domande formulate da entrambe le parti.
Quanto alla richiesta della società danneggiata, riportata in nota per completezza nei termini in cui è stata sintetizzata in sentenza[13], il Collegio ritiene che con essa non siano stati domandati, così come invece prevede l’art. 34, co. 4, c.p.a., “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
A giudizio del C.G.A.R.S., è vero che “con il ricorso introduttivo del presente giudizio di ottemperanza” (recte, con il ricorso definito dalla sentenza n. 79/2021, che ha pronunciato la condanna generica contro la Regione) parte ricorrente aveva “chiesto la condanna degli Enti resistenti al pagamento in favore della complessiva somma di € 318.341,10, ovvero nella maggiore somma da accertarsi in corso di giudizio, e la nomina di un commissario ad acta”. Tuttavia, continua il Giudice, quel “giudizio è stato definito con la sentenza n. 79/2021 che è una decisione ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a., con la quale, invece di individuarsi direttamente l’ammontare della somma dovuta, sono stati dettati i criteri di quantificazione”.
E, siccome nel presente giudizio il Collegio ritiene che non sia stata avanzata in modo rituale alcuna richiesta di “determinazione della somma dovuta”, domanda probabilmente avanzata nel corso della trattazione della causa, ma non veicolata “nelle forme rituali del ricorso per ottemperanza, ossia mediante atto notificato”, ha ritenuto che non vi fosse alcuna richiesta su cui dover provvedere.
Quanto poi alla richiesta dell’amministrazione di nomina di un commissario ad acta, la stessa è stata rigettata. Il Collegio siciliano ha affermato infatti che tale domanda può provenire unicamente “da parte del soggetto interessato all’esecuzione della decisione”, dovendosi ritenere “priva di causa” un’istanza di tal genere formulata da quell’amministrazione “che decida di non svolgere i propri compiti, in spregio ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa”: la nomina – continua il C.G.A.R.S. – è infatti “funzionale a rimediare all’inadempienza dell’amministrazione, che non può scientemente sottrarsi ai propri obblighi, decidendo di non adempiere ed accollando tale compito ad un soggetto che rappresenta la longa manus del giudice, organo del giudizio di ottemperanza”.
Per comprendere meglio tale decisione, vale la pena prendere le mosse dalla sentenza di cui da ultimo è stata chiesta l’ottemperanza (ossia la n. 79/2021), pronunciata ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a.
3. Il rito per la liquidazione dei danni di cui all’art. 34, co. 4, c.p.a.: la sentenza di determinazione dei criteri per il risarcimento del danno
La disposizione testé citata si rifà al procedimento delineato dall’art. 35, d.lgs. n. 80/1998, vigente fino all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, a mente del quale “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto” (così il comma 1); in questi casi – prosegue il comma secondo – “il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta”.
Il meccanismo di cui al quarto comma dell’art. 34 ricalca questo schema, estendendolo a tutte le condanne pecuniarie (e non limitandolo a quelle pronunciate nell’ambito della giurisdizione esclusiva[14]), ma aggiungendo che esso è utilizzabile solo in mancanza di opposizione delle parti.
La speciale pronuncia delineata dall’art. 34 mira a far fronte alla necessità per il Giudice che intenda comminare una condanna di disporre complessi accertamenti di fatto e tecnici, indispensabili per la liquidazione del danno unicamente mediante una c.t.u., la quale si rende quindi superflua laddove il Collegio, in ordine al quantum risarcitorio, indichi i criteri cui attenersi, senza procedere anche alla concreta quantificazione.
Il meccanismo è presto spiegato: il giudice amministrativo, una volta deciso sull’an, ossia sulla spettanza del risarcimento, fissa i criteri di liquidazione del danno cui l’amministrazione deve attenersi nel formulare una proposta al soggetto leso. Tale opzione è ovviamente facoltativa per il Giudice, il quale potrebbe, in alternativa, condannare la parte resistente al pagamento di una certa somma[15].
Come detto sopra, lo scopo della previsione è quello di evitare l’espletamento di una c.t.u., “venendo rimessa la quantificazione del danno al corretto e leale comportamento delle parti nonché ai principi di buona amministrazione, efficacia ed efficienza”[16]. Il giudice fissa quindi un congruo termine entro cui l’amministrazione deve formulare la sua proposta.
La possibilità per il Giudice di pronunciare una sentenza di tal genere è subordinata al fatto che le parti non si siano opposte. La giurisprudenza ritiene che non serva un accordo espresso, né sarebbe necessario che il Collegio solleciti l’espressione di una manifestazione di volontà, ben sapendo i soggetti in causa che, a fronte della proposizione di una domanda di condanna, esiste la possibilità che l’organo giurisdizionale scelga tale opzione[17].
Per dottrina e giurisprudenza, l’accordo a valle della decisione si forma secondo l’ordinaria disciplina civilistica, quando alla proposta dell’amministrazione segue l’accettazione del privato[18]: se l’intesa è raggiunta, l’accordo non preclude l’impugnazione della sentenza di condanna che si è pronunciata sull’an della pretesa, ma impedisce di adire il Giudice per conseguire somme maggiori rispetto a quelle liquidate con l’accordo sottoscritto tra le parti.
Se queste non riescono a raggiungere un’intesa, perché l’amministrazione resta inerte o perché il privato rifiuta la proposta, il Giudice può essere nuovamente adito con il ricorso di cui al Titolo I del Libro IV del c.p.a., ossia quello proposto in sede di ottemperanza[19]. A onor del vero, ci si trova davanti a una forma di ottemperanza anomala, finalizzata a “riempire” la condanna pronunciata dal Giudice, che si era limitato a individuare i soli criteri per la liquidazione del danno. Tale rito è stato scelto perché si tratta di uno strumento processuale agile e rapido, diretto a integrare il precetto contenuto nella prima decisione.
Tornando alla sentenza di cui si chiede l’ottemperanza nella pronuncia qui in commento, il C.G.A.R.S., per la determinazione del lucro cessante, ha richiamato un proprio precedente[20], nel quale si è affermato che la stazione appaltante deve basare la sua proposta, in casi come questi in cui la tutela in forma specifica mediante aggiudicazione dei lavori è impossibile, sugli elementi emergenti dall’offerta, “posto che nella stessa sono esposti i costi dai quali sono desumibili, seppur approssimativamente, i ricavi netti – e dunque l’utile (rectius: il profitto) – che la società prevedeva di trarre dall’aggiudicazione e dalla conseguente esecuzione dell’appalto”[21].
Il Consiglio ha avuto cura di precisare che, qualora la legge di gara non consenta di accertare quale sarebbe stato l’utile effettivo, allora l’amministrazione può ricorrere al criterio presuntivo, costituito dalla percentuale di utile indicata nel prezziario regionale all’epoca vigente, al netto del ribasso offerto dall’impresa in sede di offerta[22].
Nulla, invece, è stato riconosciuto a titolo di danno curricolare, non essendo stata offerta da parte delle ricorrenti la prova di non aver utilizzato (o potuto altrimenti utilizzare) maestranze e mezzi poiché tenuti a disposizione in vista della commessa, dovendosi quindi presumere, secondo il meccanismo dell’aliunde perceptum vel percipiendum, che l’impresa abbia riutilizzato (o potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza) mezzi e manodopera per altri lavori, con conseguente decurtazione, in via equitativa, di una percentuale del 25% della somma riconosciuta a titolo di lucro cessante[23].
Come anticipato, però, nonostante la perspicuità e l’alto livello di dettaglio dei criteri indicati dal Giudice, la parte ricorrente e quella resistente sono giunte a due quantificazioni molto diverse in ordine al danno risarcibile, che ha indotto la seconda ad adire per la quarta volta il Giudice amministrativo: giudizio conclusosi con la sentenza qui in commento, verso cui ora convergerà la nostra attenzione.
4. Il giudizio di ottemperanza per “la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi inseguiti” ai sensi dell’art. 34 c.p.a.
Vale la pena di concentrarci sulla sentenza n. 707/2021, con la quale il Collegio ha rigettato le richieste formulate da entrambe le parti.
L’a.t.i. ha domandato – come viene riportato in sentenza – “che venga dichiarato l’obbligo degli Enti resistenti al risarcimento per equivalente monetario per la refusione dei danni complessivamente patiti a causa dei provvedimenti impugnati, da quantificarsi nella complessiva somma di € 216.428,13, oltre accessori, e, in via istruttoria, che venga disposta consulenza tecnica d’ufficio ai fini della quantificazione del risarcimento del danno”. Aggiunge il Collegio che “la parte ricorrente non ha chiesto la nomina di un Commissario ad acta”.
La richiesta non ha però trovato accoglimento. La decisione si spiega solo leggendo il prosieguo della motivazione, nella parte in cui il Giudice, ricostruendo i fatti, scrive che “dalla documentazione prodotta in giudizio dall’amministrazione si evince che quest’ultima ha inviato all’impresa una proposta risarcitoria dell’importo di euro € 25.084,57; che le imprese interessate hanno risposto inoltrando un atto di diffida con il quale rilevano come la proposta non sia «suscettibile di accoglimento e deve necessariamente disattendersi in quanto fondamentalmente errata, incongrua ed inesatta ed in quanto tale elusiva del giudicato reso dal C.G.A.», diffidando al pagamento dell’importo di € 216.428,13; che l’amministrazione ha rinnovato «la proposta risarcitoria avanzata con prot. n° 8319 del 25/02/2021, redatta in conformità alle indicazioni contenute nella sentenza del C.G.A. n° 79/2021 pubblicata in data 02/02/2021», specificando i criteri seguiti per la quantificazione ivi esposta”.
Si legge poi che “le ricorrenti non risultano aver dato riscontro a tale nota” e che “successivamente alla presentazione da parte dell’amministrazione dell’istanza di nomina del commissario ad acta hanno presentato una memoria formulando le richieste sopra indicate”. Sembra che l’associazione di imprese cui il Collegio si riferisce parlando di “parte ricorrente” sia invero stata intimata nel presente giudizio, nonostante in epigrafe venga riportato l’opposto[24], e che il procedimento sia stato incardinato dall’amministrazione con la presentazione dell’istanza di nomina di un commissario ad acta.
La domanda dell’aggiudicataria pretermessa pare quindi essere stata veicolata attraverso un atto meramente depositato, invece che notificato a controparte[25]: le richieste ivi contenute non possono quindi essere oggetto di scrutinio da parte del Giudice[26].
Di maggior interesse è la richiesta dell’amministrazione, la quale, come si è detto, non ha trovato accoglimento per due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché, a detta del Consiglio siciliano, essa non sarebbe proponibile dalla P.A., che, formulando una domanda di tal fatta, dimostrerebbe di volersi scientemente sottrarre “ai propri obblighi, decidendo di non adempiere”, “accollando tale compito a un soggetto che rappresenta la longa manus del giudice”.
A detta del Collegio, infatti, il potere sostitutivo implicherebbe “la surroga ex lege dell’amministrazione inadempiente ad opera del commissario ad acta”, il quale è “organo straordinario della stessa amministrazione”.
In secondo luogo, sarebbe “priva di causa” la nomina di un commissario in assenza di una richiesta di tal tenore “da parte del soggetto interessato all’esecuzione della decisione”, bensì su istanza “dell’amministrazione che decida di non svolgere i propri compiti, in spregio ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa”.
Così sunteggiata la scarna motivazione di rigetto, si pongono all’attenzione dell’interprete almeno due temi meritevoli di approfondimento: quale sia la natura del commissario ad acta e se nel caso di specie si possa effettivamente affermare che manchi la richiesta di nomina dell’ausiliario da parte di un soggetto interessato.
5. La natura del commissario ad acta – gli orientamenti tradizionali
La figura del commissario ad acta vede le sue origini nel silenzio del legislatore, all’inizio degli anni Sessanta, in alcune sentenze che riconoscevano il potere del giudice di ordinare all’amministrazione la nomina di un commissario, che si sostituisse alla stessa onde far fronte al suo inadempimento, ponendo in essere gli atti e le attività necessari all’esecuzione del giudicato[27].
Prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, almeno tre erano le impostazioni elaborate per ricostruire la figura in parola.
La prima, prevalente in dottrina e giurisprudenza, tendeva a identificare il commissario ad acta in un organo del giudice dell’ottemperanza. Si deve tale ricostruzione a un’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – 14 luglio 1978, n. 23 –, la quale, escludendo che tale soggetto possa rappresentare un organo, sia pure straordinario, dell’amministrazione, ha affermato che esso debba essere considerato quale organo del giudice, sia che esso venga scelto direttamente da quest’ultimo, sia che la scelta passi attraverso l’interposizione di un organo amministrativo incaricato dal giudice di procedere alla nomina[28].
Tale posizione si fonda invero anche su una coeva pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 12 maggio 1977 n. 75), nella quale si è affermato che “il giudice amministrativo, sia che sostituisca la propria decisione all’omesso provvedimento della pubblica amministrazione, che vi era tenuta in forza del giudicato formatosi nei suoi confronti, come più spesso suole accadere quando si tratti di atto vincolato; sia che ingiunga alla amministrazione medesima di provvedere essa stessa, entro un termine all’uopo prefissatole e con le modalità specificate in sentenza; sia infine che disponga la nomina di un commissario per l’ipotesi che il termine abbia a decorrere infruttuosamente, esplica sempre attività di carattere giurisdizionale («decide pronunciando anche in merito», come si esprime l’art. 27, comma primo, del citato testo unico del 1924, riferendosi testualmente al Consiglio di Stato «in sede giurisdizionale»). Né fa differenza, sotto questo aspetto . . . che la nomina del commissario sia operata dal giudice amministrativo direttamente, ovvero attraverso l’interposizione di un organo amministrativo. . . , poiché in tal caso a quest’ultimo viene semplicemente demandata la scelta della persona, e non già conferito il potere di agire in via sostitutiva per mezzo di un «suo» commissario, come si verifica invece quando sia l’organo di controllo, di propria iniziativa, ad inviare un commissario ad acta presso amministrazioni sottoposte alla sua vigilanza. Procedendo, pertanto, direttamente o indirettamente, alla nomina di un commissario, il giudice amministrativo non si surroga all’organo di controllo, ma pone in essere un’attività qualitativamente diversa da quella che quest’ultimo avrebbe istituzionalmente il potere-dovere di esplicare nell’ipotesi di omissione da parte degli enti locali di atti obbligatori per legge, tra i quali rientrano bensì, ma senza esaurirne la specie, quelli da adottare per conformarsi ad un giudicato: potere-dovere che, comunque, preesiste alla pronuncia emessa nel giudizio di ottemperanza ed è da questa indipendente. Ed a sua volta, l’attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall’organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull’ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”[29].
In base a questa teoria, il commissario ad acta sarebbe quindi da considerarsi ausiliario del giudice: in verità, però, tale impostazione non ha avuto molto successo, mancando una disposizione di legge che attribuisse al giudice il potere di istituire organi amministrativi e preporvi funzionari di sua scelta[30].
Alla ricostruzione di cui si è appena detto, se ne contrapponeva un’altra, che qualificava il commissario ad acta come organo straordinario dell’amministrazione: tale teoria si fondava sulla considerazione per cui “deve escludersi che un’attività caratterizzata da valutazioni amministrative di tipo discrezionale possa essere riferita alla giurisdizione e quindi compiuta senza assunzione di responsabilità politiche, civili ed amministrative ed eventualmente in difformità dagli indirizzi politici dell’autorità attributaria del potere in via ordinaria”[31].
In assenza di una chiara disciplina di legge, vi era chi sosteneva – tra gli aderenti a questa seconda teoria – che gli atti del commissario, che agisce non come longa manus del giudice bensì come supplente dell’amministrazione inerte, in nulla differissero da un “ordinario” atto amministrativo, impugnabile attraverso un ricorso in sede di legittimità nei termini generali di decadenza, giammai, però, dall’amministrazione, alla quale al più residuava la facoltà di annullamento in sede di autotutela[32].
Ai due orientamenti predetti se ne aggiungeva un terzo, elaborato dal Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, poi condiviso anche da altri organi giurisdizionali[33] e da una parte della dottrina[34]. In base a tale ulteriore impostazione, il commissario ad acta era da definirsi come soggetto misto, di natura ambivalente, avendo da un lato ricevuto un’investitura formale dal giudice finalizzata a portare ad esecuzione le prescrizioni contenute nella sentenza ottemperanda, ed essendo dall’altro lato organo straordinario della P.A., inserito forzatamente nella struttura amministrativa di quest’ultima.
A sopire, benché non del tutto, questo dibattito è stata l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
6. La natura del commissario ad acta alla luce dell’art. 21 c.p.a.
L’art. 21 c.p.a. prevede che il giudice possa sostituirsi alla pubblica amministrazione, quando necessario, nominando un commissario ad acta[35]; l’incarico di questi ha carattere fiduciario, con ampio margine di scelta per il giudice: la disposizione non fissa infatti vincoli analoghi a quelli previsti dall’art. 19 c.p.a. per la nomina dei consulenti tecnici, che debbono essere scelti tra gli iscritti in specifici albi o dotati di particolare competenza tecnica[36].
L’art. 21, anche in forza della sua collocazione all’interno del Capo VI del Libro I, dedicato agli “ausiliari del giudice”, è chiaro nel qualificare il commissario ad acta come tale, e non come organo della pubblica amministrazione.
Quanto alla relazione che si instaura tra la pubblica amministrazione e il commissario si sono nel tempo affermate due ricostruzioni opposte. In base a una tesi più risalente, tale rapporto avrebbe natura interorganica[37], mentre secondo un’impostazione più recente la relazione deve qualificarsi come intersoggettiva[38], per cui al commissario ad acta non spetterebbe una competenza di ordine generale sostitutiva delle prerogative in capo alla amministrazione pubblica sostituita[39]. Al contempo, comunque, non si può nemmeno affermare che il suo ruolo si riduca all’emanazione di un singolo atto, potendo invece accadere che egli debba compiere attività più complesse, affinché la sua azione sia effettiva nel consentire al privato di conseguire il bene della vita di cui è stato riconosciuto titolare[40].
La tesi della relazione di natura intersoggettiva troverebbe conferma anche nella circostanza che i poteri riconosciuti al commissario ad acta nominato nel giudizio di ottemperanza sono attribuiti e delimitati dalla stessa pronuncia giurisdizionale. Infatti, ai sensi del combinato disposto dell’art. 21 e dell’art. 114, co. 4, lett. d) c.p.a., il potere riconosciuto in capo al commissario trova fondamento diretto nella pronuncia giurisdizionale da eseguire.
Non è mancato, tuttavia, chi abbia tentato una rivisitazione delle più risalenti impostazioni: ci si riferisce qui all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che nella sentenza n. 7/2019, ha en passent scritto che il commissario ad acta avrebbe una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”. Affermazione che di recente il medesimo consesso ha ritenuto opportuno precisare (rectius, correggere). Risale allo scorso 25 maggio 2021 la già citata sentenza n. 8/2021, in cui l’Adunanza Plenaria ha affermato che “non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via «aggiuntiva», la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente – affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 9 maggio 2019 n. 7, che riconosce invece al commissario una «duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione»)”[41].
Tale conclusione si fonda innanzitutto sul fatto che “la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita”, nonché sulla considerazione per cui, siccome “gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge”, tale non può essere il commissario, a meno di non ritenerlo “un organo amministrativo di fonte giurisdizionale”.
Insomma, la qualifica di ausiliario del giudice appare la più adatta, anche considerando che tale soggetto non deve “esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico”, ma “dare attuazione alla pronuncia del giudice”; peraltro, aggiunge la Plenaria, “non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale”.
In modo alquanto lapidario, e con intento evidentemente correttivo del precedente di due anni prima, il Consiglio di Stato conclude sancendo che “attualmente, ed in modo inequivocabile, la conquistata definizione normativa dell’istituto ne definisce espressamente la natura soggettiva, che è quella (esclusivamente) di ausiliario del giudice”.
Peraltro, la dottrina più recente non sembra più nutrire dubbi su tale qualificazione, forse anche per il fatto che l’importanza di tale dibattito si fondava sull’incertezza del regime di impugnazione degli atti commissariali, questione oggi risolta dall’art. 114 c.p.a., che attrae tale cognizione al giudice dell’ottemperanza[42].
7. Considerazioni critiche
Analizzati gli istituti coinvolti nella sentenza in commento, deve ora spendersi qualche parola sulla scelta del C.G.A.R.S. di riferirsi al commissario ad acta quale organo straordinario dell’amministrazione.
L’affermazione è rimasta priva di una qualche motivazione a corredo, tale da rendere intellegibile la scelta del Collegio. Dal complessivo tenore della pronuncia, tuttavia, pare potersi affermare che l’uso di tale espressione non costituisca un tentativo di riportare in auge una tesi da tempo abbandonata[43], né sia la manifestazione di una volontà “controcorrente”, in aperto contrasto con quanto affermato dall’Adunanza Plenaria poco tempo prima. L’opzione perseguita dal Consiglio siciliano sembra più che altro volta a contrastare con maggior vigore la decisone di rigettare l’istanza di nomina di un commissario formulata dall’Amministrazione.
Il Giudice, infatti, appare più che altro interessato a sottolineare l’eccentricità dell’istanza, la proposizione della quale costituirebbe evidenza dello stato in cui versa l’amministrazione, che sostanzialmente domanderebbe di essere commissariata. Ciò che poi il Collegio sembra voler evidenziare è che tale condotta sia frutto di una chiara volontà della P.A. di “sottrarsi ai propri obblighi” e di voler rimettere l’onere di liquidare i danni a un terzo.
Ciò detto, vale la pena di capire se effettivamente un’istanza di tale tenore non fosse proponibile dall’amministrazione.
I pochi elementi in punto di fatto che la sentenza riassume, nonché le erronee indicazioni presenti in epigrafe (dove il ricorrente sembra il privato, quando, già si è detto, pare che sia stato l’Ente regionale ad aver per primo adito il Giudice), impediscono di qualificare in modo preciso la domanda formulata dall’Ente.
È noto che le ipotesi nelle quali il codice del processo amministrativo prevede la nomina del commissario ad acta sono:
- l’art. 34, co. 1, lett. e), secondo il quale il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”;
- l’art. 114, co. 4, lett. d), in base al quale il giudice dell’ottemperanza “nomina, ove occorra, un commissario ad acta”;
- l’art. 117, co. 3, secondo il quale, nell’ambito del giudizio sul silenzio dell’amministrazione, “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata”;
- l’art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell’interessato, eserciti “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”, e dunque possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta.
È altresì noto che, ai sensi del secondo periodo dell’art. 34, co. 4, “se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti”.
Le disposizioni che rilevano per risolvere la questione sono quindi gli artt. 112-114 c.p.a. relativi al giudizio di ottemperanza e l’art. 34 c.p.a.
Partendo dalla lettura di quest’ultimo nella parte testé citata, si può affermare che la norma tace sulla legittimazione attiva e, in ogni caso, non stabilisce che sia unicamente il privato creditore della somma di cui alla condanna pecuniaria ad essere titolato ad adire il Giudice con l’azione di ottemperanza.
Dall’altro lato vi sono gli artt. 112-114 c.p.a., cui rimanda l’art. 34 per la disciplina del ricorso ivi previsto. Da queste disposizioni si ricava che, mentre non v’è dubbio che la legittimazione passiva spetti alla pubblica amministrazione e ai controinteressati (ossia le parti del giudizio in cui è stata emessa la pronuncia di cui si chiede l’esecuzione), come annotato da autorevole dottrina “il c.p.a. tace sulla legittimazione attiva in relazione al ricorso per ottemperanza”[44]: non vi è quindi un dato legislativo inequivoco da cui possa desumersi che il ricorso per l’ottemperanza sia proponibile unicamente dal privato o, comunque, che l’unico ricorso per ottemperanza proponibile dal soggetto pubblico sia quello volto a ottenere chiarimenti (di cui all’art. 112, co. 5, c.p.a.).
Dall’esame delle disposizioni rilevanti non pare, quindi, che si possa affermare che la “parte interessata” alla nomina di un commissario ad acta non possa essere l’amministrazione.
Nel caso di specie, poi, vi è un altro elemento da tenere in considerazione: l’art. 34 non fissa alcuna limitazione relativa alla legittimazione attiva, anzi. Esso prevede che la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti “possono essere chiesti” con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, senza stabilire il soggetto da cui tale domanda debba provenire.
Ci si potrebbe domandare se, nel provvedere a una richiesta formulata ai sensi dell’art. 34 (di quantificazione del credito o di condanna all’adempimento), il Giudice possa avvalersi di un commissario: la risposta non può che essere positiva, atteso che tale facoltà viene riconosciuta dall’art. 114, co. 4, lett. d) (applicabile alla speciale azione di cui all’art. 34 in forza del rinvio al rito predetto), per cui il Collegio può provvedere alla “nomina, ove occorra, [di] un commissario ad acta”.
Peraltro, come si evince dal tenore della norma, anche in assenza di un’esplicita istanza il Giudice dell’ottemperanza può nominare tale proprio ausiliario.
Sembra allora che, in virtù di quanto detto, il C.G.A.R.S. sicuramente potesse, o probabilmente dovesse, nominare un commissario ad acta.
Infatti, in assenza di un divieto esplicito e, anzi, in forza di una disposizione che prevede la facoltà anche per l’amministrazione di attivare il meccanismo previsto dal secondo periodo del quarto comma dell’art. 34, il Giudice avrebbe dovuto provvedere sull’istanza presentata dalla Regione. Oltre al fatto che tale potere di nomina spetta in via generalizzata al Giudice dell’ottemperanza e, nel caso di specie, stante l’acclarata inerzia dell’amministrazione, le circostanze suggerivano l’opportunità di tale provvedimento.
8. Conclusioni
L’esecuzione del giudicato, lungi dall’essere una sorta di “appendice” alla fase di cognizione, “ne costituisce un passaggio essenziale, in quanto in esso si manifesta in concreto l’effettività della tutela giurisdizionale, … il momento in cui il comando espresso nella pronuncia del giudice deve trovare attuazione nella realtà materiale”[45].
La delicatezza di tale passaggio, dall’”essere” al “dover essere”, spiega l’attenzione che la dottrina e la giurisprudenza hanno dedicato al giudizio di ottemperanza e al giudicato[46], efficacemente definito come “l’anello di congiunzione tra la sentenza e l’ottemperanza/esecuzione … il punto di arrivo dell’esercizio della funzione giurisdizionale che deve creare certezza su un rapporto controverso tra le parti”[47].
Nel processo amministrativo, è noto, l’esecuzione del giudicato è caratterizzata da una serie di peculiarità che la distinguono nettamente da quella civilistica[48]: il nostro ordinamento, che deterrebbe il primato, tra quelli europei, della “riluttanza” delle amministrazioni pubbliche a dare piena e corretta esecuzione alle decisioni sfavorevoli dei giudici[49], conosce infatti un sistema tra i più avanzati, che fornisce al giudice dell’esecuzione una serie di penetranti strumenti coercitivi e di intervento nei confronti della p.a., in grado di assicurare una tutela piena ed effettiva al ricorrente vittorioso[50].
Ragionando unicamente alla luce del principio di effettività,, nel caso di specie il Giudice avrebbe potuto valutare percorsi interpretativi delle disposizioni in argomento che, in base a quanto si è detto sopra, consentono all’Amministrazione di presentare l’istanza di nomina di un commissario, oppure avrebbe potuto provvedere d’ufficio a tale nomina, avendo constatato che la Regione si trovava in una situazione di impasse.
Il C.G.A.R.S. è invece giunto alla soluzione opposta tracciando i limiti delle domande proponibili nel giudizio di ottemperanza, ritenendo, in particolare, che la parte pubblica non possa domandare la nomina del commissario ad acta [51].
La sentenza merita di essere inoltre segnalata come esempio di una crescente tendenza del Giudice ad auspicare che le parti trovino un accordo al di fuori del giudizio[52]. Ci si domanda allora se non sia opportuno cominciare a immaginare una estensione della casistica in cui consentire al Giudice, su istanza non solo del privato ma anche dell’amministrazione pubblica, di nominare un proprio ausiliario, che, nella veste di commissario, sia d’aiuto nel risolvere questioni che più facilmente possono trovare soluzione da un confronto collaborativo, piuttosto che in sede contenziosa. Non è questa la sede per approfondire il tema, ma la prassi insegna che, ad esempio, la fase esecutiva dei contratti d’appalto e dei project financing sia caratterizzata da un alto livello di litigiosità, il più delle volte causata dalla difficoltà per le parti di gestire un rapporto contrattuale che dura a lungo nel tempo e che involge questioni altamente tecniche, di difficile soluzione anche per il giudice amministrativo: non sarebbe improvvido, allora, che, prima che la lite venga definita da una sentenza, venga nominato dall’autorità giudiziaria un soggetto cui affidare il compito di tentare di risolvere la controversia insorta[53].
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[1] La dottrina sul commissario ad acta e sul giudizio di ottemperanza è molto vasta; senza pretesa di esaustività, si segnalano Andreis, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, in Dir. proc. amm., 2003, 1198 ss.; Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969; Cacciavillani, Il Giudicato, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 613 ss.; Id, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005; Caianiello, Esecuzione delle sentenze nei confronti della Pubblica Amministrazione, in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 603 ss.; Calabrò, Giudicato (dir. proc. amm.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2003; Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Agg. VI, 2002; D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza, Roma, 2015; Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.; Id., La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 1025 ss.; Tarullo, Ottemperanza (giudizio di), in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2017; Travi, L’esecuzione della sentenza, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, V, Milano, 2003, 4647 ss.
[2] Nella sentenza del T.A.R. Sicilia, Palermo, 9 novembre 2016, n. 2551, che ha definito il primo grado della controversia, si legge che la Sezione avrebbe accolto la domanda cautelare con ordinanza n. 482/2016, poi riformata dal giudice d’appello, con ordinanza n. 358/2016: in verità, però, il Collegio di primo grado aveva rigettato l’istanza inibitoria, decisione poi riformata in appello dalla pronuncia succitata.
[3] L’ordinanza n. 358 del 27 maggio 2016 del C.G.A.R.S. contiene in estrema sintesi, sebbene all’esito di una valutazione che si è concentrata più sul periculum in mora che sul fumus boni iuris, la decisione che poi verrà assunta dal Giudice d’appello. Rileva infatti il C.G.A.R.S. che, “nell’evidenza dell’errore pacificamente commesso dalla stazione appaltante, nell’ammettere i concorrenti Aemme s.r.l. e Pinto Vraca s.r.l. in violazione dell’art. 49, co. 1 bis, d.lgs. 163/2006, alla procedura negoziata avviata il 7.12.2015”, “l’autotutela dell’amministrazione avrebbe dovuto logicamente manifestarsi all’interno della procedura già avviata, escludendo tali imprese e aggiudicando i lavori alla terza in graduatoria, anziché annullare l’intera procedura”: scelta, peraltro, che contraddice – evidenzia il Collegio di seconde cure – “le stesse finalità di urgenza indicate nella motivazione dell’atto del 24.2.2016, legate al regolare svolgimento dell’attività turistica sull’isola”. Per quel che concerne strettamente il periculum, il C.G.A.R.S. ha ritenuto prevalente l’interesse della ricorrente all’aggiudicazione della prima procedura – della quale era automaticamente aggiudicataria, considerando che la stessa stazione appaltante aveva riconosciuto l’illegittimità della previsione di gara che aveva consentito l’ammissione delle prime due classificate –, “dal cui irragionevole annullamento è destinata a risentire un pregiudizio grave ed irreparabile, non adeguatamente bilanciabile dalla mera chance di aggiudicazione derivante dalla partecipazione alla seconda procedura”.
[4] La disposizione non lascia spazio a dubbi interpretativi: “il comma 1 non è applicabile al requisito dell’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali di cui all’articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”; laddove il comma 1 consente al “concorrente [di] soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
[5] Il C.G.A.R.S., peraltro, nelle more della trattazione del merito della causa, ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza appellata, giusta ordinanza del 14 aprile 2017, n. 291. Il Collegio ha reputato che, ad un primo sommario esame, ”il requisito per cui è causa non sia «prestabile» (né, dunque, correlativamente acquisibile mediante «avvalimento») e che l’annullamento d’ufficio dell’intera procedura, inizialmente indetta, non appare, in ogni caso, giustificato”: donde la decisione di sospendere “tanto i provvedimenti impugnati che la sentenza di primo grado (che li ha reputati legittimi)”, dato che gli stessi “cagionano all’appellante un pregiudizio immediato, grave ed irreparabile”.
[6] Così la sentenza del C.G.A.R.S., Sez. giur., 18 aprile 2018, n. 228.
[7] Il riferimento qui è all’ordinanza del C.G.A.R.S. n. 358/2016, del 27 maggio 2016, la quale riformava l’ord. n. 482/2016, datata 8 aprile 2016, del T.A.R. Sicilia, disponendo quindi la sospensione del provvedimento che ha annullato la prima gara e della lettera di invito alla seconda procedura; nonché all’ord. n. 291/2017 del 14 aprile 2017, con cui il Giudice d’appello sospendeva l’esecutività della sentenza di primo grado.
[8] T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, ord. 8 aprile 2016, n. 482.
[9] C.G.A.R.S., Sez. giur., ord. 27 maggio 2016, n. 358.
[10] Non ci si dilunga sulla questione, non oggetto di indagine di questo contributo: si rinvia alla copiosissima giurisprudenza per la quale la responsabilità per danni conseguenti all’illegittima aggiudicazione di appalti pubblici non richiede la prova dell’elemento soggettivo della colpa, giacché la responsabilità, negli appalti pubblici, è improntata – secondo le previsioni contenute nella normativa eurounitaria in materia – a un modello di tipo oggettivo, disancorato dall’elemento soggettivo, coerente con l’esigenza di assicurare l’effettività del rimedio risarcitorio (da ultimo si veda ex multis Cons. Stato, Sez. V, 1 febbraio 2021, n. 912).
[11] La Regione aveva proposto una somma pari a un decimo di quella quantificata dal ricorrente, ossia circa 25 mila euro.
[12] Precisamente, nella sentenza si legge quanto segue: “le ricorrenti chiedono che venga dichiarato l’obbligo degli Enti resistenti al risarcimento per equivalente monetario per la refusione dei danni complessivamente patiti a causa dei provvedimenti impugnati, da quantificarsi nella complessiva somma di € 216.428,13, oltre accessori, e, in via istruttoria, che venga disposta consulenza tecnica d’ufficio ai fini della quantificazione del risarcimento del danno”.
[13] Si veda la nota che precede.
[14] Sebbene il tenore dell’art. 35, commi 1 e 2, d.lgs. n. 80/1998 non lasciasse spazi a dubbi interpretativi (il comma 2 si apre riferendosi ai casi di cui al comma 1, ove si discorre unicamente di “controversie devolute alla … giurisdizione esclusiva” del g.a.), l’interpretazione pretoria antecedente al c.p.a. aveva affermato che l’art. 35 dovesse trovare applicazione anche se la controversia non riguardava una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: si veda Cons. Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4461, ove si è affermato che “la condanna generica al pagamento di somme di denaro, una volta accertata la sussistenza di un diritto, non costituisce affatto una eccezione nell’ambito del sistema (articolo 278 codice di procedura civile) e che comunque la ratio dell’articolo 35, comma due, del decreto legislativo n. 80 del 1998, pur inizialmente inserito nell’ambito più circoscritto della giurisdizione esclusiva, sta proprio nell’esigenza di raccordare le norme della procedura civile alla tipicità del processo amministrativo, che si muove sempre nell’ambito di situazioni caratterizzate dalla presenza di un potere della pubblica amministrazione. In questo ambito, quindi, la cosiddetta «sentenza sui criteri» può essere utilmente impiegata anche al di là della giurisdizione esclusiva, allorché, come nel caso di specie, la quantificazione del danno necessita di una ulteriore attività collaborativa dell’amministrazione”.
[15] Vale la pena di precisare che tale genere di pronuncia non è annoverabile tra le condanne generiche di cui all’art. 278 c.p.c., che non sembra ammessa nel processo amministrativo: nella fattispecie, infatti, il Giudice, indicando i criteri da seguire per la quantificazione del risarcimento, non si limita a una decisione in un punto di an.
[16] Così De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, IV, Milano, 2017, 1303, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 8074.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 ottobre 2018, n. 6144: “La disposizione di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a. si limita ad indicare come presupposto della procedura ivi divisata la «mancanza di opposizione delle parti», ma non reca l’espressa previsione circa la necessità della previa acquisizione dell’espresso consenso delle parti stesse. È, pertanto, più rispettoso del tenore testuale della norma concludere che sia onere dell’interessato manifestare tempestivamente la propria opposizione all’eventuale ricorso del Giudicante a tale procedura. Del resto, l’onere in questione non si palesa eccessivo o spropositato: la disposizione, infatti, trova applicazione solo ove la parte abbia sollecitato una «condanna pecuniaria», di talché colui che abbia coltivato un siffatto petitum ben può prevedere che il Giudice disponga l’accoglimento della domanda secondo le forme previste dalla cennata disposizione e, dunque, può tempestivamente e preventivamente rappresentare, oltretutto senza particolari oneri formali né vincoli temporali, la propria opposizione”.
[18] Si vedano Cons. Stato, Sez. IV, 11 ottobre 2006, n. 6063, che conferma T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 luglio 2004, n. 3049; cfr. altresì Rocco, Accordo, esecuzione del giudicato e giudizio di ottemperanza, in Urb. App., 2005, 97.
[19] A tale approdo la giurisprudenza era giunta già prima dell’entrata in vigore dell’art. 34: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 2005, n. 2167.
[20] C.G.A.R.S., Sez. giur., 31 dicembre 2020, n. 1216.
[21] Il criterio prescelto è in linea con l’orientamento che ha superato quella giurisprudenza che riconosceva il diritto all’utile nella misura percentuale del 10% dell’importo dell’offerta, criterio forfettario e presuntivo ormai abbandonato data la prescrizione di legge secondo la quale il danno da mancata aggiudicazione deve essere “provato” (art. 124, comma 1, c.p.a.). L’oggetto di questa prova, appunto, deve avere riguardo al margine di utile effettivo, quale ricostruibile dall’esame della documentazione prodotta in gara (tra le più recenti, si veda Cons. Stato, Sez. III, 5 marzo 2020, n. 1607 e la giurisprudenza ivi richiamata).
[22] Non può, infatti, applicarsi la percentuale di utile sull’intero importo a base d’asta, senza tener conto del ribasso offerto, in quanto, in mancanza di prova contraria, che incombe sulla parte ricorrente, deve supporsi che il ribasso riguardasse, come di regola, l’intera base d’asta, utile incluso. L’entità dell’utile si presume correlata all’offerta presentata in gara, ovvero al margine positivo in essa incorporato, quale differenza tra costi e prezzo offerto. La proposta economica individua l’importo finale scaturito dal ribasso sul prezzo a base d’asta; a quest’ultimo l’Amministrazione appaltante perviene aggiungendo ai vari costi, evidenziati nel computo metrico, l’aliquota per spese generali e l’aliquota per utile d’impresa. Il calcolo dell’utile facendo ricorso al criterio presuntivo impone il cammino inverso, vale a dire scomporre dalla base d’asta l’utile applicato in sede progettuale dall’Amministrazione appaltante. Poiché il danno risarcibile è quello effettivamente patito dall’impresa, deve ovviamente aversi riguardo all’importo al netto del ribasso offerto.
[23] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 2/2017.
[24] In epigrafe si legge trattarsi del “ricorso numero di registro generale 742 del 2020, proposto da Seap s.r.l., in proprio e quale mandataria del costituendo raggruppamento temporaneo di imprese con Ecoin s.r.l., ed Ecoin s.r.l.” contro l’“Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità e Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
[25] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 novembre 2020, n. 6769: è “principio pacifico del processo amministrativo che con le memorie non notificate possono essere illustrati e chiariti i motivi già svolti con l’atto introduttivo del giudizio ovvero confutate le tesi avversarie; tuttavia, anche ai fini dell’effettivo rispetto del principio del contraddittorio, non possono essere dedotte nuove censure, né può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di appello e, a maggior ragione, del ricorso di primo grado (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3759; sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277)”.
[26] Il Collegio precisa che non può essere scrutinata nemmeno la richiesta risarcitoria formulata nel primo giudizio di ottemperanza, conclusosi con la sentenza n. 79/2021, che ha fissato i criteri per la liquidazione del danno. Anche la ricostruzione di questo passaggio è assai poco chiara in sentenza. Il Giudice scrive infatti che “con il ricorso introduttivo del presente giudizio di ottemperanza le ricorrenti avevano chiesto la condanna degli Enti resistenti al pagamento in favore della complessiva somma di € 318.341,10, ovvero nella maggiore somma da accertarsi in corso di giudizio, e la nomina di un commissario ad acta”. In realtà, non si tratta del “presente giudizio di ottemperanza”, bensì del precedente. E non può che essere così, dato che la pretesa risarcitoria di cui all’atto di diffida inviato all’amministrazione in risposta alla proposta formulata è ben inferiore alla somma testé riportata. A conferma di ciò, poco dopo il giudice annota che tale “giudizio è stato definito con la sentenza n. 79/2021 che è una decisione ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a., con la quale, invece di individuarsi direttamente l’ammontare della somma dovuta, sono stati dettati i criteri di quantificazione”.
[27] Cfr. Giacchetti, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1979, 2614, che annota che “il commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza è una figura creata dalla giurisprudenza praeter legem per esigenze pratiche ed è del tutto sconosciuta al legislatore e finora dalla più significativa dottrina. Perché è stato creato è abbastanza semplice. È un noto dato sociologico che la pubblica amministrazione, quando tende ad autocostruirsi come potere e non come servizio – tale tratto è tipico della società contemporanea e in certa misura è sempre esistito – tende anche ad autocostruirsi come sistema autarchico ed autonomo, impermeabile alle esigenze degli altri poteri dello Stato, ed in particolare a quelle della magistratura. Con tale sistema tendenzialmente chiuso possono venire a collidere sentenze amministrative scomode, cioè sentenze che non si limitano ad annullare un provvedimento illegittimo … ma indichino – o addirittura prescrivano – di tenere un comportamento che non risponda a quello che lo staff ritenga essere il reale interesse dell’amministrazione. In tal caso quest’ultima, non potendosi ribellare esplicitamente, tende ad opporre alle sentenze scomode un muro di gomma di ostruzionismo, adottando misure dilatorie o provvedimenti elusivi o addirittura una assoluta inerzia; è questo non necessariamente per motivi dolosi … ma anche per motivi che al di fuori possono sembrare abbastanza banali, quali la modifica di un modulo o di una circolare o di una struttura di ufficio, fatti questi che infrangono il principio sacrale del precedente, possono creare vere e proprie crisi esistenziali nell’ambito di istituzioni anelastiche quali quelle del nostro ordinamento”.
[28] A tale impostazione conseguiva, sempre per l’Adunanza Plenaria, che i provvedimenti emessi dal commissario non potessero essere riconducibili al normale regime degli atti amministrativi e, pertanto, che non potessero essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo in sede di legittimità, bensì avanti a quello dell’ottemperanza. La giurisprudenza successiva si è allineata a questa impostazione: esempio ne è la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 maggio 1987, n. 297, annotata da Cannada Bartoli, Il ritorno del giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1987, 981, il quale commenta “il pregio della sentenza consistente nella riconduzione al solo giudice dell’ottemperanza dei ricorso o dei reclami avverso gli atti commissariali”. Infatti, immagina l’Autore, “si suppongano due giudizi di ottemperanza contro due comuni su materie identiche: nel primo, decorso il termine assegnato all’autorità amministrativa, opera il commissario ad acta, che emana un dato provvedimento; nel secondo giudizio, l’autorità, alla quale il giudice ha assegnato il termine per ottemperare, emana un provvedimento eguale a quello disposto nell’altro giudizio dal commissario. L’atto di quest’ultimo è sindacabile nel giudizio di ottemperanza. Identica soluzione deve valere nell’altro caso, di atto compiuto dall’autorità amministrativa per conformarsi, nel giudizio di ottemperanza, al precedente giudicato”.
[29] La dottrina dell’epoca, nell’ambito di tale ricostruzione, rinveniva alcune “varianti interpretative” tese ad identificare il commissario come semplice ausiliario del giudice dell’ottemperanza (così Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 1981, Milano, 1983, pp. 68 ss.), oppure come organo giurisdizionale delegato ovvero ancora come suo sostituto (cfr. A.M. Sandulli, Il problema dell’esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, in Dir. e soc., 1982, 37: “si tratta di una soluzione tipicamente pragmatica e pretoria, la quale non ha base nel diritto scritto ed anzi appare difficilmente conciliabile con gli stessi principi, non essendo consentito ai pubblici poteri, ed ancor meno ai giudici, di farsi sostituire – laddove la legge non lo autorizzi – né da altri organi né da persone estranee all’organizzazione dei poteri stessi”).
[30] In questi termini A.M. Sandulli, op. cit.
[31] Così Aprea, Inottemperanza inerzia e commissario ad acta nella giustizia amministrativa, Milano, 2003, 54; v. altresì Favara, Ottemperanza al giudicato e attribuzioni amministrative regionali, in Rass. Avv. St., 1977, 492.
[32] Cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 7 marzo 1992, n. 157, il quale conclude per l’esclusiva competenza del giudice dell’ottemperanza in quanto l’atto di nomina proviene da quest’ultimo e in forza del principio generale per cui in materia di esecuzione dei provvedimenti giudiziari è il giudice dell’esecuzione a controllare ogni incidente o contestazione relativi a tale fase.
[33] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 5 febbraio 1985, n. 60, e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 14 dicembre 1987, n. 1882.
[34] Vi è stata però anche una parte della giurisprudenza, per la quale gli atti del commissario dovevano essere conosciuti unicamente dal giudice dell’ottemperanza, in considerazione dello stretto legame tra i due organi: Cfr. Mazzarolli, Il giudicato di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, 226 ss.
[35] Nella seconda parte della disposizione è affermato il principio per cui l’istituto della ricusazione su istanza di parte, previsto per il giudice, si estende anche al suo ausiliario: tale previsione si fonda sull’art. 108, co. 2, Cost., a mente del quale “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
[36] Cfr. T.A.R. Umbria, Sez. I, 16 novembre 2016, n. 705.
[37] V. T.A.R. Molise, Sez. I, 18 luglio 2007 n. 621; cfr. altresì Giardino, L’annullamento d’ufficio degli atti del commissario ad acta – il commento, in Giornale dir. amm., 2015, 869.
[38] Così Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2017, n. 177; cfr. Cons. St., Sez. III, 22 agosto 2016, n. 3664.
[39] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 8 ottobre 2014, n. 5158.
[40] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 27 febbraio 2017, n. 1149; cfr. altresì T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 17 gennaio 2017, n. 31: nel caso di ottemperanza al giudicato di condanna della pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro, si è ritenuto che il commissario ad acta sia legittimato a provvedere alle seguenti attività: “allocazione della somma in bilancio (ove manchi un apposito stanziamento), espletamento delle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento della spesa, nonché reperimento materiale della somma; con la precisazione che l’esaurimento dei fondi di bilancio o la mancanza di disponibilità di cassa non costituiscono legittima causa di impedimento all’esecuzione del giudicato, dovendo il predetto organo straordinario porre in essere tutte e iniziative necessarie per porre in essere il pagamento”.
[41] Cfr. Scognamiglio, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in questa Rivista, la quale scrive di condividere “la scelta della Plenaria di abbandonare definitivamente la locuzione di «organo straordinario» dell’amministrazione spesso utilizzata con riferimento al commissario ad acta nominato nell’ambito del processo e di ascrivere decisamente alla sfera della giurisdizione la sua attività”.
[42] Cfr. Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 589, dove si può leggere che deve riconoscersi “al commissario ad acta non già la natura di organo straordinario dell’amministrazione (come pure da alcuni sostenuto in passato), bensì quella di organo ausiliario del giudice, in quanto è il giudice che nomina il Commissario, dal giudice questi deriva i propri poteri di sostituzione, ed è sempre il giudice, investito del compito di dirigere l’esecuzione, ad indirizzare ed orientare la sua attività”. Si veda altresì Daidone, Commento agli artt. 112-115 c.p.a., in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1074, il quale annota, a conferma di tale qualificazione, che il rapporto di ausiliarietà si riflette, ad esempio, “nella possibilità che il commissario sia soggetto a ricusazione nelle ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., nonché nel riconoscimento di un compenso per l’opera svolta”. In termini, si veda anche De Nictolis, op cit., 1759.
[43] La stessa Plenaria, nella recente sentenza n. 8/2021, discorre di “risalente dibattito” per riferirsi ai contrapposti orientamenti “sulla natura soggettiva del commissario ad acta”, figura che “nel tempo” ha “oscillato tra le distinte nature di organo straordinario dell’amministrazione, ausiliario del giudice, soggetto con duplice natura (ausiliario del giudice e organo straordinario)”; dibattito che è “storicamente comprensibile”, in ragione della “progressiva definizione dell’istituto”, “di origine giurisprudenziale”, che però oggi è giunto alla “sua piena affermazione sia sul piano della previsione normativa (ora art. 21 c.p.a.), sia sul piano dell’ambito di intervento, oggi praticamente esteso ad ogni necessità di ottemperanza e/o esecuzione del provvedimento giurisdizionale dotato di forza esecutiva, secondo quanto prescritto dall’art. 112 c.p.a.”.
[44] Così De Nictolis, op. cit., 1741.
[45] Così Greco, L’effettività della tutela nel giudizio di ottemperanza, in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., vol XVIII, Milano, 1969; Cacciavillani, Il Giudicato, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 613 ss.; Id, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005; Calabrò, Giudicato (dir. proc. amm.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2003; D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza, Roma, 2015; Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.; Travi, L’esecuzione della sentenza, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, V, Milano, 2003, 4647 ss.
[47] Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 4, 1025 ss.
[48] Una delle motivazioni sta nella natura della parte soccombente, titolare di attribuzioni e poteri che la pongono a un livello diverso rispetto a quello della parte vincitrice. Si spiega così perché si discorra di “giudizio di ottemperanza” e non di processo esecutivo, avendo il primo una portata più ampia e variegata rispetto alla mera “esecuzione”, ricomprendendo tutte le attività necessarie e idonee a garantire la “attuazione” (come recita l’art. 112 c.p.a.) del comando giudiziale.
[49] Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., agg. VI, 2002, 285 ss.
[50] Caputi Jambrenghi, op cit., che ha comparato la normativa italiana in materia con quella di altri ordinamenti europei e occidentali; cfr. altresì Greco, op. cit.
[51] Non si indugia oltre sui confini delle richieste proponibili in tale rito, tema che certamente merita di essere ulteriormente indagato. Rimane il fatto che il dato codicistico che lascia aperte varie strade, e sarebbe stato forse preferibile che il Collegio avesse optato per quella soluzione in grado di evitare ai litiganti di adire per la terza volta il giudice dell’ottemperanza. Come efficacemente è stato scritto, “il processo d’esecuzione … è, e deve essere, sempre rapido: il combattimento fra le parti è finito, la bilancia è messa da parte e si tratta d’applicare una buona volta la sentenza, anche se il suo senso possa rivelarsi non chiaro. Del resto, non occorre di regola istruttoria, ed il giudice saprà bene cosa ha inteso dire. … Poco conta che sopravvengano pronunzie cognitorie, se quelle d’accoglimento non siano poi eseguite. E lo stesso vale per pronunzie cautelari. Per ciò, la rapidità del giudizio d’esecuzione è il primo presidio del buon funzionamento della giustizia amministrativa”. Aggiunge l’autore che “un modo per far eseguire le pronunzie favorevoli al ricorrente contro la volontà dell’Amministrazione è quello della nomina del commissario ad acta. Tale figura è incontroversa nella giurisprudenza. Sarebbe tempo che la legge la recepisca e la disciplini, per le parti in cui l’inventiva del giudice può apparire arbitraria” Paleologo, La giustizia amministrativa cautelare e d’urgenza, in Giornale Dir. Amm., 1995, 745 ss. Tali osservazioni risalgono a un momento in cui il codice del processo amministrativo ancora non esisteva, ma già allora il commissario ad acta veniva indicato come quel soggetto che può aiutare il giudice nel suo compito di concretizzare la decisione passata in giudicato. Non vi è allora motivo per tardare nell’avvalersi di tale ausiliario, la cui nomina dovrebbe intervenire in via automatica quando l’amministrazione abbia dimostrato una certa inerzia nell’intraprendere l’esecuzione della sentenza.
[52] Cfr. ex multis Cons. Stato, 30 agosto 2021, n. 6111, ulteriore esempio di condanna ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in cui si rimanda a un accordo stragiudiziale la quantificazione del credito del ricorrente; v. altresì T.A.R. Veneto, ord. 25 marzo 2021, n. 146, in cui il Tribunale ha invitato le parti di due giudizi connessi, in cui erano coinvolte diverse amministrazioni, “ad un confronto collaborativo sui profili tecnici della vicenda”.
[53] In questa direzione pare vada inteso anche il recente intervento normativo di cui all’art. 6, D.L. n. 76/2020, che ha introdotto il “collegio consultivo tecnico” con funzioni di “assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. Sul tema si segnala un interessante contributo relativo all’istituto e, in particolare, alla qualificazione delle “decisioni” assunte dal collegio predetto: Francario, La natura giuridica delle determinazioni del collegio consultivo tecnico, 23 marzo 2021, in lamministrativista.it.
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